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valutazione dell'efficacia dell'utilizzo di cellule staminali mesenchimali nel trattamento delle pseudoartrosi e dei ritardi di guarigione delle fratture

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

Capitolo 1 BIOLOGIA DELLA RIPARAZIONE DELLE FRATTURE ... 4

Struttura del tessuto osseo ... 4

Generalità sulle fratture... 7

Biologia della riparazione delle fratture... 7

Guarigione spontanea di una frattura ... 9

Guarigione delle fratture dopo osteosintesi... 13

Capitolo 2 LE COMPLICANZE DELLA RIPARAZIONE DELLE FRATTURE E IL LORO TRATTAMENTO ... 17 Il ritardo di consolidazione... 17 Le Pseudoartrosi... 19 Classificazione ... 20 Eziopatogenesi ... 22 Clinica ... 22

Capitolo 3 UTILIZZO DI CELLULE STAMINALI MESENCHIMALI PER IL TRATTAMENTO DELLE PSEUDOARTROSI ... 29

Le cellule staminali mesenchimali ... 32

Isolamento delle cellule staminali mesenchimali ... 34

Riparazione ossea e MSCs ... 35

Sorgenti di MSCs per la riparazione ossea... 36

La migrazione delle MSCs ... 37

Homing... 38

Proliferazione e differenziamento nel sito di frattura ... 38

Utilizzo delle MSCs nelle pseudoartrosi ... 39

Concentrato da sangue periferico... 40

Terapie cellulari da tessuto adiposo ... 41

Confronto tra la capacità osteogenica delle MSC derivate dal midollo osseo e le MSC derivate dal tessuto adiposo. ... 43

Ruolo dell’UE nell’utilizzo delle MSC ... 44

Scaffold ... 44

Capitolo 4 MATERIALI E METODI ... 47

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Procedura chirurgica ... 51

Capitolo 5 RISULTATI ... 54

Capitolo 6 DISCUSSIONE ... 60

Capitolo 7 CONCLUSIONI... 67

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INTRODUZIONE

Le pseudoartrosi e i ritardi di consolidazione sono delle complicanze che possono alterare il normale processo di riparazione di una frattura.

Il ritardo della consolidazione rappresenta una complicanza tardiva locale caratterizzata da una mancata consolidazione di una frattura nel tempo normalmente necessario alla guarigione di quel particolare segmento osseo [1].

La pseudoartrosi è la mancata consolidazione di una frattura in un tempo superiore ai 6 mesi dall’evento traumatico in associazione alla mancanza di segnali di guarigione negli ultimi tre mesi[2]. Tra tutte le fratture che si verificano ogni anno, le pseudoartrosi presentano un’incidenza di circa il 5-10%[3].

Il trattamento in queste situazioni risulta essere complicato e spesso le terapie convenzionali non garantiscono una guarigione.

Negli ultimi decenni in seguito al rapido sviluppo di nuove tecnologie di medicina rigenerativa e al grande interesse circa l’ingegneria tissutale, si è arrivati allo sviluppo di nuove terapie in grado di implementare l’azione dei trattamenti classici.

In particolar modo, l’attenzione si sta focalizzando sullo studio della biologia e dell’utilizzo clinico di cellule staminali mesenchimali.

Molti studi stanno cercando di fare luce su quali siano le condizioni migliori per poterle utilizzare in modo da garantire la rigenerazione ossea grazie al loro sviluppo e differenziamento.

Lo scopo di questa tesi è la valutazione dell’efficacia dell’utilizzo di cellule staminali mesenchimali con la metodica del Regenkit Extracell® BMC nel trattamento delle pseudoartrosi e ritardo di consolidazione di fratture trattate nel reparto dell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia I dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana nel periodo 2009-2014.

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Capitolo 1

BIOLOGIA DELLA RIPARAZIONE DELLE FRATTURE

Struttura del tessuto osseo

Il tessuto osseo rappresenta un tessuto connettivale altamente specializzato, metabolicamente attivo e in continuo rimodellamento. L’osso presenta molteplici funzioni tra cui funzioni meccaniche e funzioni metaboliche. Le prime sono rappresentate dalla capacità di sostegno, di movimento del corpo e quella di protezione degli organi interni, mentre le seconde sono costituite dalla regolazione delle concentrazioni di calcio, di fosfato o dalla funzione di sistema tampone nelle alterazioni dell’equilibrio acido-base; l’osso ospita inoltre a livello trabecolare il midollo osseo, che ha una funzione emopoietica.

Il tessuto osseo è costituito da una componente cellulare e da una componente extracellulare, chiamata sostanza fondamentale.

La componente cellulare è rappresentata da cellule osteoprogenitrici, osteoblasti, osteociti e osteoclasti, mentre la sostanza fondamentale è formata da una matrice organica e una matrice inorganica. La matrice organica dell’osso è costituita fondamentalmente da quattro componenti.

Si ritrovano le fibre collagene di tipo I, i proteoglicani, le glicoproteine e proteine contenenti acido O-carbossiglutammico. La matrice inorganica dell’osso rappresenta il 65% del peso secco ed è formata principalmente da cristalli di idrossiapatite di lunghezza di 20-40nm e di spessore di 1,5-3nm.

La componente minerale è formata da cristalli di fosfato di calcio e in minore quantità di carbonato o altri sali come fluoruro di calcio e fosfato di magnesio. La componente maggioritaria è composta da fosfato di calcio, presente sottoforma di cristalli di apatite.

Questi possono essere legati a due ioni ossidrile (formando i cristalli di idrossiapatite) o a ioni carbonato (carbonatoapatite) o a ioni fluoruro (fluoroapatite).

La matrice inorganica dell’osso rappresenta il 65% del peso secco ed è formata principalmente da cristalli di idrossiapatite di lunghezza di 20-40nm e di spessore di 1,5-3nm. La componente minerale è formata da cristalli di fosfato di calcio e in minore quantità di carbonato o altri sali come fluoruro di calcio e fosfato di magnesio. La componente maggioritaria è composta da fosfato di calcio, presente sottoforma di cristalli di apatite.

Questi possono essere legati a due ioni ossidrile (formando i cristalli di idrossiapatite) o a ioni carbonato (carbonatoapatite) o a ioni fluoruro (fluoroapatite).

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I cristalli di idrossiapatite sono fortemente elettrondensi, si dispongono parallelamente tra loro e alle microfibrille collagene, ricoprendone la superficie e permeandone le porosità.

Il fosfato di calcio precipita inizialmente sottoforma di minutissimi aggregati amorfi;

successivamente sono rimpiazzati da sottilissimi cristalli aghiformi disposti parallelamente a molecole di decorina, detti filamenti assili (crystal ghosts) [3].

La sostanza fondamentale si può distinguere in una forma lamellare e una forma non lamellare.

La forma non lamellare è scarsamente presente nell’uomo adulto, si divide in una varietà a fibre parallele ed una a fibre intrecciate. La prima è presente in zone circoscritte, ad esempio nelle zone di inserzione dei tendini; la seconda varietà invece costituisce tutti gli elementi scheletrici durante la vita fetale e nell’adulto persiste in particolari regioni, ad esempio in corrispondenza delle suture delle ossa del cranio o delle inserzioni dei tendini e dei legamenti[11].

La forma lamellare costituisce la maggior parte dell’osso del nostro organismo ed è formata dall’insieme di lamelle ossee che possono assumere grandezza, sviluppo e direzione differenti.

La lamella ossea è formata da una componente amorfa e da una componente organizzata. La componente organizzata è formata da fibrille collagene disposte parallelamente tra loro in uno o più strati sovrapposti e concentrici.

La componente amorfa è presente tra gli spazi lasciati liberi dalla componente organizzata. Due o più lamelle sono tra loro saldate da sostanza amorfa, chiamata sostanza cementante, formata da mucopolisaccaridi e cristalli di idrossiapatite[5].

A livello dell’osso compatto le lamelle assumono una disposizione regolare e molto precisa. Nel dettaglio le lamelle si organizzano in modo tale da formare lamelle circonferenziali esterne, il sistema degli osteoni, lamelle interstiziali e lamelle circonferenziali interne.

Le lamelle circonferenziali esterne sono situate subito al di sotto del periostio e sono formate da 5-7 lamelle concentriche disposte parallelamente alla superficie ossea.

Il sistema degli osteoni rappresenta la componente predominante del tessuto compatto ed è costituito dall’insieme degli osteoni separati da lamelle interstiziali.

Gli osteoni sono delle strutture di forma cilindrica di diametro di 0,18-0,225mm e di

lunghezza di 1,2-9mm, sono formati da lamelle concentriche disposte intorno ad un canale centrale chiamato canale di Havers.

All’interno dei canali di Havers decorrono i vasi sanguigni; i canali sono collegati tra loro attraverso canalicoli chiamati canali perforanti o del Volkmann, contenenti piccoli vasi

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sanguigni o tessuto connettivo; i canali perforanti si formano a livello dell’osso maturo per fenomeni di riassorbimento tissutale e si distinguono dai canali di Havers perché non sono contornati da lamelle concentriche.

Le lamelle interstiziali vanno a costituire “la breccia” o “sistema interstiziale”, sono contenute negli spazi tra i vari osteoni e sono formate da lamelle disposte irregolarmente. Le lamelle interstiziali sembrano derivare da osteoni in fase di riassorbimento.

In profondità rispetto il sistema degli osteoni sono presenti lamelle circonferenziali interne che sono formate da 2 o 3 file di lamelle concentriche.

Le lamelle ossee a livello del tessuto osseo spongioso non vanno a costituire sistemi Haversiani ma si dispongono in maniera tale da formare lamine o trabecole ossee riunite in una rete tridimensionale e delimitanti areole intercomunicanti ripiene di midollo osseo.

Queste trabecole sono orientate secondo direzioni ben precise, cioè seguendo le linee di forza a cui è sottoposto il tessuto osseo.

La superficie delle ossa, ad eccezione delle cartilagini articolari, è rivestita da una membrana connettivale riccamente vascolarizzata chiamata periostio.

Il periostio è una struttura che assolve a numerose funzioni tra cui quella di provvedere alla nutrizione dell’osso e quella di accrescere e rinnovare il tessuto osseo.

Il periostio aderisce al tessuto osseo sottostante tramite le fibre di Sharpey, che sono fasci di fibre collagene di variabile grandezza, in parte calcificate e in parte no. Queste fibre originano dal periostio e penetrano nell’osso periostale attraversando le lamelle fondamentali esterne, i sistemi concentrici ed interstiziali più periferici.

L’adesione del periostio non è omogenea in tutte le ossa ma è più o meno tenace in base al numero di vasi sanguigni che lo attraversano e in relazione al numero e alla robustezza delle fibre di Sharpey.

In linea generale l’adesione periostea aumenta all’incrementare dell’età.

Da un punto di vista macroscopico il periostio ha un colorito bianchiccio o modicamente giallino e presenta uno spessore variabile in rapporto al volume dell’osso[11].

Il periostio da un punto di vista microscopico invece è formato da due strati:

• Lo strato esterno: è di natura fibrosa ed è costituito da una robusta rete di fibre collagene; è attraversato da numerosi vasi sanguigni diretti verso lo strato profondo.

Lo strato esterno per queste sue caratteristiche assume fondamentalmente una funzione di rivestimento e protezione nei riguardi dello strato interno.

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• Lo strato interno: è rappresentato dallo strato osteogenico di Hollier ed è costituito da cellule osteocondrogeniche e da cellule progenitrici sostenute da numerose fibre reticolari che si dispongono a formare un singolo strato cellulare[3].

Generalità sulle fratture

Con il termine frattura si indica l’interruzione della continuità di un osso, che si verifica quando una sollecitazione meccanica ne supera i limiti di deformabilità.

Due variabili entrano in gioco nella determinazione di una frattura: l’entità della forza lesiva (fattore estrinseco) e la resistenza dell’osso (fattore intrinseco).

Un indebolimento del tessuto osseo di qualsiasi natura rende lo scheletro più suscettibile agli effetti di un trauma.

La maggior parte delle fratture derivano dall’applicazione istantanea di una forza abbastanza potente da lesionare un osso strutturalmente normale.

Le fratture possono essere classificate in base a criteri diversi, quali il meccanismo patogenetico, la localizzazione e le caratteristiche anatomo-patologiche.

Secondo il meccanismo patogenetico si distinguono: fratture per trauma diretto, quando l’osso si frattura nel punto di applicazione della forza lesiva; fratture indirette, quando la forza lesiva agisce a distanza dal focolaio di frattura.

Nelle ossa lunghe, in base al livello di lesione, le fratture possono essere: diafisarie (dal terzo prossimale, medio o distale), metafisarie (prossimali o distali), epifisarie (prossimali o distali).

In base all’entità del danno scheletrico si differenziano: fratture incomplete, in cui l’interruzione della continuità dell’osso è parziale; fratture complete a loro volta divise in

composte (i frammenti di frattura conservano rapporti tali da non modificare la normale

configurazione dell’osso) e scomposte (la forma del segmento scheletrico appare alterata dallo spostamento o dalla compenetrazione dei frammenti).

Altro criterio classificativo riguarda l’integrità del rivestimento cutaneo: nelle fratture

chiuse la cute non presenta interruzione della sua continuità; nelle fratture esposte la cute è

lesionata e il focolaio di frattura è in comunicazione con l’ambiente esterno. [4]

Biologia della riparazione delle fratture

Una lesione traumatica che interrompe la continuità di un tessuto o un organo innesca un processo riparativo che conduce alla formazione di una cicatrice: la perdita di sostanza viene colmata da tessuto connettivo che ristabilisce la continuità del tessuto lesionato. Nell’osso la

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continuità deve essere ripristinata da tessuto osseo, indispensabile per il mantenimento delle funzioni scheletriche.

Il processo di riparazione di una frattura è un fenomeno complesso in cui sono coinvolti diversi tipi di cellule e durante il quale si formano differenti tessuti, dove l’apposizione e il riassorbimento di osso coesistono (rimodellamento osseo).

La frattura di un osso lungo determina l’interruzione del cilindro diafisario e si accompagna a lesioni del periostio, dell’endostio e dei fasci muscolari più vicini alla frattura.

Se l’energia traumatica è alta, la dislocazione dei frammenti della frattura può essere tale da lacerare tutto lo strato muscolare, la fascia, il sottocute e perfino la cute.

La lacerazione dei vasi, presenti nell’osso e in tutti gli altri tessuti ha un duplice effetto: da un lato determina la formazione di un ematoma nel focolaio di frattura, dall’altro la necrosi dei tessuti irrorati dai vasi lesi. [4]

La lesione dei tessuti molli e della componente vascolare riveste un ruolo molto importante nel processo di guarigione perché condiziona l’irrorazione del sito di frattura. Questo è vero perché l’irrorazione della corticale dipende, nei suoi due terzi più interni dal circolo midollare, mentre il terzo più esterno e il periostio dipendono da vasi periostali che derivano dalla circolazione muscolare; subito dopo una frattura, sono i vasi periostali che garantiscono l’irrorazione del callo osseo periostale e dei segmenti ischemici, sino a quando non si recupererà un flusso sanguigno midollare normale; è proprio per questo motivo che una lesione che comporta una massiva distruzione dei muscoli può ostacolare e rallentare la guarigione della frattura.

Una frattura causa sempre lesioni e lacerazioni vascolari che comportano la formazione dell’ematoma e la necrosi ischemica dei tessuti irrorati dai vasi danneggiati. La componente ossea che risente maggiormente di questa ischemia è la corticale, infatti frammenti corticali non più comunicanti con il periostio andranno incontro a necrosi, visto che non potranno beneficiare dell’apporto ematico dei vasi periostali.

La velocità di guarigione di una frattura è influenzata da vari fattori che riguardano principalmente il tipo di frattura e il trattamento effettuato. Tra i fattori che favoriscono la guarigione si ritrovano: l’adeguata vascolarizzazione dei frammenti, minime lesioni dei tessuti molli, assenza di infezioni, fratture spiroidi e fratture articolari (per l’interessamento di osso spongioso e la ricca vascolarizzazione). I fattori che ostacolano la guarigione sono le fratture comminute con gravi lesioni ai tessuti molli, la perdita di sostanza ossea, la distrazione dei capi ossei, l’inadeguata stabilizzazione della frattura, la ridotta o assente vascolarizzazione di uno o più frammenti, le infezioni del sito di frattura e l’eccessiva diastasi dei capi ossei. [15]

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Guarigione spontanea di una frattura

La guarigione spontanea di una frattura consiste di tutti quei processi biologici che avvengono nel sito di frattura in condizioni naturali, senza l’utilizzo di mezzi di sintesi. Questo tipo di guarigione viene chiamato anche indiretta perché si attua grazie alla formazione del callo

osseo.

Il processo di guarigione di una frattura in base alle caratteristiche anatomopatologiche può essere schematicamente suddiviso i quattro fasi (figura 1.1):

 Fase dell’infiammazione

 Fase della formazione del callo molle  Fase della formazione del callo duro  Fase del rimodellamento

La fase dell’infiammazione inizia subito dopo l’evento traumatico, clinicamente rappresenta il periodo in cui è presente il dolore, ha una durata che varia da qualche giorno (normalmente 1-7 giorni) sino a qualche mese (in caso di complicazioni come infezioni o spostamento dei frammenti) e termina generalmente con l’inizio dei processi di formazione dell’osso o della cartilagine. Nella fase dell’infiammazione l’ematoma presente nel sito di frattura comincia ad essere sostituito dal tessuto di granulazione grazie all’azione dei macrofagi, dei fibroblasti e della neoangiogenesi. [15]

L’ematoma nel focolaio di frattura mostra la classica evoluzione del processo cicatriziale, con invasione di capillari dal tessuto sano circostante, fibrillogenesi, riassorbimento dell’emosiderina e dei resti del coagulo da parte dei macrofagi; tuttavia in questo stesso tessuto, cellule mesenchimali midollari si differenziano in osteoblasti che iniziano a produrre matrice ossea. [4]

I macrofagi passano dal torrente circolatorio alla sede della lesione, nella quale cominciano a fagocitare i tessuti necrotici, i resti del coagulo, a riassorbire emosiderina ed iniziano a produrre fattori di crescita e citochine. Questi fattori di crescita sono responsabili del richiamo di fibroblasti, di cellule mesenchimali indifferenziate e della neoangiogenesi ed agiranno insieme a fattori di crescita intrappolati nella matrice ossea.

Questi fattori vengono liberati dal riassorbimento dei frammenti ossei da parte di cellule osteoclastiche (tale azione in questa fase iniziale può essere visualizzata all’esame radiografico come un transitorio aumento della rima di frattura).

Questa osteolisi libera vari fattori di crescita di derivazione ossea (BDGFs) intrappolati nella matrice.

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I fattori maggiormente coinvolti nella formazione di nuovo osso sono il TGFB, l’IL-1, la vitamina D3, il paratormone, e il fattore di crescita di derivazione piastrinica (PDGF). [6]

Il periostio e l’endostio sono caratterizzati da uno strato germinativo a contatto con l’osso corticale che sovrintende in condizioni normali alla crescita dell’osso o al fisiologico rimodellamento dello stesso. Entrambi i processi sono caratterizzati dalla deposizione di osso lamellare (osso secondario) in cui le fibre collagene della matrice presentano un’ordinata disposizione spaziale.

In caso di frattura queste cellule dimostrano un’attività sintetica più tumultuosa, ma con caratteri diversi: l’osso apposto da queste cellule ha i caratteri dell’osso primario e assume l’aspetto a fibre collagene intrecciate con lacune osteocitarie più grandi e globose, e densità minerale minore rispetto all’osso secondario.

L’attivazione degli osteoblasti è evidente dopo 24 ore dal trauma e rappresenta la conseguenza di una catena di reazioni che coinvolge numerosi mediatori biochimici sulla tipologia della risposta infiammatoria nei tessuti.

A differenza degli osteoblasti del periostio, che sono cellule già differenziate in stato di riposo, queste sono cellule mesenchimali indifferenziate, che vengono orientate verso un’attività di tipo osteogenico da agenti induttori liberatisi nel focolaio di frattura. [4]

Questi processi comportano l’inizio della formazione del callo osseo, che nella fase iniziale viene definito molle, perché non ancora calcificato.

Il callo molle normalmente ha una durata che può variare da tre settimane a tre mesi ed è caratterizzato dalla formazione di tessuto fibrocartilagineo a livello del focolaio di frattura. Questo tessuto sarà secondariamente sostituito da tessuto osseo, formando così il callo duro. Il callo osseo in base alla sede si distingue in indotto (di derivazione dal tessuto di granulazione), in esterno (derivato dal periostio) e in callo endostale (prodotto dalle cellule dell’endostio). Il callo indotto viene formato in sostituzione al tessuto di granulazione. A tale livello i fattori di crescita prodotti dai macrofagi o liberati dalla matrice ossea e il microambiente che si viene a creare in questo sito, favoriranno la trasformazione delle cellule mesenchimali indifferenziate in osteoblasti, i quali cominceranno a produrre matrice ossea. Il callo esterno forma una struttura conica intorno ai frammenti, con il diametro maggiore disposto verso il piano della frattura. Il callo esterno svolge un ruolo importante nella stabilizzazione biologica di una frattura. La stabilizzazione avviene perché il callo osseo aumenta la sezione trasversale e il braccio di leva del tessuto interframmentario, così da ridurre il movimento dei frammenti ed opporsi alle forze deformanti (la rigidità in flessione dipende dalla quarta potenza del raggio); per questo motivo, sino a certi limiti, maggiore è il

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movimento e l’instabilità dei frammenti, maggiore sarà il diametro del callo osseo (se la vascolarizzazione non è alterata).

Mentre nella parte più interna del callo esterno le cellule progenitrici del periostio si differenziano in osteoblasti, nella parte più periferica del callo queste cellule si differenzieranno in cellule della linea cartilaginea. Queste cellule formano la cartilagine che costituisce il callo esterno molle.

La formazione della cartilagine rispetto al tessuto osseo dipende sia dalla vascolarizzazione sia da sollecitazioni meccaniche.

La scarsa vascolarizzazione favorisce la formazione di tessuto cartilagineo, che per le sue caratteristiche è più resistente all’ischemia, mentre le regioni ben vascolarizzate portano a formazione di tessuto osseo.

Le sollecitazioni meccaniche inducono a formare nuovo tessuto cartilagineo, così da aumentare le dimensioni del callo esterno, stabilizzare la frattura e consentire successivamente la sostituzione con tessuto osseo.

Il callo endostale si sviluppa a livello del canale midollare ed è prodotto da cellule progenitrici presenti a livello dell’endostio con meccanismi simili a quelli del callo periostale. Il callo endostale dal punto di vista della stabilizzazione biologica della frattura assume una importanza minore rispetto al callo esterno.

La formazione del callo duro ha una durata di tre, sei mesi dall’evento traumatico ed è caratterizzata dall’ossificazione del callo molle.

La creazione del callo duro rappresenta la fase della consolidazione della frattura, in cui il callo osseo (sia esterno che endostale) forma un ponte osseo che unisce le corticali dei due capi della frattura.

L’ossificazione dei tessuti presenti a livello della rima di frattura può avvenire o per diretta apposizione di osso sulla superficie dell’estremità dei frammenti o per sostituzione della fibrocartilagine e del tessuto fibroso con tessuto osseo lamellare[6]. L’apposizione diretta di osso sulla superficie dell’estremità dei frammenti è confinata solo ad aree ben vascolarizzate e non esposte a sollecitazioni meccaniche. La sostituzione del tessuto fibrocartilagineo avviene con meccanismi simili a quelli dell’ossificazione encondrale, cioè attraverso l’ipertrofia dei condrociti, la deposizione di sali di calcio, l’invasione capillare, la differenziazione osteoblastica e la deposizione di matrice ossea[7].

L’ossificazione del tessuto fibroso segue le fasi dell’ossificazione membranosa. Questo tessuto prima di andare incontro all’ossificazione è formato da fibre di collagene di tipo I e presenta una componente minerale, che occupa in parte lo spazio interfibrillare ed in parte è

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disposta in maniera casuale sulle fibre collagene; inizialmente sono presenti fibrociti circondati da matrice mineralizzata, successivamente questi vengono sostituiti da osteoblasti prodotti dalla differenziazione di cellule mesenchimali pluripotenti[6].

Il rimodellamento osseo costituisce l’ultima fase della guarigione delle fratture, inizia quando i frammenti ossei sono saldati e può durare anche molti anni. Nei bambini normalmente ha una durata di sei, dodici mesi. Il rimodellamento osseo può essere considerato concluso quando sarà completamente ripristinato il canale midollare e quando verrà completamente riassorbito il callo esterno, in modo tale da riportare la conformazione ossea al suo aspetto originale. Il rimodellamento avviene grazie all’azione catabolica degli osteoclasti e alla contemporanea nuova apposizione di tessuto osseo lamellare da parte degli osteoblasti. La descrizione della guarigione sopracitata si riferisce prevalentemente alla riparazione di osso corticale, mentre per quanto riguarda l’osso spongioso bisogna evidenziare delle differenze. La guarigione dell’osso spongioso avviene senza la formazione di un importante callo osseo esterno, probabilmente perché nella maggior parte dei casi sono fratture più stabili; inoltre nella spongiosa la formazione di nuovo osso si verifica per ossificazione membranosa. Questo tipo di ossificazione si crea perché l’osso spongioso presenta una enorme potenzialità angiogenetica[8].

Figura 1.1: Schema delle fasi di guarigione di una frattura: a) fase dell’infiammazione; b) fase del callo molle; c) fase del callo duro; d) fase del rimodellamento.

L’ossificazione membranosa avviene solamente in localizzazioni particolari, come ad

esempio la clavicola ed alcune ossa del viscero e del neuro-cranio. L’ossificazione membranosa è chiamata anche diretta perché è caratterizzata da un processo di ossificazione

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che avviene direttamente a partire da tessuto connettivo fibroso, senza la necessità di utilizzare tessuto cartilagineo come stampo.

Questo processo inizia a livello dei nuclei di ossificazione grazie ad una neoangiogenesi e al differenziamento di cellule mesenchimali in cellule osteoprogenitrici. Queste si raggruppano insieme, aumentano di volume e acquisiscono le caratteristiche degli osteoblasti. Gli osteoblasti iniziano a produrre matrice osteoide ed iniziano a formare delle trabecole disposte irregolarmente, separate da tessuto mesenchimale, il quale potrà evolvere in tessuto emopoietico.

A questo punto gli osteoblasti iniziano a deporre sali di calcio a livello dell’osteoide portando alla formazione di tessuto osseo non lamellare. Successivamente gli osteoblasti rimangono intrappolati in lacune immerse nella matrice in fase di ossificazione e si trasformano in osteociti.

A questo punto inizia un processo di rimodellamento osseo mediato dall’attività catabolica degli osteoclasti e dalla nuova apposizione di tessuto osseo da parte degli osteoblasti. [16] Questo processo di rimodellamento è fondamentale perché porta a sostituzione del tessuto osseo non lamellare in tessuto osseo lamellare, che assolve in maniera migliore alle funzioni del tessuto stesso. Il rimodellamento inoltre permette di modellare precisamente la forma e il raggio di curvatura delle ossa.

Se si considera invece il processo di guarigione da un punto di vista funzionale si possono ritrovare cinque fasi principali[6]:

• Stabilizzazione interframmentaria: è garantita dalla formazione del callo osseo periostale, del callo osseo endostale e dalla formazione di fibrocartilagine interframmentaria.

• Ripristino della continuità e della consolidazione ossea: è dovuta all’ossificazione intramembranosa ed endocondrale.

• Sostituzione di aree necrotiche ed ischemiche: processo che avviene grazie al rimodellamento haversiano.

• Modellamento della rima di frattura. • Adattamento funzionale.

Guarigione delle fratture dopo osteosintesi

Con il termine di osteosintesi (dal greco οστέον: osso e συντίθημι: mettere insieme) si indica qualsiasi intervento chirurgico volto ad affrontare e/o stabilizzare i frammenti di una frattura attraverso l’impianto di svariati dispositivi (placche, viti, chiodi, fili ecc.). [4]

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La riduzione può essere eseguita mediante delle placche rigide munite di fori per l’inserimento delle viti; mediante chiodi endomidollari con dei fori per delle viti utilizzate per bloccarli; mediante le sole viti o altri dispositivi come i fili di Kirschner (Fig 1.2)

A B C

Figura 1.2 : A) chiodo endomidollare; B) placca avvitata; C) fili di Kirschner

Il metodo della fissazione rigida e compressione interframmentaria con placca e viti richiede l’esposizione del focolaio di frattura e la riduzione anatomica dei frammenti. I capi ossei sono fissati con un mezzo di sintesi rigido, una placca avvitata, che neutralizza le sollecitazioni di taglio, torsione e flessione sul focolaio. Le estremità dei frammenti devono essere perfettamente affrontate e poste in compressione, in modo che non residui alcuno spazio vuoto tra di esse. [4]

Questo sistema ostacola l’azione delle forze deformanti, eliminando così ogni movimento interframmentario. L’assenza di questi movimenti interframmentari è la causa principale che impedisce la formazione del callo osseo esterno. Affinché si verifichi la guarigione diretta, sono necessarie diverse condizioni, tra cui[8]:

• Una perfetta riduzione anatomica della frattura.

• Un precarico (ottenuto dalla compressione esercitata dalla placca) sufficiente ad impedire movimenti tra i frammenti.

• Un’adeguata vascolarizzazione.

Quest’ultima condizione dipende dalla gravità della frattura ma anche dalla manipolazione ossea che si è avuta durante l’applicazione della placca.

In queste fratture, sebbene la riduzione possa essere stata perfettamente eseguita, la continuità microscopica dei frammenti ossei non sarà mai completamente ristabilita. Infatti alla microscopia possono vedersi sia delle zone di contatto che delle zone di incongruenza, definite lacune. Queste lacune in base alla loro dimensione vengono colmate in modo differente: per le lacune di piccole dimensioni (da 150-200μm) si avrà direttamente un riempimento con osso lamellare, mentre per le lacune più grandi si ritroverà prima la

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deposizione di osso primario non lamellare e solo successivamente la sostituzione con osso lamellare. Il riempimento di lacune di diametro massimo di circa 1mm avverrà nel giro di quattro, sei settimane, mentre per quanto riguarda lacune di più grandi dimensioni il tempo necessario alla loro guarigione sarà molto più lungo[6].

Nelle fratture così trattate non si osserva alcuna reazione periostale, ma la consolidazione è affidata alla formazione di nuovi osteoni a ponte tra i frammenti. Gli osteoclasti, infatti, della zona di osso vitale scavano dei tunnel in direzione longitudinale, che attraversano l’osso devitalizzato e penetrano nell’altro frammento di frattura. Dai vasi che seguono gli osteoclasti si differenziano gli osteoblasti, i quali depongono lamelle concentriche sulla parete dei tunnel, dando origine a un nuovo osteone. In pratica, la consolidazione della frattura è affidata al normale processo di rimodellamento osseo. La guarigione primaria è più lenta rispetto a quella biologica e , all’esame radiografico, l’evidenza di callo osseo può essere scarsa o assente, rendendo più difficile la valutazione del grado di consolidazione. Una volta che le lacune sono state riempite, inizia la fase del consolidamento che è un processo molto simile al normale processo di rimodellamento osseo. In tale processo si avrà il riassorbimento delle estremità dei frammenti non vascolarizzate e necrotiche, la sostituzione dell’osso primario a livello delle lacune e la formazione di osso lamellare haversiano. Questo processo si compie grazie alla presenza di unità rimodellanti l’osso (BMU) a livello delle estremità dei frammenti, che sono costituite da coni taglienti di osteoclasti, da vasi sanguigni e da osteoblasti.

Secondo Frost la cinetica del rimodellamento osseo dipende dal reclutamento delle BMU e dalla loro durata di vita[6]. Non ci sono evidenze che nel corso delle fratture aumenti la durata della vita delle BMU, per questo, ad oggi, si ritiene che l’aumentato rimodellamento durante la guarigione di una frattura sia garantito da un incremento del reclutamento di queste unità. Per quanto riguarda l’utilizzo del chiodo endomidollare, bisogna distinguere i chiodi alesati e non alesati a seconda che si proceda, prima del loro impianto, all’alesaggio (o alesatura) del canale endomidollare, ovvero al suo ingrandimento mediante fesatura fino al diametro necessario per inserire l’infundibolo. Questa procedura presenta come inevitabile conseguenza la distruzione della rete vascolare endomidollare: non si ha perciò la formazione di callo osseo endostale e la formazione di un ponte osseo è affidata esclusivamente al callo periostale e indotto. Rispetto alle placche, i chiodi endomidollari realizzano una sintesi più elastica (non neutralizzando del tutto le sollecitazioni meccaniche a livello del focolaio di frattura) e rispettando maggiormente il processo di guarigione biologica (non esponendo il focolaio di frattura). [4]

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La guarigione delle fratture trattate con questa metodica prevede la formazione del callo osseo esterno e del callo osseo indotto. Il primo si crea a causa della mancanza di completa stabilità della frattura (sempre che sia garantita una corretta vascolarizzazione), mentre il secondo deriva dal tessuto di granulazione. Generalmente il callo endostale non è presente a causa della presenza del chiodo endomidollare e dell’utilizzo, in certe circostanze, dell’alesaggio. L’alesaggio è una procedura di ingrandimento del canale midollare che determina un’importante distruzione della vascolarizzazione midollare. Per questi motivi la consolidazione della frattura inizierà dal callo osseo esterno, visto che riceve l’apporto ematico dai vasi periostali. In ogni caso, grazie alla grande capacità angiogenetica midollare, nel giro di poco tempo i vasi sanguigni del circolo midollare si rigenereranno e si estenderanno verso l’esterno dell’infibulo giungendo a livello della parte più interna della corticale. [6]

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Capitolo 2

LE COMPLICANZE DELLA RIPARAZIONE DELLE

FRATTURE E IL LORO TRATTAMENTO

Il tempo necessario per ottenere la consolidazione di una frattura varia in rapporto alla sede e al tipo di lesione, all’età del paziente e alla metodica di trattamento. La consolidazione dovrebbe comportare una strutturazione del callo osseo, valutata in termini di estensione e mineralizzazione sui radiogrammi, sufficiente a sopportare le normali sollecitazioni funzionali del segmento osseo interessato. [4]

Il ritardo della consolidazione e le pseudoartrosi rappresentano due complicanze tardive e locali delle fratture, caratterizzate dall’alterazione della guarigione di una frattura.

Il ritardo di consolidazione

Il ritardo della consolidazione rappresenta una complicanza tardiva locale caratterizzata da una mancata consolidazione di una frattura nel tempo normalmente necessario alla guarigione di quel particolare segmento osseo[10]. Non esiste un limite netto oltre il quale si possa parlare sicuramente di ritardo di consolidazione perché la guarigione di una frattura presenta innumerevoli fattori che ne condizionano la durata. Infatti il tempo necessario ad ottenere una consolidazione dipende dalla sede della frattura, dal tipo di lesione, dall’età del paziente e dal tipo di trattamento utilizzato. I fattori che più frequentemente sono alla base dei ritardi di consolidazione sono:

• La presenza di mobilità a livello dei frammenti: tipicamente causata da una inadeguata stabilizzazione della frattura.

• La presenza di una diastasi tra i frammenti: causata o da perdita di sostanza ossea, o dallo spostamento dei monconi ossei, o dall’interposizione dei tessuti molli, oppure da trazioni o distrazioni dovute alla fissazione interna.

• Il ridotto apporto ematico al sito di frattura: è tipico di traumi di entità elevata ed è causato dalla perdita dei tessuti molli adiacenti e dalla formazione di frammenti liberi e comminuti, non vascolarizzati, nel sito di frattura.

• La lesione estesa del periostio: causata o dal trauma oppure da una eccessiva deperiostizzazione avvenuta durante la sintesi a cielo aperto; la lesione del periostio causa una ridotta vascolarizzazione del focolaio di frattura e una ridotta o assente formazione del callo osseo periostale.

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• L’infezione del focolaio: nonostante non sia una causa primaria e diretta del ritardo di consolidazione, ne favorisce l’insorgenza perché predispone alla mobilizzazione del focolaio, alla formazione di sequestri necrotici, o alla diastasi dei margini per la presenza di tessuto purulento o di granulazione[10].

Il ritardo di consolidazione è anche favorito da alcune condizioni generali del paziente come l’età avanzata, la malnutrizione, il fumo di sigaretta, le ustioni oppure dall’utilizzo di anticoagulanti, di FANS come l’indometacina, o dall’esposizione a radiazioni ionizzanti. Il ritardo di consolidazione è più frequente in alcuni segmenti ossei, come per esempio nella tibia (in caso di fratture esposte e comminute), nel femore distale (per fratture comminute), oppure nel collo del femore o nello scafoide carpale (queste ultime due hanno una maggiore incidenza di ritardi di consolidazione a causa della mancanza del periostio, che comporta una minima formazione del callo esterno)[11].

In ogni caso il fattore più importante nell’insorgenza di questa complicanza è rappresentato dall’entità del danno iniziale, sebbene una corretta terapia della frattura possa ridurne l’incidenza. In casi di trattamento conservativo bisognerebbe ridurre al meglio la frattura e utilizzare apparecchi gessati o tutori in grado di garantire una certo carico, mantenendo comunque una discreta funzionalità muscolare. Queste due accortezze facilitano la vascolarizzazione del focolaio, la formazione del callo esterno e la giusta compressione e stabilizzazione dei frammenti[4].

In casi invece di trattamento cruento bisogna ridurre correttamente la frattura, stabilizzarla, evitare eccessive deperiostizzazioni ed eliminare le eventuali diastasi tra i frammenti. Questo ha una sua rilevanza perché, al fine che si attivino gli osteoblasti e che producano matrice ossea, sono necessari una buona vascolarizzazione, una stabilità della frattura e un grado di tensione capace di stimolarne la crescita cellulare. Quest’ultimo concetto fu ipotizzato da Perren, il quale sostenne che gli osteoblasti si attivano e proliferano solo in presenza di una giusta tensione (di cui non se ne conosce ancora il valore preciso), per cui in caso di diastasi, in cui la tensione è molto bassa, o in caso di eccessiva compressione, in cui la tensione è troppo alta, non si ha l’attivazione degli osteoblasti[10].

Il ritardo di consolidazione da un punto di vista radiografico si presenta con l’estremità dei frammenti di aspetto lanuginoso, con un lieve riassorbimento osseo, la linea di frattura ampia e ben visibile, la presenza del canale midollare aperto su entrambi i versanti e una minima presenza del callo osseo[4].

La diagnosi dovrebbe essere essenzialmente clinica visto che in certi casi all’esame radiografico alcune fratture consolidate possono ancora mostrare alcuni dei segni sopracitati.

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I sintomi e i segni che si possono manifestare riguardano soprattutto il dolore nel momento in cui si applica il carico e i movimenti preternaturali. Questi ultimi possono essere percepiti dall’esame obiettivo grazie alla mobilizzazione passiva del segmento interessato o attraverso il riscontro in scopia.

I ritardi della consolidazione sono processi che possono essere reversibili ma, se non trattati adeguatamente, possono evolvere verso la mancata consolidazione e la pseudoartrosi.

Il trattamento del ritardo di consolidazione è rivolto all’impedire la progressione verso la mancata consolidazione. Nelle forme precoci e senza deformità può essere effettuato con stimolazione elettromagnetica oppure semplicemente con l’aumento della stabilizzazione, la limitazione del carico e l’applicazione di un apparecchio gessato.

Nel caso in cui sia stata utilizzata una fissazione con placca si può togliere una vite e reinserirla con una direzione differente in modo da migliorare la stabilità della frattura. Nel caso in cui sia stato utilizzato un chiodo endomidollare si può bloccarlo attraverso l’utilizzo di viti aggiuntive (in modo da ridurre le forze di rotazione, di taglio e di flessione) oppure rimuovere il chiodo, provvedere ad una alesatura del canale midollare e reinserire un chiodo endomidollare di diametro maggiore, con eventualmente degli innesti ossei[12].

Le Pseudoartrosi

La pseudoartrosi è la mancata consolidazione di una frattura in un tempo superiore ai 6 mesi dall’evento traumatico in associazione alla mancanza di segnali di guarigione negli ultimi tre mesi[2]. Tra tutte le fratture che si verificano ogni anno, le pseudoartrosi presentano un’incidenza di circa il 5-10%. [17] La pseudoartrosi da un punto di vista anatomo-patologico si caratterizza per la presenza di tessuto fibrocartilagineo o fibroso tra i frammenti di frattura[7].

Molteplici studi sono stati condotti in merito al tema delle pseudoartrosi fin dagli anni ’20 quando Albee e Lexer definirono quale pseudoartrosi il momento in cui la consolidazione non può essere portata a termine se non con un nuovo stimolo biologico. Da allora diversi autori hanno apportato conoscenze fondamentali sui meccanismi osteogenetici riparativi, ponendo l’accento sui fattori di rischio di una non-union.

I processi che portano all’instaurarsi di una pseudoartrosi oggi sono stati codificati e possono essere dovuti a fattori legati alla condizione stessa del paziente al momento del trauma e/o durante la fase seguente di riparazione dell’osso.

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L’età, il sesso, le condizioni fisiche (diabete , osteoporosi, massa muscolare), le abitudini di vita (dieta, fumo, alcol) e le terapie farmacologiche associate sono tutti fattori di rischio generale, che hanno un sicuro ruolo nel determinare difetti di consolidazione della frattura. I fattori di rischio locali che possono favorire l’evoluzione di una frattura verso una pseudoartrosi sono legati al meccanismo traumatico di produzione del trauma, alle tipologie di fratture ed alle lesioni ad essa associate. [13]

Classificazione

Classicamente le pseudoartrosi si suddividono in ipertrofiche, atrofiche od oligotrofiche. Queste tre tipologie differiscono sia da un punto di vista patogenetico, sia anatomopatologico, che radiografico.

Le pseudoartrosi ipertrofiche vengono definite anche ipervascolari, sono caratterizzate dalla presenza di estremità ampie e voluminose (a clava), dalla presenza del canale midollare obliterato alle estremità (segno di un deficit del callo osseo endostale) e dal riscontro di ingente sclerosi. All’esame radiologico si ritrovano i monconi ossei addensati e deformati a “zampa di elefante”, con numerosi osteofiti marginali reattivi; inoltre la struttura del canale midollare per 2-3cm può non essere più visibile (fig. 2.1).

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La pseudoartrosi atrofica può essere a sua volta divisa in pseudoartrosi senza perdita di sostanza e pseudoartrosi con perdita di sostanza.

All’interno delle pseudoartrosi atrofiche senza perdita di sostanza si possono ritrovare[14]: • Le pseudoartrosi distrofiche: caratterizzate dalla presenza di un frammento intermedio con ridotto apporto ematico.

• Le pseudoartrosi necrotiche: caratterizzate dalla presenza di un frammento necrotico.

• Le pseudoartrosi atrofiche: caratterizzate dalla presenza dei capi ossei atrofici e osteoporotici e dalla mancanza di frammenti intermedi.

Quest’ultima è caratterizzata da una estesa atrofia ossea a partenza dal focolaio della frattura, dalla mancanza della formazione del callo osseo e dei processi reattivi e dalla presenza di tessuto fibroso lasso nello spazio interframmentario. Dal punto di vista radiologico si riconosce in maniera evidente la rima della frattura e si individuano i monconi ossei ridotti, atrofici e smussati.

Le pseudoartrosi con perdita di sostanza sono delle mancate consolidazioni in cui si presenta una perdita di sostanza estesa, tale, in certe circostanze, da ridurre l’osso coinvolto a due esili monconi metafisari[14].

L’esame radiologico mostra i monconi di frattura atrofici, appuntiti ed assottigliati con un aspetto tipico a “fiamma di candela” (Fig. 2.2)

Figura 2.3: pseudoartrosi atrofica con perdita di sostanza

Le pseudoartrosi oligotrofiche presentano delle caratteristiche intermedie tra le forme ipertrofiche e le forme atrofiche. Infatti sono delle pseudoartrosi che possiedono i frammenti ancora vitali e non atrofici, ma non evidenziano la presenza del callo osseo.

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Le pseudoartrosi possono anche classificarsi in lasse o serrate in relazione alla presenza o meno di movimenti preternaturali dei frammenti ossei. Le caratteristiche che permettono la formazione dell’una o dell’altra tipologia sono rappresentate dall’istologia e dalla quantità del tessuto interframmentario. Le pseudoartrosi lasse, dal punto di vista istologico, si avranno più facilmente se sarà presente tessuto fibroso; in presenza di tessuto fibrocatilagineo invece prevarranno le pseudoartrosi serrate. Se si considera invece la quantità di tessuto interframmentario, si nota che maggiore è lo spessore, maggiore è la probabilità di avere una pseudoartrosi serrata.

Alla luce di queste considerazioni si evince che le pseudoartrosi ipertrofiche saranno sempre serrate mentre quelle atrofiche potranno essere sia lasse che serrate in relazione al grado di atrofia, di perdita di sostanza e delle caratteristiche del tessuto interframmentario.

Le pseudoartrosi ipertrofiche sono spesso causate dall’instabilità dei frammenti di frattura e sono caratterizzate dalla formazione di un ampio callo, il quale però, in questa condizione morbosa, non verrà sostituito da matrice ossea.

La pseudoartrosi atrofica senza perdita di sostanza, nella maggior parte dei casi, deriva da una carenza vascolare a livello del callo osseo. La pseudoartrosi atrofica con perdita di sostanza è più frequentemente associata a fratture infette o contenenti ampie aree necrotiche.

Eziopatogenesi

I fattori che favoriscono l’insorgenza di questa patologia ricalcano le cause del ritardo della consolidazione, essendo la pseudoartrosi l’evoluzione irreversibile di quest’ultimo difetto. Alcuni fattori però meritano una particolare attenzione come per esempio: il varismo e la procurvazione di un segmento osseo, l’insufficiente contenzione, la diastasi dei frammenti, la necrosi ossea, la perdita di sostanza ed errori nel trattamento chirurgico[14].

Clinica

Le pseudoartrosi presentano come sintomo principale il dolore, mentre tra i segni più frequenti si annoverano i movimenti preternaturali e le deformità.

Il dolore è causato dall’attrito dei frammenti durante i loro microspostamenti l’uno sull’altro; il dolore è un sintomo incostante, presenta un’intensità molto variabile e normalmente è più evidente a livello dell’arto inferiore perché maggiormente soggetto a carico. Il dolore si esacerba durante i movimenti attivi o durante la movimentazione passiva attuata all’esame

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obiettivo. In caso di pseudoartrosi formatesi dopo l’applicazione di una placca, la sintomatologia dolorosa può essere molto sfumata.

I movimenti preternaturali rappresentano un segno caratteristico delle pseudoartrosi, sono causati dai movimenti dei monconi ossei dovuti alla mancata consolidazione e possono essere più o meno evidenti in base alla lassità o meno del tessuto interframmentario. Questi movimenti possono essere impercettibili nelle forme serrate, mentre sono più accentuati nelle pseudoartrosi lasse, in cui si possono apprezzare mobilizzando passivamente e manualmente il segmento coinvolto. Può essere difficile apprezzare movimenti preternaturali nel caso in cui la frattura sia vicina ad una articolazione.

Le deformità invece sono causate da un disallineamento o da un parziale risalita dei capi di frattura.

Diagnosi

La diagnosi di pseudoartrosi è sostanzialmente clinica e radiologica; il sospetto di questa patologia deve insorgere quando è presente una mancata guarigione della frattura per un periodo superiore ai 6-9 mesi, in assenza di miglioramenti radiografici e in presenza di immagini compatibili con un quadro di pseudoartrosi (assenza di ponti ossei tra le corticali, rima della frattura evidente, diastasi dei capi ossei, canale midollare chiuso, perdita di sostanza, atrofia, immagini a “zampa di elefante” o a “fiamma di candela”).

I pazienti spesso presentano uno o più fattori favorenti il ritardo o la mancata consolidazione e possono manifestare la triade sintomatologica classica. [10]

Terapia

La terapia è chirurgica ed è guidata dai seguenti principi:

- rimuovere il tessuto fibroso, fibro-cartilagineo e necrotico interposto tra i frammenti ossei;

- favorire la rivascolarizzazione, ripristinando la pervietà del canale midollare; - portare a contatto i capi di frattura e realizzare una fissazione stabile degli stessi; - colmare la perdita di sostanza ossea con materiale biologico a componente cellulare

osteogenica (autotrapianto osseo) oppure con materiale biologico e sostanze osteoinducenti (allotrapianto e BMP)

- se si utilizzano fissatori esterni, stimolare una ripresa dell’attività osteogenetica con la distrazione/compressione meccanica della pseudoartrosi.[4]

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Solo con una buona conoscenza del tipo di frattura (semplice-stabili, complesse-instabili, comminute- altamente instabili, segmentarie-potenzialmente instabili), del meccanismo con la quale si è verificata (traumi a bassa energia, traumi ad alta energia) e delle eventuali situazioni concomitanti determinate dal trauma stesso (danni vascolari, regione interessata, gap interframmentario) è possibile pianificare un trattamento adeguato che riduca, per quanto possibile, le probabilità che la frattura evolva verso un fallimento terapeutico con l’insorgenza di una pseudoartrosi. Le fratture diafisarie di tipo C (Classificazione AO di Muller del 1984) sono quelle che hanno una maggiore tendenza ad evolvere in pseudoartrosi (40% tipo C, 15% tipo B, 6% tipo A di fratture diafisarie di femore).

Nella nuova classificazione NUSS (Non Union Scoring System) del 2008, in pratica, sono considerate tutte le variabili in gioco ed i fattori di rischio, attribuendo a ciascuno un punteggio basato sulla esperienza clinica e sulle evidenze scientifiche e definendo altresì una linea di trattamento a seconda del punteggio finale.

Lo score finale, ricavato dalla somma dei singoli punteggi, di fatto, permette di comparare pazienti diversi con pseudoartrosi diverse, rendendoli oggettivamente confrontabili secondo un principio di complessità.

Forme atrofiche di pseudoartrosi possono infatti avere migliore prognosi e maggiori possibilità di cura da forme oligotrofiche reattive, in pazienti affetti da compromissione dello stato generale di salute, come per esempio per un diabete scompensato.

Le variabili considerate sono:

• l’osso (qualità, tipo di frattura primaria, numero di interventi precedenti e loro invasività, classificazione della pseudoartrosi secondo Weber e Cech, adeguatezza del primo intervento in ordine alla stabilità meccanica, allineamento, gap osseo);

• i tessuti molli (stato dei tessuti, vascolarizzazione ed eventuali interventi su parti molli/cutanee di copertura);

• il paziente (grado ASA [American Society of Anesthesiologists], diabete, esami di laboratorio, stato infettivo, farmaci assunti e fumo).

Il valore numerico della pseudoartrosi, misurato in base 100, definisce, così, quattro gruppi di severità con loro indicazione chirurgica:

• 1° gruppo con punteggio 0/25, costituisce un problema di tipo prevalentemente meccanico; il trattamento indicato è necessariamente la stabilizzazione del focolaio, ottimizzando ovvero modificando il sistema di osteosintesi.

• 2° gruppo con punteggio 26/50, costituisce un problema di tipo sia biologico che meccanico; il trattamento richiede correzione della sintesi e stimolazione biologica del focolaio, ottenuta

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con l’ausilio di mezzi fisici (campi elettromagnetici pulsati [CEMP], onde d’urto extracorporee [ESWT]).

• 3° gruppo con punteggio 51/75. È un problema complesso caratterizzato da estrema gravità sia delle condizioni biologiche che meccaniche. È quasi sempre richiesta la resezione del focolaio e quindi presente una perdita di sostanza ossea che deve essere ripristinata. È questo l’ambito che trova maggiore indicazione per le biotecnologie (applicazione di cellule, scaffold e fattori di crescita).

• 4° gruppo con punteggio 76/100. Sono pseudoartrosi di tale gravità da essere assimilate ad un problema pressoché irrisolvibile e che pertanto possono richiedere una amputazione artuale primaria.

Le pseudoartrosi, infine le dobbiamo suddividere in relazione a: assenza, piccolo e critico

bone defect.

Quest’ultima categoria viene diversamente classificata a seconda del distretto anatomico interessato ovvero: > di 3 cm per l’avambraccio; > di 4 cm per la tibia; > di 6 cm per l’omero ed il femore.

Le pseudoartrosi così inquadrate inoltre, avranno differenti indicazioni di trattamento a seconda che siano localizzate a livello diafisario, metaepifisario o epifisario.

Così definite si può ipotizzare un algoritmo di trattamento (Fig. 2.4) che prenda in considerazione tutti i punti sovraesposti ovvero:

1. Pseudoartrosi assenza bone defect:

• diafisaria, inchiodamento endomidollare (IEB) con o meno applicazione di fattori di crescita ossea (BMP-7);

• metaepifisaria IEB o fissazione interna a stabilità angolare (ASIF) con o meno applicazione di BMP-7;

• epifisaria, ASIF con o meno applicazione di BMP-7 2. Pseudoartrosi con piccolo bone defect:

• diafisaria, IEB in associazione a BMP-7, scaffold con o meno applicazione di cellule mesenchimali autologhe concentrate (MSC);

• metaepifisaria, ASIF preferibile alla fissazione esterna (EF) non in ligamentotassi in associazione a BMP-7, scaffold con o meno applicazione di MSC;

• epifisaria, ASIF preferibile EF in ligamentotassi in associazione a BMP-7, scaffold con o meno applicazione di MSC.

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3. Pseudoartrosi con critical bone defect:

• diafisaria, trasporto con EF in associazione a BMP-7 al docking point, o ASIF in associazione ad alloinnesto massivo imbibito con MSC adiuvato da BMP-7, ASIF in associazione a scaffold (xeno +allo) imbibito con MSC adiuvato da BMP-7;

• metaepifisaria ASIF con allo innesto massivo imbibito con MSC adiuvato da BMP-7; • epifisaria, artrodesi.

In caso di pseudoartrosi settiche diventa mandataria la rimozione dei mezzi di sintesi, un’idonea toilette chirurgica tissutale, l’asportazione completa del tessuto malacico pseudoartrosico infetto (en-block), la costituzione di una nuova camera biologica ottenibile attraverso diverse metodiche: transporto con EF in associazione a BMP-7 al docking point, innesto di matrice ossea demineralizzata antibiotata in associazione a scaffold + cast; cemento antibiotato fino alla normalizzazione degli indici di flogosi e delle indagini radiologiche con EF, seguita dall’asportazione del cemento antibiotato, applicazione di autograft ottenuto con tecnicna RIA adiuvato da BMP-7 e osteosintesi con ASIF. [13]

Figura 2.4: algoritmo di trattamento per le pseudoartrosi. A: nessuna perdita ossea (BD); B: piccola perdita ossea; C: perdita ossea critica; α: diafisaria; β: metaepifisaria; γ: epifisaria; IMN: Intramedullary Locking

Nailing; ASIF: Internal Fixation With Angular Stability; EF: External Fixator.

Analizzando più nello specifico le tecniche di trattamento, quindi la terapia può essere chirurgica o non chirurgica. La terapia non chirurgica è rappresentata da apparecchi gessati con astensione dal carico e terapia elettromagnetica[12]. Quest’ultima è mirata alla

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stimolazione biologica del tessuto osseo tramite l’utilizzo di campi elettromagnetici pulsanti (CEMP) od onde d’urto extracorporee (ESWT), che hanno la capacità di indurre l’osteogenesi e di ridurre un eventuale processo infiammatorio in atto.

Queste tecniche possono essere utilizzate in casi di ritardi di consolidazione o in casi di pseudoartrosi in fase iniziale, serrate o in casi di minima o assente deformità o perdita di sostanza; spesso queste tecniche richiedono una lunga immobilizzazione, cosa che può favorire l’insorgenza di osteoporosi locale, atrofia muscolare e rigidità articolari.

Nella maggior parte dei casi il trattamento di elezione di una pseudoartrosi è rappresentato dall’intervento chirurgico.

Normalmente si utilizza una fissazione interna in modo tale da garantire una stabilità e una compressione interframmentaria. La fissazione interna può essere eseguita con viti e con placche metalliche che garantiscono una compressione sui frammenti e che possono essere inseriti in innesti ossei oppure direttamente nei monconi di frattura.

Quando le diastasi tra i frammenti superano i 5-7cm si può utilizzare come trattamento il metodo di Ilizarov[11].

Il metodo di Ilizarov è una tecnica utilizzata non solo per la terapia delle pseudoartrosi ma anche per allungare gli arti e per correggere alcune deformità. Questa metodica sfrutta il principio dell’osteogenesi distrazionale da corticotomia. Questa viene eseguita tramite una corticotomia grazie ad un osteotomo tagliente (risparmiando la circolazione midollare e i vasi nutritizi) e successivamente si utilizzano un fissatore circolare con fili metallici in tensione e un fissatore assiale monolaterale (fig. 2.5-2.6).

Figura 2.5 - Fissatori circolari di Ilizarov. Figura 2.6 - Immagine radiografica di una pseudoartrosi trattata con il metodo di Ilizarov.

Questi hanno lo scopo di allungare gradualmente l’osso. L’allungamento viene iniziato dopo una settimana di latenza e continua sino a che non si sia raggiunta la lunghezza desiderata.

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Durante questo allungamento distrazionale il gap tra i capi ossei si riempie e si ossifica progressivamente.

Gli innesti ossei presentano tre funzioni fondamentali: • La funzione strutturale meccanica.

• L’osteoconduttività: capacità di creare l’impalcatura su cui si può sviluppare il nuovo tessuto osseo.

• L’osteoinduttività: capacità di stimolare la rigenerazione ossea.

Quest’ultima proprietà è garantita da cellule e fattori di crescita forniti dall’innesto.

L’innesto osseo può essere autologo, se prelevato dallo stesso paziente, o omologo, se prelevato da donatore o cadavere. Lo svantaggio degli innesti omologhi è l’assenza di osteoinduttività, mentre il vantaggio è rappresentato dal minor dolore post-operatorio.

La fissazione interna può anche essere eseguita tramite un chiodo endomidollare in bloccaggio statico o dinamico, dopo aver eseguito un alesaggio del canale midollare. Questa ultima tecnica è maggiormente utilizzata nella terapia delle pseudoartrosi dell’arto inferiore. In certe circostanze può essere utilizzata anche una cruentazione con lo scopo di stimolare la rivascolarizzazione e di accelerare la guarigione. La cruentazione è definita anche decorticazione e consiste nel distaccare sottili frammenti osteo-periostali dalla superficie esterna della corticale o del callo osseo adoperando uno scalpello o un osteotomo tagliente. Invece nella situazione in cui si avrà un osso osteoporotico e non si potrà effettuare una decorticazione (per evitare di indebolire troppo la corticale), si potrà eseguire o una scarificazione a petali (petalizzazione) o delle perforazioni[10].

Un intervento molto utilizzato nelle pseudoartrosi è l’utilizzo di una placca con un innesto osseo [14].

Un trattamento particolare si esegue in caso di pseudoartrosi ipertrofiche del femore e della tibia con asse di carico alterato. Questo trattamento è chiamato osteotomia parafocale di direzione ed è caratterizzato dal ripristino del normale asse di carico grazie ad una osteotomia di direzione al di sotto della frattura e in seguito all’utilizzo di una placca raccordata ad un innesto corticale contrapposto[14].

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Capitolo 3

UTILIZZO DI CELLULE STAMINALI MESENCHIMALI PER

IL TRATTAMENTO DELLE PSEUDOARTROSI

L’osso è un tessuto capace di rigenerarsi; in diverse situazioni possono esserci alterazioni del metabolismo locale che alterano tale processo. In traumatologia, spesso si assiste alla generazione di pseudoartrosi o ritardi di consolidazione delle fratture: le ragioni sono dovute principalmente alla predisposizione anatomica di specifici siti di frattura, tipicamente quelli con un basso apporto di sangue (come il terzo distale della tibia, il talo e il calcagno nell’arto inferiore; la diafisi omerale e l’avambraccio nell’arto superiore); anche errori tecnici durante la fissazione possono causare ritardi o difficoltà nella riparazione. [1]

La terapia cellulare è diventata una delle modalità più promettenti per il trattamento di difficoltà nella riparazione ossea, come nelle pseudoartrosi o negli estesi difetti ossei. Le cellule staminali mesenchimali (MSC) sono senza dubbio le uniche candidate per la rigenerazione ossea basata su terapie cellulari. [7]

Durante il processo di riparazione dell’osso, la via del normale sviluppo embriogenico viene ripercorsa con la compartecipazione di diverse linee cellulari. [4].

La comprensione attuale della guarigione delle fratture ha posto l’attenzione su un gran numero di fattori a livello molecolare che si uniscono a principi fisiologici e biomeccanici. L’interazione coordinata di questi diversi elementi crea il complesso processo della guarigione ossea. Ogni deficit espresso ad un qualunque livello del ciclo di guarigione altera la sequenza fisiologica della riparazione della frattura e predispone a complicanze.

La rigenerazione ossea prevede l’utilizzo di fattori di crescita, scaffold e cellule staminali mesenchimali (concetto triangolare); ma anche l’ambiente meccanico è considerato un elemento importante nella rigenerazione ossea. Questi sono i 4 fattori che entrano in gioco nella “teoria del diamante” enunciata da Giannoudis nel 2007.

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Figura 3.1: la “teoria del diamante”

 Le cellule staminali mesenchimali (MCS) vengono reclutate a livello del sito di frattura o vi arrivano con la circolazione sanguigna. La risposta del midollo osseo alla frattura include una riorganizzazione precoce della popolazione cellulare in aree di alta e bassa densità cellulare. Le aree con alta densità sono quelle in cui avviene la maturazione delle MCS in cellule con un fenotipo osteoblastico.

 I fattori di crescita vengono secreti dalle cellule endoteliali, dalle piastrine, dai macrofagi, dai monociti, ma anche dalle MCS, dai condrociti e dagli stessi osteoblasti. Infatti, l’ematoma della frattura è stato dimostrato essere una fonte di questi fattori (interleuchine/ IL-6, IL-1; tumor necrosis factor/ TNF-α; insulin-like growth factor/ IGF; plateled-derived growth factor/PDGF; vascular endotelial growth factor/ VEGF; trasforming growth factor β/ TGF-β) che innescano una cascata di eventi cellulari che fanno iniziare la guarigione. [3] Le proteine morfogenetiche dell’osso (BMP), che fanno parte della superfamiglia delle TGF-β, sono molecole ben conosciute per avere proprietà osteoinduttive che esprimono a livello delle cellule osteoprogenitrici inducendone la loro proliferazione e differenziazione. [4]

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 La matrice extracellulare fornisce lo scaffold naturale per gli eventi e le interazioni cellulari.

 La stabilità meccanica è un fattore cruciale per la guarigione ed è essenziale per la formazione del callo che crea un ponte a livello del sito di frattura premettendo che i carichi vengano trasmessi lungo la linea di frattura. La maturazione progressiva del callo da osso trabecolare a lamellare dipende da questa stabilità. [3] Le metodiche di stabilizzazione meccanica variano a seconda del tipo di lesione: alcuni esempi sono la tecnica ORIF (riduzione a cielo aperto e fissazione interna) in cui viene esposto il focolaio di frattura oppure tecniche come la fissazione esterna e la sintesi con chiodi endomidollari che spesso consentono di non violare il focolaio di frattura. Una buona vascolarizzazione dell’area di lesione ed il massimo rispetto dei tessuti molli circostanti sono considerati un prerequisito fondamentale di cui tener conto nella scelta della metodica di fissazione.

Nel 2011 è stato proposto il concetto di “camera biologica” (biological chamber) per porre l’attenzione sul fatto che bisogna sviluppare a livello del sito di frattura un ambiente biologico ideale, dove i processi molecolari e biologici possano avvenire in modo da facilitare una più precoce e completa osteogenesi. Il concetto di “camera biologica” rappresenta il cuore della “teoria del diamante”.

Tra le proprietà di questa “camera biologica” un prerequisito fondamentale è la vascolarizzazione: una buona vascolarizzazione garantisce il trasporto e il rifornimento di ossigeno, nutrienti, fattori di crescita e cellule osteoprogenitrici. La camera biologica potrebbe operare come un ambiente a permeabilità variabile (chiuso, semi-aperto o aperto) in base alle esigenze della lesione: dovrebbe essere contemporaneamente sia una nicchia protetta dall’ambiente esterno, sia permeabile a sostanze nutritizie, fattori di crescita e cellule staminali mesenchimali derivate dal circolo ematico. Nel caso in cui la “camera biologica” fosse rigidamente chiusa le molecole segnale e le cellule progenitrici deriveranno solamente dal canale midollare, perdendo così il supporto rigenerativo derivante dai tessuti a distanza. Quindi, il concetto delle “camera biologica” posta al cuore della “teoria del diamante” permette al clinico di considerare l’ambiente molecolare in un modo più complesso e strutturato. [4]

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LE CELLULE STAMINALI MESENCHIMALI

Le cellule staminali mesenchimali (MSC) sono cellule stromali non ematopoietiche che possiedono una capacità differenziativa multipotente che le rende capaci di formare diversi tessuti, come l’osso, la cartilagine, il tessuto adiposo , i tendini e i muscoli (Fig. 3.2 ) [5]

Figura 3.2 :sorgenti e tipi cellulari derivati dalle MSC

Il termine MSC è stato coniato nel 1991 da Caplan e il concetto può essere ricondotto a esperimenti che hanno dimostrato che il trapianto di midollo osseo in siti eterotopici portava alla formazione di osso de novo. Friedenstein et al. negli anni 1960 e 1970 hanno dimostrato che la capacità osteogenica del midollo osseo era associata a una sottopopolazione minoritaria di cellule midollari. Queste cellule potevano essere distinte dal resto delle cellule del midollo osseo (cellule ematopoietiche) grazie alla loro rapida adesione ai terreni di coltura e alla forma simile ai fibroblasti della loro progenie in coltura, suggerendo che la loro origine era diversa da quella delle cellule ematopoietiche del midollo osseo. [7]

La Mesenchymal and Tissue Stem Cell Committee of the International Society for Cellular Therapy ha proposto dei criteri minimi per poter identificare le MSC umane:

 MSC devono aver la capacità di aderire a materiale plastico.

 MSC devono esprimere CD105, CD73 e CD90.

 MSC non devono esprimere CD45, CD34, CD14, CD11b, CD79a, CD19 e molecole di superficie HLA-DR.

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