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Acqua acciaio pietra : Piazza Rovetta fra tradizione e presente

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Academic year: 2021

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POLITECNICO DI MILANO - POLO TERRITORIALE MANTOVA SCUOLA DI ARCHITETTURA E SOCIETA’

LAUREA MAGISTRALE ANNO ACCADEMICO 2014-2015 laureandi GIUSEPPE PAN FABRIZIO PASSAROTTI relatore LUIGI SPINELLI

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ABSTRACT

L’area di progetto è piazza Rovetta di Brescia, vivace sede del commercio ambulante e mercato delle erbe fino all’inizio degli anni ’80 del XX secolo. Conosciuta già agli albori del 1850, quan-do la città era attraversata dalle rogge a cielo aperto sfocianti nel piccolo laghetto esistito nella piazza stessa da epoche remote e totalmente coperto nel 1866, si è sviluppata nell’odierna con-formazione a partire del 1939, a seguito delle demolizioni at-tuate per garantire le condizioni igienico-sanitarie del quartiere. Nel periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e i giorni no-stri vennero presentate molteplici e diverse proposte progettuali di risistemazione dell’area, che però non furono realizzate. Fra i progetti più sagaci possiamo annoverare quello di Antonio Ta-gliaferri, che prevedeva il completamento dell’edificio della Log-gia con l’annessione di un palazzo per gli uffici comunali, idea concretizzata nel 1931 dalla Soprintendenza in una costruzione moderna, dagli elementi architettonici rappresentativi dell’ideo-logia fascista, realizzata con tecnologie autarchiche. Dopo quasi mezzo secolo di proposte rimaste invariate rispetto a quelle del

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1931, Leonardo Benevolo presentò un progetto che prevedeva la copertura del mercato con una travatura reticolare, al fine di ospitare gli uffici della Loggia. Per arrivare però alla effettiva attuazione di un progetto si dovette attendere fino al 1997, quan-do venne realizzata la pensilina del Lombardi, austera, funzional-mente quasi inutile e rimossa a soli 10 anni dalla sua costruzione Piazza Rovetta, nonostante presenti notevoli potenziali-tà dovute alla sua posizione strategica nel contesto citta-dino, costituendo quasi un via obbligatoria di collegamen-to tra il quartiere del Carmine e il Centro scollegamen-torico, rappresenta oggi uno spazio senza identità e in stato di semi abbandono. Il progetto prevede la valorizzazione di quest’area attraverso la creazione di un centro polifunzionale di servizi per la collettivi-tà. Punto focale, nonché elemento generatore del progetto e dei suoi allineamenti, è il fiume Bova. La sua riapertura garantisce un contatto diretto tra l’uomo e l’elemento acqua, che viene ripreso nella darsena artificiale, collocata in corrispondenza del vecchio laghetto, sul quale affaccia il nuovo bar vetrato con vista sulla Log-gia. La copertura a falda segue l’inclinazione degli edifici che la

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circondano e utilizza lo stesso materiale di copertura della Loggia. Essa ospita tre volumi parallelepipedi contraddistinti da facciate che concretizzano l’idea di continuità con l’esistente, recuperando le dimensioni e il taglio delle finestrature adiacenti. Parte dell’a-rea, pavimentata a “liston”, rimane libera dal costruito, così da poter ospitare altre attività o essere adibita a funzioni diverse. Il progetto crea molteplici spazi caratterizzati da destinazioni d’u-so differenti, rese però omogenee dall’ impiego di forme che si inseriscono con naturalezza nel contesto e riprendono i riferimenti presenti nel centro; dagli allineamenti costituiti dagli elementi na-turali, come il fiume Bova; dai materiali utilizzati, quali l’acqua, la pietra e l’acciaio, che trasformano il complesso in un organi-smo che ben si inserisce nel centro cittadino, in cui differenti cate-gorie di persone possono incontrarsi e interagire positivamente. Tradizione e presente, forme e materiali, aggregazio-ne e conaggregazio-nessioaggregazio-ne sono i termini con i quali il nostro pro-getto cerca di trasformare un’area oggi senza una sua vera identità in un punto nodale del centro cittadino.

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Il progetto di riqualificazione del quartiere del Carmine interessa il nucleo centrale della città di Brescia, in corrispondenza dell’i-solato nord di Largo Formentone - Piazza Rovetta, un’area che si sviluppa a nord dell’edificio rinascimentale della Loggia e ospi-ta il municipio citospi-tadino, siospi-ta all’inizio del quartiere del Carmine. Quartiere centrale della città, accoglie la Loggia o Palazzo Co-munale. L’edificio, che delimita il lato sud della piazza, sorse nel 1484, quando le autorità decisero di donare alla città un nuovo palazzo che fosse espressione del buon governo, sostituendo la loggia originaria ed incrementando la monumentalità della piazza antistante. Il primo progetto venne presentato da Tommaso For-mentone, architetto bresciano, anche se si pensa, in assenza però di riscontri storici, che il primo a pensare alla realizzazione del palazzo fosse l’architetto Donato Bramante. Il progetto di For-mentone prevedeva la realizzazione di un palazzo interamente in legno, opzione subito abbandonata in favore dell’impiego di materiali lapidei veneziani e lombardi e della pietra bianca di Botticino. La prima pietra venne posata nel 1492, dopo una serie di interruzioni dovute a eventi bellici, in particolare il sacco di Bre-scia del 1512, e l’edificio venne ultimato nel 1574, dopo numerosi

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interventi da parte di architetti famosi del livello di Jacopo San-sovino, Andrea Palladio nonché del bresciano Lodovico Beretta. Il lato orientale della piazza rimane delimitato dalla via San Fau-stino, percorso che, fin dall’antichità o almeno dall’epoca longo-barda, costituiva l’arteria commerciale della città e seguiva la conformazione sinusoidale del tragitto del torrente Garza. Grazie alla presenza dell’acqua corrente, lungo la via si insediarono di-verse attività commerciali, che definirono anche il carattere archi-tettonico del luogo: case alte e strette, dalle facciate variopinte ma di scarso pregio, che si susseguono quasi senza interruzione e ospitano gli artigiani e le loro botteghe. Verso la fine del 1800,

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l’aumento delle attività artigianali e commerciali legate al mercato nonché la necessità di migliorare la viabilità portarono alla co-pertura di parte del fiume Garza con il conseguente cambiamento dell’assetto del quartiere. Perpendicolare rispetto all’andamento di via San Faustino, verso occidente, si innesta Corso Garibaldi, strada di notevole importanza che collega la piazza alla torre della Pallata. La torre, costruita nel 1254, caratterizzata da un ba-samento quadrato in pietra di Botticino, aveva la funzione di pro-teggere la Porta di San Giovanni posta sulla prima cinta muraria medievale. L’edificio, il cui nome proviene dalla palizzata eretta come difesa, subì una serie di modifiche nel corso del XV secolo: vennero aggiunti elementi ornamentali quali l’orologio nel 1461, e,

3. Loggia o Palazzo Comunale di Brescia (fonte Google Street View)

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nella parte superiore, i merli in cotto e la torricella tra il 1476 e il 1481. La Pallata rimane l’unica struttura difensiva di questa cinta sopravvissuta fino ai giorni nostri. Sul lato nord ritroviamo la testa-ta dell’edificio dal quale si sviluppano le vie San Faustino e Rua Sovera, delimitando e impostando un agglomerato di case stori-che a sviluppo stretto e verticale, tipico del quartiere del Carmine.

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Il quartiere

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Il quartiere del Carmine occupa il settore nord occidentale del cen-tro storico di Brescia compreso all’interno delle antiche mura. Esso costituisce senza dubbio, insieme ad alcune realtà milanesi, uno de-gli esempi più complessi di quartiere d’immigrazione in Lombardia. Sorto in epoca altomedioevale lungo i canali che attraversavano la città, i cui corsi, oggi interrati, sono riconoscibili dal tracciato sinuoso dei principali assi stradali del quartiere stesso, la sua sto-ria è stata da sempre caratterizzata dalla compresenza di realtà sociali assai diversificate: da un lato, la nobiltà e la nascente bor-ghesia locale, con le loro belle dimore residenziali in gran parte ancora ben conservate; dall’altro, le classi popolari, costituite da conduttori di botteghe, artigiani e operai dimoranti nelle carat-teristiche case popolari “a schiera”. È intorno a questo nucleo di produzione e commerci, tra i più vitali della città, che si articola una morfologia urbana specifica e in continuo sviluppo dinamico, diversa da quella delle aree limitrofe del centro storico, e si veri-fica un avvicendamento di popolazioni che ne faranno il quartiere per eccellenza della mixitè socio-culturale e il cuore popolare di Brescia: quartiere di traffici, di ospitalità e di passaggio,

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quartie-re di immigrazione. Nella prima metà dell’Ottocento vi giungono, richiamate dai primi insediamenti industriali, le popolazioni rurali dell’area montana e pedemontana della alpi bresciane e il quar-tiere conosce un fortissimo incremento demografico. Il fenomeno si ripete, in occasione delle successive ondate migratorie, a metà del secolo scorso, in coincidenza con la grande immigrazione dal sud Italia e dal Veneto, e alla fine degli anni Novanta, in coinciden-za con l’intensificarsi dei flussi migratori da paesi extraeuropei.

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Nella sua duplice connotazione di luogo di primo approdo, resi-denza temporanea di stranieri, e di spazio a vocazione artigianale e commerciale, ove in parallelo si strutturano economie informali e traffici illeciti, il Carmine alimenta nell’immaginario generale la sua reputazione di quartiere popolare ma anche di quartiere dal volto problematico e in condizioni da controllare e da sanare. Già a metà dell’Ottocento l’Amministrazione si mobilita perché si arrivi alla de-molizione dei suoi segmenti più malfamati e degradati (parte della via S. Faustino, di Vicolo dell’Anguilla, di Piazza Rovetta, di Via Battaglie). Ancora alla fine degli anni Trenta del Novecento il piano regolatore prevede massicce demolizioni per una fascia posta lun-go il lato ovest della via San Faustino, che non saranno però attuate a motivo della guerra. Il medesimo programma di sfoltimento viene preso in considerazione alla fine degli anni Cinquanta, rimanendo però anch’esso inattuato a causa dell’opposizione decisa del Mini-stero, dovuta ai forti richiami al periodo fascista ed all’approccio piacentiniano. Il piano regolatore del 1961 torna con forza sulla necessità di un intervento risolutivo ed energico sul Carmine e l’Am-ministrazione si trova nuovamente di fronte al conflitto tra la logica di salvaguardia del patrimonio edilizio del quartiere e la necessità 6. La demolizione degli antichi fabbricati aderenti ala loggia, 1939 (fonte Brescia

Littoria di F. Robecchi)

7. Scorcio di via San Faustino, 1960 (fonte sito Brescia vintage, foto di M. Santoro)

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di diradarne il tessuto troppo fitto, di demolire gli edifici pericolanti. Di lì ad un decennio il Carmine conosce una radicale trasformazio-ne sociale sotto l’effetto dei flussi migratori in arrivo dal sud Italia e in quello stesso giro di anni l’Amministrazione modifica nuova-mente il piano regolatore vigente per far fronte alla crisi degli alloggi, avviando la realizzazione del complesso di edilizia po-polare di San Polo nell’area est della città. L’obiettivo prioritario cui mira il nuovo intervento è diversificare e ampliare l’offerta di abitazioni e calmierare i prezzi degli immobili con una strategia che concilia una forte iniziativa pubblica (con l’acquisizione dei terreni e l’elaborazione del progetto d’insieme) con l’intervento di altri soggetti, operatori pubblici (Iacp) e privati (cooperative). La realizzazione di San Polo ha come effetto progressivo l’abban-dono del Carmine da parte delle famiglie italiane, in parallelo all’invecchiamento della sua popolazione residente. Il risultato di questo processo negli anni Novanta si rende evidente nello sta-to di abbandono di interi complessi edilizi, da tempo disabitati e in attesa di riqualificazione, e comunque dallo scarso livello ma-nutentivo di buona parte del patrimonio edilizio del quartiere.

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Mentre il quartiere è al suo minimo storico di popolazione re-sidente e ad un alto livello di degrado delle sue strutture fi-siche, inizia ad essere interessato dall’arrivo di nuove popo-lazioni immigrate dai paesi a forte pressione migratoria, in particolare dell’area africana, del subcontinente indiano e dell’Europa dell’Est, che interesseranno il quartiere in modo con-tinuativo e progressivo per più di un quindicennio, spingendo l’Amministrazione a definire un nuovo intervento di riqualifica-zione del quartiere, che investirà il Carmine a partire dal 2001. La “biografia” del quartiere è caratterizzata dal segno dinamico dell’eterogeneità sociale e culturale che ha definito la natura sto-rica del Carmine fin dalla sua nascita: una diversificazione sempre più accentuata, che al meticciato di gruppi regionali italiani ha vi-sto sovrapporsi popolazioni di oltre 71 gruppi di nazionalità diffe-renti, fenomeno che ha progressivamente ibridato anche il sistema economico, sviluppando inedite attività commerciali e parzialmen-te sostituito gli imprenditori italiani nella conduzione degli eserci-zi commerciali di prossimità. È in questa prospettiva, caratteristica dell’evoluzione dinamica del quartiere e delle sue identità di

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luo-go, che occorre comprendere in quale direzione abbiano operato e stiano ancora operando l’intervento di riqualificazione e gli altri vettori di trasformazione funzionale del centro storico. La case

hi-story del Carmine, infatti, appare interessante proprio perché

rap-presenta uno spaccato urbano con peculiarità di sistema complesso e stratificato dal punto di vista strutturale, storico, sociale e culturale, con quel che ne consegue in termini di sfida per i responsabili delle politiche. Si tratta allora di comprendere in via preliminare quali siano state le principali coordinate che hanno contribuito alla

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grazione della “crisi urbana”, nel senso dato a questa espressione da Allasino, Bobbio, Neri ,nella seconda metà degli anni Novanta, cui avrebbe risposto il Piano di Recupero elaborato dall’Ammini-strazione bresciana. È possibile identificare sinteticamente alcuni elementi di contesto che definiscono la composizione della fotogra-fia del quartiere all’alba dell’elaborazione del Piano di Recupero:

• Patrimonio abitativo degradato e concentrazione della proprietà immobiliare nelle mani di pochi proprietari; • Aumento rapido e consistente di popolazione immi-grata e concentrazione contestuale di fenomeni di specula-zione e disagio abitativo;

• Impoverimento del tessuto commerciale, in particolare degli esercizi commerciali di prossimità gestiti da imprendi-tori italiani, sostituiti in larga parte da negozi commerciali e di servizio a conduzione immigrata;

• Invecchiamento della popolazione residente, forte presenza di anziani fragili a rischio di povertà relazionale ed isolamento;

• Episodi di microcriminalità, spaccio e percezione

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fusa di insicurezza ed esercizio della prostituzione;

• Elevata complessità sociale che chiede una vigilanza costante relativamente alle dinamiche di stratificazione so-ciale e alla conflittualità fra gruppi;

• Dal punto di vista urbanistico carenza di spazi pubbli-ci all’aperto per il gioco e la sopubbli-cializzazione;

• Debolezza di presidio da parte dei servizi territoriali di alcune aree di bisogno, tra cui in particolare quella abi-tativa per i soggetti più vulnerabili.

Al fine di contestualizzare i dispositivi di risposta messi in campo dall’Amministrazione attraverso il Piano di Recupero è necessario mappare più nello specifico alcuni dei segmenti della struttura di criticità di contesto (rispetto al patrimonio abitativo e agli spazi pubblici, alla trasformazione socio-demografica, alla capacità di copertura e risposta dei servizi territoriali e delle politiche loca-li), che si presentava all’osservatore alla fine degli anni Novanta. Occorre guardare in particolare a quei punti di crisi e di difficoltà che portavano con sé anche un profilo specifico della domanda abitativa degli attori sociali presenti in quello spazio, per

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compren-dere in che misura quella particolare classe di bisogni sia stata assunta dalle diverse “agende di trasformazione” della città, in particolare del suo centro storico e, nello specifico dell’iniziativa del Piano di Recupero, del quartiere del Carmine. Esso, infatti, si offre come “caso” in cui leggere alla scala di quartiere la stratifi-cazione delle “questioni abitative” che interessano, per la natura in cui si presentano i fenomeni e per la diffusione delle medesime problematiche in aree limitrofe al quartiere, la riflessione sulle po-litiche di risposta alle povertà abitative dell’intero contesto urbano. L’utilizzo progressivamente più intensivo del quartiere da parte delle popolazioni immigrate a partire dall’inizio degli anni Novan-ta è sNovan-tato reso possibile, da un lato, dalle caratteristiche edilizie del suo patrimonio abitativo, dall’altro, dalla condizione peculiare del sistema della proprietà privata strutturatasi nel corso dei de-cenni. Pochi proprietari in possesso di grandi volumi immobiliari hanno potuto infatti determinare da vicino, in quegli anni, le tra-iettorie evolutive del quartiere favorendo l’inserimento tempora-neo di stranieri in strutture abitative abbandonate dalla maggior parte delle famiglie italiane (trasferite soprattutto nei quartieri di

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edilizia popolare di San Polo), degradate, scarsamente dotate di servizi, non più valorizzabili nel circuito ordinario della locazione. Lo stock di abitazioni del quartiere scarsamente dotate di servi-zi, quando non del tutto fatiscenti, sono state quindi prontamente rese disponibili da parte dei pochi proprietari che si dividevano la proprietà del quartiere, approntando un mercato dell’affitto in nero, senza tutele né regole, a soggetti che - all’inizio delle loro carriere migratorie e per le caratteristiche delle migrazioni della prima metà degli anni Novanta - vivevano traiettorie di mobili-tà elevata e, in taluni casi, si trovavano anche in condizioni irre-golari di soggiorno. Il mercato nero dell’affitto si sosteneva sul-lo sfruttamento della condizione di vulnerabilità degli immigrati,

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che consentiva ai proprietari italiani di mantenere gli inquilini in condizioni di perenne precarietà e ricattabilità e permetteva loro di tornare con facilità in possesso degli immobili qualora si fosse presentata la convenienza di un loro recupero o di una vendita in blocco. L’iniziale più basso livello dei fitti in presenza di alloggi al limite del degrado, la minor presenza di processi di rinnovo urbano e la localizzazione centrale del quartiere hanno determi-nato un primo consistente insediamento di popolazione immigrata, che, in assenza di alternative strutturate di accoglienza residen-ziale e per la posizione debole rispetto al mercato abitativo, tro-va nel quartiere la soluzione al primo insediamento, inserendosi prevalentemente nel mercato irregolare della locazione. In termini complessivi, il mancato investimento sulla qualificazione, la crescita progressiva e rapida di presenza immigrata, la sovraesposizio-ne mediatica di fatti di microcriminalità, il coinvolgimento di alcuni immigrati nei ranghi bassi delle strutture criminali che gestiscono traffici illeciti e prostituzione all’interno del quartiere hanno reso sempre meno “attraente” il Carmine per la popolazione italiana e questo fatto ha comportato un ulteriore abbassamento dei valori immobiliari e degli affitti di alloggi offerti a popolazione italiana.

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Gli studiosi hanno osservato e descritto le seguenti quattro tipo-logie di condizioni principali date dall’incontro tra vulnerabilità specifiche degli attori sociali, risorse abitative del quartiere e dinamiche di mercato:

• Condizioni di alloggio sotto lo standard ovvero stock di alloggi e di interi stabili in attesa di demolizione o di re-cupero da parte di grandi imprese immobiliari, che nell’at-tesa dell’inizio dei lavori vengono affittati ad immigrati. Le condizioni precarie degli appartamenti, spesso privi dei servizi minimi, non appartengono più al mercato regolare dell’affitto, venendo rifiutati dalla popolazione locale. La volontà speculativa dei locatari bresciani incontra lo stato di estremo bisogno degli immigrati e la “parziale convenienza” ad “abitare” un segmento sommerso e al di fuori del control-lo sociale;

• Alto prezzo degli alloggi in affitto fuori mercato, in una condizione in cui sembrano incontrarsi due “convenien-ze”: da un lato, la possibilità per i locatori di più alti guada-gni; dall’altro, per gli affittuari, l’anonimato, la possibilità di

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abitare numerosi all’interno dell’alloggio, dividendo le spese con connazionali, subaffittando alcune stanze o solo un letto, ospitando eventuali immigrati irregolari appena arrivati in città. Talvolta questo tipo di speculazione viene perpetrata dagli stessi immigrati a spese di connazionali in condizioni di maggiore precarietà;

• Affitto senza contratto: sono frequentissimi i casi di alloggi affittati con contratto stipulato solo oralmente con immigrati che, in taluni casi, non conoscono la consuetudine di stipulare contratti d’affitto scritti, e che si vedono, dopo un certo periodo, senza preavviso, annullato l’accordo;

• Affitto con formule anomale: si tratta dell’affitto di una stanza o di un posto letto per alcune ore al giorno, con rotazione degli inquilini, alternanza di affittuari di giorno e di notte. Subaffitto di stanze all’interno di un alloggio, su-baffitto di alloggi popolari regolarmente ottenuti per gra-duatoria o più spesso occupati abusivamente e poi riaffittati ad immigrati che non sono a conoscenza della frode.

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Alla fine degli anni Novanta ad occupare il centro del confronto cittadino (a causa di alcuni episodi di microcriminalità si accendono sul Carmine anche i riflettori della cronaca nazionale, definendo il perimetro della rappresentazione del “degrado del quartiere” e alimentando le retoriche di rappresentazione che codificano la “questione sicurezza”) sono soprattutto la problematica del disa-gio abitativo grave, la mancanza di servizi primari di alcuni sta-bili (acqua luce, servizi igienici), il sovraffollamento degli alloggi, come situazione esplosiva che rischia di degenerare in emergen-za sociale, e la criminalità diffusa e visibile (prostituzione, spaccio, aggressioni ai cittadini). Il Carmine mobilita allora nel dibattito pubblico l’archivio discorsivo della sua storica “stigmatizzazio-ne territoriale”, aggiornandolo ai temi dell’insicurezza dei citta-dini e della mancata integrazione della popolazione immigrata. Al netto delle semplificazioni mediatiche e delle strumentalizza-zioni dei casi diffuse dalle diverse agenzie politiche, quello che appare interessante ricostruire è il profilo sfaccettato dal punto di vista demografico, sociale e culturale del gruppo che abita il quartiere, ovvero capire chi sono “gli immigrati” e chi sono “i

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citta-dini” cui il dibattito pubblico si riferisce e quali bisogni essi espri-mano. Se non ci si sofferma sul solo dato della crescita quantitati-va della popolazione immigrata, quello che è possibile osserquantitati-vare nell’arco di quel decennio è un’evoluzione delle caratteristiche so-cio-demografiche e culturali del collettivo straniero. Sono più nume-rose le nazionalità presenti (da 40 a 56) e muta profondamente la composizione sociale dei gruppi rappresentati. Ad una immi-grazione tipica di primo arrivo, a forte predominanza maschile e giovanile, si affianca una sempre più sensibile presenza fem-minile e di gruppi familiari; cresce anche la presenza di minori. Nel corso degli anni Novanta il processo di territorializzazione della popolazione immigrata affianca ad una sistemazione al-loggiativa nel patrimonio abitativo più degradato e, come si è detto, ad affitti spesso elevati (sopportabili a prezzo di un certo sovraffollamento), un forte sviluppo di esercizi commerciali etni-ci, il costituirsi di una rete di luoghi di incontro ed una intensissi-ma attività di riutilizzo di spazi pubblici di cui fruiscono non solo gli immigrati insediati nei nuclei storici, ma anche “utilizzatori/ consumatori” immigrati che abitano altrove. La maturazione

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pro-gressiva di un profilo sempre più familiare del gruppo immigra-to orienta le dinamiche di insediamenimmigra-to da una sostenuta mobi-lità territoriale nella direzione di una maggiore stabilizzazione e articola la domanda abitativa, mobilitando nuove traiettorie di insediamento e carriere abitative anche esterne al quartiere. Si è detto come, seguendo un processo di successione ecologica, la popolazione immigrata abbia sostituito le famiglie italiane che si erano spostate nei nuovi quartieri di edilizia popolare della pe-riferia o in altre aree dell’hinterland. Se si guarda al decennio 1993-2004, emergono subito con evidenza la crescita della po-polazione totale del quartiere, la diminuzione progressiva e sen-za sosta della componente italiana (da 4.930 a 3.948) nonché l’incremento del numero di stranieri (da 553 a 2.290). Si osserva inoltre un graduale invecchiamento della popolazione italiana: fino al 2002 la popolazione di età superiore ai 60 anni costituisce circa il 30% della popolazione autoctona. È in particolare la presenza di quote di edilizia pubblica presenti nel quartiere a continuare ad ospitare la popolazione anziana. Ed è soprattutto questa fa-scia di popolazione a percepire la trasformazione del quartiere

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in termini di “perdita di un mondo” e “nostalgia di comunità”, a sentire acuito il proprio isolamento, a provare uno stabile sentimen-to di indifferenza non solo nelle relazioni tra italiani e immigrati ma anche in quelle tra italiani. Per il segmento di popolazione anziana, alla difficoltà di lettura e interpretazione del cambia-mento si accompagna anche il rischio di solitudine, aggravato dalle condizioni di scarsa mobilità fisica e dalla cronicizzazione di sta-ti di completa o parziale non autosufficienza, acuito inoltre dal-la natura strutturale del patrimonio abitativo del centro storico, contrassegnato dall’elevata presenza di barriere architettoniche. La quota rilevante di attività commerciali e di servizi gestiti da immigrati (che rappresentano il principale vettore dell’immagine etnica del quartiere), le nuove tensioni originate dall’utilizzo ine-dito degli spazi pubblici, lo stress territoriale vissuto da chi perde i riferimenti familiari dei propri spazi di vita, il disagio crescente per le condizioni diffuse di degrado, il decadimento dell’arredo urbano, la diffusione dello spaccio e del controllo del territorio da parte delle organizzazioni criminali che gestiscono ricettazio-ne e prostituzioricettazio-ne, la speculazioricettazio-ne di pochi proprietari che

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sfrut-tano la vulnerabilità delle popolazioni di nuovo insediamento, il crescere di una domanda di residenzialità diversificata, di nuo-vi spazi pubblici e di interazione sono gli ingredienti del quadro di criticità che, alla fine degli anni Novanta, mette a nudo anche la debolezza del sistema d’offerta delle politiche territoriali. Dall’analisi condotta sulla rete dei servizi territoriali emerge l’im-magine di un sistema a “macchie di leopardo”, nel quale convivono aree di bisogno presidiate (prevalentemente riconducibili a quelle aree d’intervento “soft”, che prevedono un’interpretazione mini-malista delle politiche di integrazione e che più di altre possono ottenere il consenso da parte della popolazione autoctona), con aree di bisogno scarsamente presidiate (prevalentemente ricon-ducibili a tematiche “hard”, per le quali è più elevato il rischio di dissenso da parte della popolazione autoctona). Tra le aree scarsamente presidiate sono in particolare quelle finalizzate alla promozione di servizi di aggregazione e per il tempo libero, quelle relative al sostegno all’integrazione lavorativa della popolazione immigrata e, in particolare, quelle relative all’accesso alla casa e al mercato immobiliare. Un’analisi non securitaria della

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ne del quartiere, al netto della necessità di riqualificazione delle strutture fisiche e di ripristino di spazi pubblici accessibili, avrebbe messo a fuoco la costrizione alla coabitazione di molti singoli im-migrati ma anche di famiglie determinate dalla difficoltà di tro-vare un alloggio decoroso in città, superando gli ostacoli del caro fitti e della discriminazione. I dati registrati dai controlli preventivi all’attuazione del Piano di Recupero e continuati anche all’avvio di esso, registrano casi di insicurezza e sovraffollamento diffusi, che vengono sanzionati ma per i quali non si producono soluzioni alter-native per coloro che si trovino, loro malgrado, in condizioni allog-giative illegali, favorendo la riproduzione di condizioni di disagio abitativo in altre aree della città. L’indagine ha mostrato che per gli immigrati la spesa per l’affitto pesa sul bilancio familiare a tal punto da imporre alcune “modalità correttive”, che consentano di ottemperare alle richieste dei locatari, come nel caso della scelta di subaffittare una parte dell’alloggio o condividerlo con altre fa-miglie o parenti/connazionali. L’altro nodo problematico riguarda la difficoltà di ottenere un contratto regolare o, laddove un con-tratto esista, di difendersi da modalità speculative di relazione im-poste dal locatario. Un terzo nodo problematico, per gli immigrati

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è rappresentato da comportamenti discriminatori diffusi tra gli ita-liani nell’affittare alloggi a stranieri. Se l’alloggio popolare sem-bra essere un punto di arrivo ad una condizione abitativa a tempo indeterminato e con canoni accessibili, nello stesso tempo appa-re una soluzione rigida per i bisogni di una famiglia in cappa-rescita. Negli anni Novanta la politica di risposta all’emergenza abita-tiva espressa dagli immigrati viene declinata fondamentalmente in chiave di prima accoglienza. A questa si è aggiunta sul ter-ritorio bresciano l’esperienza realizzata tra ALER e associa-zioni datoriali per la creazione e la gestione di alloggi per la-voratori, che però non ha raggiunto i risultati attesi, data la scarsa adesione degli stessi imprenditori, ma non è stata avvia-ta alcuna iniziativa che mettesse a tema anche la trasformazio-ne delle caratteristiche dell’immigraziotrasformazio-ne, con i suoi dati di sta-bilizzazione e le esigenze di una integrazione di tipo familiare. Dall’altro, allo scadere degli anni Novanta, rimane aperta e ur-gente la questione abitativa espressa dagli anziani, i quali desi-derano ottenere alloggi di piccole dimensioni e con caratteristiche

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tecniche che li rendano adatti ad ospitare portatori di disabili-tà, l’abbattimento delle barriere architettoniche, il superamento dei rischi dell’isolamento, la possibilità di vivere spazi in cui sia possibile alimentare relazioni di prossimità e di identificazio-ne, luoghi ricreativi e di interazione positiva con i nuovi abitanti. Volendo sintetizzare la stratificazione della deprivazione abita-tiva nel culmine del suo manifestarsi alla fine degli anni Novan-ta secondo la definizione operativa per domini proposNovan-ta da Pal-varini sulla scorta della tipologia ETHOS, è possibile identificare: • Per il dominio fisico: un disagio dato dalla numerosità elevata di abitazioni sotto lo standard, strutture pericolanti e fatiscenti, dall’assenza di servizi a norma, scarsità delle condizioni igieniche, presenza di barriere architettoniche, inadeguatezza delle strutture alloggiative per soggetti con scarsa mobilità e non autosufficienza, strutture abitative ina-deguate ai bisogni espressi da un nucleo familiare;

• Per il dominio legale: la diffusione di occupazioni di abitazioni senza titolo di godimento, senza garanzie di

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rin-novo, con accordi arbitrari orali, spesso esito di discrimina-zione all’accesso al mercato della locadiscrimina-zione di abitazioni nello standard, etc.;

• Per il dominio sociale: la diffusione elevata di forme di sovraffollamento delle abitazioni, convivenze forzate per dinamiche di turnazione e bed sharing;

• Per il dominio economico: uno stress da costo trasver-sale a diversi gruppi sociali, dovuto ai prezzi elevati del mercato della locazione e dai termini posti dalle logiche speculative, ansia da insolvenza per la precarietà lavorativa e l’instabilità dei redditi ma anche per l’aumento complessi-vo dei costi di vita che ricade sulla capacità d’acquisto delle pensioni per i soggetti più anziani;

• Per il dominio territoriale: l’assenza di spazi pubblici strutturati, impoverimento del sistema commerciale di prossi-mità del quartiere, assenza di servizi, degrado dell’arredo urbano, diffusione della prostituzione e dello spaccio, stig-matizzazione territoriale.

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A questi elementi di natura dinamica e strutturale, che definiscono al-cune delle dimensioni della povertà abitativa del quartiere Carmi-ne, si accompagna, nel corso del decennio, con esiti non trascurabili, il sedimentarsi di un’immagine pubblica del quartiere e delle sue pro-blematiche, alimentata dai mezzi di informazione locali, la cui analisi può arricchire la comprensione delle strategie di azione adottate e di alcuni deficit rilevati nella prospettiva di lettura delle problematiche.

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3.

Il piano comunale di

recupero del quartiere

“Progetto Carmine”

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La prima fase di intervento nel quartiere Carmine pren-de avvio intorno alla metà pren-degli anni Novanta, quando vie ne stipulato un accordo tra l’Amministrazione comunale e l’U-niversità degli Studi di Brescia per il decentramento di alcune strutture universitarie (Facoltà di Giurisprudenza, Facoltà di Eco-nomia, biblioteca universitaria) all’interno di parte dei conven-ti presenconven-ti nel quarconven-tiere. Alla fine degli anni Novanta, sollecitaconven-ti dall’acuirsi della crisi urbana e del parossismo con cui il dibat-tito pubblico rappresentava il problema del Carmine, dopo una campagna elettorale che aveva messo al primo posto dell’agen-da il tema della sicurezza, l’Amministrazione Comunale avvia il Piano di Recupero del quartiere, denominato “Progetto Carmine”.

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12. Decentramento di alcune strutture universitarie all’interno del quartiere del Carmine facoltà di economia

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Finalità principali di tale progetto sono “il superamento delle condi-zioni di degrado fisico e di insicurezza in cui versa il quartiere e la valorizzazione di quest’area unica sia per patrimonio storico e arti-stico sia per diversità e ricchezza culturale”. L’intervento si confron-ta con alcune questioni, come la possibilità di un margine di azione pubblica su un patrimonio essenzialmente privato e la complessità di un contesto sociale multietnico ancora in forte mutamento. Non tutti i temi sono affrontati e problematizzati nello stesso modo, ma vengono definite chiaramente alcune priorità, che si riflettono an-che nella scelta dello strumento da adottare per la riqualificazione. Il Piano di Recupero (ex legge 457/1978), infatti, rispet-to ai programmi complessi introdotti negli anni Novanta, è uno strumento più tradizionale, attraverso il quale l’Ammini-strazione Comunale può imporre ai privati la ristrutturazio-ne degli edifici di loro proprietà. Ciò che tuttavia contrad-distingue il Piano di Recupero del Carmine (2001 e varianti successive) da altri PdR di epoche precedenti è l’affiancamento del recupero del patrimonio edilizio ad altre politiche e azioni quali:

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• Riqualificazione dello spazio pubblico e riduzione del traffico;

• sostegno alle attività economiche locali;

• Inserimento di nuove funzioni in grado di attrarre nuo-ve popolazioni;

• Rripristino del controllo e della sicurezza.

Per poter portare a termine le diverse azioni, è stata necessa-ria la creazione di una partnership tra il Comune e diversi attori, primi tra tutti i proprietari degli immobili, poi ALER, l’Università degli Studi di Brescia e le forze dell’ordine. Proprio il consolida-mento della collaborazione tra attori diversi rappresenta uno dei principali punti di forza del progetto, insieme alla creazione di una struttura tecnica comunale, l’Ufficio “Progetto Carmine”, sita all’interno del quartiere, che svolge il ruolo al tempo stesso di co-ordinamento dei lavori, di “antenna” rispetto alla situazione del Carmine e di punto informativo. Lo sviluppo di reti di relazione e di competenze tecniche ha permesso infatti la continuità del Piano di Recupero negli anni e la promozione di nuovi interventi di natura simile, come quello approvato per la vicina via Milano nel 2009.

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Nonostante che si dimostri coraggioso per la capacità di affronta-re con determinazione più temi di difficile trattazione, il “Progetto Carmine” appare scarsamente convincente nel tematizzare le que-stioni sociali (e le connesse queque-stioni abitative) che caratterizzano il quartiere. È assente infatti, sia nel Piano del 2001 sia nelle varian-ti successive, una forma di accompagnamento sociale per i soggetvarian-ti più deboli, come i numerosi immigrati ancora non radicati nel quar-tiere, che, a causa degli sgomberi e della crescita poco controllata dei prezzi legata alla prima valorizzazione immobiliare, iniziano a spostarsi all’esterno del quartiere, per esempio nell’area della sta-zione o lungo l’asse di via Milano, anch’essa oggetto di un recente

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Piano di Recupero (2009) modellato sull’esempio dell’intervento sul Carmine. Tali limiti del “Progetto Carmine” vengono messi in luce in particolare da chi è più attivo sul fronte sociale a livello loca-le, come gli insegnanti, la parrocchia e le associazioni, sia italia-ne che di immigrati, presenti italia-nel territorio. Proprio questi soggetti, spontaneamente, a fatica, ma con determinazione, hanno cercato in questi anni di guadagnarsi spazi di influenza e opportunità di intervento all’interno del progetto: ne è un esempio la creazione di un asilo nido all’interno di un edificio di proprietà comunale ora ristrutturato, che è gestito in prima persona dalla parrocchia e fornisce servizi ad una trentina di famiglie, di cui metà straniere. Dall’analisi dell’evoluzione del “Progetto Carmine” appare molto forte la regia del soggetto pubblico, in particolare se compara-ta al ruolo solicompara-tamente marginale da esso assunto in questi con-testi e alla limitatezza delle proprietà pubbliche presenti nell’a-rea, ma sembra tuttavia debole la capacità di apprendimento progressiva e la disponibilità alla riformulazione delle questioni nel tempo. Sembra mancare sostanzialmente una vera (e certa-mente difficile) capacità di innovazione, anche per i limiti imposti

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dal mancato allargamento della partecipazione ad altri soggetti locali in grado di rappresentare alcune istanze ignorate dal piano. Presentiamo di seguito in sintesi i quattro assi principali in cui si articola il progetto: il recupero del patrimonio edilizio, il cam-pus diffuso, il sostegno alle attività economiche, la sicurezza. 1.Il recupero del patrimonio edilizio

In seguito all’approvazione del Piano di Recupero del 2001, è stato avviato un lavoro capillare di mappatura delle condi-zioni edilizie ed abitative all’interno di tutti gli edifici ad opera dell’Ufficio “Progetto Carmine”, con la collaborazione delle for-ze dell’ordine. Gli edifici degradati individuati sono stati suddivi-si in due categorie sulla base della gravità delle loro condizioni: • “Degrado 1”, qualora gli edifici non siano stati ogget-to di manutenzione e siano interessati da fenomeni di disse-sto statico e lesioni strutturali accompagnate da degrado igienico-sanitario;

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• “Degrado 2”, laddove gli edifici siano stati sotto-posti a interventi di manutenzione modesti e discontinui e siano interessati da un deperimento dei materiali utilizzati. Per gli edifici appartenenti alla categoria “Degrado 1” è stato previsto il recupero obbligatorio (71 edifici, a cui ne sono stati aggiunti altri 35 dalla variante del 2005 e 17 dalla variante del 2007), mentre per quelli della categoria “Degrado 2” il re-cupero è stato definito opportuno. In accordo con le disposizio-ni previste dalla legge 457/1978, il “Progetto Carmine” impone ai proprietari di procedere al recupero integrale entro i termini stabiliti (un anno), oltre i quali l’immobile verrà espropriato dal Comune. A conclusione della prima fase di lavori, il 98% degli immobili erano stati recuperati dai proprietari e solo per i restan-ti (tre) sono state avviate dal Comune le prarestan-tiche di esproprio, in seguito interrotte, a causa della collaborazione dei proprietari. Allo scopo di incentivare il recupero, il “Proget-to Carmine” attraverso le norme tecniche prevedeva:

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• L’esonero dal pagamento degli oneri di concessione, del costo di costruzione;

• il sostegno economico a fondo perduto per le parti comuni;

• La collaborazione per il reperimento di alloggi so-stitutivi per gli inquilini con regolare contratto degli edifici occupati alla data di adozione del piano.

2. Il campus diffuso

Una delle azioni maggiormente caratterizzanti il Progetto Carmine è rappresentata dall’introduzione di residenze e servizi per stu-denti universitari all’interno degli edifici ristrutturati attraverso il Piano di Recupero. La progettazione di questo tipo di intervento ha portato alla creazione di una collaborazione continuativa tra ALER Brescia, Comune di Brescia e ISU Brescia (Istituto per il di-ritto allo Studio Universitario). Obiettivo dichiarato dai tre attori coinvolti nel progetto è la creazione di condizioni per trasforma-re l’atrasforma-rea in una sorta di campus universitario diffuso, che possa ospitare studenti e docenti al fianco degli abitanti del quartiere. 9

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ALER Brescia, dopo aver acquisito nel 2004 un edificio di quattro piani nel Quartiere Carmine, ha avviato il percorso di ristruttura-zione e di introduristruttura-zione di nuove funzioni. La ristrutturaristruttura-zione è stata finanziata in parte da fondi regionali destinati ai Piani di Recupero ed in parte da fondi ALER. I lavori sono stati seguiti dall’Ufficio Pro-gettazioni di ALER Brescia, che ha presieduto a tutte le fasi dei la-vori (appalto, direzione lala-vori, collaudo e consegna dell’immobile). Il progetto ha previsto la cessione in permuta del piano terra, che ospita la nuova sede del Museo Nazionale della Fotografia, mentre per i restanti tre piani sono stati creati alloggi per studenti universitari. 3. Il sostegno alle attività economiche

Sostenere ed incentivare le attività economiche come nego-zi, laboratori artigianali, uffici e servizi significa, nell’ambito del “Progetto Carmine”, ampliare la gamma dei servizi e diversi-ficare la frequentazione del quartiere, così da superare la sua presunta condizione di enclave. Il “Progetto Carmine” si propone inoltre di ricreare un equilibrio, perduto nel tempo sotto

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l’effet-to della diversificazione delle logiche produttive e per effetl’effet-to dell’insediamento diffuso della grande distribuzione, tra le atti-vità tradizionali, le attiatti-vità gestite dagli immigrati e nuovi servi-zi per gli studenti universitari e per la popolaservi-zione giovane più in generale. Le principali azioni previste in questo ambito sono:

• L’assegnazione di contributi (finanziamenti a fondo perduto) per la ristrutturazione dei locali attraverso bandi pubblici rivolti alle attività esistenti ed alla creazione di nuo-ve attività;

• La locazione a prezzi contenuti dei locali acquisiti dal Comune;

• La riduzione del 50% del pagamento del canone per l’occupazione del suolo pubblico per bar, ristoranti etc. per 4 anni a partire dal 2006;

• L’elargizione di contributi a fondo perduto per le atti-vità economiche interessate da cantieri;

• Il sostegno indiretto, sotto forma di contributi econo-mici alla Circoscrizione in cui il Carmine è situato, per la realizzazione di manifestazioni a valenza artistica, culturale

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Nonostante il “Progetto Carmine” abbia fatto lo sforzo (solo par-zialmente riuscito) di rilanciare le attività economiche e di promuo-vere l’occupazione dei locali dismessi e degradati da tempo, ha posto però scarsa attenzione al commercio gestito da immigrati, basato su reti informali di conoscenza. Quasi nessun commerciante straniero ha preso parte ai bandi, scritti esclusivamente in lingua italiana, che prevedevano di pagare le sanzioni amministrative pregresse e di mantenere l’attività per almeno tre anni. Un ulte-riore elemento controverso è rappresentato dall’introduzione, con la variante del 2005 al Piano di Recupero, di un regolamento co-munale che proibiva l’apertura di nuovi esercizi di questo tipo e regolamentava gli orari ed i requisiti di quelli esistenti. A partire dal 2009, la porzione più centrale del Carmine, lungo via San Faustino, è stata inserita nel Distretto Urbano del Commercio del Centro Storico di Brescia, un programma di co-finanziamento del-la Regione Lombardia di attività di riqualificazione e rigenera-zione economica, mentre parte delle attività commerciali gestite da stranieri si sono spostate verso i margini del quartiere e oltre.10

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4. La sicurezza

Il tema della sicurezza rappresenta uno dei pilastri fondamenta-li del “Progetto Carmine” ed è stato affrontato sia attraverso le azioni sul patrimonio fisico – affiancate da un controllo estensivo delle condizioni di abitabilità e dunque anche delle presenze -, che attraverso interventi specifici resi possibili da un finanziamento

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visto dalla legge regionale lombarda 4/20038. In particolare le azioni per accrescere la sicurezza del quartiere si sono tradotte in:

• Apertura di un nuovo commissariato, in collabora-zione con la Polizia di Stato, al cui interno è stato creato anche un Ufficio Passaporti decentrato. Il commissariato è situato in un immobile acquisito da parte del Comune nel 2001 e concesso in comodato d’uso nel 2003 alla questura; • Creazione di una sede distaccata (Centro Sto-rico) della Polizia Locale, in un locale “a bassa so-glia”, che svolge il ruolo anche di punto informativo; • Creazione di un sistema di videosorveglianza del quar-tiere, attraverso l’installazione di oltre 20 telecamere fisse. Anche in questo caso, nonostante che siano state sviluppate for-me di collaborazione proficue e l’obiettivo di mutare l’imma-gine del quartiere sia stato in parte raggiunto, si è registra-ta da parte della pubblica Amministrazione la difficoltà di affrontare con pratiche innovative un tema certamente complesso. Negli anni, alcune iniziative collaterali al piano si sono poste

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tivo di contemperare la tematizzazione debole della complessità sociale del quartiere e di alcuni dei profili di vulnerabilità presenti, sebbene abbiano incontrato un inadeguato consenso politico. A tre anni dall’inaugurazione dell’intervento di recupero, ad esempio, sono stati finanziati tramite fondi comunitari alcuni progetti di ricerca-in-tervento nel quadro del programma europeo EQUAL, cui il Comune di Brescia aderì per iniziativa del suo Servizio per l’integrazione e la cittadinanza. Nello specifico, l’azione di progetto aveva lo scopo di promuovere interventi di sviluppo locale che potessero aprire a nuove modalità di convivenza sociale ed economica nel quartiere, in particolare con azioni volte alla valorizzazione (tramite iniziati-ve di formazione) delle attività commerciali e di servizio gestite da imprenditori immigrati e alla promozione di un network locale di quartiere per un maggiore coordinamento dei diversi attori locali.

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4.

Storia delle aree e

delle strutture urbane

interessate dal progetto

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Dato che il nostro progetto ha l’ambizione di porsi in continuità e relazione con la storia dell’area che intendiamo riqualificare, non ci sembra inutile accennare qui alle vicende e agli eventi che hanno toc-cato in vario modo nel corso del tempo quegli elementi del territorio urbano di Brescia che prendiamo in considerazione nel nostro studio.

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A. PIAZZA ROVETTA

Durante il corso del diciannovesimo e ventesimo secolo, l’area fu inte-ressata da una serie di proposte progettuali. La prima, dell’architet-to Andell’architet-tonio Tagliaferri, risale al 1878 e prevedeva che, addossadell’architet-to al

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corpo scala cinquecentesco della Loggia, si costruisse un palazzo per uffici comunali. L’idea rimase stabile in tutti i progetti urbanistici suc-cedutisi per la zona, compresi i molti presentati al concorso del 1927.

16. Sezione palazzo per uffici comunali addossato alla Loggia proposta progettuale mai realizzata dell’architetto A. Tagliaferri (fonte sito Rete.comuni italiani)

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Nel 1939 sembrò essere giunta, anche per questo problema, l’ora della soluzione. Le ultime vicende amministrative relative ai tentati-vi di costruzione del palazzo per gli uffici erano sfociate nell’incari-co nell’incari-conferito, nel maggio 1924, all’ingegnere Giovanni Tagliaferri, quale erede parentale e intellettuale dello zio Antonio, perché ri-formulasse il progetto presentato 46 anni prima. Il progetto passò quindi di mano, giungendo alla responsabilità dell’Ufficio Tecnico comunale nel 1931. Il momento era denso di eventi e la questione slittò sino a quando il commissario prefettizio Renato Pascucci, nella primavera del 1937, volle rinnovare il mandato ai propri tecnici perché fosse nuovamente preso in considerazione il progetto del palazzo comunale nella piazza Rovetta da riconvertire. Nel 1938 si procedette alla stesura del disegno definitivo e agli espropri delle numerose case che ancora sorgevano nella piazza, nonostan-te le molnonostan-te demolizioni eseguinonostan-te alla fine dell’Ottocento, nel 1904 e nel 1906. Ancora esisteva il nucleo a pianta curvilinea, volto verso nord e occidente, addossato al corpo della scala antica della Log-gia e anche oltre, a definire l’imbocco nord del corsetto S. Agata. Questo nucleo di antiche case, caratterizzato anche da interes-santi peculiarità architettoniche che hanno motivato, unitamente

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ad altri indizi, l’ipotesi che esso sorgesse per concrezione mura-ria sopra i ruderi dell’anfiteatro romano di Brixia, venne demoli-to nel corso del 1939, per lasciare posdemoli-to al palazzo degli uffici. Il progetto del nuovo edificio, dalla forma di un grossolano pa-rallelepipedo, fu approvato dalla soprintendenza e dal Consiglio superiore delle belle arti, nonostante le demolizioni che implicava e con un totale disinteresse per i sedimenti archeologici che nell’o-perazione si sarebbero potuti indagare. Era previsto che l’edificio, rivestito con lastre di botticino e costruito secondo tecnologie stret-tamente autarchiche, con la riduzione quindi al minimo del cemento armato, si componesse di cinque piani ed un seminterrato. L’inter-vento prevedeva di raccogliere nel nuovo fabbricato tutti gli uffici comunali, allora sparsi in molte case del centro, tranne l’ufficio di

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18. Planimetria progettuale focalizzata sulla costruzione del palazzo per i nuovi uffici a nord della Loggia: area quadrettata (fonte Brescia Littoria di F. Robecchi)

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igiene e la caserma dei vigli urbani, che sarebbero stati alloggiati nel palazzetto Martinengo-Avogadro, già di proprietà del comune e posto su retro della Loggia. Nel dicembre del 1939, però, la realizzazione dell’edificio era già bocciata, tanto che venne avan-zata anche l’idea di liberare ulteriormente il municipio rinascimen-tale, abbattendo anche il corpo scala che pure è coevo. Per creare gli uffici, si tornava a parlare di uno sventramento da effettuarsi nel corsetto S. Agata, secondo idee che sarebbero state ripropo-ste, al termine della guerra, soprattutto dall’ingegner Debbeni.

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La soluzione dell’annoso problema sembrò invece provenire dall’acquisto da parte del Comune dell’area del vecchio ospe-dale, per la quale infatti, fu abbozzato, come si è detto, qualche progetto comprendente anche il palazzo per i nuovi uffici comunali. L’operazione di piazza Rovetta comportò un’importante modifica-zione dell’assetto sotterraneo della città. L’antico alveo del tor-rente Garza giaceva lungo la cinta muraria della città e, alla fine del XIV secolo, nel vecchio alveo continuavano a scorrere i canali Bova e Celato, che da tempo immemorabile scorrevano in quel corso confluente nel Garza. La prevista costruzione del palazzo per gli uffici sconsigliò, per motivi di opportunità tecnica, di man-tenere negli scantinati il corso d’acqua. Esso fu quindi deviato e intubato con un’ansa che, da piazza Rovetta, portò i canali riu-niti di fronte alla Loggia, nell’omonima piazza, prima di farli ri-entrare nel vecchio alveo a valle della stessa. Rimase quindi a secco la grande galleria quattrocentesca, che ancora si trova sot-to il portico della Loggia e che già nel 1939 fu predisposta ad un riutilizzo come rifugio antiaereo. In quello stesso anno, tutta-via, si ammetteva che la demolizione delle case di piazza Rovetta

21. Demolizioni degli antichi fabbricati aderenti alla Loggia, nel 1939, per liberare l’area su cui sarebbe dovuto sorgere il palazzo degli uffici comunali (fonte Brescia

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costituiva un’eccezione, poiché le casse comunali erano esauste e al più impegnate nella ricerca di soluzioni al problema abitativo, che da anni aveva iniziato a imporsi di nuovo come prevalente. Dopo un periodo di stallo, dovuto principalmente alle distruzio-ni materiali e ai sacrifici economici imposti dalla seconda guerra mondiale, solo alla fine degli anni Settanta si incominciò a pren-dere nuovamente in considerazione possibili interventi nell’area di piazza Rovetta. Nel quadro degli interventi di riqualificazione

previsti dal Piano Regolatore del 1977, ci fu anche una propo-sta di Leonardo Benevolo. Il progetto prevedeva la copertura del mercato con una struttura a travatura reticolare, contenente nel suo spessore l’ampliamento degli uffici della Loggia e una nuova

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sala consiliare. La copertura, su tre livelli lievemente sfalsati, era sorretta da fasci di tubi metallici del diametro di 15 centimetri. Al di sotto, il pavimento del piano aperto a livello del suolo riprodu-ceva, con campiture in mattoni, il disegno degli spazi occupati da-gli antichi edifici demoliti. Il progetto, di forte impatto, denunciava apertamente i suoi riferimenti: il progetto di Samonà nel concorso per l’ampliamento di Montecitorio (1967) e la piazza coperta di Kenzo Tange per l’esposizione di Osaka. Non se ne fece nulla.

Anche la proposta “giocosa” dell’architetto Marco Fasser, nel 1987, riprendeva il disegno planimetrico delle costruzioni de-molite alla fine dell’Ottocento, in base al piano di risanamento di via San Faustino, e nel 1939, per creare lo spazio necessa-rio alla costruzione di nuovi uffici comunali. Ponendosi

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te rispetto alla nozione stessa di arredo urbano, Fasser prevede-va non solo una ripavimentazione che rispecchiaprevede-va l’articolazione planimetrica del demolito, ma anche un piccolo congegno, qua-si un’installazione artistica. Sulla base di un dipinto del 1851 di Gian Battista Ferrari, riproducente lo stretto spazio antistante il lato nord della Loggia, chiuso tra le case e occupato da un la-ghetto con al centro un largo molo, proponeva una grande vasca d’acqua che riproducesse le dimensioni del cavedio e del molo e che presentasse raffigurata sul fondo l’immagine riflessa del luo-go ritratto dal Ferrari. L’operazione di Fasser, più leggera, era capace di evocare il palinsesto urbano e anche, come un artifi-cio di teatralità urbana di età barocca, di suscitare meraviglia. La sistemazione di Piazza Rovetta torna nel Piano Regolatore del 1997 di Secchi, che affronta il tema attraverso lo strumen-to dello schema di progetstrumen-to. La lettura che dà del luogo è de-cisamente improntata al mantenimento del vuoto, a valorizzarne programmaticamente le potenzialità di luogo centrale per i pe-doni, per la sosta, per lo svolgimento del mercato, “di giorno e di notte”. Tutte le indicazioni del progetto sembrano

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concentrar-si sul suolo, sul valore dei cambi di pavimentazione in rapporto alle differenze di quota e di uso, mentre trattano con estrema laconicità la pensilina, per la quale si limitano a proporre una struttura di metallo o di altro materiale idoneo per la copertura. Sulla base dei curricula pervenuti, l’incarico della sistemazione di piazza Rovetta venne conferito al professor Giorgio Lombar-di, urbanista di formazione, allievo di Benevolo, già impegnato in progetti di recupero del centro storico e coautore del progetto di risistemazione delle piazze centrali (poi accantonato) con Andreas Brandt. Il suo progetto non suscitò alcun entusiasmo, in quanto risultò più schematico dello stesso schema di progetto di Secchi: la pensi-lina apparve più povera che essenziale, con dettagli privi di qual-siasi appeal, non per scelta minimalista ma per deficit progettuale. Esteticamente non elegante, funzionalmente quasi inutile, la pensi-lina era comunque stata metabolizzata dal contesto urbano, forse proprio per la sua assenza di qualità spiccate. Il mercato coperto che si svolgeva vedeva una massiccia frequentazione di cittadini, soprattutto extracomunitari. Per impedire che un luogo centrale non esibisse caratteri di «brescianità autentica» e cancellare i segni

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della giunta precedente, fu presa la decisione di rimuovere pri-ma, con pregiudizio della integrità progettuale, le panchine, e poi la pensilina stessa. Vi furono alcuni interventi sui quotidiani, molti interventi sui blog locali, e il dibattito culminò in un’assemblea pub-blica, sotto la pensilina: la stragrande maggioranza delle opinioni, pur non stimandone la valenza architettonica, era contraria, indi-viduandone saggiamente il carattere di non priorità soprattutto in relazioni ai costi stimati. Ciò nonostante la giunta prosegue, la pen-silina viene smontata e nel 2009 viene bandito un concorso di idee. A tale concorso partecipano 105 progetti provenienti da tutta Ita-lia e la proposta prescelta è frutto della matita di un valente pro-fessionista bresciano, tecnicamente capace, Giuliano Venturelli, che però propone un oggetto di design dal carattere atopico se non

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addirittura antiurbano. Un’architettura che nega il rapporto con il suolo, con l’attacco a terra, disconosce gli allineamenti, rifiuta il confronto con le facciate, denunciando una ansiosa provvisorietà che la precedente pensilina, pur nella sua povertà architettonica, aveva saputo, proprio grazie all’uso che nonostante tutto se ne faceva, placare. Il cosiddetto «cubo bianco», ospite inquietante del cuore urbano, suscita più lo scontento del dibattito che avreb-be meritato, e, in conseguenza anche dei costi (un milione e mez-zo circa) abbandona la piazza dove si era posato per lo spa-zio di un sogno, il sogno cavalcato soprattutto dall’assessore ai lavori pubblici Mario Labolani, lasciandola più spoglia di prima.

27. Vincitore concorso di idee per Piazza Rovetta del 2009 di Giuliano Venturelli, mai realizzato, prospetto (fonte sito Europaconcorsi)

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A questo punto sbuca la nuova proposta: installare, sia pure prov-visoriamente, un teatro dei burattini. Stavolta è realizzata low cost (40 mila euro) ma anche low profile: erba sintetica e quattro pan-che in corten laterali, un fabbricato da cantiere con anteposta una facciata in legno non finita, il tutto racchiuso da una rustica staccio-nata. Riassumendo: si sono spesi 400 mila euro circa per lo sposta-mento, 100 mila per fare il concorso, 40 mila per una sistemazione provvisoria: mezzo milione di euro per fare un salto all’indietro.

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B. IL SISTEMA IDRICO BRESCIANO

L’esplorazione del sottosuolo della città di Brescia è l’obiettivo che si è prestabilita l’associazione “Brescia Underground”, nata nel 2006 dalla collaborazione di un gruppo di giovani bresciani, con l’iniziale aiuto del comune. Essa ha potuto documentare parte dell’intricato reticolo di rogge, fiumi, ponti, canali nascosti sotto il centro storico: rivi come il Garza, il Bova, il Celato, la Garzetta, Molin del Brolo e molti altri ancora privi di mappatura, che un tempo scorrevano alla luce del sole, servendo le numerose bot-teghe artigiane e gli opifici siti sulle rive degli stessi, e che oggi, dopo tre secoli di stratificazioni dell’urbanizzato, si ritrovano re-legati nel sottosuolo. La meticolosa e continua attività di ricerca condotta dai giovani dell’associazione ha permesso di riporta-re alla luce una serie di riporta-reperti di differiporta-renti periodi storici, che raccontano, come una linea del tempo, l’evoluzione della città. Le differenti profondità dei resti e le successive tamponature e mo-difiche visibili creano un vero e proprio “percorso” storico delle vi-cende che si sono susseguite nei secoli. Sviluppando una linea

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porale, possiamo individuare come più distanti da noi i residui di origine romana, come il ponte in pietra di 7,5 m per 2,5 m presente sotto largo Formentone, posto ad una profondità di 50 cm circa, quasi inglobato nel manto stradale. Nel quindicesimo secolo circa furono coperti parte dei fiumi per lasciar spazio alla costruzione di opere di ingegneria e monumenti: i maestri veneziani chiamati a Brescia crearono coperture voltate a crociera in laterizio, quasi

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una celebrazione dell’acqua, visto che la ricercata fattura rima-se relegata nel buio del sottosuolo. Dal periodo medievale alla metà del diciannovesimo secolo, come documentato da Giobatta Ferrari nel suo quadro del 1851, parte dei rivi a cielo aperto e il laghetto che sorgeva nell’attuale Piazza Rovetta a nord della loggia venivano utilizzati dalla comunità per le funzioni quotidiane, mentre le botteghe trasformavano la forza dell’acqua corrente in energia grazie ai mulini. Le successive e ultime modifiche risalgono al periodo del fascismo, quando parte dei percorsi subirono cam-biamenti dei tragitti con il conseguente rifacimento dei condotti di trasporto dell’acqua (cemento armato): un esempio è costituito dallo spostamento e dalla successiva demolizione delle voltature del rivo sottostante la Loggia, spostamento attuato per consentire la realizzazione del progetto fascista della biblioteca sotterranea, progetto in realtà mai concretizzato. Le varie vicissitudini storiche susseguitesi nei secoli hanno dato vita ad un complesso sistema di rivi che, attraverso i residui dei portoni, delle finestrature, dei mu-lini che affacciano sugli stessi, offrono l’immagine di una città con-traddistinta nel tempo dallo scorrere dell’acqua, fonte di vita e di sussistenza. Durante il percorso di studio dell’area di progetto,

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in occasione della visita del sottosuolo di Brescia effettuata insie-me ai giovani dell’associazione, abbiamo riscontrato la presenza di una serie di realtà idrografiche fondamentali per lo sviluppo dell’area, tra le quali, al di sotto della piazza, il fiume Bova che, percorrendo il Carmine, sfociava all’interno del laghetto a nord-est della loggia, oggi completamente interrato e visibile almeno in parte grazie ai lavori sotterranei di scavo iniziati nel 2012.

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Il panorama idrico dei primordi si pone come naturale premessa di ogni utilizzo umano. Risulta indispensabile ricercare su quali risorse idriche si basò il registro della dialettica fra le attività umane e il dato naturale. Emergono evidentemente, in tale panorama, i corsi d’acqua sulla cui consistenza e sul cui andamento abbiamo qualche certezza, benché si possa risalire nel tempo per non più di qualche millennio. È pur noto che quelle che appaiono, a uno sguardo inge-nuo, le coordinate immutabili del panorama naturale hanno invece anch’esse una storia. Non occorre riandare a epoche preistoriche per trovare fiumi dove prima non ne scorrevano, coste dove prima c’era campagna: le continue modificazioni del territorio lo stan-no a dimostrare. È tuttavia indubitabile che corsi d’acqua come il fiume Mella e il torrente Garza hanno interessato l’area di

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33. Percorso sotterraneo del fiume Bova (fonte sito Bresciaunderground)

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scia fin dall’origine dei tempi storici. Certamente anch’essi furono soggetti a un’evoluzione, ma sostanzialmente la loro presenza può esser tracciata tra le più certe nell’ipotetica mappa dei primordi. 1. Il Mella

Il Mella, che trae origine dalla conca di chiusura settentrionale della Valle Trompia, nell’area del Maniva, e sfocia nell’Oglio, a Ostiano, dopo aver percorso 96 chilometri, è sempre stato per la città di Bre-scia, rispetto al cui nucleo storico scorre ad occidente, un riferimento importante, sia spaziale che funzionale. Se da una parte esso fornì all’area cittadina la percentuale maggiore della forza idraulica e costituì la fonte principale dell’approvvigionamento per l’irrigazio-ne, dall’altra rappresentò un notevole problema per l’assetto viario, risolto, in epoca romana, con la costruzione di tre ponti fondamen-tali: quello chiamato delle Crotte, sulla strada per Gussago; quello detto di S. Giacomo, orientato a Rovato e Milano; quello, più me-ridionale, di Roncadelle, rivolto a Orzinuovi. Il fiume pesò sulla vita bresciana anche per altre caratteristiche negative, inscindibilmente legate ai corsi d’acqua. Le piene ricorrenti e gli straripamenti

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strosi costellarono la storia del rapporto fra la valle, la città e il fiu-me, con episodi particolarmente drammatici. Le alluvioni sussegui-tesi nel corso dei secoli interessarono l’intera geografia cittadina, giungendo ad interessare anche la parte occidentale della città. Nonostante l’antagonismo periodico e incombente, la simpatia degli abitanti nei confronti del Mella finì sempre con il prevalere, come si intuisce dal lusinghiero nome assegnato al fiume, che, secondo alcu-ne interpretazioni, potrebbe derivare dal termialcu-ne latino “mel”, cioè “miele”, e alluderebbe al colore spesso fangoso delle sue acque. Il fiume infatti fornì in quantità beni quali il pesce, la ghiaia e la sab-bia, che ebbero una significativa parte nella storia economica del-la città, animandone i traffici commerciali. L’escavazione dei mate-riali da costruzione è ancora oggi intensa in ampie zone di depositi alluvionali antichi. Il fiume produsse anche le argille, fondamentali per la costruzione della città, da sempre cavate nella zona di For-naci, tradizionale fornitrice di laterizi. Le pietre calcaree trasporta-te nel letto del fiume, consentrasporta-tendo la produzione di calce, comple-tarono il tributo di materiale edilizio di cui si avvalsero i bresciani.

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Il Mella viene ripreso nei celebri versi di Catullo, che, nel carme LX-VII, scrive: «Brixia Cycnae supposita speculae, / flavus quam mol-li percurrit flumine Mella, / Brixia Veronae mater amata meae», «Brescia stesa ai piedi del poggio Cidneo, mollemente solcata dal biondo Mella, Brescia, amata madre della mia Verona». Su que-ste parole si è a lungo discusso, almeno a partire dal XVI secolo, quando Elia Capriolo obiettò che Catullo non si riferisse al Mella, ma piuttosto al Garza. Nel 1739 Paolo Gagliardi riprese la critica condividendola, chiedendosi come si potesse definire Brescia sol-cata dal Mella quando esso scorreva, all’epoca di Catullo, distante circa tre chilometri dalla città. Si volle forzare la realtà pensando a una Brescia antica molto più spostata ad ovest, ipotesi che già il Gagliardi scartava, considerando, sia pure in base alle poche notizie allora disponibili, che era vero esattamente il contrario e cioè che l’antica città era sorta a est di quella successivamente sviluppatasi. Il Gagliardi sosteneva l’ipotesi, poi quasi unanime-mente condivisa, che il nome “Mella” fosse stato certaunanime-mente con-fuso con quello che indicava il torrente Garza. “Melo” o “Molone” sarebbe stato il suo antico nome, che ancora denomina quello che fu l’originario tratto meridionale del Garza, a partire dal paese

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che ancora da tale equivoco toponomastico trae il proprio nome: Bagnolo Mella. Questo abitato, contrariamente a località che sono più chiaramente legittimate a trarre il loro nome dal fiume, come Pavone Mella o Urago Mella, è infatti distante quattro chilome-tri da esso. Questa importanza, anche simbolica, del Mella nel carattere globale di Brescia si avvicina un poco al valore imma-ginario che i fiumi, e le acque in generale, hanno sempre avu-to. Il Mella poté fornire a Brescia una parte importante della sua ricchezza. Oltre alle decine di officine cui contribuì a dare vita,

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38. Veduta sintetica a volo d’uccello di Brescia dei principali corsi d’acqua (fonte Aqua

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