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Beni demaniali e demanio marittimo: un percorso tra storia e diritto

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Beni demaniali e demanio marittimo:

un percorso tra storia e diritto

Candidato: Relatore:

Giada Cibei Prof. Alfredo Fioritto

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A mia mamma

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INDICE

INTRODUZIONE

………...…...pag.5

CAPITOLO PRIMO: “IL DEMANIO NELLA

STORIA”

1.1 Il demanio regio e quello feudale………...pag.14 1.2 Il demanio marittimo: dagli Assiri ai primi codici del

Regno d’Italia………...……….pag.21 1.3 La nascita del Diritto Amministrativo…….………pag.27

CAPITOLO SECONDO: “IL DEMANIO

MARITTIMO ALL’INTERNO DEL DIRITTO

PUBBLICO”

2.1 Il territorio come elemento costitutivo dello Stato:

evoluzione del concetto………...………..pag.38 2.2 Stato e territorio in Italia: i beni

demaniali...………..pag.44 2.3 Il Demanio marittimo………...………..pag.57 2.4 La gestione del Demanio marittimo dopo l’istituzione delle regioni………...………pag.72

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CAPITOLO TERZO: “LE CONCESSIONI DEL

DEMANIO MARITTIMO”

3.1 La disciplina delle concessioni dei beni del demanio marittimo dal codice del 1865 al secolo XX……...pag.91 3.2 Il novecento: adeguamento dei concetti di beni demaniali e uso pubblico……….………..pag.93 3.3 Enti di gestione portuale………...………...pag.98 3.4 Il codice della navigazione del 1942 e successivo

regolamento e le concessioni demaniali

marittime...………….pag.101 3.5 La recente evoluzione della disciplina delle concessioni turistico ricreative………....………pag.115

CONCLUSIONI……...…....………..

pag.

127

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INTRODUZIONE

Oggetto del presente elaborato è una disamina del percorso giuridico sul demanio e, in particolare, il demanio marittimo, condotta sul piano dell’evoluzione storico-giuridica del pensiero scientifico.

Nel primo capitolo, il più marcatamente storico, si va dal Liber Augustalis, che segna la profonda rivoluzione attuata nello Stato ad opera dell’imperatore Federico di Svevia, attraverso l’innovazione amministrativa attuata dal sovrano, ai primi codici della Marina Mercantile Italiana del 1865, seguendo le vicende dei beni demaniali e del demanio marittimo.

Federico chiamò demanium esclusivamente i beni che erano soggetti solo al re, pertanto i beni dei grandi feudatari non rientravano nella categoria del demanio.

Non si poteva trascurare la dottrina del tempo che concordava con l’impostazione data da Federico al concetto di demanium, escludendo la possibilità di una qualche forma di demanio feudale, e si riportano quindi le teorie sul demanio di due giuristi dell’epoca, Andrea d’Isernia e Luca da Penne.

Il primo riteneva che costituissero il demanio non solo le città e i castelli, ma anche tutti i diritti di esazione spettanti al re. Secondo Andrea non si dovevano confondere i beni demaniali con quelli che costituivano il patrimonio personale del re. Gli uni erano distinti dagli altri dalla disciplina speciale che regolamenta il demanio, del quale neppure il sovrano poteva disporre a suo piacimento.

Un secolo più tardi Luca da Penne, per primo, fa un parallelo fra la disciplina dei beni dei feudi soggetti agli

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obblighi demaniali e la normativa della “mensa” spettante ai vescovi.

Per il demanio marittimo, in particolare, è possibile risalire al Codice di Hammurabi del 1745 a.C., del quale si riportano gli “articoli dedicati alla navigazione vanno dal 234 al 24

Anche presso i fenici e i greci erano applicate leggi che regolamentavano la navigazione, soprattutto il naufragio e il recupero delle merci gettate in mare, risale a quell’epoca la lex Rhodia de iactu, richiamata anche nel Digesto.

Appartengono all’alto Medio Evo le Tavole Amalfitane che regolamentarono la navigazione fino al XVI secolo, quando ad esse fu sostituito il Consolato del Mare, un’altra raccolta delle consuetudini che le navi che svolgevano i loro traffici nelle acque del Mediterraneo occidentale avevano seguito dal 1200 al 1600.

I Paesi Nordici avevano regolamentato la materia con le “Leggi di Wysbi,”, mentre la navigazione lungo la costa atlantica della Francia era disciplinata dai “Roles d’Oléron.

Solo alla fine del secolo XVII si ebbe il primo vero codice marittimo di diritto pubblico e privato, cioè l’ “Ordonnance de la Marine” pubblicato in Francia nel 1681, un testo completo, che ha ispirato molte normative successive.

Fino alla viglia dell’unificazione, gli stati e staterelli in cui l’Italia era frazionata avevano regolamentato la materia ciascuno con leggi proprie, differenti le une dalle altre.

Il Parlamento italiano aveva cominciato a dibattere sulla necessità di innovare la materia codicistica ancor prima dell’unificazione del Regno. Il 17 marzo 1861 nacque il

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Regno d’Italia unificandola. Quattro anni dopo, dopo un lungo iter parlamentare, dettagliatamente descritto, con regio decreto 25 giugno 1865 n. 2360 venne promulgato il primo Codice della Marina Mercantile.

Il codice conteneva norme di diritto amministrativo,

penale, processuale, internazionale, nonché una

classificazione dei beni costituenti il demanio marittimo, e prevedeva anche, all’art.429, le cause e conseguenze della sdemanializzazione.

Intanto la dottrina del tempo affrontava vigorosamente il tema della “specificità” dei beni pubblici. Il pensiero scientifico pre-orlandiano considerava i beni pubblici non tanto come uno degli elementi morfologici del territorio dello Stato, sottomessi alla sua sovranità, quanto piuttosto delle vere e proprie risorse da custodire perché ne potessero godere anche le generazioni successive.

Vittorio Emanuele Orlando, però, riteneva che vi fossero altre priorità, superiori alle istanze. Si afferma così il

concetto per cui i beni demaniali appartengono

esclusivamente allo Stato e devono essere assoggettati al suo potere e alle sue necessità, soprattutto a quelle della difesa e della sicurezza.

Fra gli ultimi decenni del secolo XIX e l’inizio del XX, attraverso la crescita degli apparati burocratici pubblici, all’assunzione di sempre nuovi servizi e compiti da parte dello Stato, all’ingresso deciso degli interessi sociali organizzati all’interno dell’amministrazione, si dava inizio alla costruzione dello “Stato sociale – amministrativo, cosa che richiedeva agli studiosi del diritto la formulazione di adeguate metodologie e innovative teorie fondanti a sostegno delle nuove relazioni intervenute fra Stato e società, dando vita alla nuova scienza giuspubblicistica.

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Si segue qui lo sganciamento della dottrina dal concetto tedesco dello Stato – persona, e il percorso del pensiero giuridico che nel raffronto fra diritto e sociologia in ambito privatistico e pubblicistico, cercò di definire l’episteme delle diverse discipline.

Continua la disamina dell’evoluzione scientifica con l’approfondimento delle opere di illustri giuristi da Dante Majorana a Santi Romano che elevò definitivamente la nuova disciplina a rango di scienza.

Si assiste dunque all’assunzione a fattispecie astratta dei benefici concreti della società i quali, pertanto, ricevevano connotazione giuridica dall’interazione con lo Stato persona –giuridica.

Nei primi anni del novecento Oreste Ranelletti studiò gli aspetti teleologici della fattispecie, ponendo il rapporto fra interesse pubblico e società da un lato, e Stato e interesse pubblico dall’altro. La conclusione cui pervenne il giurista fu che soltanto l’interesse che poteva dirsi pubblico rientrava di diritto tra i fini dello Stato.

La conclusione di Ranelletti rendeva possibile far rientrare nell’ambito del diritto pubblico le attuali azioni di diritto amministrativo senza frammentare la nozione di diritto pubblico.

Viene ricordato altresì Federico Cammeo al quale si deve un apporto di non poco momento all’esegesi delle teorie formatesi sull’argomento del demanio.

Si giunge quindi alla conclusione che gli studi di Ranelletti, Cammeo e Santi Romano, abbiano portato alla sua più completa, profonda e articolata conclusione la ricerca scientifica, compiuta dalla dottrina italiana ed europea, in materia di demanio e patrimonio pubblico, infatti l’opinione univoca della dottrina italiana vedeva nell’uso pubblico

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l’elemento qualificante della demanialità di un bene, e da questo punto di vista i giuristi erano confortati dalla giurisprudenza.

Viene quindi illustrato altro indirizzo dottrinario contrario al precedente, i cui maggiori rappresentanti furono Guicciardi, Meucci, Pacifici Mazzoni, De Gioannis Gianquinto.

Nel secondo capitolo si segue il percorso giuridico, ma in parte anche storico, del demanio marittimo all’interno del diritto pubblico.

Atteso che la conformazione geologica del nostro Paese sviluppa circa 10.000 chilometri di costa, è evidente che il demanio marittimo costituisce una parte cospicua del territorio dello Stato, pertanto il capitolo si apre con un approfondimento del concetto di territorio e della sua relazione/interazione con quello di Stato.

Si esaminano perciò le teorie che si sono succedute sull’argomento a partire dal diritto romano per giungere ai giorni nostri con i contributi di autori come M. Lawers, S. Patzold, F. Chabod, M. Augé, Heller, Smend, Schmitt, P. Lanand, U. Forti, E. Radnitzky, e, immancabile, H. Kelsen la teoria della Grundnorm dominerà la dottrina dello Stato del Novecento.

Il territorio, e quindi i beni demaniali, vengono quindi inquadrati nella dottrina costituzionalista, per la quale territorio italiano e Stato repubblicano, nella più ampia accezione del termine, si fanno un unicum inscindibile espresso dal nome Italia, nel quale sono ricompresi tanto l’aspetto fenomenologico dei presupposti storici quanto la giuridicità della fattispecie, giusta l’opinione di giuristi quali Perassi T., C. Cereti, Sandulli A.M..

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Segue un approfondimento dottrinario e

giurisprudenziale su beni demaniali, patrimonio

indisponibile patrimonio disponibile, e utilizzo degli stessi da parte dello Stato, variamente declinato nella prassi e nella dottrina fino all’istituzione dell’Agenzia del demanio nel 1999.

Dopo ulteriori analisi, si affronta quindi l’argomento del demanio marittimo.

Vengono dettagliatamente analizzati i singoli beni che compongono tale settore demaniale, con commenti dottrinari e giurisprudenziali, sottolineando l’importanza dei porti, con particolare riferimento alla L.84/94, e quella delle acque territoriali, e di tutte le normative, italiane e internazionali, che le riguardano ricordando nello specifico la Convenzione di Montego Bay del 1982, ratificata in Italia nel 1994 della quale si parla diffusamente.

Si passa quindi ad una dettagliata descrizione della disciplina dettata dagli artt. 31 e ss. c. n., riguardanti

apposizione di limiti, delimitazione, ampliamento,

destinazione ad altri usi pubblici dei beni demaniali marittimi.

L’argomento viene commentato soprattutto dal punto di vista della giurisprudenza tanto amministrativa quanto ordinaria, senza trascurare la dottrina specie per quegli aspetti, come la delimitazione del demanio marittimo, dove spesso si incontrano, e talvolta si scontrano, diritti soggettivi privati e Pubblica Amministrazione.

Dopo le ultime vicende che possono interessare il demanio marittimo quali il <<trasferimento>> temporaneo della gestione di un’area demaniale da un’Autorità amministrativa ad altra per fini pubblici di maggior rilievo, e

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la sdemanializzazione, si tratta della gestione del demanio marittimo dopo l’istituzione delle regioni.

L’argomento viene introdotto con un breve riassunto dell’iter politico, a partire dal primo Governo De Gasperi, e delle leggi che si sono succedute di legislazione in legislazione fino al D.L. 1121 del 28 dicembre 1971, con il quale si stabiliva che i decreti ai sensi dell’art. 17 della L. n. 281, riguardanti il trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative, sarebbero entrati in vigore il 1° aprile 1972 e, contestualmente le Regioni avrebbero cominciato ad esercitare le funzioni loro trasferite.

Ma la vera e propria delega delle funzioni amministrative statali alle Regioni in materia di demanio marittimo è stata data dal Decreto del Presidente della Repubblica n.616 del 1977.

Da allora la materia è stata oggetto di una lunga serie di interventi legislativi, oggetto di pronunce da parte della giurisprudenza amministrativa e costituzionale, mentre la L.84/94 , aveva riformato completamente la normativa portuale, con un particolare interesse per il settore del libero mercato.

Dopo un’accurata disamina delle predetta legge e successive modificazioni, si passa allo studio della Legga Bassanini che si proponeva non solo di trasferire alle regioni le funzioni amministrative relative alle aree demaniali senza le limitazioni previste dalla normativa antecedente, ma mirava anche all’eliminazione degli organi statali centrali e periferici che fino a quel momento avevano gestito il demanio marittimo.

L’argomento è stato studiato a fondo in tutte le sue sfaccettature legislative, giurisprudenziali e dottrinarie,

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anche il relazione alla riforma del titolo V della Costituzione ed alle conseguenze che ne sono derivate.

Infine il terzo capitolo è dedicato alle concessioni dei beni demaniali marittimi.

Anche in questo caso l’argomento viene inizialmente trattato sotto il profilo storico, a partire dai primissimi anni del secolo scorso, caratterizzato dallo sviluppo dei traffici commerciali marittimi grazie all’introduzione delle navi a vapore, che dimostrarono come la normativa vigente fosse ormai inadeguata a regolamentare la materia.

Dottrina e giurisprudenza, ampiamente esposte, analizzarono il rapporto fra proprietà pubblica e demanialità in maniera estremamente articolata soprattutto per quanto riguardava l’istituto della concessione del bene demaniale marittimo. L’argomento è stato approfondito in tuti i suoi aspetti, dedicando anche un intero paragrafo agli enti di gestione portuale.

L’istituto delle concessioni demaniali marittime è stato quindi esaminato a partire dal punto di vista della regolamentazione dello stesso da parte del codice della navigazione e dalla normativa, più specifica e strutturata, delle concessioni contenuta nel regolamento di attuazione del codice.

Sono state evidenziate, attraverso la giurisprudenza e la dottrina riportate, le carenze e, soprattutto, l’inadeguatezza delle norme codicistiche, specie nel tempo attuale e in relazione alle direttive europee in materia di concessioni.

Fra le direttive europee era inevitabile il riferimento alla Bolkenstein che riguarda, in particolare, il quinto ed ultimo paragrafo, dedicato alle concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo.

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Anche questo argomento è stato minuziosamente analizzato fino all’esposizione della legge di bilancio dello Stato n. 145 del 30 dicembre 2018, prevede all’art 1, commi 675 – 686 una delega al Presidente del Consiglio affinché, entro 120 giorni dalla data della sua entrata in vigore, emani un decreto legge finalizzato, per mezzo “della revisione

generale del sistema delle concessioni marittime,” alla

valorizzazione, tutela, promozione del bene demaniale marittimo costituito dalle coste italiane che rappresentano un elemento di immagine del Paese, di forte attrazione turistica, decisamente strategico sotto il profilo economico.

I commi sono stati riportati quasi integralmente e brevemente commentati.

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CAPITOLO PRIMO

IL DEMANIO NELLA STORIA

1.1 IL DEMANIO REGIO E QUELLO FEUDALE

Il 22 novembre 1220, a Roma, il papa Onorio III incorona imperatore Federico II di Svevia, di origine sveva per parte di padre, Enrico VI di Svevia, e normanna per parte di madre, Costanza d’Altavilla.

Federico divenne re di Sicilia, stabilì a Palermo la propria sede, fu un sovrano illuminato che riuscì a coniugare le culture latina, greca e araba.

Introdusse profondi cambiamenti nei tribunali, ma,

soprattutto, fu autore di una totale riforma

dell’amministrazione, che venne completamente rinnovata nei suoi uffici anche attraverso la creazione di funzionari diversi da quelli precedenti.

Questa profonda trasformazione dello Stato avvenne per mezzo di nuove leggi, fa le quali, importantissime, le Costituzioni di Melfi del 1231, chiamate anche Liber Augustalis.

La redazione delle Costituzioni fu affidata ai più qualificati giureconsulti del tempo fra i quali Pier delle Vigne, di dantesca memoria, in allora notaio in Capua, il filosofo scozzese Duns Scoto e altri. Essi si rifecero al Corpus Juris Civilis di Giustiniano per formulare una serie di norme finalizzate a conferire a Federico un potere assoluto come quello previsto dal diritto romano, unificando al tempo stesso il regno e ridimensionando notevolmente il potere acquisito dai nobili e dagli alti prelati.

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Le Costituzioni suddividevano in quattro parti la struttura organizzativa dello Stato: 1) lo Stato, nella quale erano indicate le prerogative e i poteri dell’imperatore ; 2) la Giustizia, a capo della quale stava il Maestro Generale di Giustizia; 3) la Finanza, gestita dai Maestri Camerari; 4) il Feudo.

L’imperatore riuniva nelle sue mani i pieni poteri. Il Maestro Giustiziere, il Maestro Camerario e i maggiori funzionari imperiali formavano la Magna Curia, dalla quale dipendevano tutti gli altri funzionari dello Stato, e aveva il compito di affiancare l’Imperatore nelle sue attività di governo.

Per mezzo delle Costituzioni si creò uno Stato efficientemente organizzato nel quale, per la prima volta, erano previsti non solo gli obblighi dei sudditi verso l’Autorità centrale, ma addirittura obblighi dello Stato nei confronti dei sudditi, ad esempio venne affrontato il problema della salute pubblica prevedendo delle vere e proprie organizzazioni per la pulizia della città, e vennero anche disciplinate le attività artigianali quali, ad esempio, le botteghe delle concerie.

Pare che all’epoca di Federico, i giureconsulti dell’Italia meridionale, suddividessero i beni demaniali in demanio regio, feudale e universale, tuttavia tale dottrina non è supportata da alcuna fonte.

Federico chiamò demanium esclusivamente i beni che erano soggetti solo al re, pertanto i beni dei grandi feudatari non rientravano nella categoria del demanio, e durante l’epoca dei re svevi venne sempre proibita la costituzione in feudo dei beni demaniali.

Prima dell’intronizzazione di Federico, il regno era stato travagliato da lotte interne, in seguito alle quali si era creata

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una situazione confusa e caotica alla quale il giovane imperatore dovette mettere riparo.

Federico innanzitutto fu fermo nel dichiarare

inalienabili e imprescrittibili i beni appartenenti alla Corona, cioè il demanio. Quindi aggiunse alle costituzioni l’Edictum

de resignandis privilegiis,1 con il quale venivano annullate le alienazioni di beni feudali avvenute durante il periodo di anarchia che aveva preceduto il suo regno, ma, soprattutto, si annullavano le concessioni di beni appartenenti al demanio che erano state attuate dopo la morte del re Guglielmo.

Il regno di Sicilia disponeva di un ricco ed esteso demanio, fonte di notevoli risorse, per questo il re non solo sorvegliava con molta attenzione le terre e i diritti di proprietà della Corona, che si estendevano anche sulle persone che vivevano in quelle aree, ma promulgava anche

leggi che inibissero l’indipendenza dei feudi.2

Subito dopo l’incoronazione, Federico inviava a papa Onorio III una lettera nella quale esprimeva al pontefice la sua ferma volontà di riprendersi i beni demaniali che erano illegittimamente posseduti dai baroni i quali se ne erano impadroniti per mezzo di documenti falsi. Era questa la risposta del re alle pressanti richieste papali, già espresse in un decretale emanato dal pontefice, sull’ inalienabilità dei

beni appartenenti al re.3

1Riccardo di San Germano, Chronica, in R. I. S., VII, 2, a cura di C .A. Garufi, 1936

- 1938

2 N. Kamp, Vom Kammer zum Sekreten. Wirtschaftsreformen und

Finanzverwaltung im staufischen Konigreich Sizilien, in Probleme um Friedrich II., a cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen, 1974, in E. Conte – Federiciana, Il Demanio Regio, 2005, Treccani

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Giusta quanto sopra esposto, appare evidente l’intenzione dell’imperatore di avocare esclusivamente a se stesso la proprietà e la cura dei beni demaniali. Inoltre non vi è alcun elemento che faccia supporre che Federico intendesse costituire un demanio feudale formato da pertinenze dei beni demaniali che avrebbero dovuto essere attribuiti in feudo, sia pure sottoposti a severi controlli. Di talché quando si parla demanium di grandi signori territoriali quali vescovati, canoniche e monasteri ci si riferisce soltanto alle porzioni di territorio sulle quali gli stessi esercitavano il diritto di proprietà, ad esclusione di

quelle detenute come feudo.4

Anche la dottrina del tempo concorda con l’impostazione data da Federico al concetto di demanium, escludendo la possibilità di una qualche forma di demanio feudale.

Nel suo Commentarium in Costitunionibus Regni

Siciliae, Andrea d’Isernia, verso la fine del 1200, diede

un’autorevole descrizione del demanium nell’ambito del Regno di Sicilia, includendovi “ civitates, castra et bona alia

ut dohanae, gabellae, regalia retenta per antiquos reges in potestate et dominio suo, non donata et concessa aliis.”5

Si trattava non solo di città e castelli, ma anche di tutti i diritti di esazione spettanti al re. Secondo Andrea non si devono confondere i beni demaniali con quelli che costituiscono il patrimonio personale del re. Gli uni sono

4 H. Schmidinger, I poteri territoriali dei vescovi in Italia e in Germania nel

MediEvo, ed. Il Mulino, Bologna, 1979, in Tommaso di Carpegna, Feudalità Ecclesiastica, Vol. I, Associazione Italiana Professori Storia della Chiesa,

www.storiadellachiesa.it/glossary/feudalità-ecclesiastica-e-la-chiesa-in-italia

5Andrea d’Isernia, op.cit. in Constitutionum Regni Siciliarum cum Commentariis, a

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distinti dagli altri dalla disciplina speciale che regolamenta il demanio, del quale neppure il sovrano può disporre a suo piacimento.

Il divieto di assoggettare degli uomini ad altri che non fosse la persona del sovrano, costituisce la tutela delle sue proprietà, in quanto la sudditanza ad altri, privando il re dei

servitia che incombevano ai contadini, avrebbe diminuito il

valore del demanio. Inoltre i contadini stessi, come i borghesi abitanti nelle città, consideravano la propria qualità di “bene demaniale” come sinonimo della propria libertà.

Del resto lo stesso Federico aveva garantito loro la propria protezione, definita defensio imperiale, che si estendeva anche ai membri della nobiltà, i baroni cui si riferivano le parole della Const. III, 4.2, detta Personas

rebus: “ adeversus quorumlibet impetus valeant clipeo defensionis nostre defendi”. I contadini, a loro volta,

erano salvaguardati da due costituzioni, la Cum universis e

Quia frequenter, che facevano espresso divieto di

assoggettare degli uomini ad altri nelle terre del demanio regio.

Le due costituzioni appena viste, evidenziano con particolare efficacia la diversità sussistente fra demanium privatistico e pubblicistico.

I giureconsulti meridionali consideravano l’opulenza dei beni del demanio una forma di agiatezza comune a tutti i membri del Regnum, infatti era consentito a tutti i cittadini segnalare eventuali occupazioni illecite di aree demaniali che avrebbero depauperato il bene comune.

A ben vedere , sotto il profilo giuridico, l’opposizione alla vendita di beni demaniali da parte del re ha la propria ragion d’essere nel vantaggio derivante alla comunità dai beni del demanio.

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Nel suo commentario Andrea d’Isernia sottolinea che anche secondo gli “ antiqui periti regni Siciliae” l’eventuale dismissione di beni facenti parte del demanio sarebbe stata viziata di illegittimità in quanto l’impoverimento che ne sarebbe conseguito avrebbe costretto il re ad imporre nuove tasse per gestire la spesa pubblica.

L’ipotesi della concessione da parte regia di un bene demaniale ad un feudo veniva considerata possibile esclusivamente in una situazione in cui fosse presente una giusta causa e non fosse praticabile l’utilizzo del patrimonio personale. Andrea riteneva poi che anche i privati potessero acquistare beni demaniali nei casi di prescrizione immemorabile.

Un secolo più tardi, però, la dottrina, prendendo atto della realtà che vede i baroni detenere “ nonnulla praecipuae

demanialia,” comincia ad ammettere la possibilità, per i

feudi, di gestire alcuni diritti demaniali, sia pure accettando notevoli limitazioni quali l’impossibilità di venderli o darli in feudo a meno che ciò non sia stato preventivamente

autorizzato dal re.6

Nella sua opera Luca da Penne, per primo, fa un parallelo fra la disciplina dei beni dei feudi soggetti agli obblighi demaniali e la normativa della “mensa” spettante ai vescovi. I vescovi, infatti, come i mariti riguardo ai beni portati in dote dalle mogli, potevano godere i frutti dei beni che componevano la mensa, utilizzandoli tanto per se stessi quanto per la diocesi, ma non era loro permesso venderli né modificarne la destinazione d’uso. Dunque, così come i vescovi e i mariti, il feudatario che ha in concessione beni del demanio, ne può godere nella misura in cui ciò gli è permesso dalla loro natura stessa. Dal confronto fra beni

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demaniali, mensa e dote scaturirà il concetto di matrimonio mistico del re con i beni della Corona, di quello del vescovo con la Chiesa e, di conseguenza, di quello del feudatario con il feudo.

Così, agli inizi del 1300, la dottrina del tempo aveva posto i presupposti giuridici necessari per disciplinare quei possedimenti del feudo che erano assoggettati a limiti analoghi a quelli del demanio del re. Il più caratteristico di questi vincoli era costituito dai diritti reali d’uso a favore di coloro che vivevano nell’ambito del feudo, gravante su pascoli, boschi e quanto rientrava nell’estensione del feudo.

Prassi, dottrina nonché il trascorrere del tempo portarono, grazie ad un sincretismo fra demanialità dei beni del feudo e diritti d’uso dei cives, alla costruzione, in negativo, delle origini del demanio feudale che venne considerato frutto di un sopruso: l’appropriazione, da parte del re o del feudatario, di quei beni che appartenevano originariamente agli abitanti del luogo ai quali fornivano il

sostentamento.7

La tradizione aveva definito diritti reali di servitù su cosa altrui i diritti d’uso dei cives, ma la dottrina dei nostri giorni, invece, considera quegli usi civici il residuo di un primigenio diritto di proprietà degli abitanti del borgo sulle campagne all’intorno. In conseguenza di ciò le proprietà del feudo caratterizzate dalla demanialità erano sottoposte ai limiti già visti al fine di non impedirne il godimento ai cives

.

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Questa tradizione perdurò molto a lungo, tanto da incidere sul rovesciamento del feudalesimo non solo nel

Regno delle Due Sicilie, ma anche nell’Italia unita.8

1.2 IL DEMANIO MARITTIMO : DAGLI ASSIRI AI PRIMI CODICI DEL REGNO D’ITALIA

Le prime leggi sulla navigazione di cui si abbia notizia risalgono al 1754 a.C. circa, infatti fanno parte del Codice di Hammurabi, il re assiro che regolamentò, in maniera estremamente dettagliata, la vita e le attività, pubbliche e private, dei propri sudditi. Gli “articoli” dedicati alla

navigazione vanno dal 234 al 240.9

Anche presso i fenici e i greci erano applicate leggi che regolamentavano la navigazione, soprattutto il naufragio e il recupero delle merci gettate in mare – si pensi alla lex

Rhodia de iactu -, una legge che è stata interpretata

erroneamente fino ai nostri tempi come una sorta di Testo Unico di disposizioni relative ai più svariati aspetti delle leggi sugli approdi e la navigazione. In realtà essa avrebbe consentito l’esenzione dal pagamento dei dazi doganali alle

8 R. Trifone, feudi e demani. Eversione della feudalità nelle provincie napoletane.

Dottrina, storia, legislazione e giurisprudenza, Milano 1909. In , E. Conte – Federiciana, Treccani, 2006

9Art.240:”Qualora un mercantile si scontri con un traghetto e lo faccia naufragare,

il padrone della nave naufragata cercherà giustizia davanti a Dio; il padrone del mercantile che ha fatto naufragare il traghetto, deve risarcire il proprietario per la barca e tutto ciò che ha rovinato”, http://www.sciretti.it

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navi costrette a riparare in un porto per sfuggire alla

tempesta, come affermato in Digesto 14, 2, 9.10

(10) Nel Medio Evo il diritto marittimo era ancora

profondamente permeato da quello romano, che, nelle città marinare ispirò la formazione degli “Statuti”, raccolte di norme di carattere amministrativo e marittimo.

Fra l’XI e il XII secolo, nella Repubblica marinara di Amalfi, i Consoli del mare scrissero, in latino, i primi 21 articoli, delle Tavole Amalfitane dette anche Codice di Amalfi (Tabula de Amalpha), una raccolta di leggi e

consuetudini per disciplinare la navigazione.

Successivamente vennero composti altri 45 articoli in lingua volgare, così in totale le Tavole contengono 66 articoli e

rimasero in vigore fino al XVI secolo.11

Alle Tavole si affianca il “Consolato del Mare”, un’altra raccolta delle consuetudini che le navi che svolgevano i loro traffici nelle acque del Mediterraneo occidentale avevano seguito dal 1200 al 1600.

Anche i Paesi Nordici avevano regolamentato la materia con le “Leggi di Wysbi,”, mentre la navigazione lungo la costa atlantica della Francia era disciplinata dai “Roles d’Oléron”.

Occorre tuttavia arrivare alla fine del XVII secolo per avere quello che può essere ritenuto il primo vero codice marittimo di diritto pubblico e privato, cioè l’ “Ordonnance

10 G. Purpura, Ius Naufragii: Sylai Et lex Rhodia, Genesi delle Consuetudini

Marittime Mediterranee. Convegno La Protezione del Patrimonio Culturale Sottomarino”, in Annali dell’Università di Palermo, (AUPA) , XLVII, 2002

11 Le Tavole Amalfitane. Le prime Leggi del Mare,

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de la Marine” pubblicato in Francia nel 1681, un testo

completo, che ha ispirato molte normative successive. 12

Fino alla viglia dell’unificazione, gli stati e staterelli in cui l’Italia era frazionata avevano regolamentato la materia ciascuno con leggi proprie, differenti le une dalle altre. Un regolamento austriaco del 20 dicembre 1841 dichiarava bene demaniale la laguna viva veneta. In particolare sulle spiagge, soprattutto sulle loro dimensioni, vi erano notevoli differenze fra le legislazioni. Secondo le leggi sarde, la spiaggia si estendeva per 65 metri circa dal lido del mare ( art.118 delle Reali patenti piemontesi del 24 novembre 1827 e art. 161 legge sarda sulle opere pubbliche del 20 novembre 1859, n. 375), invece, il diritto siculo le definiva quell’area terrestre che, dal mare, si estendeva per circa 365 metri, pari ad un tiro di balestra – per iactum balistae – a partire dal lido.13

In Italia, la moderna disciplina giuridica della navigazione e del demanio marittimo affonda le proprie radici in una temperie particolarmente ricca di fermenti innovativi storico-politico-sociali, siamo infatti in pieno Risorgimento, vicini alla conclusione della seconda guerra d’indipendenza.

Il Parlamento italiano aveva cominciato a dibattere sulla necessità di innovare la materia codicistica ancor prima dell’unificazione del Regno, ed erano state istituite diverse commissioni incaricate di portare avanti i lavori preparatori. Nel 1859, Cavour aveva voluto che a Genova si costituisse una “speciale giunta legislativa” con

12G. M. Boi Principi e Tendenze nel diritto marittimo, Giappichelli Editore, 2016

13O. Ranelletti:Concetto,Natura e Limiti del Demanio Marittimo, Parte 2°, I beni

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24

il compito di compilare una nuova codificazione della marina mercantile. Nel mese di giugno1860 l’allora ministro della giustizia, Cassinis, aveva preparato un progetto di revisione del codice civile albertino del 1837 e lo aveva presentato alla camera per la discussione ma, nonostante un iter decisamente lungo, il progetto non fu trasformato in legge.

Intanto, il 17 marzo 1861, con la fine della seconda guerra d’indipendenza, era nato il Regno d’Italia con il quale il Paese veniva completamente unificato.

Ben presto la classe politica avvertì l’urgenza di un’altra, non meno importante, unificazione, quella legislativa. Di talché il 19 novembre 1864 la Camera approvò l’O.d.g Boggio con il quale si sollecitava il governo a “presentare un progetto di legge che provvederà alla più

pronta unificazione legislativa e amministrativa del Regno…” 14 Il Governo La Marmora accolse l’esortazione, e

il 23 novembre 1864 l’elaborato governativo fu presentato alla Camera dal ministro della giustizia Vacca. Il progetto era formulato come una legge-delega al governo affinché, con decreto, emanasse il codice civile, di procedura civile e il codice per la marina mercantile.

La bozza preparata dalla giunta legislativa istituita a Genova venne esaminata da una speciale commissione e dal Guardasigilli, quindi con regio decreto 25 giugno 1865 n. 2360 venne promulgato il primo codice della marina

mercantile. Il codice conteneva norme di diritto

amministrativo, penale, processuale, internazionale.

Comprendeva altresì una classificazione dei beni costituenti

14 La Nascita dello Stato Italiano, L’Unificazione Legislativa, I primi Codici del

Regno d’Italia, Catalogo della mostra, Biblioteca della Camera dei deputati, biblioteca.camera.it-Biblioteca della Camera-Documentazione.

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25

il demanio marittimo che, ai sensi dell’art.157 erano il lido del mare, i porti, i seni, le spiagge. Prevedeva anche,

all’art.429, le cause e conseguenze della

sdemanializzazione.15

Il codice subì una serie di interventi, infatti durante il primo Governo Depretis venne modificato con R. D. 24 maggio 1877 n. 3919, quindi venne riunificato in un testo

unico pubblicato il 24 ottobre 1877, n. 4146.16

In seguito furono emanate altre leggi che disciplinavano alcuni procedimenti amministrativi, in particolare si ricorda il regolamento per l’esecuzione del codice della marina mercantile n. 5166 del 20 novembre 1879, sul procedimento di concessione del demanio marittimo. Queste leggi erano

caratterizzate dal fatto di normare esclusivamente

l’attuazione dell’ azione amministrativa, con particolare

attenzione alle caratteristiche formali degli atti

amministrativi e dei privati.17

Intanto la dottrina del tempo affrontava vigorosamente il tema della “specificità” dei beni pubblici. La dottrina pre-orlandiana considerava i beni pubblici non tanto come uno

15 Codice della marina mercantile 1865, art 429 : “ I terreni o delle

fortificazioni e dei bastioni delle piazze da guerra che più non abbiano tale destinazione e tutti gli altri beni che cessino di essere destinati all’uso pubblico e alla difesa nazionale, passano dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato”. In Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n.1686, Demanio Marittimo: Inizio e cessazione della demanialità, www. notariato.org

16La Nascita dello Stato Italiano cit.; G. M. Boi, op. cit.

17 Cfr. O. Ranelletti, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni

amministrative. Parte I: concetto e natura delle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Giur. It, 1894, IV, 49 ss. in Sergio Perongini: Percorsi di Diritto Amministrativo, Giappichelli, 2014.

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26

degli elementi morfologici del territorio dello Stato, sottomessi alla sua sovranità, quanto piuttosto delle vere e proprie risorse da custodire perché ne potessero godere

anche le generazioni successive. 1819

Vittorio Emanuele Orlando, però, riteneva che vi fossero altre priorità, superiori alle istanze espresse dalla dottrina, così come ebbe a dire in una prolusione a Palermo “… il sangue dei martiri e il consiglio degli statisti ci diede

lo Stato italiano, la scuola giuridica deve essa ora dare la scienza del diritto pubblico lungamente desiderata, non basta che abbia avuto un riconoscimento politico, ma bisogna che viva della vita del diritto, di un diritto nostro, di un diritto nazionale”20

Si afferma così il concetto per cui i beni demaniali

appartengono esclusivamente allo Stato21 e devono essere

18 cfr. De Luca Carnazza, Elementi di Diritto Amministrativo, Torino Roma 1880,

pag.151, ritiene importantissimo l’argomento dei boschi perché: “le foreste sono utilissime….esse impediscono scoscendimenti, frane, valanghe e cadute di terre vegetali, evitano l’evaporazione delle acque, difendono il suolo dai raggi solari, custodiscono ampi depositi d’acqua, moderano i venti e rendono più pura l’aria.”

19cfr. Lorenzo Meucci, Istituzioni di Diritto Amministrativo, Torino 1898, pag.429

ss.:”(la disciplina dei beni pubblici) ha la sua ragion d’essere nell’interesse di riserbare non solo ai presenti ma alle generazioni future l’uso delle cose”.

20V .E .Orlando, I Criteri Tecnici Per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico,

1889, ora in V.E. Orlando, Diritto pubblico generale. Scritti vari. 1881-1940. Milano, ristampa, 1954, 3 ss.

21 E. Guicciardi, Il demanio, Padova 1934, pag.11. Si fa risalire la tesi della

proprietà pubblica a O. Mayer, Deutches Verwaltungsreecht, Leipzig 1896, II, pag.71 ss; dottrina italiana: O. Ranelletti, op. cit., in Giur. it 1897, IV, pag.356 ss.

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27

assoggettati al suo potere 22 alle sue necessità, soprattutto a

quelle della difesa e della sicurezza.

Bisogna arrivare ai primi anni ‘20 del secolo successivo per trovare due nuove disposizioni relative ai beni demaniali: il Rd. Lgs n.2240 del 1923 ed il

Rd.827/1924, entrambi volti a regolamentare

l’amministrazione dei beni pubblici dello Stato e la

contabilità generale dello Stato.23

Successivamente, con R.D. 30 marzo 1942, n. 327 verrà promulgato il Codice della Navigazione, mentre con D.P.R. 28 giugno 1949, n. 631 sarà promulgato il Regolamento per la navigazione interna e tre anni più tardi, il D.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328 il Regolamento per la navigazione marittima.

Ricordiamo appena che, fra la promulgazione del codice e quella dei regolamenti, vi era stata la fine della seconda Guerra Mondiale, la nascita della Repubblica e l’entrata in vigore della Costituzione Italiana.

1.3 LA NASCITA DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

A cavallo fra gli ultimi decenni del secolo XIX e l’inizio del XX, allo Stato che era ritenuto, sotto il profilo politico, l’immagine concreta dello Stato di diritto formulato dall’ideologia liberale.

22 “D’altra parte il territorio è considerato elemento costitutivo dello Stato e

rappresenta la misura e l’ambito entro cui può esercitarsi il potere sovrano” S. Licciardello, beni Pubblici e Generazioni Future, in Giustamm, Dottrina, n.9, 2016.

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28

Tuttavia, la rapida evoluzione dei rapporti che univano Stato e corpo sociale, e che proprio verso la fine dell’Ottocento si fecero sempre più numerosi e articolati, causarono il declino dello Stato di diritto, sempre più lontano dalla realtà concreta della vita dei consociati.

Attraverso “ la crescita degli apparati burocratici pubblici, all’assunzione di sempre nuovi servizi e compiti da parte dello Stato, all’ingresso deciso degli interessi sociali organizzati all’interno dell’amministrazione, ed alle risposte che la cultura giuridica seppe dare in tale contesto, sul piano del dibattito metodologico, dei mutamenti di indirizzo e di

problematica, dell’impiego politico dell’intellettuale

giurista” si dava inizio alla costruzione dello “Stato sociale –

amministrativo”, 24 cosa che richiedeva agli studiosi del

diritto la formulazione di adeguate metodologie e innovative teorie fondanti a sostegno delle nuove relazioni intervenute fra Stato e società, dando vita alla nuova scienza giuspubblicistica.

La nuova scienza era tesa ad affrancarsi dal dogma soggettivista, di tradizione germanica, che inseriva il concetto di Stato–persona sulla capacità di agire, che a sua volta si realizzava soprattutto nell’attività amministrativa svolta dal quello che era certamente il soggetto pubblico per antonomasia. La visione dello Stato-persona raggiunse il proprio apice alla fine dell’Ottocento, grazie soprattutto all’opera di Vittorio Emanuele Orlando.

I concetti di personalità giuridica e sovranità dello Stato si riferivano ormai al rapporto Stato-società e Stato consociati, e necessitavano di nuovi paradigmi che

24M. Fioravanti, Storia costituzionale, storia amministrativa e storia della scienza

giuridica, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XIII, 1984

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29

evidenziassero come la funzione amministrativa costituisse ormai il fondamento dello Stato-persona.

Nel secolo XIX la normativa amministrativa regolamentava soprattutto la costituzione, la struttura e l’attività degli enti pubblici, contemplando altresì alcune eccezioni ai diritti di natura privatistica, come l’esproprio nell’interesse pubblico. Nel caso dell’esproprio per pubblica utilità veniva in essere una vera e propria deroga ad una organizzazione giudiziaria basata sulla tutela del diritto di proprietà pieno ed erga omnes.

Verso la fine dell’Ottocento, un serrato dibattito fra i giuristi che, negli anni antecedenti avevano dovuto affrontare il raffronto fra diritto e sociologia in ambito privatistico e pubblicistico, cercò di definire l’episteme delle diverse discipline.

Di particolare interesse è l’opera di Dante Majorana, fratello di Angelo nonché zio di Ettore, il famoso fisico appartenente al gruppo dei “ragazzi di via Panisperna”

scomparso misteriosamente nel 1938 da un piroscafo che

collegava Palermo a Napoli. Dante Majorana, professore di diritto della navigazione all’Università di Catania, si

appassionò al confronto fra scienze sociali e

giuspubblicistiche, dedicandosi allo studio sistematico di queste ultime.

Il giurista riteneva decisamente importante il “fattore sociale”, affrontando, al contempo, un minuzioso approfondimento delle dottrina germanica di diritto pubblico. Scrisse una monografia nella quale prendeva in esame “ il problema dei rapporti fra il diritto e lo Stato o,

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30

come generalmente dicesi, il diritto pubblico e il diritto

privato” .25

Nell’opera Majorana faceva un’ampia disamina della letteratura giuspubblicistica tedesca, da Bluntschli a Bruns, da Savigny a Jellinek, Jhering, Mayer e Windscheid, senza dimenticare gli italiani quali Romagnosi e Manna, e senza tralasciare Domizio Ulpiano e le Pandette.

La sintesi tratta dall’autore si riassumeva nel concetto secondo cui “l’ordinamento scientifico del diritto pubblico doveva considerarsi frutto del XIX secolo e in particolare del grande rinnovamento di idee costituzionali che ebbe vita dall’enciclopedia e dalla rivoluzione francese”, e, rifacendosi alla genesi del diritto privato osservava: “ come male può istituirsi un paragone tra lo sviluppo annoso del diritto privato e quello più recente del diritto pubblico, così le difficoltà dello studio dei loro caratteri discretivi, sono accresciute dal diverso grado di elaborazione di ciascuno di essi. E la loro distinzione è studiata piuttosto dai cultori di

diritto privato che da quelli di diritto pubblico”.26

La dottrina continuava intanto la propria opera di costruzione del diritto pubblico mettendone a fondamento l’elemento sociale che, in termini giuridici, si traduceva nella salvaguardia e nel sostegno dei bisogni dei cittadini.

Il pensiero giuridico amministrativo, inoltre, nel periodo a cavallo fra il secolo XIX e il XX, trovò il sostegno del pensiero socio-filosofico comtiano che fece da “ sottofondo filosofico della giuspubblicistica” in quanto dava

25D. Majorana, Il fattore giuridico e sociale nello studio del diritto amministrativo,

Catania, 1901, in E. Fusar Poli, La causa della conservazione del bello, Giuffré Editore, Milano, 2006

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31

della realtà un’immagine di “ luogo di conflitti, di interessi particolari e gerarchie naturali, in opposizione allo Stato, configurato organicamente come momento unificante

dell’interesse generale” 27

Si giunge così all’asseverazione del diritto amministrativo come costola del diritto pubblico, meritevole di entrare nel novero delle scienze giuridiche.

L’autore che elevò definitivamente la nuova disciplina a rango di scienza fu Santi Romano con le sue opere, in primis “Principi di diritto amministrativo” pubblicato nel 1901, nel quale veniva delineata l’indipendenza del diritto amministrativo, mentre invece Vittorio Emanuele Orlando aveva approfondito l’aspetto metodologico a scapito della precisa definizione del diritto amministrativo.

Atteso che il legislatore interveniva sempre più frequentemente con norme regolatrici della tutela di quei beni di cui la comunità dei cittadini poteva godere in modo diretto e indiretto, si avvertì l’esigenza di arrivare a definire con precisione quali fossero i vantaggi e i benefici per la collettività che potessero tradursi in veri e propri fini dello Stato in quanto pubblici.

Si assiste dunque all’assunzione a fattispecie astratta dei benefici concreti della società i quali, pertanto, ricevevano connotazione giuridica dall’interazione con lo Stato persona giuridica.

Nei primi anni del novecento Oreste Ranelletti studiò gli aspetti teleologici della fattispecie, ponendo il rapporto fra interesse pubblico e società da un lato, e Stato e interesse pubblico dall’altro. La conclusione cui pervenne il giurista fu che soltanto l’interesse che poteva dirsi pubblico rientrava di diritto tra i fini dello Stato.

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32

La conclusione di Ranelletti rendeva possibile far rientrare nell’ambito del diritto pubblico le attuali azioni di diritto amministrativo senza frammentare la nozione di diritto pubblico.

Lo studioso passò poi ad approfondire l’accezione del termine “pubblico”, dedicando all’argomento due opere ritenute basilari dalla dottrina: “Il concetto di <<pubblico>>

nel diritto”, una introduzione al corso di diritto

amministrativo e scienza dell’amministrazione, per l’anno

1905 presso l’Università di Pavia,28 e in un saggio scritto per

gli “Studi giuridici in onore di Carlo Fadda Pel XXV anno

del suo insegnamento” 29

In tale ultimo scritto l’autore dichiara: “ Noi diciamo collettivo ogni interesse, che sia proprio della pluralità ( tutti o almeno la maggioranza) dei componenti una data collettività di persone indeterminate, e sia sentito da ciascuno dei membri della medesima in quanto tale, cioè considerato nella sua condizione di membro di quel dato gruppo, e non come persona singola, considerata

indipendentemente dalla sua appartenenza al medesimo…”30

Le tesi giusta viste confortavano quanto il giurista aveva esposto nella prolusione all’anno accademico a Pavia l’anno precedente, laddove aveva delineato i fondamenti

28opera pubblicata su Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1905, Vol. XXXIX

29Vol. II, Napoli, 1906

30”… Orbene, non tutti tali interessi possono produrre la natura pubblica dell’atto,

della funzione, della persona giuridica stessa, destinati a soddisfarli, ma solo quelli che sian posti dallo Stato tra i propri fini, in modo che alla soddisfazione di essi lo Stato diriga la sua attività, o almeno che a tale soddisfazione lo Stato si interessi e ritenga suo compito curarla. Questi interessi collettivi noi possiamo dire pubblici; e ogni interesse collettivo, che non sia pubblico in questo senso, non può dare natura pubblica all’attività umana che sia diretta a soddisfarlo (…..). Sarà pubblico l’atto o la funzione, compiuti per soddisfare immediatamente tali interessi quando, direttamente o indirettamente, essi siano atto o funzione dello Stato”

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33

dell’idea di pubblica amministrazione nel “ senso materiale o

oggettivo, cioè pel suo contenuto”…31

Erano stati dati i fondamenti per la definizione della personalità giuridica pubblica e degli fini pubblici: occorreva a quel punto stabilire quali fossero le peculiarità del demanio pubblico e i parametri in base ai quali lo stesso potesse essere distinto dal patrimonio pubblico.

Si deve a Oreste Ranelletti il contributo più ampio ed esaustivo sulla materia, attraverso alcune sue notissime opere che, oltre a fare chiarezza fra le opinioni dottrinarie e giurisprudenziali riguardanti il patrimonio indisponibile, incardinarono la materia del demanio pubblico nel vasto ambito della dottrina tanto europea quanto italiana.

Della vastissima produzione letteraria del giurista val la pena ricordare almeno alcuni titoli quali: “ Caratteri

distintivi del demanio e del patrimonio” insieme a “Natura giuridica della dotazione della corona” entrambi pubblicati

a Roma nel 1892, e “Concetto, natura e limiti del demanio

pubblico”, la cui prima parte affrontava giurisprudenza e

dottrina era stata pubblicata nel 1897, mentre le altre due, aventi ad argomento il diritto vivente il primo, e i

31….essa era “ quella funzione o attività centrale, continua, essenziale e normale

dello Stato, che non è né legislazione, né giurisdizione, e mediante la quale lo Stato, sia direttamente per mezzo di propri organi, sia per mezzo di altri subbietti di diritto e di cura della prosperità sociale, sia liberamente, con potere discrezionale, trovando nel diritto esistente solo il limite delle sue determinazioni, sia secondo e in esecuzione di norme giuridiche esistenti, cioè come adempimenti di speciali doveri giuridici prestabiliti (..….) Lo Stato, vuoi per la necessità logica stessa della sua esistenza, come in tutti gli scopi riguardanti la formazione e il mantenimento del diritto della società, vuoi perché determinato dalla coscienza pubblica di un dato momento storico, come in tutti gli scopi riguardanti il benessere, il miglioramento del popolo, cioè in tutti gli scopi sociali, pone come propri alcuni dati fini generali e tende al raggiungimento dei medesimi, e quindi alla soddisfazione degli interessi collettivi corrispondenti, anzitutto con la propria attività e con i propri organi, avocando direttamente a sé quelle date funzioni”. Cfr. “Il concetto di <<pubblico>> nel diritto cit.

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34

presupposti basilari della nozione di demanio il secondo, furono editati nel 1898. In questi scritti l’autore, oltre ad esprimere la propria visione legalistica e inflessibilmente statualistica, coinvolge anche altre materie quali la scienza delle finanze e l’economia politica.

Gli stessi politici si giovarono della profonda cultura amministrativa unita all’attenta conoscenza della procedura giudiziaria del pensiero di Ranelletti, utilizzandolo proficuamente nell’agone politico.

Un altro giurista, coevo di Ranelletti, verso il quale, per sua stessa ammissione, si sentiva debitore, era Federico Cammeo, al quale si deve un apporto di non poco momento all’esegesi delle teorie formatesi sull’argomento del demanio.

Cammeo, nella voce Demanio pubblicata in Digesto

Italiano32, poco in anticipo sulla pubblicazione delle opere di

Ranelletti, aveva identificato gli argomenti fondamentali riguardanti la materia demaniale.

Giusta quanto sopra, si può affermare che gli studi di Ranelletti, Cammeo e Santi Romano, già ricordato, abbiano portato alla sua più completa, profonda e articolata conclusione la ricerca scientifica, compiuta dalla dottrina italiana ed europea, in materia di demanio e patrimonio pubblico.

Il Codice Civile Italiano del 1865, il primo Codice dell’Italia unificata come si vedrà infra, nel Libro Secondo intitolato “Dei beni, della Proprietà e delle sue

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35

Modificazioni” agli articoli da 425 a 432 elencavano i beni

“relativamente alle persone cui appartengono” 33

Giusta quanto esposto dagli articoli del Codice del 1865, si comprende come la dottrina del tempo evidenziasse la necessità di trovare dei parametri opportuni per specificare quali fossero gli elementi peculiari identificativi della demanialità, ritenendo meramente enumerativa la dizione del codice, cosa che avrebbe permesso ad altri beni di essere annoverati fra quelli demaniali solo in virtù di una loro affinità con quelli elencati.

L’opinione univoca della dottrina italiana vedeva nell’uso pubblico l’elemento qualificante della demanialità di un bene, e da questo punto di vista i giuristi erano confortati dalla giurisprudenza.

Tuttavia tanto Ranelletti quanto Santi Romano

sottolineavano come l’indirizzo dottrinario e

33 Art. 425:”I beni sono o dello Stato, o delle provincie, o dei comuni, o dei pubblici

istituti o altri corpi morali, o dei privati.

Art. 426: “ I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Art. 427 “ le strade nazionali, il lido del mare, i porti, i seni le spiagge, i fiumi, i torrenti, le porte, le mura, le fosse, i bastioni delle piazze da guerra e delle fortezze fanno parte del demanio pubblico.

Art. 428: “ Qualsiasi altra specie di beni appartenenti allo Stato fanno parte del patrimonio.

Art. 429: “ I terreni delle fortificazioni o delle piazze da guerra che più non abbiano tale destinazione, e tutti gli altri beni che cessino di essere destinati all’uso pubblico ed alla difesa nazionale passano dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato. Art. 430: “ I beni del demanio pubblico sono per loro natura inalienabili; quelli del patrimonio dello Stato non si possono alienare che in conformità delle leggi che li riguardano.

Art. 431: “ le miniere e le saline sono regolate da leggi speciali.

Art. 432: “ I beni delle provincie e dei comuni si distinguono in beni di uso pubblico e beni patrimoniali. La destinazione, il modo e le condizioni dell’uso pubblico e le forme di amministrazione e di alienazione dei beni patrimoniali sono determinate da leggi speciali.

Codice Civile del 1865, Studio Notarile Angelo Busani Milano, www.notaio-busani.it/it-IT/codice-civile-1865.aspx

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giurisprudenziale incontrassero la ferma opposizione del pensiero tedesco.

Del resto va ricordato come non si fosse ancora trovata l’unanimità sul significato di uso pubblico. In merito la dottrina italiana richiamandosi al pensiero dei giuristi d’oltralpe, concepiva il termine uso pubblico come comprensivo dei suoi due aspetti, quello diretto, cioè l‘utilizzo immediato del bene da parte della collettività, e quello mediato, vale a dire l’impiego di detti beni fatto da parte delle autorità competenti che li adibivano a servizi pubblici governativi.

Inoltre l’uso pubblico si poteva esercitare senza che vi fosse necessità di alcun atto amministrativo.

Diverso era però, secondo Guicciardi, l’uso eccezionale, ritenuto una eccezione rispetto alla normale finalità del bene, che pertanto necessitava di un’attività

amministrativa che concretizzava nella concessione

attraverso la quale il bene non era più finalizzato al godimento della collettività ma, appunto, concesso ad un soggetto singolo perché ne traesse utilità per sé. L’uso del singolo era considerato integrativo di quello pubblico, ed era possibile realizzarlo in quanto residuasse una possibilità di godimento del bene dopo aver soddisfatto quello pubblico.

Sostenitori di tale indirizzo erano, ex multis, Meucci, Pacifici Mazzoni, De Gioannis Gianquinto.

Di opinione nettamente contraria Gabba, Lomonaco, Chironi nonché Orlando e Ranelletti, i quali tendevano a limitare le possibilità di definizione di uso pubblico, come Gabba che accettava esclusivamente l’utilizzo immediato del bene da parte dei cittadini, respingendo quello mediato delle autorità.

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Cammeo, invece, aggiungeva altre due caratteristiche insite nella demanialità: trattarsi di un bene immobile, e non poter essere, per la finalità attribuita, oggetto di proprietà

privata.34

Inoltre il giurista riteneva che, sebbene i beni facenti parte del patrimonio indisponibile potessero essere usati in modo mediato dall’autorità competente, “ il servizio pubblico deve essere diverso da quello diretto della difesa dello Stato; e l’uso pubblico immediato deve essere ristretto ad una particolare categoria di persone, ed è sempre

collegato al pagamento di un compenso, che è una tassa”.35

34F. Cammeo, Demanio cit

35F. Cammeo, Demanio cit. in E. Fusar Poli , La causa della conservazione del

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CAPITOLO SECONDO

IL DEMANIO MARITTIMO ALL’INTERNO DEL DIRITTO PUBBLICO

2.1 IL TERRITORIO COME ELEMENTO

COSTITUTIVO DELLO STATO: EVOLUZIONE DEL CONCETTO

Prima di introdurre l’argomento specifico del demanio marittimo, all’interno di quello più ampio dei beni demaniali, è opportuno un breve excursus sul concetto di territorio, anche in considerazione del fatto che in un Paese come il nostro, che sviluppa circa 10.000 chilometri di coste, il demanio marittimo costituisce evidentemente una parte non trascurabile del territorio dello Stato.

Il diritto è solo uno degli aspetti epistemologici che si possono utilizzare a proposito del territorio che, per sua natura, investe molte discipline che ne fanno oggetto di studio, dall’antropologia sociale alla geopolitica, alla geoeconomia etc.

Anche dal punto di vista del diritto esistono numerosi e differenti approcci scientifici all’argomento, già a cominciare dalla radice etimologia del termine territorio. Secondo alcune scuole di pensiero esso deriverebbe dal sostantivo latino terra, mentre altri studiosi lo riferiscono a

terreo e territo36

36Sesto Pomponio, Liber singularis Enchiridiis, 50, 16; Cino da Pistoia, In Codicem

et aliquot titulos primi Pandectarum tomi: id est Digesti veteris doctissima commentaria, Francoforte sul meno 1578, (rist. anast. Torino 1964); Bartolo da Sassoferrato, in Secundam Infortiati partem (commetaria), Venezia 1575, L pupillos, paragrafo Territorium, Tit. De verborum et rerum significatione. In CONVEGNO

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La distinzione etimologica corrisponde a due diversi significati del termine: la prima indica infatti il territorio nella sua concretezza, mentre la seconda significa far valere un “potere che atterrisce” su una determinata area, che, secondo il paradigma dell’azione di Weber, sarebbe un’autorità dotata di potere coercitivo e continuità. Anche il Digesto confermerebbe questa interpretazione quando dice “

territorium est universitas agrorum intra fines cujusque civitatis, quod amgistratus ejus loci intra eos fine terrendi id est summovendi jus habent”. 37

Si ha qui il primo esempio di un potere pubblico esercitato da una classe dirigente su un determinato ambito spaziale.

In epoca romana il diritto concepiva già come un unicum jurisdictio et territorium, concetto che ritroveremo ai nostri giorni nella dottrina tradizionale del diritto costituzionale italiano. Tale concetto giuridico dovette affrontare numerose difficoltà in epoca medioevale, quando all’unità territoriale corrispondeva una pluralità di domini politici, ciascuno con propri ordinamenti, profondamente diversi tra loro.

Suscita particolare interesse il potere che il vescovo esercitava sui fedeli per quanto riguardava i sacramenti del battesimo e della Messa, per cui si diceva “ Territorium non

facere diocesim”, quindi l’autorità vescovile anziché sul

territorio incideva sulla comunità dei cristiani, di talché il concetto di territorio come tutt’uno con l’autorità, si apre per

AIC 2016, IL TERRITORIO FRA SOVRANITA’ STATALE E GLOBALIZZAZIONE DELLO SPAZIO ECONOMICO, DI Gino Scaccia

37S. Elden, The Birth of Territory, University of Chicago press, Chicago-London

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40

introdurre un nuovo elemento, quello degli uomini soggetti

all’autorità i quali vivono su un determinato territorio.38

L’introduzione dell’elemento <<umano>> nella diade Stato-territorio porta ad un rovesciamento di approccio, si passa infatti dalla visione romanistica che considerava l’imperium come una conseguenza del dominium territoriale ad un paradigma di tipo culturale, che legittima l’insieme di valori, credenze, storia di una comunità stanziata in un determinato ambito spaziale. Si forma così il concetto di

nazionalità39

Secondo Marc Augé40 negli anni a cavallo fra il secolo

XIX e il secolo XX, caratterizzati dal positivismo comtiano, il diritto era troppo astratto per concepire il territorio come spazio “ identitario, relazionale e storico” capace di influire con forza sulla struttura politica espressa dalla collettività

ivi stanziata.41

Ad eccezione di alcuni studiosi come Heller, Smend e, soprattutto, Schmitt, la prevalente corrente dottrinaria si

allontanò totalmente dal concetto sovraesposto,

focalizzando invece l’attenzione esclusivamente sull’aspetto della sovranità dello Stato esercitata sul territorio in tutta l’articolazione delle sue forme. Il territorio era visto da alcuni come un bene posto al di fuori dello Stato il quale

38M. Lawers, Territorium non facere diocesim, Conflicts, limites et representation

territoriale du diocés, (Ve-XIIIe siècle ); S. Patzold, L’archidioces de Magdeburg. Perception de l’espace et identité (Xe – Xie siècle).

39F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 1961

40 M.Augé: Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità.,

Eleuthera, Milano, 2005

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esercitava nei suoi confronti un diritto di proprietà42; altri,

come Santi Romano, ritenevano il territorio uno fra gli elementi fisici che costituiscono lo Stato il quale, di conseguenza, non può essere proprietario di ciò che è sua

essenza;43

Radnitzky formula invece la “teoria della competenza”, secondo la quale il territorio è l’ambito spaziale all’interno del quale lo Stato esercita la propria

sovranità44.

Radicalmente innovativo è il pensiero di Kelsen il quale, toglie al territorio ogni forma di materialità, facendone un’espressione meramente intellettuale che, come la noési aristotelitica derivava dal nous (pensiero), deriva dalla potestà legislativa dello Stato, è questo il

“normativismo puro” di Kelsen.45

Secondo la dottrina kelseniana, la giuridicità trova il proprio fondamento in un assioma presuntivo consistente in una norma fondamentale, “Grundnorm,” che superando ogni aspetto fenomenologico, si esprime nella componente politica della volontà sovrana, che non è più costretta da

42 P. Lanand, Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, Bd.1, Laupp, Tubingen,

1876; U. Forti, Il diritto dello Stato sul territorio, Arch. Di diritto Pubblico, 1902

43S. Romano, osservazioni sulla natura giuridica del territorio dello Stato, Arch. Dir.

Pubblico, 1902; S .Romano Il Comune. Parte generale, Società editrice libraria,Milano 1908.

44E. Radnitzky, Die Rechtliche Nature des Staatsgebietes, Archiv fur Offentliches

Recht, XX, 1906

45H. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Springer, Berlin, 1925; H. Kelsen, , Grundriss

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