DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOSOFIA
MONTESQUIEU E LA NATURA DEI POTERI
Relatore Candidato
Chiar.mo Prof. Giovanni Paoletti Stefano Bertini
2 INDICE
INTRODUZIONE ... 5
I. BIOGRAFIA E OPERE DI MONTESQUIEU ... 15
1. Primi anni, formazione ed educazione ... 16
2. L’anno 1721: Lettere persiane ... 17
3. Il viaggio come momento di conoscenza ... 19
4. Il mondo degli antichi romani ... 25
5. Un libro fondamentale: Lo Spirito delle Leggi ... 26
6. Gli ultimi anni ... 27
II. L’UOMO E IL POTERE ... 28
1. Riflessioni generali sulle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza ... 29
2. Gli elementi di grandezza e di decadenza ... 31
3. L’esercito ... 35
4. Tre fratture ... 44
5. La metamorfosi dell’esercito romano ... 48
6. Tre figure: Mario, Silla e Pompeo ... 50
7. Eventi di una fine ... 53
8. L’azione politica di Augusto ... 56
9. Cause della decadenza di un impero: geografia politica ed invasioni barbariche ... 60
III. LE FORME DEL POTERE ... 65
1. La pluralità del mondo ... 66
2. L’interpretazione di Louis Althusser ... 68
2.1 Un nuovo metodo ... 69
2.2 Il senso della legge ... 75
3
2.4 Fisionomia delle tre forme di governo ... 86
2.5 L’indagine di Aristotele sulla tirannide ... 115
2.6 Separazione, interferenze e combinazione dei poteri ... 123
IV. LA NATURA ... 138
1. Il potere del clima ... 139
2. L’azione creatrice del clima ... 143
3. Rapporti fra potere del clima e potere dell’uomo ... 149
CONCLUSIONE... 157
BIBILIOGRAFIA ... 162
4 La vita si divide in tre tempi: ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà. Di questi il presente è breve, il futuro dubbio, il passato certo. Questo è ciò su cui la fortuna non ha giurisdizione e che non può cadere sotto il potere di nessuno1. Seneca, De brevitate vitae
5 INTRODUZIONE
6
Questa tesi si propone di costruire una linea tematica che ha per oggetto l’indagine di
alcuni significativi nuclei teorici rintracciabili nel pensiero del filosofo francese
Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu. Voluminoso si
presenta l’universo di Montesquieu tanto che le sue riflessioni hanno conosciuto
estensioni in settori esterni al campo filosofico. Sarebbe ingenerosamente riduttivo
descrivere l’autore delle Lettere persiane come un pensatore dedito a questioni di natura
meramente giuridica o politica poiché l’elenco delle sue opere mostra un corposo
interesse in vari campi del sapere: storia, filosofia, letteratura e scienze sono alcune tra
le materie di cui la sua curiosità si interessò. Già questo breve elenco esprime un
ramificato interesse, indice di una confluenza tematica riscontrabile nella sua filosofia.
Non meno estesa è la sua conoscenza di studiosi e storici antichi: Erodoto, Demostene,
Tacito, Tito Livio, Plutarco, Cicerone, Valerio Massimo, Appiano, Dione Cassio,
Quintiliano, Sallustio, Strabone, Svetonio e Polibio sono fra i più citati. Questi nomi
educano alla continua necessità del dialogo con la storia antica: la storiografia, come
infatti ci ricorda il professor Luciano Canfora, in «età classica e a lungo in seguito, altro
non è che il racconto della politica
2». Riconosciamo la costellazione degli storici del
passato quale interlocutrice privilegiata e, nel farlo, gli insegnamenti riconosciuti in
quella storia restituiscono una valida prospettiva ai fini di una costruzione aperta e
fertile. Montesquieu si pone in dialogo con il pensiero antico tanto che in
quell’immensa sapienza si registra una motivazione in più, legata ad un interesse
specifico ben evidenziato dal poeta Giacomo Leopardi – il quale cita proprio
Montesquieu ed il suo Essai sur le Goût – là dove l’interesse della romanità emerge da
cause ricollegabili ad un valore personale ed universale. Scrive Leopardi:
Con quello che dice Montesquieu, Essai sur le Goût. Des diverses causes qui
peuvent produire un sentiment, De la sensibilité, De la délicatesse, […] spiegate la
cagione per cui ci interessino tanto le Storie romana e greca, i fatti cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie ec. composte sopra quegli argomenti ec. ec. E come quell’interesse non ci possa esser suscitato da nessun’altra storia, o poema sopra altri fatti ancorché benissimo cantati, come dall’Ossian, o tragedie d’altri argomenti, quando anche appartengano alla nostra storia patria più immediata, come agli avvenimenti de’ bassi tempi ec. e molto meno dalle poesie orientali, e da cento altre belle cose volute e messe in voga dai nostri romantici, che di vera psicologia non s’intendono un fico. Tutto proviene dalla moltiplicità delle cause 2
Luciano Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Bur, Milano 2007, p. 38.
7 che producono in noi un sentimento, e sono, rispetto alle dette cose, ricordanze
della fanciullezza, abitudine presa, fama universale di quelle nazioni e di quei poeti, affezionamento ancorché involontario, continuo uso di sentirne parlare, rispetto venerazione ammirazione amore per quelli che ne hanno parlato, tutte ragioni la mancanza delle quali rende difficilissimo, e forse impossibile, il fare ugualmente interessante un soggetto nuovo, massime in poesia, dove tutto il diletto proviene dall’interesse, e non può stare colla sola curiosità, o desiderio d’istruirsi ec. come nelle storie e simili 3.
Il tema della molteplicità delle cause è un punto di snodo imprescindibile. Leopardi
riconosce in questa molteplicità il fattore determinante che mette in moto una serie di
effetti i quali sfociano in un sentimento. Montesquieu definisce così il sentimento:
Un sentimento – e questo ci tengo a sottolinearlo – solitamente non ha una sola causa nel nostro animo; è, se posso usare questo termine, una certa dose che ne comporta la forza e la varietà. L’ingegno sta proprio nel saper colpire più organi alla volta; per questo, se si prendono in considerazione gli scrittori più diversi, si realizza che i più amati e quelli che sono ritenuti i migliori sono proprio quelli che riescono a suscitare nell’animo molteplici sensazioni nello stesso tempo4.
La storia del mondo antico rappresenta un esempio dell’affiorare di un sentimento
capace di meritare un’approfondita analisi: lo studio di eventi e processi caratterizzanti
quei periodi, in particolare la storia di Roma, significa conoscenza di cause ed effetti e
si presenta come denominatore comune di tutto il corpus di Montesquieu.
Dagli antichi, Montesquieu raccoglie inoltre quella preziosa intuizione stilistica che,
tanto nella logografia quanto nella retorica, affiorava nell’esigenza di chiarezza
espositiva. Non più di un’intuizione però poiché se da un lato la scrittura di
Montesquieu è più complessa, se confrontata con stili classici greci e latini, dall’altro
tuttavia è indubbia una certa similarità. Spesso un’idea si mostra in poche frasi che in
una scultorea brevità riassumono concetti molto più articolati. Prendiamo ad esempio
Lo Spirito delle Leggi e vedremo una diversificazione di stili. Tale natura della scrittura
non esilia quella σεμνότς dignitosa propria dell’argomentare filosofico: in un sorso di
pagine Montesquieu riesce nell’impresa di condensare pluralità le cui ramificazioni
cellulari abiteranno tutta la sua opera. Tutto questo si può osservare già nelle
3 Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, in Tutte le opere, 2 vol., con introduzione e a cura di
Walter Binni e con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1976, volume II, p. 89.
4
Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Saggio sul gusto, traduzione italiana di Barbara Gambaccini, Edizioni Clandestine, Massa 2018, p. 23.
8
Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza:
esplorare le dense pagine di questo libro servirà a comprendere da vicino le cause di
quel binomio grandezza/decadenza che ha elevato prima e sepolto poi l’impero romano.
Ciò conduce all’acquisizione di un modello in cui le motivazioni delle vittorie e delle
sconfitte sono tanto antiche da risultare moderne: l’indagine su Roma è un richiamo
antico che parla ai moderni ed individua costanti tipiche del potere.
Le tesi di un autore rendono ragione di un’attualità sociale quando l’oggetto d’analisi
interessa la dimensione del potere. Se esiste un’antologia di problemi esemplari relativi
ad esso, le risposte non si esiliano nel perimetro chiuso di una specificità temporale.
Due i fuochi principali: da un lato il potere nella sua forma umana tutta interna alle
possibilità dell’uomo; dall’altro il potere nella sua esperienza fisica, tutta esterna
all’uomo. L’emersa differenza di queste dimensioni conserva una natura arbitraria:
l’uomo ha potere mentre la natura è potere. Lungi dall’essere questa una semplice
dicotomia terminologica o il gioco posticcio di un bisticcio verbale, essa struttura i due
concetti, la cui conoscenza istruisce dei vantaggi: apprendere le problematiche del
potere cui siamo esposti permette di poter agire per guarire il mondo da ciò che
potrebbe distruggerlo. È questa infatti una di quelle «verità di cui non basta persuadere,
ma che bisogna soprattutto far sentire
5» poiché è l’indifferenza l’effetto più lesivo di
una civiltà. Dobbiamo allora chiederci: come è possibile affinare lo sguardo sulle cose
umane? Quali i percorsi da seguire? Si può definire la filosofia di Charles-Louis de
Montesquieu una filosofia aperta che considera la diversa sintassi delle antropologie
umane: elementi artificiali e naturali si combinano e dall’urto di questa brillante
mescolanza si produce la misura specifica della realtà.
È importante, in questa introduzione, spiegare le motivazioni personali che mi hanno
portato alla scelta e all’approfondimento di questo autore. Molti ed inaspettati sono gli
incontri intellettuali che il dinamismo universitario regala nei suoi corsi come, ad
esempio, la conoscenza di pensatori incontrati in una remota realtà liceale, lasciati ad
appassire nelle consumate pagine di un manuale ed infine spenti nella memoria. Il
momento di questo incontro si traduce in una riscoperta. Studiando il pensiero di
Montesquieu ho avuto la possibilità di conoscere prospettive nuove nelle quali una
filosofia capillare si pone come condizione di uno sguardo non arreso alla superficie ma
si obbliga nella profonda archeologia della complessità. Prima di incontrare le opere di
5
Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lettere persiane, introduzione, traduzione e note di Lanfranco Binni, Garzanti, Milano 2017, p. 18.
9
Montesquieu mi ero arrampicato su altre pagine filosofiche, alcune evaporate nel corso
degli anni, altre rese solide da raggiunti approfondimenti personali. Lungi dal
dimenticare l’importanza che i tanti libri letti hanno avuto nella mia formazione, è
indubbio che, nell’originale percorso di ogni studente, esistano autori che rappresentano
uno spartiacque nella personale formazione culturale. Ho vissuto la lettura dello Spirito
delle Leggi quasi fosse una dendrocronologia filosofica in cui ogni cerchio non solo
mostrava un concetto ma riusciva a connetterlo ai cerchi tematici successivi,
dimostrando in primis quanto la bellezza anagrafica di una filosofia possa esprimersi
anche in epoche successive a quelle in cui fu pensata grazie alla sua generosa fertilità.
L’analisi filosofica non può prodursi in un fissismo austero poiché inciamperebbe in
una metodologia deteriore accecata nell’emarginazione di una sterile chiusura.
Montesquieu è fra i primi, nel panorama moderno, ad allargare l’analisi, dilatando i
punti di osservazione in un montaggio costruito sull’intreccio delle molteplicità. Da una
parte una razionalità esibita nell’esigenza di studiare il reale in tutte le componenti,
dall’altra un’impostazione metodica che costringe il lettore in un dialogo continuo.
L’eclettismo delle innumeri biforcazioni non deve considerarsi un esercizio di erudito
nozionismo: siamo in presenza di una frattura, resa possibile da quel nuovo sguardo sul
mondo che inaugura una scienza politica più ampia. L’intreccio ibrido dei rapporti
rappresenta la base della relazione sociale e accoglie la sfida di questo sapere
enciclopedico. Un conflitto, tuttavia, sfoglia gli intrecci fra singolarità individuale e
polimorfismo sociale: l’elemento fondante una scienza politica è l’educazione alla
pluralità e nessuna solipsistica singolarità – per quanto erudita – può esimersi
dall’affrontarla. Lo scontro/incontro fra l’esperire del soggetto e la natura multiforme
assume i tratti nitidi di una dialettica critica, lontana da detriti teorici che vorrebbero
seppellire le forme del reale in un mosaico stantio. Non meraviglia, nello Spirito delle
Leggi, la presenza di temi fino a quel momento filosoficamente poco considerati –
come, ad esempio, la fenologia climatica in rapporto agli usi e costumi della storia
dell’uomo – né una certa tematizzazione sismografica: essi temi sono espressione
matura di una eterogeneità non difforme dall’esperienza poliedrica del mondo. Il
pensiero magmatico di Montesquieu si coordina in un passaggio decisivo: la verità di
una cultura deve studiarsi nelle sue molteplici forme e nella comprensione delle
10
sfumature l’esercizio dello sguardo disciplina la moderazione di una raggiungibile verità
poiché, come ha scritto Jorge Luis Borges: «la sfumatura non è meno reale del colore
6».
L’opera di Montesquieu diviene allora un lungo viaggio: abitare il proprio tempo
significa riconoscere tanto le istante trasformatrici quanto essere consapevoli di ciò che,
attraverso la conoscenza, l’uomo – con la sua natura flessibile
7– può fare. La
dissonanza delle diversità non deve ingannare lo sguardo convincendolo
dell’impossibilità di dare un senso all’esistenza. Aristotele, ad esempio, nel libro II della
Politica, notava che «uno stato non consiste solo d’una massa di uomini, bensì di
uomini specificamente diversi, perché non si costituisce uno stato di elementi uguali
8».
Nella richiesta di accettare varietà e contraddizioni nonché quella natura flessibile di
tutti gli uomini di cui già Michel de Montaigne nei suoi Saggi aveva scritto
9si deve
leggere la chiave di violino che apre lo spartito di Montesquieu. Questo quadro
introduce una filosofia di connessioni in cui tutto si tiene perché ogni cosa vive nel suo
relazionarsi con le altre. In questa partitura si respira un’armonia particolare che
accoglie dissonanze tematiche e cambiamenti improvvisi di tonalità. Il carattere
mutevole delle circostanze, delle leggi, delle azioni, degli usi e dei costumi si specchia
nei lunghi capitoli dell’Esprit des Lois. In questa direzione è possibile riconoscere in
Montesquieu i prodromi di una scienza politica nuova. Tale impostazione si punteggia
nel merito di allontanare la miopia frettolosa degli sparsi pregiudizi e quell’acredine
soffocante, dimentica dell’importanza dello sforzo della comprensione: il giudizio
umano deve costruirsi sul complesso dell’evento. Cosa significa abbandonare i
preconcetti e pensare il tempo degli uomini utilizzando un nuovo sguardo? Significa
imparare a distinguere e comprendere il valore delle differenze. Qui la forza del
pensiero corre parallela all’esigenza irrinunciabile di studiare la miniatura di ogni
dettaglio. Se è forse vero che «di solito un uomo d’ingegno si trova a disagio in
società
10» e per questo «è portato alla critica perché vede più cose di un altro
11», tuttavia
6
Jorge Luis Borges, La misura della mia speranza, a cura di Antonio Melis e traduzione di Lucia Lorenzini, Adelphi, Milano 2007, p. 54.
7
Così viene, in prima istanza, definito l’uomo da Montesquieu nello Spirito delle Leggi: «L’uomo, quest’essere flessibile, che nella società si piega ai pensieri, alle impressioni altrui, è parimenti capace di conoscere la propria natura, quando questa gli viene mostrata, e di perderne perfino il sentimento, quando gli viene occultata». Cfr.: Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi, 2 vol., a cura di Sergio Cotta, Utet, Roma 2015, p. 51.
8
Aristotele, Politica, libro II, capitolo 2, 1261 a, a cura di Renato Laurenti, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 32.
9
«L’uomo è invero un soggetto meravigliosamente vano, vario e ondeggiante. È difficile farsene un giudizio costante e uniforme». Cfr.: Michel de Montaigne, Saggi, 2 vol., a cura di Fausta Garavini e con un saggio di Sergio Solmi, Adelphi, Milano 2005, p. 10.
11
egli non può non sottrarsi dal sociale, lasciando nel margine la sua intelligenza. Il
rischio è quello di fornire un pretesto all’uomo pieno di pregiudizi e quindi, come lo
descrive Montesquieu, un uomo mediocre il quale «cerca di trarre profitto da ogni cosa:
capisce bene che non può permettersi di perdere qualcosa per negligenza
12». Questi due
caratteri, l’uomo d’ingegno da una parte e l’uomo mediocre dall’altra, raffigurano
un’opposizione nella somatica sociale: chi pratica l’esercizio faticoso del pensiero –
l’uomo d’ingegno – deve immergersi nelle relazioni sociopolitiche e fondare il proprio
ragionare sulle leggi della ragione. Qualora decidesse di sottrarsi a questa necessità,
lascerebbe agire la solitaria avidità e la noncurante prospettiva dell’uomo mediocre
capace d’equivoco perché inadatto ad un costruttivo dialogo con il mondo degli altri
uomini. Imparare a camminare su questo sentiero non è un viaggio che finisce: capire
leggi, costumi, usi e tutta l’archeologia di un popolo rivela che, per quanto complicate
siano le sfumature umane, la difficoltà di conoscerle non ci esimerà mai dalla volontà di
comprenderle.
Ogni complessità è potere delle sfumature. Cosa significa questa espressione? Nel
Viaggio in Italia Montesquieu riassume in pochissime righe un approccio che
rappresenta un metodo:
Quando arrivo in una città, salgo sempre sul più alto campanile, o sulla torre più alta, per avere una veduta d’insieme, prima di vedere le singole parti; e nel lasciarla faccio la stessa cosa, per fissare le mie idee13.
Montesquieu osserva dall’alto la città per avere una panoramica generale e solo in un
secondo momento si inoltra in quelle che Marco Polo definiva le «rughe della terra
14»,
cioè le strade della città per conoscerne i particolari e scoprirne le specificità. Questo
schema inaugura un metodo nello studio delle complessità. Lo sguardo aereo e lo
sguardo in loco rappresentano più di una necessità: sono momenti distinti che
permettono la cattura dell’insieme. Bisogna abbandonare i luoghi comuni che rendono
inautentico il pensiero ed educarsi ad affinare il giudizio poiché come ha scritto Hugo
von Hofmannsthal «i più pericolosi dei nostri pregiudizi regnano in noi contro noi
11
Ibid., p. 209.
12
Ivi.
13 Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di Giovanni Macchia e
Massimo Colesanti, Laterza, Roma-Bari 2018, p. 156.
14
«E sappiate che l <e> rughe della terra sono sì ritte che l’una porta vede l’altra; di tutte quante encontra così». Cfr.: Marco Polo, Milione, introduzione e note di Ettore Mazzali, Garzanti, Milano 2018, p. 64.
12
stessi. Dissiparli è creatività
15». Il pregiudizio è mancanza di conoscenza, ostacolo,
impedimento dannoso. Sono dunque le sfumature ciò che il potere, in prima istanza,
deve studiare.
Essere nel proprio tempo impone di percorrere le arterie sociali e scavare in dettaglio
una realtà non nitida né chiara. Gli elementi concreti emergono da un vissuto e si
conoscono nella trasparenza abbacinante che deriva dall’impegno continuo nello studio
delle vicende umane. La dinamica degli incroci tematici si annoda nella riflessione fino
a raggiungere il senso di una verità in cui ogni prospettiva si individua nella sua
specificità. L’impostazione metodologica – leggere il reale significa scoprirlo nel suo
prodursi – si connatura all’obbligo della realtà: ne deriva un’algebra politica con lo
scopo di porre in essere il bisogno di uno scavo attento delle etimologie dei fattori in
quell’acerbo aggrovigliarsi di complessità defluenti in un polimorfo estuario sociale.
Come ha scritto Marco Aurelio: «Non esiste nulla che tanto ingigantisca l’animo quanto
il poter spiegare a se stessi con ordine e verità gli avvenimenti della vita meditati
singolarmente e il saperli osservare sempre in modo da comprendere a quale mondo
appartengano e a che servano, quale valore abbiano rispetto all’universo e all’uomo
16».
Cosa significa comprendere la complessità? Significa capire la chimica di ogni
connessione che lega un fenomeno ad un altro. Inseriti in questa intersezione siamo in
grado di studiare le ramificazioni di ogni complessità. Questo metodo vuole rispondere
al rischio di quello sdrucciolo atteggiamento in cui sembra regnare solo l’indifferenza e
quella preoccupante cecità dipinta molto bene dallo scrittore portoghese José
Saramago
17. Imparando ad analizzare l’oscillografia delle relazioni tra il mondo e le
cose il pensiero dello sguardo coglie la funzione di primo strumento poiché, come ha
scritto Roberto Calasso, l’esperienza di «gettare uno sguardo è la forma primordiale,
irriducibile della conoscenza
18».
Montesquieu viaggiò molto e molto conobbe e sempre la sua curiosità accolse la
bellezza di ciò che vedeva. Con un desiderio di conoscenza simile a quello dell’Ulisse
dantesco
19, nella ricca sorgente del viaggio si respirano nuove prospettive quando nel
15
Hugo von Hofmannsthal, Il libro degli amici, a cura di Gabriella Bemporad, Adelphi, Milano 2009, p. 57.
16
Marco Aurelio, I ricordi, traduzione di Francesco Cazzamini-Mussi e a cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 2015, p. 37.
17 Cfr.: José Saramago, Cecità, traduzione italiana di Rita Desti, Einaudi, Torino 1998. 18
Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, Milano 2010, p. 89.
19
Nel canto XXVI dell’Inferno Dante Alighieri narra dell’incontro con Ulisse e Diomede. Ulisse racconta al poeta fiorentino e a Virgilio la sua tragica fine. Il racconto di Ulisse mostra molto bene come fortissimo fosse la sua voglia di conoscere e di sapere: «“O frati”, dissi “che per cento milia / perigli siete
13
viaggiatore emergono scomposizioni produttive che ne arricchiscono l’anima. Lo
studioso Giovanni Macchia, nella sua prefazione al libro Viaggio in Italia, scrive: «il
piacere di vedere era per Montesquieu una cosa sola con il piacere di capire
20» e poche
righe dopo corrobora questa tesi osservando che questo
[…] piacere di vedere, di sapere, di capire, si estende a un infinito campionario di esperienze, dai fenomeni fisici alle leggi economiche, al clima, alla natura del suolo. Ed è una curiosità che partecipa insieme del naturalista e del sociologo, della scienza e del romanzo21.
Il momento della comprensione non si slega da un elemento materiale, cioè dal piacere
di aver raggiunto quella verità dei processi che interessa ogni componente del mondo.
L’intreccio di una sinossi panoramica con il puzzle delle singole particolarità dettaglia
in un processo di sintesi l’agire teorico sulla scacchiera della realtà.
Questo lavoro considera tre fasi: la fase del potere nella Roma antica, quella del
potere nella modernità ed infine quella del potere della natura. Dopo una breve biografia
– in cui significativo spazio è stato dato al Viaggio in Italia per sottolineare quanto fosse
importante l’esperienza acquisita attraverso la conoscenza diretta di paesi e città nonché
di usi e costumi diversi dal mondo francese – si prende in esame il libro Considerazioni
sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza, dove l’analisi del potere
si concretizza nell’individuare le forze che hanno portato Roma ad essere la più grande
potenza del mondo e quelle che l’hanno poi scomposta, divisa ed infine esiliata nella
sua fine. Il secondo passaggio prende in considerazione l’analisi che il filosofo Louis
Althusser ha proposto dell’opera di Montesquieu e si impegnerà in un commento della
sua interpretazione. Infine, nell’ultima parte, si studia il tema relativo al clima e alla
natura.
In questo lavoro saranno le parole degli autori – Montesquieu e Althusser – a far
affiorare le congiunzioni fra le parti che compongono una realtà politica costruita
sull’osservazione dei dati, sulle cause e sugli effetti. Studiando le differenze della
plurima voce del potere si è voluto mostrare la natura in parte simile ed in parte diversa
delle sue tonalità.
giunti all’occidente, / a questa tanto picciola vigilia / de’ nostri sensi ch’è del rimanente, / non vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol del mondo sanza gente. / Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”». Cfr.: Dante Alighieri, La Divina Commedia – Inferno, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice Firenze, Torino 1982, p. 294.
20
Montesquieu, Viaggio in Italia, op. cit., p. XXI.
14
Nel presente lavoro non si è voluto dunque affrontare la totalità del pensiero di
Montesquieu ma quegli spazi filosofici che definiscono il luogo di un cambiamento
essenziale nella storia della filosofia. Nella strutturazione degli argomenti presi in
considerazione si è proceduto seguendo un binario in cui la predominante è stata quella
di interrogare i testi nell’obiettivo ultimo di spiegare le filtrate ramificazioni dei poteri e
farne affiorare l’incastro. Ciò, riteniamo, abbia permesso l’emergere in superficie di
incroci tematici affluenti e di nodi decisivi, convinti dal senso del confronto e dalla
prosperità del dialogo, fruttuoso binomio capace di accogliere quella attualità teorica
che abbiamo riconosciuto nell’opera di Montesquieu.
15
I.
B
IOGRAFIA E OPERE DIM
ONTESQUIEUUna sola cosa è la sapienza: conoscere l’intendimento che governa tutte le cose attraverso tutte le cose22.
Eraclito La sapienza è il perfetto bene dell’anima umana, la filosofia è l’amore e la ricerca della sapienza23
.
Seneca, La dottrina morale
22
Eraclito, Dell’Origine, traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 2007, p. 86.
16
1. Primi anni, formazione ed educazione
Nel castello di La Brède, vicino Bordeaux, Charles-Louis de Secondat nasce il 18
gennaio 1689. Il padre si chiama Jacques de Secondat e la madre è la baronessa
Marie-Françoise de Pesnel
24. È importante ricordare che, come sottolinea Lanfranco Binni
nella sua puntuale introduzione alle Lettere persiane, lo stesso giorno della nascita –
seguendo un’usanza comune – durante la cerimonia del battesimo, il suo «padrino è un
povero mendicante della parrocchia, perché si ricordi per tutta la vita che i poveri sono
suoi fratelli
25». Per un periodo è una nutrice ad occuparsi e a prendersi cura di lui
26. Nel
1696 muore la madre. Jacques de Secondat scriverà della moglie come di una figura
significativa, dolce, molto versata e capace nella gestione degli affari e al tempo stesso
figura genitoriale attenta alle esigenze dei figli e molto religiosa
27. La vita scolastica di
Montesquieu inizia a La Bréde ma ben presto entra a far parte della Congregazione
degli Oratoriani
28. Le discipline e le materie che incontra e conosce in questa fase sono
tutte sottoposte ad uno studio attento e rigoroso. È questo il periodo anche dei primi
esperimenti letterari come la tragedia Britomare
29. Successivamente Montesquieu lascia
il collegio e nel 1708 si laurea in diritto e per completare i suoi studi dal 1709 al 1713 si
reca a Parigi dove conosce Bernarde de Fontenelle, figura fondamentale di studioso e
pensatore
30. Parigi è la città che gli permette di entrare in società, di conoscerla
attraverso varie esperienze: essa rimarrà sempre un luogo fondamentale e significativo.
La morte del padre, avvenuta nel 1713, lo costringe a tornare a Bordeaux per
occuparsi dell’eredità.
Due anni dopo, nel 1715, sposa Jeanne Lartigue.
La morte dello zio gli permette di ereditare sia le sue proprietà quanto il titolo di
barone di Montesquieu
31.
I ruoli cui le sue varie cariche lo obbligano sono eseguiti con scrupolo ma avvertiti
con sincero fastidio in quanto il barone di La Brède comprende che quello non è il suo
24
Tutte le informazioni relative alla biografia di Montesquieu sono prese dall’introduzione di Lanfranco Binni contenuta in: Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lettere persiane, introduzione, traduzione e note di Lanfranco Binni, Garzanti, Milano 2017.
25 Montesquieu, Lettere persiane, op. cit., p. VIII. 26 Ivi. 27 Ivi. 28 Ivi. 29 Ibid., p. IX. 30 Ivi. 31 Ivi.
17
ruolo e l’elemento pratico del diritto mal si concilia con la sua indole di natura più
filosofica. Scrive Binni:
[…] le procedure gli risultano oscure, ha una concezione del diritto più teorica che pratica, ha pessimi rapporti con i colleghi che si limitano a un’applicazione letterale delle norme giuridiche senza porsi domande, si sottrae agli impegni, si trova a dover applicare la tortura, a dispensare condanne a morte, alla deportazione nelle colonie penali, al lavoro forzato. Comincia molto presto ad avere problemi con il suo ruolo di magistrato32.
Queste esperienze mostrano le difficoltà di un approccio troppo univoco alle vicende
della vita e agli incarichi in parte ereditati (la carica di presidente di sezione del
parlamento di Bordeaux) ed in parte assegnati (la presidenza della Tournelle, cioè della
sezione penale)
33. Porsi delle domande e mettere in dubbio ciò che si ha di fronte sono
dunque il duplice sforzo che fin da questo momento Montesquieu chiede a se stesso.
Più stimolanti sono gli studi svolti all’Académie des Sciences, Belles-Lettres e Arts a
partire dal 1716. Inizia un periodo di riflessione e studio in cui molte tematiche di
natura filosofica ed antropologica si mescolano
34.
2. L’anno 1721: Lettere persiane
Il momento di svolta si ha con l’uscita di un libro che fa da spartiacque nella vita di
Montesquieu. L’opera Lettres persanes esce ad Amsterdam, anonima, nell’anno 1721:
questo romanzo epistolare apre una nuova prospettiva e contiene una pluralità di sguardi
e di voci che permette a Montesquieu – tramite la figura di Usbek, un ricchissimo
persiano, ed il suo amico ed accompagnatore Rica – di indagare la società francese
mettendone a nudo virtù e vizi nonché le storture e le singolarità. V’è qui il tentativo
riuscito di descrivere un sistema politico nella sua propria intrinseca contraddizione
senza diminuirne nessun aspetto perché «perfino nelle minime cose c’è qualche cosa di
singolare
35». Il libro ottiene un enorme successo e la critica ne sottolinea i molti aspetti
innovativi. Breve vita ha la prudenza della sua pubblicazione anonima ed invece rapida
quanto significativa è la consacrazione definitiva dell’autore nella società francese.
32 Ibid., pp. IX-X. 33 Ibid., p. IX. 34 Ibid., p. X. 35 Ibid., p. 34.
18
L’elemento centrale del libro è la capacità di osservazione, uno sguardo aperto, mai
ruvido e sempre impegnato nel sano esercizio della comprensione. Per giudicare un
comportamento è necessario capire la logica interna che lo governa, metterne a fuoco
l’origine ed evitare sempre l’acre facilità del pregiudizio. Mai, infatti, Usbek e Rica
avrebbero potuto approcciarsi, confondersi e vivere tanto la capitale francese quanto
ogni altra città, se avessero speso il loro viaggiare nella retina chiusa dei loro pregiudizi.
Coloro i quali vogliono dirsi aperti alla conoscenza – è questo uno degli
insegnamenti delle Lettere persiane – non possono essere vittime di quell’ottusa
negligenza o di quel disperato capriccio di chi si ritiene in possesso della verità. Lo
sguardo non deve cioè opprimersi all’interno del proprio vissuto né rapportare ciò che
vede nell’equivoco spento di una logica pregiudiziale. La vista, altrimenti, si ammala
diventando uno strumento limitativo, capace solo di sfiorare la superficie e non più di
osservare con attenzione la profondità.
A titolo di esempio si prenda la lettera LXIII dove Rica scrive:
[…] Quanto a me, faccio più o meno la stessa vita che tu mi hai visto fare: frequento molto la società e cerco di conoscerla: il mio spirito perde progressivamente tutto ciò che gli resta di asiatico e si adatta senza sforzo ai costumi europei. Non sono più così stupito di vedere in una casa cinque o sei donne in compagnia di cinque o sei uomini, e trovo che non è una cattiva idea.
Posso dirlo: conosco le donne soltanto da quando mi trovo qui; ho imparato di più in un mese di quanto avrei potuto in trent’anni di serraglio.
Da noi i caratteri sono tutti uniformi, perché sono costretti: non si vedono le persone così come sono, ma come sono costrette ad essere; in tale servitù del cuore e dello spirito, a parlare è soltanto la paura, che ha un solo linguaggio, e non la natura che si esprime in modi tanto diversi e appare sotto tante forme36.
Questa impostazione, questo sguardo spiazzante e aperto non barattano niente ma
accolgono la dimensione del reale nelle sua moltiplicata esperienza. Rica scrive, in
sostanza, che la cattività di ciò che è uniforme è ciò che mortifica la possibilità della
conoscenza. Altrettanto significativa è l’opera del 1724 intitolata Le Temple de Gnide
37.
36
Ibid., p. 86.
19
3. Il viaggio come momento di conoscenza
Nel 1726 Montesquieu decide di abbandonare la sua carica di presidente e si
trasferisce a Parigi
38. Nel 1728 diviene membro per elezione dell’Académie française
ma sono gli anni 1728-1731 quelli maggiormente significativi: Montesquieu compie un
lunghissimo viaggio per tutta l’Europa in cui visiterà l’Italia, la Germania, l’Olanda,
l’Austria e l’Inghilterra. Questo periodo vede Montesquieu impegnato a prendere nota
delle singolarità che scopre e ad appuntarsi gli eventi, gli aneddoti, le esperienze nonché
le curiosità che confluiranno in parte nel Viaggio in Italia. Questi appunti e annotazioni
sono preziosi perché ci permettono di vedere all’opera lo sguardo dell’autore dello
Spirito delle Leggi. È possibile stilare un piccolo elenco di alcune osservazioni che
ritornano, di città in città, in queste note di viaggio. Un primo aspetto è il fatto che
Montesquieu è sempre interessato alla topografia del luogo e alle sue fortificazioni. In
ogni città marittima che visita osserva sempre le caratteristiche del porto, tanto i punti di
forza quanto i punti deboli. Altrettanto significativa è la politica del commercio e più in
generale la dimensione dell’economia e il relativo numero di abitanti. Infine non
mancano lunghe impressioni riguardanti l’architettura e generose digressioni
nell’ambito delle opere artistiche.
Le impressioni sulle città ed i luoghi visitati sono interessanti perché in molti casi il
giudizio non è esente da contraddizioni. Di Venezia, ad esempio, Montesquieu scrive:
al primo colpo d’occhio Venezia è incantevole, e non conosco nessun’altra città in cui si sia così contenti di trovarsi, il primo giorno, per la novità dello spettacolo e dei piaceri39.
Appena poche pagine dopo, questa prima impressione viene ampliata e inserita in un
giudizio più ampio: «I miei occhi sono molto soddisfatti di Venezia, il mio cuore e il
mio spirito no. Non posso amare una città in cui nulla ci imponga di essere gentili e
virtuosi
40». Del popolo veneziano scrive:
Il popolo veneziano è il migliore del mondo: non c’è nemmeno una guardia agli spettacoli, non si sentono schiamazzi, non ci sono risse41.
38 Ivi. 39
Montesquieu, Viaggio in Italia, op. cit., p. 5.
40
Ibid., p. 18.
20
Venezia è una città avvantaggiata per quanto riguarda il commercio:
Per il commercio con l’Italia, Venezia è in una situazione più vantaggiosa di Genova, di Livorno e di altre città, perché nelle altre città bisogna portare le merci per via di terra, sia attraverso l’Italia, sia attraverso la Germania, mentre a Venezia le trasportano da ogni parte sul Po, che attraversa l’Italia, e sull’Adige, che sale verso la Germania: il che fa risparmiare molte spese42.
L’elemento però che più di ogni altro impressiona e stupisce Montesquieu è il
panorama: «Vedere Venezia dall’alto del campanile di San Marco è una cosa
bellissima
43».
Quando arriva nella città di Milano, nel settembre del 1728
44, scrive questo appunto
sulla lingua italiana:
La lingua italiana ha questo di abbastanza singolare: che non c’è nemmeno un libro che si possa produrre come modello: ognuno scrive a suo modo. Ci sono soltanto i dizionari che possono guidarci: purché si mettano parole italiane, la forma è indifferente. Tuttavia alcuni propongono il Boccaccio; altri Guicciardini45.
Ma Milano è una città che offre significative suggestioni da un punto di vista artistico e
culturale:
Ho visto ieri, nella chiesa delle Grazie, dei quadri eccezionali: 1. Nel refettorio, il famoso quadro di Leonardo da Vinci, che è una Cena, quando Gesù Cristo disse: «Unus vestrum me traditurus est». Si vede la vita, il movimento, lo stupore sui quattro gruppi dei dodici Apostoli; tutte le passioni del timore, del dolore, dello stupore, dell’affetto, del sospetto; lo stupore di Giuda è misto d’impudenza. Si dice che quando ebbe finiti i dodici Apostoli, trovò che aveva messo tanta dolcezza nel viso di due Apostoli, che fu in difficoltà nel fare quello di Gesù Cristo, e gli dissero: «Hai cominciato un quadro che solo Dio può finire». Nel quadro si vede, sullo sfondo, un cielo che sembra in una lontananza infinita. Insomma, è uno dei più bei quadri del mondo46.
42 Ibid., p. 21. 43 Ibid., p. 37. 44 Ibid., p. 67. 45 Ibid., p. 69. 46 Ibid., p. 71.
21
Della città di Torino osserva come essa sia «una città ridente, piccola
47» e ben «ben
costruita
48» mentre Alessandria è «una città grande, ma poco popolata
49».
Montesquieu fa un confronto tra i luoghi che visita e la Francia. Questo confronto
conduce ad un mutamento di prospettiva come avviene, ad esempio, riguardo al tema
dell’utilizzo della legna per riscaldarsi:
Generalmente, l’Italia, o almeno tutta la Lombardia e il territorio fra l’Appennino e il mare, manca di legna: tutte le montagne dell’Appennino sono nude, o ci sono ulivi, che offrono poche risorse per il riscaldamento; e le pianure sono coltivate, ed hanno solo gelsi e qualche pioppo. Tuttavia, è un privazione che non si avverte, sia perché l’inverno dura poco, sia perché si è abituati a non riscaldarsi. Questo mi ha fatto ricredere sugli eterni timori della nostra Francia, dove si sguazza nella legna, e dove si dice sempre che sta per finire. È certo che i paesi produttori di legna ne fanno un consumo molto inutile50.
Importante è anche l’impressione sulla città di Livorno:
Livorno dista 14 miglia da Pisa. È una gran bella città, molto popolata e ben fortificata. Le vie sono larghe, dritte, ben tracciate. La piazza è molto grande, e la città, ridente. […] Il mare penetra nella terra e fa come una specie di golfo, ed è lì che hanno fatto il porto di Livorno, mediante una gettata o molo. Il fondo del porto è pressappoco a mezzogiorno, e il molo verso occidente o sud-ovest. […] D’estate, nel porto di Livorno ci sono sempre una quindicina di navi straniere: nelle altre stagioni, di più, d’inverno, 50, 60 e anche 70.
Il lato orientale del porto, verso terra, è formato da una lingua di terra, che hanno rinforzato con palafitte e ghiaia; vi hanno costruito sopra dei magazzini e un grosso muro, per separare il porto da un porto più piccolo chiamato Darsena, che serve solo per le galee del Granduca e per le barche. Livorno è molto ben difesa, tanto dalla sua stessa posizione, quanto dalle due fortezze. Il mare entra nei fossati della città e dei forti, e la circonda da un capo all’altro51
.
L’impatto con le città porta anche ad un giudizio sul governo:
In conclusione, non è possibile vedere questa città senza farsi una buona opinione del governo dei granduchi, che hanno fatto là opere così grandi e belle, 47 Ibid., p. 81. 48 Ibid., p. 89. 49 Ibid., p. 96. 50 Ibid., p. 124. 51 Ibid., pp. 122-123.
22 una città fiorente ed un bel porto, malgrado il mare l’aria e la natura. Se c’è
qualcosa da ridire sulle fortificazioni è che sono troppo belle e troppo importanti per il principe, perché richiederebbero una guarnigione considerevole. Il Granduca, che ha solo 3000 uomini, è costretto a tenerne là una grandissima parte52.
In queste note di viaggio l’occhio del filosofo non manca di descrivere la bellezza
delle opere d’arte – come quando visita Palazzo Pitti e rimane affascinato dai lavori di
Raffaello:
Ho visto i quadri di Palazzo Pitti. Il difetto di questo appartamento è che la sala che divide i due appartamenti è piccolissima. L’appartamento a destra è stato dipinto da Pietro da Cortona; ci sono anche alcuni quadri. Quello a sinistra è pieno di quadri dei migliori artisti di ogni genere: ma il quadro più bello mi sembra una Vergine di Raffaello, che a mio gusto offusca tutte le altre Vergini che ho visto. Vi trovate una quantità di quadri di Andrea del Sarto, molti del Tiziano, parecchi di Raffaello, del Correggio, del Carracci, del Parmigiano, del Guercino, di Rubens e d’una infinità di altri autori53.
Un’altra caratteristica significativa che riguarda il popolo italiano è il suo continuo
bisogno di musica:
Gl’Italiani vogliono sempre musica nuova: le loro opere sono sempre nuove. Forse perché la loro musica è più capace di creare del nuovo? Ci sono due musiche italiane: la vecchia e la nuova. La vecchia non può essere più sopportata dagli Italiani54.
Quando raggiunge Roma – definita «città eterna
55» e la «più bella città del mondo
56»
- scrive, ad esempio, di una curiosa singolarità:
Non potete credere fino a che punto piacciano ai Romani le rappresentazioni di battaglie. Danno dei combattimenti sulla scena: due eserciti che s’inseguono dietro le quinte, poi ritornano. Il popolo è incantato: e la cosa dura a lungo. Tutto ciò che è spettacolo incanta gli occhi italiani. Sono curiosi, vogliono vedere; i Romani sono
52 Ibid., p. 123. 53 Ibid., p. 142. 54 Ibid., p. 164. 55 Ibid., p. 161. 56 Ibid., p. 211.
23 curiosissimi. Perciò non bisogna dar loro un’opera senza scenari: non ci andrebbe
nessuno57.
Montesquieu è molto soddisfatto di Roma e nota:
Per uno straniero è più facile a Roma che a Parigi frequentare la società, e nello stesso tempo studiare; a Parigi una festa è sempre seguita da un’altra festa; sarete impegnato oggi perché lo siete stato ieri. A Roma, in tutto c’è più respiro58.
Un aspetto che non deve passare inosservato di queste note di viaggio italiane è il fatto
che Montesquieu scrive degli appunti che riguardano l’utilizzo dei colori e sui rapporti
degli stessi con la natura:
I colori, come l’azzurro, il rosso e il giallo, si staccano dal quadro perché la loro discordanza con il colore dell’aria è maggiore, mentre i colori cangianti, e i colori meno vivi, penetrano in profondità perché somigliano di più all’aria.
Regola generale. – Le cose che noi vediamo da vicino ci mostrano dei chiari
forti e delle ombre forti, ed i colori conservano la loro natura, e sembrano più carichi. Le cose che vediamo da lontano ci appaiono d’un colore più chiaro, perché c’è molta aria frapposta. I colori non conservano a lungo la loro natura, sono più deboli e meno carichi, e si distingue meno la luce dall’ombra; nell’oggetto si vede soltanto un vago chiaro. Insomma (regola generale), a misura che un corpo si allontana, il chiaro diminuisce, ma l’ombra diminuisce ancora di più, così che l’insieme appare di un chiaro sbiadito; infatti ciò che dà rilievo ad un chiaro è il contrasto con una grande ombra vicina. Ora, è proprio quello che accade nei corpi che non sono lontani, mentre nei corpi lontani ci sono solo chiari, e niente ombra. Bisogna dunque stare bene attenti a mettere, nelle figure in primo piano, i grandi chiari e le grandi ombre a misura che le figure vanno verso il fondo; ciò prova nello stesso tempo la diminuzione dei chiari59.
Quando visita Napoli scrive del Vesuvio:
Sono stato sul Vesuvio, che dista circa 8 miglia da Napoli, ma bisogna salire un bel po’. Le terre intorno, prima che la salita diventi troppo ripida, sono fertilissime, e mi sembra per il fuoco che è sotto terra (tutta la zona ne è piena), e non per le ceneri, che non fanno che guastare i frutti. Vi si producono ottimi vini. Il monte ha
57
Ibid., pp. 166-167.
58
Ibid., p. 185.
24 due cime: su quella più vicina a Napoli, non ci sono fenditure, né fuoco, ed è qua e
là coltivata.
Ad un paio di miglia dal cratere, c’è solo cenere, e, anche più lontano, tutta la terra è ricoperta di marcasite, eruttata dal vulcano. Da notare che spesso il fuoco erompe da punti che non presentano spaccature, e che dopo si richiudono. Sono salito fino alla cima, dove ho visto un cratere molto largo e profondo, di circa 50 passi di circuito. Prima di arrivare all’estremo limite, c’è un altro cratere; dopo, si scende, e si risale verso l’altro ciglio. La discesa è uguale alla salita, ciascuna di 12 o 15 passi. Quest’ultima salita è la più difficile60
.
Anche la città di Ancona desta molto interesse:
Ancona è una città importante […] Ma quel che bisogna vedere, ad Ancona, è il porto. […] Il porto è artificiale, e fu costruito da Adriano: si vede ancora, sul molo orientale, un bell’arco di trionfo dedicatogli dai Romani; è di grossi blocchi di marmo, ma sembra formato da un unico blocco, molto ben proporzionato61 [...]
Altrettanto importante è il giudizio sulla Romagna:
La Romagna è bellissima. Ad ogni stazione di posta c’è una bella città, ben costruita, ben disegnata; e tutte hanno una bella piazza, perché nella maggior parte, furono fondate dai Romani, i quali (come dice Vitruvio), quando costruivano una città, pensavano per prima cosa a fare una piazza, luogo principale in cui ci si doveva riunire62.
Mantova viene definita una «seconda Venezia
63» e le
terre del Mantovano sono assai fertili, tanto che il raccolto di ogni anno basta per sette anni, e il superfluo viene esportato a Venezia, a Modena e a Parma, ma soprattutto a Venezia64.
Da questa lunghissima panoramica si può vedere il momento del viaggio – così come
sarà poi per Goethe e per Stendhal – costituire l’evento più formativo, rappresentando
esso l’occasione di ampliare lo sguardo per conoscere realtà esemplari, sistemi giuridici
complessi, governi convincenti ed altri meno ed usi e costumi di popoli diversi, poiché
60 Ibid., p. 223. 61 Ibid., p. 263. 62 Ibid., p. 271. 63 Ibid., p. 299. 64 Ibid., p. 300.
25
«si viaggia per vedere costumi e maniere diverse, e non per criticarli
65». I lunghi anni
trascorsi lontano dalla Francia lo vedono immerso in conoscenze nuove tanto che
quando farà ritorno in patria si dedicherà alla scrittura di queste scoperte, riordinando le
impressioni avute e i giudizi raccolti in questo arco temporale.
4. Il mondo degli antichi romani
Tornato dai suoi viaggi, nel 1734 Montesquieu dà alle stampe il libro Considerazioni
sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza: è questa un’opera
importante poiché è una delle prime in cui si possono leggere quelle problematiche
relative alla natura del potere che emergeranno poi nello Spirito delle Leggi. La
trattazione di Montesquieu espunge ogni elemento magnificatorio per analizzare invece
le forze che hanno agito nella gemmazione dell’eccelsa fioritura e nel disfarsi
eterogeneo che ha portato al declino di Roma. Non v’è dunque nessun tentativo di
idealizzazione ma l’obbligo di comprendere le cause. Osserva Binni che
Montesquieu abbandona gli stereotipi di una storia come successione di eroi ed imperatori e prende in esame altri fattori finora ignorati: la virtuosa dialettica tra senato e popolo nella Roma repubblicana, e la deriva verso il dispotismo nella Roma imperiale, vittima della sua eccessiva espansione militare; il ruolo determinante della “virtù civica” come “spirito” generale della repubblica, e il suo declino nella Roma imperiale; il ruolo del dispotismo nella corruzione della virtù civica. La corruzione di Roma è iniziata con Cesare e Augusto, con gli abusi sempre più tollerati dei loro generali, con la militarizzazione della società e l’incondizionato asservimento dei vecchi e nuovi cittadini al potere imperiale. Abbandonati i valori della repubblica, tutto si corrompe e crolla. […] Ma è anche una lettura del retroterra classico della grande storia, non proiettato in un passato perduto ma considerato fondamento geologico del presente: lo “spirito generale” della Roma repubblicana, la sua virtù civica, i suoi complessi equilibri tra i poteri, sono esperienze e valori di riferimento per le società moderne, per contrastare le sciagure della corruzione e del dispotismo66.
65
Ibid., p. 103.
26
5. Un libro fondamentale: Lo Spirito delle Leggi
In questo periodo Montesquieu inizia a pensare alla sua opera fondamentale. Sono
questi gli anni in cui matura la ferma volontà di combinare i suoi studi e le sue
esperienze in un libro che raccolga la complessità del reale. Ogni frammento di realtà
vive inserito in una serie estesa di rapporti che formano una rete di relazioni: coglierne
lo spirito significa non sottrarsi all’impegno di costruire un senso al quale siamo
obbligati. La gestazione dello Spirito delle Leggi è lunga e faticosa – sono infatti circa
dodici anni di lavoro – anche a causa della grande varietà polimorfica dei temi che
ospita.
La sete di curiosità alla base dell’Esprit des Lois porta il barone di La Brède a tentare
di mappare questa complessità umana. L’esigenza di un’istruzione continua era già
osservabile nelle parole di Usbek nella lettera XLVIII delle Lettere persiane:
Chi ama istruirsi non conosce l’ozio. Sebbene io non abbia impegni importanti, sono continuamente occupato. Passo la mia vita ad osservare. La sera scrivo ciò che ho notato, visto, udito durante il giorno: tutto mi interessa, tutto mi stupisce, sono come un bambino i cui organi ancora teneri sono vivamente colpiti dalle minime cose67.
Si può quindi osservare il coraggioso tentativo di studiare il genoma del mondo sociale
– nelle sue articolazioni – per costruire una filosofia capace di coglierne il senso e le
connessioni. La lettera XLVIII mostra bene come l’atteggiamento di scoperta non possa
sottrarsi allo stupore e alla meraviglia che già Aristotele aveva riconosciuto essere il
momento primo di ogni filosofare
68.
La versione definitiva dello Spirito delle Leggi – benché già pronta nell’anno 1747 –
viene pubblicata anonima a Ginevra nel 1748. Celeberrima è la definizione che ne diede
il filosofo D’Alembert: «Un monumento immortale dell’ingegno e della virtù del suo
autore». Nonostante la mole considerevole, il libro diviene ben presto un caso
editoriale: se da un lato molti furono gli ammiratori del lavoro, non minori furono le
67
Ibid., pp. 62-63.
68 «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia:
mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori […]». Cfr.: Aristotele, Metafisica, Libro I, capitolo 2, 982 b, introduzione, traduzione, note e apparati di Giovanni Reale e appendice bibliografica di Roberto Radice, Mondolibri, Milano 2003, p. 11.
27
critiche che il libro ricevette tanto da costringere l’autore a pubblicare nel 1750 uno
scritto in cui difese il suo lavoro: Défense de l’Esprit des Lois. Nel mese di dicembre del
1751 l’opera viene messa all’Indice e alla fine dello stesso anno anche le Lettere
persiane vengono giudicate sconvenienti e offensive nei confronti della religione.
Tuttavia, nonostante queste difficoltà, i lavori di Montesquieu iniziano a conoscere
significative traduzioni sia in Inghilterra che in Italia
69.
6. Gli ultimi anni
Gli ultimi anni di Montesquieu sono caratterizzati dalla preparazione di alcuni libri
tra cui: Histoire véritable – un lavoro che affronta molti problemi tra cui la dottrina
della metempsicosi – e il romanzo Arsace e Isménie: entrambi questi lavori
conosceranno una pubblicazione postuma
70. Sia Diderot che D’Alembert propongono a
Montesquieu una collaborazione per alcune voci dell’Encyclopédie ma il barone di La
Brède rifiuta sostenendo che riguardo ai concetti di Democrazia e Dispotismo aveva già
ampiamente scritto nello Spirito delle Leggi.
Inizia allora a scrivere un articolo che riguarda il problema estetico del gusto ma
questo scritto rimarrà incompiuto e verrà pubblicato dopo la sua morte
71.
Montesquieu muore il 10 febbraio 1755.
69
Montesquieu, Lettere persiane, op. cit., p. XVII.
70
Ivi.
28
II.
L’
UOMO E IL POTEREL’equilibrio sempre è sovrano72 . Eschilo, Eumenidi Ma gli uomini vollero essere illustri e potenti, / perché su fondamento stabile perdurasse la loro fortuna / e opulenti potessero condurre una placida vita; / invano, perché, lottando per ascendere al vertice degli onori, / si fecero pieno di insidie il cammino, / e, quand’anche vi giungano, dal vertice l’invidia, come un fulmine, / colpendoli talvolta li precipita con disprezzo nel Tartaro tetro; / perché per l’invidia, come per il fulmine, per lo più ardono / i vertici e tutte le cose che si elevano al disopra di altre; / sì che è molto meglio obbedire quieto / che aspirare al potere supremo e al possesso di regni. / Lascia dunque che invano sudino sangue, / lottando per l’angusto cammino dell’ambizione; / giacché il loro sapere dipende dalla bocca altrui, e mirano alle cose / seguendo ciò che hanno udito dire piuttosto che i propri sensi, / né ciò è ora, né sarà in avvenire più di quanto fu per l’innanzi73
.
Lucrezio, La natura
72
Eschilo, Eumenidi, in Orestea, introduzione di Umberto Albini e nota storica, traduzione e note di Ezio Savino, Garzanti, Milano 2010, p. 235.
73
Lucrezio, La natura, introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione e commento di Francesco Giancotti, Garzanti, Milano 2002, p. 321.
29
1. Riflessioni generali sulle Considerazioni sulle cause della grandezza dei
Romani e della loro decadenza
Le Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza
viene pubblicato anonimo nel 1734 nella città di Amsterdam. Benché questo testo non
ottenne buona accoglienza – con le doverose eccezioni di D’Alembert e
successivamente anche dello storico Edward Gibbon
74– è tuttavia un’opera
determinante per la riflessione sul potere e sulla sua natura. Fin da subito questo scritto
conosce traduzioni in inglese, in italiano e in tedesco
75. Nonostante questa meritoria
diffusione, molti detrattori sottolineano una scarsa organicità nell’esposizione, una
mancanza quasi totale di datazione e soprattutto un uso delle fonti molto libero e spesso
discutibile
76.
Scrive infatti lo studioso Davide Monda che
è un fatto che, per esempio, nel primo capitolo del libro, egli non mette minimamente in discussione l’attendibilità delle testimonianze relative ai primi secoli di Roma: figure leggendarie come Romolo, Numa o Lucrezia vengono da lui presentate e considerate alla stregua di personaggi storici quali Cicerone, Caligola o Giustiniano.
Il Nostro, d’altronde, non poteva ignorare che, dalla seconda metà del Seicento in poi, diversi valenti studiosi […] si erano interrogati in maniera ampia, approfondita e filologicamente rigorosa in merito, appunto, alla corrispondenza al vero della storiografia della Roma antica, giungendo sì a conclusioni divergenti, ma concordando sulla necessità di porsi criticamente di fronte a tali fonti. Montesquieu, inoltre, utilizza gli storici latini e greci in modo piuttosto arbitrario e tendenzioso e annota a piè di pagina senza troppa precisione77.
A molti sembrò difficoltoso riconoscere in queste pagine lo stile cristallino
dell’autore delle Lettere persiane, opera che, al contrario, seppe dipingere il racconto di
uno sguardo lontano in una limpida prosa capace di descrivere senza pregiudizio i molti
usi e costumi dell’epoca francese.
74
Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza, introduzione, traduzione e note a cura di Davide Monda, Bur, Milano 2001, p. 8.
75
Ibid., p. 9.
76
Ivi.
30
Ma forse è necessario chiedersi le motivazioni di questo cambio di stile. Se è vero
che una lettura delle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro
decadenza si riconosce per una diversa esposizione, a tratti faticosa, a tratti forse troppo
sintetica, dobbiamo però prendere in esame gli obiettivi di queste pagine. Non bisogna
dunque leggere con gli occhi di uno storico – poiché lo scopo non è di tipo didascalico o
archeologico – ma proporsi nello sforzo di ricercare quell’esigenza che osserva nei fatti
storici l’episodio importante, il fatto politico fondamentale, le motivazioni latrici di un
cambiamento. Se l’impostazione non fosse questa, poco senso avrebbe avuto usare nel
titolo l’espressione ‘considerazioni’: l’impiego di questo termine suggerisce già
l’istanza centrale della trattazione, impostando il discorso in una direzione precisa. Non
secondario è il binomio oppositivo grandezza/decadenza: si studieranno quelle istanze
che, nella storia di Roma, hanno portato alla sua grandezza e alla sua decadenza. Lo
scopo è quello non tanto di vestire i panni dello storico che con estrema acribia
ripercorra le varie fasi della romanità, ma quello di evidenziare, sottolineare e far
emergere le forme del potere susseguitesi nei lunghi secoli, responsabili tanto della
grandezza quanto della decadenza di una intera civiltà. Lo studio delle cause delle
metamorfosi del potere nell’antica Roma conduce il lettore nella comprensione di alcuni
punti fondamentali – poiché riguardano in primis l’agire dell’uomo – i quali, pur
mutando nelle forme di ogni periodo storico che li accoglie, hanno elementi comuni. La
conoscenza di questa similarità racchiude in sé la possibilità di bene operare nelle
vicende umane. Per utilizzare uno strumento – il potere – si ha la necessità di conoscere
le sue funzioni, di sapere quali siano le sue potenzialità e di conoscere infine anche i
suoi punti deboli, i suoi difetti e le sue difficoltà – in una parola, occorre conoscerne il
meccanismo. Tuttavia le epoche pur cambiando e con esse gli uomini, i loro usi e i loro
costumi, certe strutture permangono. Questo rende inalienabile l’esigenza della
conoscenza di quelle strutture che orchestrano il vivere degli uomini.
In questa prospettiva vengono in superficie due piani: da un lato emerge un piano
materiale strettamente cronologico che si innerva nell’altro, quello delle cause profonde.
Molte sono le domande presenti in questo libro: che cosa succede, ad esempio, nel
passaggio dalla fase della repubblica a quella dell’impero? Cos’è che governa il lungo
periodo di Augusto? Quali sono gli equilibri che si vengono a creare dopo la morte di
Augusto? Quando e perché inizia la decadenza di Roma? La rovina può avere la sua
origine in cause legate al costume dei romani? Fino a che punto le ambizioni
rappresentano un elemento accettabile all’interno di un governo? Quest’elenco di
31
domande è ciò che indirizza l’argomentare: esistono dei motivi che spingono gli uomini
in una direzione o in un’altra. Lo studio di questi motivi è il centro da cui occorre
partire. Lo studio della storia di Roma non è un supplemento metastorico occasionato
dalla curiosità del filosofo ma rappresenta un vero e proprio modello.
2. Gli elementi di grandezza e di decadenza
Montesquieu apre la sua riflessione esaminando l’espressione pratica del dominio
romano: essa, seppur in una forma primordiale e ancora non ben solidamente strutturata,
poteva tradursi – grazie all’esercizio della forza – in uno scopo già egemonico. Romolo
fu il primo ad inaugurare il volto bellico di quella che sarebbe divenuta poi la strategia
politica di Roma. Battaglie e conquiste da sole però non erano sufficienti a costruire una
civiltà. Dopo le contese con il fratello, ottenuto egli solo il comando, Romolo iniziò
un’opera ampia di fortificazione edile e riconobbe contemporaneamente la necessità di
una legislazione normativa. Scrive Tito Livio:
Compiute secondo il rito le cerimonie sacre e riunito in assemblea il popolo, che non poteva unificarsi in un unico organismo altrimenti che con leggi, Romolo dettò norme giuridiche; e, stimando che queste sarebbero apparse inviolabili a quelle genti ancora rozze solo se egli stesso si fosse reso onorando per mezzo dei segni esteriori dell’autorità, si fece più maestoso col fasto dell’abbigliamento e, particolarmente, con la guardia di dodici littori. […] Si ampliava intanto la città, includendo sempre nuovo territorio entro la cerchia fortificata, poiché fortificavano in vista di una popolazione futura, piuttosto che in proporzione con quella che v’era allora. Affinché poi non riuscisse inutile tale ampiamento dell’urbe, Romolo intese ad aumentar la popolazione secondo l’antico accorgimento dei fondatori di città, i quali attiravano a sé gente ignobile e oscura facendola apparire oriunda del territorio, e, nel luogo che ora, per chi discende [dal Campidoglio] è cinto da una siepe fra due boschi, aperse un asilo. Ivi dai paesi vicini accorse, avida di novità, ogni sorta di gente, alla rinfusa, liberi e servi; e fu quello il nerbo primo dell’incipiente grandezza. Pago di tale rafforzamento, dispose per esso un Consiglio. Creò cento senatori, o perché tal numero era sufficiente o perché soli