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PCSK9: target innovativo per lo sviluppo di anticorpi monoclonali nel trattamento dell’ipercolesterolemia.

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Academic year: 2021

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Sommario

1. INTRODUZIONE ... 3 1.1 Rischio Cardiovascolare ... 3 1.2 Ipercolesterolemia ... 12 1.2.1 Patogenesi ... 12 1.2.2 Tipologie di Ipercolesterolemia ... 15 1.2.3 Diagnosi ... 16 1.2.4 Fattori di Rischio ... 18 1.2.5 Terapie Usuali ... 19 1.2.6 Approccio Terapeutico... 23 1.2.7 Terapie Innovative ... 23 2. PCSK9 ... 24 2.1 Scoperta ... 24 2.2 Struttura ... 26 2.3 Attività di PCSK9 ... 28 2.4 Produzione endogena di PCSK9 ... 32 2.5 Ruoli Secondari di PCSK9 ... 35 2.6 Terapia Farmacologica su PCSK9 ... 35 3. ANTICORPI MONOCLONALI ... 36 3.1 Farmacocinetica ... 43 3.1.2 Assorbimento ... 44

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2 3.1.2 Distribuzione ... 47 3.1.3 Eliminazione ... 49 3.1.4 Conclusione ... 51 3.2 Immunogenicità ... 52 3.3 Farmacodinamica ... 54 4. ALIROCUMAB ... 57 4.1 Studi Clinici ... 58 4.1.1 Studio di Fase I ... 59 4.1.2 Studi di Fase II ... 66

4.1.3 Studio di Fase III ... 83

4.2 Farmacocinetica ... 105 4.2.1 Assorbimento ... 105 4.2.2 Distribuzione ... 106 4.2.3 Eliminazione ... 106 4.3 Immunogenicità ... 107 4.5 Reazioni Avverse ... 107 5. CONCLUSIONE ... 109 6. BIBLIOGRAFIA ... 113

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1. INTRODUZIONE

In questa tesi è trattato un nuovo promettente target per la terapia dell’ipercolesterolemia e un farmaco, della famiglia degli anticorpi monoclonali, che agisce inibendo questo target e favorendo la riduzione del colesterolo LDL. L’ipercolesterolemia in questi anni è diventata uno dei principali fattori di rischio delle malattie cardiovascolari, che sono la principale causa di morte nel mondo. Per questo motivo la scoperta di nuove terapie aumenta la speranza di ridurre la mortalità o morbilità di queste patologie.

1.1 Rischio Cardiovascolare

Per rischio cardiovascolare si intende un indice che permette di calcolare la probabilità di contrarre una patologia cardiovascolare o cerebrovascolare. C’è un insieme molto ampio di fattori che in forma più o meno grave possono provocare patologie cardiovascolari. Le patologie cardiovascolari possono essere più o meno mortali e ciò dipende dalla patologia stessa e dall’intensità del danno prodotto, anche se in qualsiasi modo sono invalidanti.

Le malattie cardiovascolari sono la maggiore causa di morte nel mondo nonostante siano delle patologie molto studiate e di cui conosciamo bene sia i fattori di rischio che le conseguenze.

Il rischio cardiovascolare è stato definito per la prima volta nel 1949 in uno studio nella cittadina di Framingham, nel Massachussetts condotto dal cardiologo statunitense Thomas Royle Dawber (Dawber, Kannel et al. 1963). Il problema delle malattie cardiovascolari si è posto negli anni della seconda guerra mondiale tra il 1940 e il 1950 in quanto in America si verificavano sempre più frequenti casi di mortalità o morbilità cardiovascolare nelle donne al di sotto dei 60 anni (Dawber, Meadors et al. 1951). L’approccio a questa malattia in quegli anni è stato di due tipi, c’era chi si proponeva di trovare dei farmaci per curare le malattie cardiache e chi invece credeva che era possibile attraverso la prevenzione ridurre il rischio di

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contrarre una malattia cardiovascolare. Dawber è stato uno di quegli scienziati che ha promosso la teoria della prevenzione e attraverso il primo studio di coorte longitudinale della storia ha definito i fattori di rischio collegati all’insorgenza di una qualsiasi patologia cardiovascolare attraverso l’analisi di ogni singolo fattore di rischio preso però individualmente (Dawber, Meadors et al. 1951).

Oggi proseguendo lo studio di Dawber abbiamo scoperto che i fattori di rischio non vanno presi individualmente, ma che essi interagiscono tra loro provocando una complessa rete multifattoriale.

Inoltre sappiamo che la somma dei fattori di rischio non è sempre additiva, ma la presenza di più fattori di rischio, con poca rilevanza clinica se presi singolarmente, può portare all’insorgenza di una grave patologia cardiovascolare.

Per questo motivo a seguito di vari studi sempre sulla popolazione di Framingham nel 2008 sono uscite le linee guida per definire meglio il rischio cardiovascolare. È stato definito in questa circostanza il rischio cardiovascolare globale, come una funzione che serve a stimare la probabilità di incorrere in una qualsiasi malattia cardiovascolare (CHD, malattia cerebrovascolare, claudicatio intermittens, insufficienza cardiaca, etc.) (D'Agostino, Vasan et al. 2008).

Per calcolare il rischio assoluto c’è una tabella che considera i fattori di rischio secondo un determinato punteggio. I fattori di rischio sono divisi in due gruppi: - fattori non modificabili: sono i fattori di rischio che non possono essere migliorati né in modo naturale né attraverso i farmaci. I fattori non modificabili sono: età, sesso (gli uomini sono più esposti rispetto alle donne in pre-menopausa) e la familiarità.

- fattori modificabili: sono fattori che possono essere migliorati e quindi permettono di prevenire, attraverso uno stile di vita sano o attraverso cure farmacologiche, lo svilupparsi di malattie cardiovascolari, questi fattori sono: dislipidemie, ipertensione, diabete, fumo e sedentarietà.

Per convenzione oggi il rischio è calcolato come la percentuale di probabilità di incorrere in una malattia cardiovascolare nei 10 anni successivi.

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Tra i fattori più importanti per il rischio cardiovascolare abbiamo la dislipidemia, in particolare l’ipercolesterolemia e l’ipertrigliceridemia. Questi due fattori di rischio sono molto importanti in quanto provocano uno stato aterosclerotico dei vasi e l’aterosclerosi si è visto essere la causa del 30% di decessi nella popolazione mondiale (Alwan, Maclean et al. 2010).

L’aterosclerosi è un processo infiammatorio a livello dell’endotelio vasale e può essere osservato grazie all’aumento delle molecole di adesione endoteliale (Deanfield, Halcox et al. 2007).

Le molecole di adesione scatenano il processo infiammatorio che porta alla liberazione delle citochine che sono i primi mediatori del processo infiammatorio, tra queste citochine abbiamo il TNF-α (fattore necrosi tumorale α), l’interleuchina-6 (IL-l’interleuchina-6), l’interleuchina-2 (IL-2) e l’interferone γ (INF-γ) (Boekholdt and Stroes 2012). Lo stato infiammatorio cronico provoca altre conseguenze a livello periferico, ad esempio induce una resistenza all’insulina che quindi non riesce ad attivare la captazione del glucosio dal circolo sanguigno. In parallelo cellule mononucleate penetrano all’interno della tunica intima aumentando lo stato infiammatorio. Vengono inoltre attivati fortemente i macrofagi che captano il colesterolo LDL ossidato. L’attivazione massiva dei macrofagi non solo aumenta la liberazione di citochine pro-infiammatorie ma provoca anche la migrazione del tessuto muscolare verso la parete endoteliale dove si trova il centro dell’infiammazione. Dopo l’attivazione di questo processo infiammatorio l’ateroma si alimenta attraverso la continua deposizione di lipidi sulla parete del vaso. Il sistema per contrastare questa lesione del vaso va a produrre collagene in modo da prevenire una possibile rottura, questo però non fa altro che alimentare la parte corpuscolata nella zona della lesione con conseguente ispessimento della placca e aumento della probabilità di eventi tromboembolici (Tousoulis, Papageorgiou et al. 2011). Il progredire di questo evento infiammatorio può portare all’occlusione del vaso su cui si è formata la placca con conseguente necrosi del tessuto a valle di quel vaso (Fig.1).

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Figura 1: Sezione di un vaso in cui si vede la progressione del processo aterosclerotico dovuto alle molecole di LDL-C ossidate.

Prima di passare all’analisi specifica dell’ipercolesterolemia analizziamo uno studio scientifico che ci permette di capire quanto sia importante ridurre l’ipercolesterolemia per ridurre il rischio cardiovascolare.

Lo studio che riporto è uno studio di meta-analisi fatto da CTT (Cholesterol Treatment Trialists’ Collaboration) che raggruppa dati di studi individuali fatti su circa 170 000 individui in 26 studi randomizzati sulla terapia con le statine. Questo studio è stato diviso in 2 gruppi, il primo studio è quello che analizza la concentrazione delle statine (more versus less statin) mentre il secondo è uno studio tra statine e i controlli (statin versus control).

Nel primo studio dove si analizza la variazione di intensità della terapia con varie statine sono stati effettuatati 5 trials e la scelta dei pazienti è stata fatta in base a questo protocollo: in due trials (Cannon, Braunwald et al. 2004; de Lemos, Blazing et al. 2004) sono stati scelti 8 659 pazienti con sindrome coronarica acuta mentre negli altri tre (LaRosa, Grundy et al. 2005; Pedersen, Faergeman et al. 2005; Armitage, Bowman et al. 2010) sono stati scelti 30 953 pazienti con malattia coronarica stabile. Sui 36 612 partecipanti la media ponderata della concentrazione di colesterolo LDL basale era stimata in 2.53 mmol/L, mentre la differenza della media ponderata ad un anno era 0.51 mmol/L e la media ponderata della durata dei follow-up tra i sopravvissuti era 5 anni (2 anni per

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pazienti con sindrome coronarica acuta e circa 6 anni per quelli con malattia cronica stazionaria).

Per quanto riguarda i trials su statine contro controllo (placebo) lo studio è diviso in due parti, il primo trial (Baigent, Keech et al. 2005) coinvolgeva 90 056 pazienti ed era formato da 14 trials mentre per il secondo studio, che è stato fatto in tempi successivi rispetto al primo, i dati derivano da 7 nuovi trials su 39 470 pazienti. Per i nuovi trials i pazienti sono stati scelti seguendo questo protocollo: in due trials i pazienti erano in prevenzione primaria (Nakamura, Arakawa et al. 2006; Ridker, Danielson et al. 2008), in altri due erano pazienti in emodialisi (Wanner, Krane et al. 2005; Fellstrom, Jardine et al. 2009) e gli altri 3 trials erano costituiti da pazienti con malattia coronarica (Koren and Hunninghake 2004), diabete (Knopp, d'Emden et al. 2006) e insufficienza cardiaca (Tavazzi, Maggioni et al. 2008). Nella tabella sottostante possiamo vedere nel dettaglio i criteri di selezione dei pazienti nei vari trials.

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Tabella 1: caratteristiche di base e criteri di eleggibilità dei partecipanti al trial (Baigent, Blackwell et al. 2010)

In generale nei 129 526 partecipanti a questi 21 trials la media ponderata della concentrazione di colesterolo basale era 3.70 mmol/L, la media ponderata della

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differenza ad un anno era 1.07 mmol/L e la media ponderata della durata dei follow-up tra i sopravvissuti era 4.8 anni.

I risultati di questo studio di meta-analisi su questi trials hanno dimostrato che la riduzione dei livelli di colesterolo LDL in circolo porta a una riduzione del rischio cardiovascolare, questo possiamo vederlo da questi risultati.

Nei 5 trials riguardanti la terapia più o meno intensa con statine è stato visto che gli eventi cardiovascolari sono stati 3 837 (4.5% per anno) su 19 829 nei pazienti con trattamento intensivo mentre 4 416 eventi cardiovascolari su 19 783 nei pazienti con trattamento più leggero, ciò corrisponde ad una significativa riduzione del rischio del 15% (95% CI 11–18; p<0.0001) associato con una media 0.51 mmol/L di riduzione del colesterolo LDL. Quindi possiamo concludere che una grande riduzione del colesterolo provoca una riduzione proporzionalmente più grande del rischio cardiovascolare (tendenza p=0.0004), c’è stata una piccola variazione dopo assestamento della differenza del colesterolo LDL (tendenza p=0.05). In generale la media ponderata della riduzione del primo grande evento vascolare era 28% (95% CI 22–34; p<0.0001) per 1.0 mmol/L di colesterolo LDL ridotto, con riduzione significativa dei maggiori eventi presi singolarmente che portano a questo risultato complessivo.

Dalla meta-analisi dei 21 trials statine contro controllo invece è emerso che hanno avuto un primo grande evento cardiovascolare 7 136 pazienti (2.8% per anno) sui 64 744 partecipanti assegnati alla terapia con statine mentre nel caso dei controlli abbiamo avuto 8 934 (3.6% per anno) eventi cardiovascolari su 64 782. Questi dati corrispondono ad una significativa riduzione del rischio del 24% (95% CI 19–24; p<0.0001) con una riduzione del colesterolo LDL del 1.07 mmol/L.

Dal confronto tra i 21 trials deduciamo che grandi riduzioni assolute di colesterolo LDL provocano una più grande riduzione del rischio cardiovascolare (tendenza p<0.0001) ma non abbiamo avuto nessuna significativa riduzione dopo assestamento dei livelli di colesterolo LDL (tendenza p=0.4). In generale la media

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ponderata della riduzione di un primo grande evento cardiovascolare era del 21% (95% CI 19–23; p<0·0001) per 1.0 mmol/L di riduzione del colesterolo LDL.

In conclusione da questo studio di meta-analisi possiamo ben capire quanto è importante la relazione tra ipercolesterolemia e rischio cardiovascolare. In generale possiamo dire che il primo studio di meta-analisi (Baigent, Keech et al. 2005) ha dimostrato che una riduzione di 1mmol/L di colesterolo LDL provoca una riduzione di un quinto del rischio cardiovascolare nei 5 anni successivi. Mentre nei trials in cui si valutava il rischio in base al dosaggio più o meno intensivo di statine è stato visto in quasi tutti gli studi che aumentando la dose di statine si riduce proporzionalmente il rischio cardiovascolare globale.

Era stato ipotizzato che la riduzione del colesterolo con l’utilizzo di statine potesse comportare l’aumento della frequenza di tumori in alcuni siti particolari, come seno (Sacks, Pfeffer et al. 1996) e apparato gastrointestinale (Shepherd, Blauw et al. 2002), ma in questo studio non è stato trovato alcun collegamento rilevante tra riduzione del colesterolo e insorgenza del tumore, come dimostra il grafico seguente.

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Tabella 2: Effetto sito specifico dell’incidenza del cancro per riduzione di 1mmol/L di colesterolo LDL (Baigent, Blackwell et al. 2010)

Un altro effetto collaterale ipotizzato riguardo alla riduzione del colesterolo LDL è stato quello dell’aumento del rischio di emorragia intracerebrale (ictus cerebrale). In questo studio di meta-analisi sono stati confermati 500 casi di morte per emorragia intracerebrale ma è stato dimostrato che l’abbassamento del colesterolo LDL con statine non provoca un significativo aumento del rischio. Andiamo adesso ad analizzare l’ipercolesterolemia come fattore di rischio cardiovascolare per capirne meglio i meccanismi che provocano l’aumento della concentrazione di colesterolo e per vedere le nuove terapie in studio per curare questo stato fisiologico alterato.

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1.2 Ipercolesterolemia

Per ipercolesterolemia si intende un aumento della concentrazione di colesterolo nel sangue, questo stato fisiologico può essere raggruppato nella famiglia più ampia delle dislipidemie, con cui si considerano tutte la alterazioni lipidiche nel sangue (ipertrigliceridemia, ipocolesterolemia, ipercolesterolemia, etc.). Nel caso dell’ipercolesterolemia abbiamo un aumento del colesterolo, che può essere dovuto a diversi fattori e che provoca effetti potenzialmente pericolosi per la salute.

In Italia, secondo i dati raccolti tra il 1998 e il 2002, il 21% degli uomini e il 23% delle donne è ipercolesterolemico, ha cioè il valore della colesterolemia totale uguale o superiore a 240 mg/dl, mentre il 37% degli uomini e il 34% delle donne è in una condizione definita border line, colesterolemia totale compresa fra 200 e 239 mg/dl.

Nella popolazione anziana (uomini e donne di età compresa fra 65 e 74 anni), il 24% degli uomini e il 39% delle donne sono ipercolesterolemici; il 36% degli uomini e il 38% delle donne è border line.

1.2.1 Patogenesi

Il colesterolo è una molecola lipofila, derivata dagli steroli, molto utile per il nostro organismo; infatti è un componente importante della membrana cellulare in quanto si inserisce nel doppio strato fosfolipidico diminuendo la fluidità della membrana, aumentandone la stabilita’ e diminuendo la permeazione a piccole molecole idrofile.

Inoltre il colesterolo è precursore della vitamina D, degli acidi biliari ed è una sostanza base per la produzione degli ormoni steroidei come il cortisone, il testosterone e l’aldosterone.

Viene prodotto prevalentemente dal fegato a partire dall’acetilcoenzima A tramite un importante enzima chiamato HMG-CoA reduttasi, che nel primo passaggio trasforma l’HMG-CoA in acido mevalonico. Da questo punto una cascata di circa 30

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reazioni porta alla formazione del colesterolo. L’attività dell’enzima HMG-CoA reduttasi è particolare in quanto la sua emivita è di poche ore, quindi deve essere sintetizzato continuamente dal fegato ex novo. La breve emivita di questo enzima è molto importante in quanto la sua sintesi può essere regolata positivamente o negativamente tramite un meccanismo di feedback dal colesterolo stesso. In questo modo quando con la dieta assumiamo molto colesterolo esso andrà ad inibire la sintesi dell’HMG-CoA-reduttasi che di conseguenza andrà a inibire la sintesi del colesterolo endogeno.

Una volta prodotto il colesterolo deve essere trasportato dal fegato agli organi periferici in cui esso può essere utilizzato per le importanti funzioni metaboliche viste prima.

Poiché è una molecola lipofila il colesterolo non è solubile nel sangue e non può essere trasportato liberamente, per questo motivo il trasporto avviene mediante delle lipoproteine che catturano il colesterolo nel fegato, lo trasportano nel circolo sanguigno fino all’organo bersaglio e poi riportano indietro verso il fegato l’eccesso.

Le lipoproteine sono molte e sono classificate in base alla loro densità in: lipoproteine a bassa densità (LDL) e lipoproteine ad alta densità (HDL) che sono presenti in percentuali maggiori e poi ci sono le lipoproteine a densità ancora più bassa come le VLDL (very low density lipoprotein), le lipoproteine intermedie tra le VLDL e le LDL che sono le IDL e poi le lipoproteine a densità più alta delle HDL che sono le VHDL (very high density lipoprotein) che svolgono un ruolo di trasporto del colesterolo ma soprattutto sono intermedi della sintesi dell’LDL e dell’HDL. Noi per il momento suddividiamo le lipoproteine solo in LDL e HDL e possiamo dire a riguardo che le LDL sono le lipoproteine che trasportano il colesterolo dal fegato verso la periferia mentre le HDL viceversa trasportano l’eccesso dalla periferia al fegato. La quantità di queste lipoproteine deve essere estremamente bilanciata in quanto un eccesso di una rispetto ad un’altra provoca uno squilibrio che porta all’ipercolesterolemia. Infatti non è il colesterolo il problema principale

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dell’ipercolesterolemia ma la quantità delle lipoproteine che lo trasportano. Questo è dovuto a dei processi ossidativi che avvengono in periferia e riguardano proprio le lipoproteine, in particolare le LDL.

Abbiamo detto che le LDL trasportano il colesterolo dal fegato alla periferia mentre l’HDL lo trasporta dalla periferia verso il fegato. Se abbiamo una condizione patologica in cui sono presenti più LDL rispetto alle HDL avremo una concentrazione periferica di colesterolo legato alle LDL che non può essere utilizzato in nessuno modo e non può neanche essere trasportato verso il fegato in quanto le HDL non sono quantitativamente sufficienti a garantire questo trasporto. In condizioni fisiologiche normali le LDL in periferia vengono captate da recettori appositi (LDLr), che sono recettori di membrana capaci di portare dentro la cellula la lipoproteina che contiene il colesterolo attraverso un processo di endocitosi. A questo punto una volta che il complesso LDL-colesterolo si trova all’interno della membrana cellulare si attiva un processo di digestione dell’involucro esterno da parte di lipasi. Il colesterolo quindi viene liberato, mentre le parti utili della lipoproteina vengono recuperate per permettere la sintesi di nuove LDL.

Figura 2: rappresentazione dell’attività di LDL-R a cui va a legarsi LDL-C in circolo che viene trasportato verso i lisosomi dove si rompe il legame tra recettore e molecola di colesterolo. Abbiamo quindi il recupero del recettore LDL e la degradazione del colesterolo LDL.

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Se però le LDL per qualsiasi motivo non vengono captate nella cellula e restano nei vasi a livello periferico subiscono un processo ossidativo che provoca la formazione di specie radicaliche che vanno ad attaccare la porzione sotto-endoteliale ed endoteliale del vaso. In questo modo si formano cellule squamose che sono il centro di una struttura detta placca ateromatosa. Questo da il via ad un processo infiammatorio che provoca il richiamo a livello della lesione di fattori dell’infiammazione e dei fattori della coagulazione. Tutto questo porta all’ispessimento del vaso nella zona della lesione con conseguente aumento della pressione arteriosa perché il sangue passa più difficilmente.

1.2.2 Tipologie di Ipercolesterolemia

L’ipercolesterolemia può essere distinta in due classi: ipercolesterolemia primaria e secondaria che analizziamo separatamente.

Ipercolesterolemia primaria è definita quella patologia in cui abbiamo un aumento di colesterolo dovuto a problemi di natura genetica. Può essere dovuta a più fattori e infatti la possiamo dividere in tre sottogruppi (ipercolesterolemia poligenica, iperlipidemia familiare e ipercolesterolemia primitiva) e può colpire le persone già in giovane età.

- L’ipercolesterolemia poligenica è una patologia abbastanza comune (circa 85% delle ipercolesterolemie è dovuta a questa forma) e può essere dovuta anche a fattori ambientali o alla dieta, che in pazienti con fattori predisponenti può portare al malfunzionamento dei sistemi di controllo a feedback. In questo modo avremo la produzione di colesterolo endogeno nonostante nell’organismo sia già presente il colesterolo proveniente dalla dieta. Tutto questo si pensa che vada a gravare a livello del fegato, infatti la presenza in grandi quantità di colesterolo provoca l’inibizione della sintesi dei recettori LDL che abbiamo visto essere fondamentali per captare il colesterolo LDL in periferia.

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- L’iperlipidemia combinata familiare invece è una forma più rara, compare in una persona su 200 ed è dovuta ad un disturbo genetico del metabolismo lipidico. E’ causata da una mutazione poligenica, infatti la causa della malattia sembra essere una combinazione di mutazioni genetiche. L’ipercolesterolemia derivante da questo disordine genetico sembra essere dovuta ad un aumento della produzione di apolipoproteina B che è un costituente importante delle VLDL e LDL e che quindi ne provoca una produzione maggiore.

- L’ipercolesterolemia primitiva invece è la più grave (affligge 1 paziente su 500 nella forma eterozigote mentre 1 paziente su 1 000 000 nella forma omozigote). Questa forma è dovuta ad una mutazione importante sul braccio corto del cromosoma 19, in cui si trova il gene che codifica per il recettore LDL. Una mutazione eterozigote a livello di questo cromosoma provoca una produzione del recettore funzionante al 50%, mentre una mutazione omozigote ne provoca un malfunzionamento totale. Quindi in pazienti affetti da questa forma di ipercolesterolemia la patologia è dovuta ad un malfunzionamento dei recettori LDL che abbiamo visto essere importanti per far sì che non avvenga il processo di ossidazione delle LDL libere nel circolo sanguigno.

- Le ipercolesterolemie secondarie, invece, sono causate da affezioni in grado di influenzare il metabolismo delle lipoproteine. Quindi si presentano in età avanzata e sono dovute alla perdita di funzione delle cellule deputate al metabolismo del colesterolo, a uno stile di vita scorretto o ad un’alimentazione non adeguata al metabolismo. Inoltre possiamo avere ipercolesterolemia a seguito di patologie ad esempio a livello del fegato.

1.2.3 Diagnosi

La diagnosi di ipercolesterolemia si fa attraverso analisi del sangue in cui andiamo a vedere la quantità di colesterolo totale, di colesterolo LDL e HDL presenti. La tabella seguente ci servirà per comprendere meglio i valori per cui possiamo definire l’ipercolesterolemia in un paziente.

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17 Valori di colesterolo (espressi in mg su dL di plasma) che andrebbero osservati nella prevenzione delle

patologie cardiovascolari nella popolazione sana Parametro Valori desiderabili Valori a rischio

moderato

Valori a rischio elevato

Colesterolo totale <200 200-239 >240 Colesterolo LDL <130 130-159 >160 Colesterolo HDL Uomini > 39 Donne > 45 Uomini 35- 39 Donne 40-45 Uomini <35 Donne <40

Tabella 3: Valori di colesterolo desiderabili per ridurre il rischio cardiovascolare

È molto importante tenere sotto controllo il valore del colesterolo LDL in quanto abbiamo già detto essere il responsabile del danno endoteliale nel vaso. Inoltre il rapporto tra colesterolo totale e colesterolo HDL è molto importante per definire il rischio cardiovascolare.

Infatti l’indice di rischio è considerato accettabile quando i valori sono < 5 per l’uomo e < 4.5 per la donna.

Per il medico non è sempre facile distinguere i tipi di ipercolesterolemia in quanto i dati che abbiamo di un paziente che si presenta in ambulatorio in tutti i casi sono di colesterolo LDL elevato. Per questo motivo soprattutto se si tratta di ipercolesterolemia in persone giovani il medico dovrà fare un’analisi più approfondita della vita del paziente per capire se nella sua famiglia ci siano stati già casi di ipercolesterolemia primaria, oppure se sono state registrate morti per infarto in giovane età. Dopo questo approfondimento il medico se lo ritiene necessario potrà procedere con delle analisi più specifiche che consentono di analizzare la struttura del DNA e vedere eventuali mutazioni genetiche.

Dagli ultimi dati raccolti sembra che in Italia solo il 13% degli uomini e il 9% delle donne viene trattato in modo farmacologicamente adeguato, mentre il 5% degli uomini e il 6% delle donne non viene trattato in modo adeguato per motivi dovuti alla diagnosi oppure alla terapia adottata. Infine addirittura l’81% degli uomini e l’85% delle donne con ipercolesterolemia dichiara di non essere trattato farmacologicamente. Questi dati servono a capire quanto sia difficile diagnosticare

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la malattia, perché è per lo più silente e si manifesta solo negli stadi più gravi oppure si viene a conoscenza della malattia a seguito di eventi cardiovascolari o cerebrovascolari.

1.2.4 Fattori di Rischio

L’aumento della colesterolemia può essere influenzata da vari fattori esterni in aggiunta a quelli endogeni. I fattori esterni più importanti sono: il cibo e lo stile di vita.

Il cibo aumenta il colesterolo, anche se in maniera limitata in condizioni normali. Infatti l’assunzione attraverso la dieta di colesterolo, in condizioni fisiologiche, provoca una riduzione della produzione endogena di colesterolo e quindi i livelli restano più o meno invariati. In soggetti patologici invece l’assunzione di colesterolo attraverso la dieta può causare un peggioramento della malattia.

Lo stile di vita sedentario provoca un aumento del rischio cardiovascolare e inoltre rallenta il metabolismo; al contrario l’attività fisica soprattutto aerobica provoca un leggero aumento delle HDL, inoltre riduce la pressione sanguigna e attiva il metabolismo.

I fattori endogeni che si è visto provocare ipercolesterolemia invece sono: ipotiroidismo, squilibrio degli ormoni sessuali ed epatopatie.

L’ipotiroidismo provoca un lieve aumento del colesterolo, come anche l’uso protratto della pillola anticoncezionale in quanto provoca uno squilibrio della produzione endogena degli ormoni sessuali. Gli estrogeni invece diminuiscono il colesterolo, infatti nelle donne in menopausa vengono abbattuti i livelli di estrogeni e aumenta il rischio di ipercolesterolemia.

Alcune epatopatie soprattutto quelle legate alla produzione di bile possono provocare un aumento del colesterolo.

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1.2.5 Terapie Usuali

Per curare l’ipercolesterolemia possiamo prima di tutto agire con una terapia non farmacologica che si basa su una dieta povera di colesterolo e trigliceridi e con un apporto calorico bilanciato in modo da avere un corretto metabolismo delle calorie assunte. Le tipologie di diete più usate in questi casi sono diete ipoglucidiche e ipolipidiche. Con le diete ipoglucidiche si tende a regolarizzare il valore dei trigliceridi, che è stato visto diminuire sensibilmente, allo stesso tempo c’è stato un leggero aumento del colesterolo HDL. Nelle diete ipolipidiche si tende a diminuire la concentrazione dei grassi totali nell’organismo migliorando i fattori di rischio cardiovascolare.

Non è sempre sufficiente una dieta regolare e una buona attività fisica per abbassare i livelli di colesterolo soprattutto nei casi di ipercolesterolemia genetica però è sempre opportuno accompagnare una terapia farmacologica con una dieta equilibrata in modo da favorire l’attività farmacologica.

La terapia farmacologica riguardo questa malattia è abbastanza ampia e può essere diretta alla riduzione della sintesi di colesterolo oppure può agire su sistemi collaterali che favoriscono l’eliminazione degli acidi biliari o la riduzione dell’assorbimento del colesterolo intestinale, nei casi più gravi possiamo ricorrere alla plasma aferesi.

- Terapia con fibrati

I fibrati sono derivati del clorfibrato che è stato uno dei primi farmaci in commercio contro l’ipercolesterolemia anche se oggi non è più usato.

Il clorfibrato è stato scoperto nel 1962 e sembrava avere proprietà ipoglicemizzanti importanti negli studi di laboratorio fatti sui ratti. In effetti il clorfibrato si è rivelato un farmaco che abbassava notevolmente i livelli di trigliceridi e colesterolo nel sangue. Il suo meccanismo d’azione si basava sul bloccare la sintesi del colesterolo in uno dei suoi stadi primari, in particolare si bloccava la sintesi allo stadio dell’acido mevalonico, che però è una sostanza tossica per l’organismo.

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Inoltre il clorfibrato spiazza il legame della tiroxina con le proteine plasmatiche e la tiroxina è una sostanza che favorisce il metabolismo basale. Gli effetti collaterali sempre presenti di questa sostanza sono disturbi gastrointestinali e disfunzionalità epatiche inoltre in alcuni pazienti si sono presentati problemi cardiovascolari con aritmie particolari e dermatosi. Per questo motivo è stato tolto dal commercio in vari paesi.

I derivati del clorfibrato invece sono molecole che hanno attività totalmente diversa dal clorfibrato. I farmaci più importanti di questa categoria sono: genfibrozil, fenofibrate e esafibrate. Questi farmaci sono attivi su dei recettori nucleari, i PPAR-α, che sono recettori presenti sulla membrana nucleare delle cellule e la cui stimolazione provoca una cascata di eventi che modula la sintesi proteica, inibendo i processi nucleari come ad esempio la trascrizione. In particolare nel caso dei PPAR-α il legame dei fibrati con questi recettori promuove la sintesi di APO-A1 e APO-A2 che sono dei costituenti importanti delle lipoproteine HDL. In questo modo si pensa di favorire la produzione di HDL a discapito delle LDL, in realtà le HDL aumentano però non in maniera molto rilevante (circa 10%). Inoltre i fibrati bloccano la sintesi del colesterolo inibendo però la HMG-reduttasi che è il primo enzima implicato nella sintesi del colesterolo, questo fa in modo che non si abbia un accumulo di acido mevalonico.

L’effetto più rilevante di queste sostanze però l’abbiamo a livello dei trigliceridi, infatti è stata dimostrata una sostanziale diminuzione dei trigliceridi nel sangue. Gli effetti collaterali dei fibrati sono problemi gastrointestinali ma soprattutto rabdomiolisi che è una patologia che comporta degenerazione del tessuto muscolare fino a degradazione. È un effetto collaterale molto importante che se non controllato opportunamente può portare a morte.

In conclusione i fibrati hanno dimostrato incapacità a normalizzare completamente i livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue e inoltre hanno effetti collaterali particolarmente pericolosi per la salute del paziente, per questo non sono molto usati.

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- Terapia con statine

La terapia con le statine è oggi la più diffusa tra le terapie farmacologiche contro l’ipercolesterolemia, infatti questa classe di farmaci ha un buon profilo di azione e gli effetti collaterali, anche se sono importanti possono essere arginati con un utilizzo oculato del farmaco.

Le molecole appartenenti a questa classe oggi in commercio sono: simvastatina, atorvastatina, pravastatina, rosuvastatina, lovastatina, fluvastatina. Una delle prime statine studiate e poi tolta dal mercato per gli effetti collaterali è stata la cerivastatina.

L’attività delle statine nel nostro organismo è essenzialmente quella di inibire la sintesi del colesterolo andando a inibire l’enzima HMG-CoA-reduttasi, che abbiamo già visto precedentemente essere il primo enzima utilizzato per la sintesi del colesterolo endogeno. Questa azione inibitrice della sintesi del colesterolo è più forte di quella che hanno i fibrati sullo stesso enzima, quindi l’attività finale risulta più efficace. Inoltre con le statine abbiamo una riduzione della produzione di lipoproteine LDL a favore delle HDL. Questa è un’altra azione importante ai fini della riduzione dell’ipercolesterolemia.

Gli effetti collaterali più importanti sono la miopatia e rabdomiolisi. Entrambe sono patologie legate alla muscolatura, la miopatia è caratterizzata da alterazioni in senso anatomo-patologico, fisiologico o biochimico delle cellule che compongono la muscolatura volontaria, mentre la rabdomiolisi è una patologia molto più grave in cui abbiamo un processo catalitico delle cellule del muscolo scheletrico. Le statine hanno un tasso di tossicità variabile, ad esempio calcolando la quantità di decessi su un milione di prescrizioni abbiamo: 0,04 decessi segnalati per pravastatina, 0,12 di simvastatina, 0,19 di lovastatina ed infine 3,16 decessi di cerivastatina. Questa è la motivazione per cui la cerivastatina è stata tolta dal mercato mentre le altre statine sono sempre utilizzate.

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- Terapia con inibitori dell’assorbimento del colesterolo

La molecola più importante utilizzata in questo caso è l’ezetimibe. Il bersaglio molecolare di ezetimibe è un trasportatore degli steroli, la proteina NPC1L1 presente sia nelle cellule epiteliali intestinali che in quelle epatiche è responsabile della captazione intestinale di colesterolo. In questo modo si limita la quantità di colesterolo assunto con la dieta. Gli effetti collaterali dell’ezetimibe possono essere: dolori addominali, diarrea e flatulenza. Questo farmaco viene usato in associazione con le statine in quanto si cerca di ottenere un effetto sinergico che favorisca la normalizzazione del colesterolo riducendo la quantità di entrambi i farmaci e avendo in questo modo una riduzione degli effetti collaterali. In commercio l’ezetimibe l’abbiamo sia associato con le statine (Inegy, Goltor) sia da solo per la monoterapia (Zetia).

- Inibitori dell’assorbimento degli acidi biliari

Questa classe di farmaci agisce sul colesterolo indirettamente in quanto inibisce il riassorbimento degli acidi biliari. In questo modo la bile viene escreta in quantità maggiori e deve essere sintetizzata ex-novo più frequentemente e poiché abbiamo già visto che il colesterolo è fondamentale nella sintesi della bile, attraverso questo meccanismo abbiamo una riduzione della quantità di colesterolo, che viene usato per la sintesi della bile. Farmaci appartenenti a questa categoria sono: colestiramina, una resina che complessa gli acidi biliari impedendone cosi il riassorbimento intestinale; neomicina viene usata per legarsi agli acidi biliari nonostante sia un antibiotico, infatti non viene assorbito a livello intestinale e quindi è libera di legarsi con la bile.

- Plasma aferesi

La plasma aferesi è un trattamento utilizzato nei casi gravi di ipercolesterolemia ma soprattutto per ristabilire un livello accettabile di LDL in pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare. Per fare questo trattamento si necessita di

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attrezzatura particolare capace di eliminare selettivamente le LDL attraverso il legame immunologico tra anticorpi monoclonali e le APO-B1 e rimettere il sangue pulito nel circolo sanguigno del paziente. È un trattamento utilizzato solo in casi particolari e solo in strutture ospedaliere in quanto è costoso e pericoloso.

1.2.6 Approccio Terapeutico

L’approccio terapeutico con un paziente con ipercolesterolemia primaria o secondaria è inizialmente la terapia non farmacologica con dieta in cui si bilancia l’apporto di grassi animali, in un secondo momento se non si riesce a normalizzare i valori di LDL con la dieta si inizia una terapia farmacologica. In questo caso i farmaci più usati sono le statine da sole oppure associate a ezetimibe o altri farmaci inibitori dell’assorbimento intestinale di bile. I fibrati si utilizzano per normalizzare i trigliceridi piuttosto che il colesterolo. L’utilizzo di plasma-aferesi avviene solo in casi gravi in cui tutte le terapie farmacologiche non riescono a ridurre il rischio cardiovascolare.

1.2.7 Terapie Innovative

Queste terapie sono volte alla cura o al miglioramento della vita di persone per lo più affette da ipercolesterolemia di tipo I sia essa eterozigote che omozigote. Infatti fino a qualche anno fa si credeva che si potesse usare la stessa cura per l’ipercolesterolemia di tipo I e di tipo II in realtà negli ultimi anni sono state scoperte le cause genetiche dell’ipercolesterolemia di tipo I, che hanno permesso nuovi studi su farmaci che possano agire su questi substrati geneticamente mutati. Le tre cause dell’ipercolesterolemia di tipo I sono:

- mutazioni che riguardano il gene che codifica per il recettore LDL, portando alla sintesi di un recettore completamente o parzialmente inattivo.

- mutazioni che riguardano l’apolipoproteina B100 con sintesi di una proteina che non riesce a legare il colesterolo LDL.

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- mutazioni sul gene che codifica per la PCSK9 (proprotein convertase subtilisina/kexin type 9) che è un enzima fortemente legato con l’insorgenza di ipercolesterolemia o ipocolesterolemia.

In questa tesi ci occuperemo soprattutto delle mutazioni riguardanti la PCSK9 in quanto ci sono farmaci molto importanti in fase di studio. Prima di parlare dei farmaci però vediamo la funzione di PCSK9 e la sua relazione con l’ipercolesterolemia.

2. PCSK9

2.1 Scoperta

La PCSK9 (Proproteina Convertasi Subtilisna/Kexina di tipo 9) appartiene alla famiglia delle proteine convertasi di cui oggi conosciamo 9 isoforme diverse. Le prime isoforme di convertasi sono state scoperte alla fine degli anni ’90, mentre PCSK9 è stata scoperta soltanto nel 2003 in Francia nel laboratorio del dottor Seidah. (Seidah, Benjannet et al. 2003) Nello stesso anno sempre in Francia il ricercatore Abifadel e i colleghi hanno visto che ci poteva essere una relazione tra questa proteina e l’ipercolesterolemia o ipocolesterolemia. Infatti studi su due famiglie francesi hanno portato ad avanzare un’ipotesi su questa relazione in quanto ad entrambe le famiglie era stata diagnosticata ipercolesterolemia autosomica dominante (ADH) ma non avevano nessun deficit genetico, come LDL-R mutati o insufficienza di ApoB100 (Abifadel, Varret et al. 2003). Studi successivi anche su altre famiglie e in altri luoghi hanno portato a confermare l’ipotesi di una relazione tra PCSK9 e le dislipidemie legate al colesterolo. Approfondendo gli studi in questa direzione i ricercatori hanno visto che esistevano mutazioni sul gene che codifica per la PCSK9, queste mutazioni potevano essere di due tipi: LOF (loss of function) quindi mutazioni che provocano la perdita di funzione di PCSK9 e GOF (gain of function) che portano ad un guadagno di funzione. Lo studio di queste

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mutazioni in relazione ai livelli plasmatici di colesterolo è stato molto utile a scoprire la relazione, per questo motivo adesso riporto qualche esempio di mutazione LOF e GOF.

La prima mutazione LOF è stata identificata e descritta nel 2005,(Cohen, Pertsemlidis et al. 2005) in questo caso è stato visto che le mutazioni Y142X e C679X (X identifica la rottura della catena, quindi la proteina che si forma sarà nel primo caso di 142aa mentre nel secondo di 679aa) sul gene che codifica per la PCSK9 provoca negli afro-americani una riduzione del colesterolo (LDL-C) circolante del 28% e una riduzione del rischio cardiovascolare del 88%, mentre la mutazione R46L nei caucasici provoca una riduzione del 15% del colesterolo circolante e una riduzione del 47% del rischio cardiovascolare (Cohen, Boerwinkle et al. 2006). La differenza tra la riduzione del LDL-C e il rischio cardiovascolare è stata valutata in 3 studi indipendenti in Danimarca e si è arrivati alla conclusione che la riduzione maggiore del rischio cardiovascolare rispetto alla terapia con le statine sia dovuta alla minore esposizione generale del soggetto a LDL-C, in quanto la terapia inizia presto per quanto riguarda le persone affette da ipercolesterolemia familiare.

Un’altra mutazione LOF associata ad ipocolesterolemia è stata studiata da Mayne et al. nel 2011, in questo studio è stato visto che la mutazione Q152H sul sito catalitico P1 sostituisce Gln152 con His152 questo si è visto che non permetteva nel reticolo endoplasmatico la scissione auto-catalitica del pro-PCSK9 e quindi lo zimogeno non veniva liberato dal reticolo endoplasmatico con conseguente abbattimento dei livelli plasmatici di PCSK9 e ipocolesterolemia nei pazienti affetti da questa mutazione (Mayne, Dewpura et al. 2011).

Altre mutazioni LOF dovute a variazioni di aminoacidi della catena principale sono state studiate in Sicilia ed è stato descritto che le mutazioni Thr77Ile, Val114Ala, Ala522Thr, Pro616Leu sono tutte associate ad ipocolesterolemia (Fasano, Cefalu et al. 2007).

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Oltre a queste mutazione con perdita di funzione negli anni sono state riscontrate anche mutazioni con aumento di funzione, una di queste è la mutazione D374Y scoperta da Timms et al. (Timms, Wagner et al. 2004) che si è visto provocare l’aumento di 10/25 volte dell’affinità tra PCSK9 e recettore LDL. Questa è la mutazione GOF più grave che provoca una severa ipercolesterolemia e una morte precoce per malattia coronarica (Fasano, Sun et al. 2009).

2.2 Struttura

La relazione tra PCSK9 e ipercolesterolemia o ipocolesterolemia ha aumentato notevolmente l’interesse scientifico per questa molecola e attraverso studi successivi è stata scoperta la struttura di questa molecola. La PCSK9 è una proproteina costituita da 692 aminoacidi ed è codificata dal gene situato sul cromosoma 1p32.3 contenente 11 introni e 12 esoni (Seidah and Prat 2007). Questo enzima è espresso principalmente nel fegato ma anche nell’intestino e nel rene, inoltre è stato trovato mRNA codificante PCSK9 in quantità abbondanti anche nella parete dell’arteria ombelicale embrionale ed è ipotizzato si trovi anche nelle membrane embrionali e nella muscolatura liscia (Seidah, Awan et al. 2014). Sono state trovate sequenze amminoacidiche simili alla PCSK9 anche in altri vertebrati come scimpanzé, scimmie, topi etc., mentre in altri vertebrati, come ad esempio nei bovini, non si è trovata la proteina circolante ed è stato visto infatti che il gene codifica per una proteina non funzionante. La mancanza di PCSK9 nei bovini si può spiegare con lo sviluppo della specie, che nel tempo ha ridotto la produzione di PCSK9 fino alla sua completa inibizione in quanto è una proteina che non serve agli erbivori (Seidah, Awan et al. 2014).

Possiamo dividere l’enzima in 5 zone particolarmente importanti per la sua funzione biologica. Abbiamo la zone del peptide segnale che va dall’aminoacido 1 al 30, poi abbiamo il pro-segmento che va dal 31 al 152, in seguito c’è il sito catalitico che si trova nella zona che va dall’aminoacido 153 al 407, infine abbiamo

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la regione cerniera che va dal 408 al 452 (VL e VH) e il dominio c-terminare ricco in cisteina e istidina (CH-CL) che va dal 453 al 692 (Seidah 2011).

Figura 3: struttura cristallina di PCSK9. In rosso pro-dominio, in viola sito catalitico, in giallo e blu la regione cerniera (rispettivamente VH e VL) e in celeste e verde la regione ricca di cisteina e istidina (rispettivamente CL e CH) (Ni, Di Marco et al. 2011)

Conoscere queste regioni è stato molto importante per capire il meccanismo di azione di questo enzima. La sintesi di questo enzima avviene nel reticolo endoplasmatico, dove si trova sotto forma di zimogeno (struttura enzimatica inattiva che necessita di taglio catalitico per permetterne l’attivazione). A seguito della scissione autocatalitica del pro-segmento con un taglio alla posizione P1 Gln152, che abbiamo detto trovarsi nella parte iniziale dell’enzima si ottiene la maturazione dell’enzima e la sua liberazione dal reticolo endoplasmatico (Cunningham, Danley et al. 2007). A differenza delle altre proteine convertasi però il c-terminale del pro-segmento forma dei legami a idrogeno con l’istidina 226, in questo modo si forma nuovamente il complesso pro-segmento – enzima che rende inattivo il sito catalitico (Park, Moon et al. 2004). La secrezione di un enzima

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inattivo ha indirizzato gli studi degli scienziati verso l’interazione con il recettore per le LDL per capire se l’attività enzimatica della PCSK9 non era necessaria per il legame con LDL-R.

MCNutt et al. nel 2007 pubblicano un articolo in cui presentano un lavoro riguardante l’attività della PCSK9, cataliticamente inattiva, nel provocare ipercolesterolemia. In conclusione scoprono che è proprio la PCSK9 inattiva che va a legarsi al LDL-R, mentre se viene rimosso il pro-segmento dal complesso si riduce l’affinità di legame tra PCSK9 e LDL-R (McNutt, Lagace et al. 2007).

2.3 Attività di PCSK9

La PCSK9 abbiamo detto essere un enzima cataliticamente inattivo, che è responsabile della regolazione del colesterolo e soprattutto delle lipoproteine che lo trasportano. Infatti, come abbiamo già visto in precedenza, studi scientifici hanno dimostrato che mutazioni della PCSK9 provocano ipercolesterolemia o ipocolesterolemia.

Nei primi anni si credeva che l’attività della PCSK9 fosse solo extracellulare, mentre studi più recenti hanno dimostrato che esistono due vie utilizzate dalla proteina per esplicare la propria funzione: la via extracellulare e la via intracellulare.

L’enzima una volta secreto dal reticolo endoplasmatico forma un legame non covalente con il pro-segmento che era stato tagliato autocataliticamente all’interno del reticolo endoplasmatico. A questo punto si attiva sia la via extracellulare che quella intracellulare.

La via extracellulare prevede la liberazione della pro-proteina dalla cellula epatica, in questo modo PCSK9 va a legarsi ai recettori per le LDL posti sulla membrana plasmatica. Questi recettori sono importanti in quanto sono loro che permettono l’internalizzazione del colesterolo LDL e la sua successiva degradazione. Con questo processo si riduce il colesterolo in circolo e si riduce il rischio di ossidazione delle LDL. La PCSK9 ha molta affinità per il recettore LDL e quindi va facilmente a formare un complesso con il recettore, il complesso formatosi provoca

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internalizzazione del recettore, attraverso vescicole rivestite di catene pesanti di clatrina e viene trasportato verso la via endosomiale. Questo è il processo che il recettore segue anche quando vi si lega il colesterolo, in quanto sono i lisosomi che provocano la degradazione del colesterolo LDL e il recettore viene recuperato e ritorna sulla membrana plasmatica per captare nuovo LDL-C. Nel caso in cui si lega la PCSK9 però avviene un processo di degradazione a livello lisosomiale del recettore, che non ritorna in superficie. Infatti si forma un legame forte tra PCSK9 e LDL-R che ne impedisce la separazione una volta arrivati nei lisosomi (Maxwell, Fisher et al. 2005). Quindi si ha una degradazione dell’intero complesso con conseguente riduzione della concentrazione dei recettori LDL sulla superficie plasmatica e quindi un aumento della concentrazione di LDL-C in circolo. Come possiamo vedere nella figura 2

Figura 4: Rappresentazione dell’attività di PCSK9 attraverso la via extracellulare.

Studi più approfonditi condotti da Hobbs et al. hanno analizzato la struttura cristallina del recettore e della pro-proteina riuscendo a definire il modo in cui avviene l’interazione e la formazione del complesso. In particolare è stato visto che

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è la zona detta EGF-A del recettore che va a formare dei legami con i residui 367-381 della PCSK9, in un secondo momento si formano dei legami anche tra i residui 377-379 di PCSK9 e i residui 308-310 di EGF-A (Zhang, Lagace et al. 2007).

Il legame che si forma è più forte rispetto a quello che si forma tra il colesterolo LDL e il recettore e questa maggiore forza di legame non permette al recettore di liberarsi una volta a contatto col pH del citosol. Come possiamo vedere bene dalla figura 1.

Analizzando la struttura tridimensionale del recettore LDL-R vediamo che a pH 5.3 la conformazione cambia, infatti il recettore adotta una forma chiusa (Rudenko, Henry et al. 2002). In pratica passando dal pH neutro al pH acido endosomiale si attiva “l’interruttore dell’istidina” che provoca la chiusura del recettore (Yamamoto, Chen et al. 2008). Questo processo di “chiusura” del recettore a pH acido provoca, quando esso è legato al LDL-C, la rottura del complesso tra LDL-R e C e quindi la degradazione del C da parte dei lisosomi e il recupero di LDL-R. Se invece legato al recettore LDL abbiamo la PCSK9 la “chiusura” del recettore dovuto al pH provoca una modifica conformazionale che rafforza ulteriormente il complesso tra PCSK9 e LDL-R, in questo caso tutto il complesso seguirà la via lisosomiale e verrà degradato.

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Figura 5: rappresentazione della variazione allosterica del recettore LDL se legato a LDL-C oppure a PCSK9.

La via intracellulare invece non prevede la liberazione della proproteina al di fuori della cellula ma la sua azione è quella di andare a legare i recettori per le LDL che vengono sintetizzati all’interno del reticolo ancora prima che essi vengano espressi sulla parete cellulare.

Questa attività intracellulare è dovuta alla mancanza di catene leggere di clatrina. Questa è una proteina che non media l’internalizzazione nelle vescicole ma è di fondamentale importanza nel mediare gli spostamenti delle molecole tra la rete trans-golgi e il sistema endosomiale (Poupon, Girard et al. 2008). Fisiologicamente le catene leggere di clatrina bloccano il traffico intracellulare diretto dal trans-golgi ai lisosomi aumentando quindi la quantità di LDL-R prodotto ed espresso sulla membrana cellulare. Questo è stato visto aumentando la concentrazione intracellulare di catene leggere di clatrina (Poirier, Mayer et al. 2009). L’attività delle clatrine però è limitata in quanto se la produzione di PCSK9 è elevata e quindi il reticolo mette in circolo una grande quantità di LDL-R esse non riescono a tamponare questo eccesso di proteina e avviene la degradazione intracellulare dei recettori.

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Figura 6: rappresentazione della attività di PCsk9 su LDL-R nella via intracellulare e extracellulare.

2.4 Produzione endogena di PCSK9

La sintesi di PCSK9, come quella di tutte le molecole proteiche, ha una sua regolazione. Questa regolazione può avvenire su due livelli: regolazione trascrizionale e regolazione post-trascrizionale.

La regolazione trascrizionale si può ulteriormente dividere in due meccanismi diversi: regolazione tramite fattori nucleari oppure tramite recettori nucleari. La regolazione tramite fattori nucleari avviene direttamente dentro al nucleo, attraverso legami diretti su gene che codifica per la proteina.

I geni possiedono delle zone poste prima della parte codificante dette promoter, queste zone possiedono dei motivi trascrizionali a cui vanno a legarsi delle molecole che aumentano o riducono la trascrizione del gene a valle. Un motivo importante è il motivo SRE (sterol regulatory element), questo è sede di legame di una famiglia di proteine chiamate SREBPs (SRE – binding proteins). Questa famiglia costituisce il maggiore fattore trascrizionale nella biosintesi lipidica, quindi non implicato solo nella regolazione di PCSK9 ma anche ad esempio nella regolazione della sintesi di LDL-R. Per dimostrare questo coinvolgimento delle proteine SREBPs è stato fatto un esperimento sui topi ed è stato visto che i livelli di PCSK9 mRNA diminuiscono con una dieta ricca di colesterolo mentre aumentano in topi transgenici in cui le proteine SREBPs risultano espresse in quantità maggiori

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(Maxwell, Soccio et al. 2003). Quindi possiamo dire che i fattori SREBP-1 e SREBP-2 sono fattori che attivano la trascrizione del gene che codifica per PCSK9.

Un altro elemento che potenzia l’attivazione trascrizionale di PCSK9 è il fattore HNF-1α (hepatocyte nuclear factor-1α). Questo fattore lega un motivo trascrizionale posizionato 28 nucleotidi prima rispetto al motivo SRE. La regolazione tramite HNF-1α, a differenza della regolazione SREBPs, non è espressa a livello del gene che codifica per LDL-R (Li, Dong et al. 2009).

Il fattore HNF-1α è stato visto essere regolato negativamente da una sostanza naturale come la berberina (Li, Dong et al. 2009) e da attivatori di mTORC1 (Ai, Chen et al. 2012), questi composti quindi sono potenziali promotori della clearance LDL-C.

Negli anni successivi è stato visto che ci sono dei fattori esterni importanti che attivano la produzione sia di SREBP che di HNF-1α e quindi sono fattori che aumentano la concentrazione di colesterolo libero con meccanismi indiretti. Uno di questi fattori è proprio una famiglia di farmaci che viene utilizzata per la cura dell’ipercolesterolemia, le statine.

Dubuc et al. hanno dimostrato questo legame tra le statine e il fattore SREBP-2, infatti dai loro studi è emerso che le statine, inibendo la HMG-CoA reduttasi, hanno un meccanismo di feedback attivatore della proteina SREBP-2 (Dubuc, Chamberland et al. 2004) e abbiamo detto che l’aumento di questi fattori in circolo provoca l’attivazione della sintesi di PCSK9 e quindi aumento del colesterolo libero per la sua azione sui recettori LDL.

In un altro studio è stato visto anche che sempre le statine sono responsabili dell’attivazione della trascrizione e quindi della sintesi di HNF-α (Dong, Wu et al. 2010), che abbiamo detto prima essere un fattore che attiva la sintesi di PCSK9. Questi due meccanismi di azione secondari delle statine ovviamente ne limitano l’effetto terapeutico, in quanto provocano un effetto contrario rispetto a quello desiderato per la cura dell’ipercolesterolemia.

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L’altro meccanismo di regolazione trascrizionale è quello recettoriale, che si basa sul legame di particolari molecole ai recettori nucleari con conseguente cascata trasduzionale che porta ad interazioni di alcuni fattori con il DNA. Ci sono due recettori nucleari implicati in questo tipo di regolazione: recettore Farnesoid X e recettore PPARs (Peroxisome proliferator-activated receptor), vediamo adesso nello specifico il funzionamento di questi recettori.

- il recettore Farnesoid X, detto anche recettore degli acidi biliari, non sappiamo in che modo è implicato nella regolazione di PCSK9, si pensa ci sia un meccanismo indiretto che è ancora sconosciuto. Comunque studi hanno dimostrato che questo recettore in colture cellulari di epatociti esposte ad acidi biliari provoca un abbattimento dei livelli di PCSK9 mRNA (Langhi, Le May et al. 2008).

- l’interazione con la famiglia di recettori PPARs non ha dato risultati univoci riguardo la regolazione di PCSK9. Ad esempio l’attivazione dei recettori PPAR-α da parte di agonisti (es. Fenofibrato) ha mostrato una repressione del gene che codifica per PCSK9 negli epatociti umani e in quelli del topo (Lambert, Ancellin et al. 2008) mentre l’agonista WY14643 non ha dato alcun effetto nei criceti (Wu, Dong et al. 2012).

Invece gli agonisti per il recettore PPAR-γ (es. Pioglitazone) hanno mostrato un aumento dei livelli di PCSK9 mRNA negli epatociti. Anche studi clinici nei pazienti in trattamento con fibrati hanno dimostrato che aumentano i livelli plasmatici di PCSK9 in molti casi. La ragione di questa differenza ancora non è chiara.

In qualsiasi modo bisogna vedere questi meccanismi di azione come una rete complessa di interazioni, in cui anche tra le molecole che abbiamo analizzato fino ad ora ci sono meccanismi che ne regolano l’equilibrio a livello cellulare.

Per quanto riguarda la regolazione post-trascrizionale ancora non ci sono studi che evidenziano questo meccanismo di regolazione anche se la struttura del mRNA ha una regione non codificante 3’ (3’-UTR) costituita principalmente da AU. La presenza di questa isola ricca di AU determina un mRNA instabile, che potrebbe essere bersaglio di ribonucleoproteine D (Singh, Li et al. 2014).

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Se questo fosse dimostrato scientificamente avremo un altro meccanismo di regolazione negativa di PCSK9.

2.5 Ruoli Secondari di PCSK9

Abbiamo analizzato fino a questo momento il ruolo principale della PCSK9 in quanto è quello che ci interessa maggiormente per la terapia dell’ipercolesterolemia, però sappiamo che PCSK9 non è espressa solo a livello epatico ma anche a livello intestinale e renale.

L’attività a livello intestinale ancora non è stata stabilita, si pensa però che possa essere associato ad una maggiore secrezione di chilomicroni e che sia implicato nel controllo dell’equilibrio del colesterolo negli enterociti (Levy, Ben Djoudi Ouadda et al. 2013).

Sono stati associati a PCSK9 anche altri ruoli secondari, come:

- metabolismo dei trigliceridi e accumulo a livello del tessuto adiposo viscerale (Roubtsova, Munkonda et al. 2011).

- omeostasi del glucosio (Mbikay, Sirois et al. 2010)

- rigenerazione del fegato e suscettibilità al virus dell’epatite C (Seidah, Sadr et al. 2013).

Recentemente è stato riportato che l’assenza di PCSK9 protegge il fegato del topo dall’invasione del melanoma (Sun, Essalmani et al. 2012), suggerendo quindi una sua possibile inibizione farmacologica per ridurre il rischio di tumore al fegato.

2.6 Terapia Farmacologica su PCSK9

Abbiamo visto come PCSK9 sia molto importante nel regolare la bilancia omeostatica del colesterolo, per questo motivo molti studi hanno cercato di inibire

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questo pro-enzima in modo da limitarne l’attività. La terapia farmacologica si basa fondamentalmente su tre strategie:

- uso di anticorpi monoclonali che vanno a legarsi alla PCSK9 impedendo che essa possa legarsi ai recettori LDL (Chan, Piper et al. 2009).

- silenziamento del gene che codifica per PCSK9 attraverso l’uso di siRNA, ovvero piccole catene di RNA che vanno a legarsi all’RNA trascritto dal gene impedendo che questo possa continuare il processo di sintesi proteica (Graham, Lemonidis et al. 2007).

- utilizzo di piccole molecole che impediscono la maturazione di PCSK9 all’interno del reticolo endoplasmatico.

Di questi tre metodi quello più importante, in quanto la sperimentazione è già in stato avanzato, è quello che prevede l’utilizzo di anticorpi monoclonali che vanno a legarsi alla proteina libera in circolo impedendo che essa possa esplicare la propria azione a livello dei recettori LDL. Vediamo adesso nello specifico cosa sono gli anticorpi monoclonali e come funzionano.

3. ANTICORPI MONOCLONALI

Gli anticorpi monoclonali sono delle molecole che derivano dalle immunoglobuline, che sono strutture presenti nell’organismo fin dalla nascita con il ruolo di difesa dagli agenti esterni.

Le immunoglobuline sono una particolare classe delle globuline. La concentrazione delle proteine sieriche totali nell’adulto sano è da circa 6.0 a 8.3 grammi per decilitro, di queste la maggior parte (circa 60%) è rappresentata dalle albumine e poi abbiamo le varie globuline. Analizzando il protidogramma di un’elettroforesi possiamo vedere come è distribuita la concentrazione delle proteine nel sangue di un soggetto sano.

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Figura 7: protidogramma delle proteine del sangue dopo separazione mediante elettroforesi.

Le immunoglobuline fanno parte delle globuline gamma e sono in una concentrazione di circa il 10/12% del totale delle proteine plasmatiche.

Il ruolo fisiologico delle immunoglobuline è quello di legarsi agli antigeni presenti nel nostro organismo a seguito di infezione batterica o virale in modo da ridurne gli effetti.

L’attività delle immunoglobuline è altamente specifica, queste infatti vengono sintetizzate dai linfociti B una volta che essi vengono in contatto con l’antigene, il linfocita B esprime sulla membrana una struttura simile all’anticorpo che va a legarsi all’antigene e da il via al processo di sintesi di strutture in grado di legarsi in maniera specifica all’antigene.

La sintesi nelle prime fasi avviene esclusivamente nei tessuti linfoidi più grandi (milza e tessuti linfoidi associati a mucose) in un secondo momento avviene un processo di differenziazione delle cellule B e si formano le plasmacellule che sono delle strutture in grado di sintetizzare anticorpi in grande quantità. Le plasmacellule in circolo non hanno una grande emivita mentre si mantengono per lungo tempo nel midollo osseo da dove parte la sintesi.

Tutti gli anticorpi hanno le stesse caratteristiche strutturali di base, ciò che li rende specifici è la variabilità nei siti di legame. Infatti questi presentano una struttura simmetrica a Y costituita da due catene pesanti e due catene leggere.

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Le due catene pesanti si legano tra loro attraverso due legami a ponte di-solfuro e vanno a formare il “corpo” dell’anticorpo, mentre le catene leggere vanno a legarsi ciascuna ad una catena pesante, attraverso un legame a ponte di-solfuro, andando a formare i bracci della Y.

Come possiamo ben vedere dalla figura 7 sia le catene pesanti che le catene leggere presentano una regione variabile (V), amino-terminale, responsabile del riconoscimento dell’antigene e delle regioni costanti (C), carbossi-terminali. Le regioni (C) delle catene pesanti sono responsabili delle funzioni effettrici degli anticorpi. Nelle catene pesanti la regione V è costituita da un dominio Ig (VH)

mentre la regione C è composta da tre o quattro domini Ig (CH 1,2,3,4). Le catene

leggere invece presentano una regione V a singolo dominio Ig (VL) e una regione C

a singolo dominio Ig (CL).

Figura 8: rappresentazione schematica della struttura di una IgG, in cui possiamo vedere le zone chiave di un’immunoglobulina.

Le regioni VH e VL si associano a formare il sito di legame per l’antigene mentre le

regioni C delle catene pesanti si associano andando a formare il sito di legame per le cellule effettrici.

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Le catene pesanti che costituiscono lo scheletro centrale dell’anticorpo sono di 5 tipi (α, β, ε, γ e µ) in base alla catena pesante che costituisce l’immunoglobulina queste si dividono in: IgA, IgD, IgE, IgG, IgM.

Le immunoglobuline più interessanti dal punto di vista farmacologico sono le IgG, queste possono essere ulteriormente divise in base alla struttura della catena pesante in IgG1, IgG2, IgG3 e IgG4. La differenza in questa sottoclasse provoca una

variabilità nella parte costante (C) dell’anticorpo rendendolo più o meno sensibile ai diversi recettori Fc che sono i recettori posti sulle cellule effettrici e che sono responsabili della diversa risposta immunitaria. Il legame tra anticorpo e Fc può provocare diverse reazioni cellulari, ad esempio: la citotossicità cellulo-mediata da cellule mononucleate anticorpo dipendente è più efficiente per IgG1 e IgG3 mentre

le IgG4 sono molto più attive nel reclutare l’alternativa via del complemento

rispetto alle altre classi.

Le immunoglobuline sono diventate un modello importante per la sintesi di una nuova classe di farmaci, gli anticorpi monoclonali.

Nel 1975 Georges Kӧhler e Cesar Milstein definirono la prima tecnica di produzione di molecole anticorpali identiche provenienti da un solo clone.

Il primo problema era quello di rendere immortali i linfociti B una volta che avevano attivato la sintesi di una specifica serie di immunoglobuline. L’immortalizzazione si ottiene attraverso la fusione di cellulare tra una cellula B normale che produce un anticorpo e una cellula di mieloma. Successivamente si selezionano le cellule fuse che secernono gli anticorpi desiderati. Queste linee cellulari immortalizzate si chiamano ibridomi e sono loro che secernono anticorpi monoclonali.

La selezione avviene attraverso un terreno di coltura HAT (Hypoxantine-Aminopterin-Thymidine) in cui non sopravvivono le cellule di mieloma non fuse con le cellule B, in questo modo avremo una coltura cellulare con esclusivamente ibridomi che producono anticorpi monoclonali. Attraverso uno screening con il test ELISA o RIA e dopo diluizione limite, per far in modo di avere una sola cellula in

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ogni pozzetto, si ottengono i pozzetti positivi, cioè quelli che contengono l’anticorpo desiderato e quindi si procede con la clonazione in agar semisolido. In questo modo abbiamo ottenuto dei linfociti che producono l’anticorpo desiderato, per ottenere però un linfocita B che produca un anticorpo contro una sostanza dell’organismo bisogna utilizzare un’altra linea animale, che non avendo quella sostanza nell’organismo possa riconoscerla come antigene e produrne anticorpi. Per questo motivo per sintetizzare un anticorpo si isola l’antigene desiderato e si inocula in un ratto o in un altro animale in grado di produrre anticorpi simili all’uomo. In questo modo la sostanza inoculata diventa per il topo l’antigene e inizieranno, nella milza e nei tessuti linfoidi più grandi, a formarsi linfociti B specifici pronti a sintetizzare anticorpi. A questo punto si isolano dalla milza dell’animale i linfociti B e si crea la linea immortalizzata attraverso l’utilizzo di linee cellulari di mieloma. Alla fine del processo di fusione si procede con la selezione in terreno di coltura e lo screening on test ELISA o RIA per ottenere gli ibridomi desiderati.

Per problemi di compatibilità gli anticorpi monoclonali provenienti dagli animali necessitano di processi di purificazione per renderli riconoscibili dall’organismo, perché altrimenti potremo incorrere nella sintesi da parte dell’organismo di anticorpi contro l’anticorpo monoclonale in quanto riconosciuto come antigene. In qualsiasi modo anche attraverso i processi di purificazione questi anticorpi chimerici mantengono un rischio di immunogenicità elevato. Per questo motivo, attraverso le nuove tecniche di ingegneria genetica, è stato possibile ottenere anticorpi murini umanizzati. Negli anticorpi di seconda generazione, chiamati anche reshaped antibodies, la componente murina è stata ulteriormente ridotta (Riechmann, Clark et al. 1988). Con queste nuove tecniche è possibile manipolare in vitro i cDNA degli ibridomi che codificano per le catene polipeptidiche di un anticorpo monoclonale murino. Poiché la struttura dell’anticorpo è costituita da una parte centrale costante definibile “impalcatura”, possiamo inserire la parte codificante le regioni variabili dell’anticorpo monoclonale murino all’interno dei

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