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Definizione di contratto e l'autonomia delle parti dalle radici romane al Digital Single Market

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Academic year: 2021

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Indice generale

Introduzione...3

CAPITOLO PRIMO

L'esperienza giuridica romana

1. Labeone: l'ultro citroque obligatio...6

2. Sesto Pedio: contratto, obbligazione, convenzione...12

3. Aristone: la causa e il synallagma. Dalla tutela dei contratti innominati verso la definizione di una categoria generale del contratto...17

4. Gaio: la quadripartizione...31

5. Ulpiano: il peso degli accordi in ambito giuridico...32

6. Teofilo: la conventio è il contratto o un suo requisito? La visione alternativa di Falcone...34

CAPITOLO SECONDO

Gli sviluppi nel diritto intermedio e moderno.

Gli ordinamenti europei continentali.

1. Diritto medievale e moderno fino al XVI secolo...43

2. Diritto dei secoli XVII e XVIII...49

3. Ordinamenti europei continentali...54

3.1. La Francia...54

3.1.1. Il Code Civil prima della riforma...54

3.1.2 Il percorso di riforma del diritto dei contratti: i tre progetti di riforma e l'ordonnance n°2016-131...58

3.2. La Germania...65

3.3. L'Italia...67

3.4. Altri ordinamenti europei...69

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CAPITOLO TERZO

Il contratto nel diritto inglese

1. Le comuni radici romanistiche...75

2. Le fonti e la storia...77

3. La mutevole nozione di “contract”, i suoi requisiti fondamentali del contratto e la “consideration”...78

4. Dalla tipicità del contratto alla “freedom of contract”...80

5. La crisi della “freedom of contract”...82

CAPITOLO QUARTO

European private law

1. Le motivazioni di un “quadro comune di riferimento”...85

2. Le vicende anteriori e il “piano d'azione”...86

3. Il Draft Common Frame of Reference...89

3.1. Struttura e contenuto...89

3.2. Rapporti con gli anteriori progetti e studi sull'unificazione ed armonizzazione del diritto contrattuale europeo e la tradizione giuridica precedente...93

3.3. Definizione di “contratto” e “autonomia delle parti” nel DCFR...95

3.4. Considerazioni sul DCFR...99

4. Dal Draft Common Frame of Reference al Common European Sales Law...101

4.1. Dallo Stockholm Program al Libro verde...101

4.2. Feasibility Study (FS)...105

4.3. Common European Sales law (CESL)...107

4.3.1. La proposta della commissione...107

4.3.2. L'ambito di applicazione...111

4.3.3. La nozione di contratto...114

4.3.4. Il ritiro della proposta e il “mercato unico digitale”...116

5. Mercato unico digitale europeo entro il 2016?...118

Indice Bibliografico...122

Indice delle fonti…...127

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Introduzione

Una delle conquiste più significative dell'UE è la realizzazione del mercato unico. Le libertà fondamentali su cui si fonda permettono a imprese e cittadini di spostarsi e interagire liberamente in un’Unione senza frontiere. La progressiva riduzione delle barriere tra i paesi dell'UE ha apportato numerosi benefici ai cittadini che, in quanto consumatori, hanno goduto di una serie di vantaggi economici, come tariffe aeree più basse, minori costi per i servizi di roaming dei telefoni cellulari e la possibilità di accedere ad una più ampia varietà di prodotti. Gli operatori economici hanno potuto espandersi al di là delle frontiere: importando ed esportando beni, fornendo servizi e stabilendosi all'estero beneficiano a pieno delle economie di scala e delle maggiori opportunità offerte dal mercato unico. Malgrado questo considerevole successo, esistono ancora delle barriere che dividono gli Stati membri dell'Unione, le più importanti sono costituite dalle differenze tra gli ordinamenti giuridici nazionali. Tra le barriere che ostacolano gli scambi transfrontalieri vi sono le differenze tra le norme nazionali di diritto contrattuale. I contratti sono alla base di qualsiasi transazione commerciale, pertanto, le differenze tra le norme che disciplinano la conclusione o la rescissione di un contratto e i rimedi in caso di consegna di un prodotto difettoso si ripercuotono sulla vita quotidiana sia degli operatori economici che dei consumatori. Per gli operatori tali divergenze comportano una difficoltà nel rapportarsi con imprese estere e costi aggiuntivi di consulenza legale, in particolare quando intendano esportare prodotti e servizi verso altri Stati membri dell’Unione. Per i consumatori, rendono più difficile fare acquisti in altri Paesi, in particolare attraverso lo strumento telematico.

Con grande entusiasmo e il sostegno del Parlamento europeo1, l’11 ottobre 2011 la Commissione

europea pubblicava la proposta di regolamento per l’introduzione negli ordinamenti giuridici degli Stati membri di un c.d. “diritto comune europeo della vendita”2, che avrebbe dovuto rappresentare

un punto di arrivo del faticoso processo di elaborazione del “diritto contrattuale europeo”.

Avviato dalla comunicazione della Commissione del luglio 20013, questo processo trova il proprio

snodo fondamentale nel 20034, allorché la Commissione medesima scelse di perseguire in via

principale l’elaborazione di un ‘Quadro Comune di Riferimento’ (Common Frame of Reference),

1 V. la risoluzione del Parlamento europeo dell’8 giugno 2011 sulle possibili opzioni in vista di un diritto europeo dei

contratti.

2 “Common European Sales Law”, Proposta di regolamento del parlamento europeo e del Consiglio relativo a un diritto

comune europeo della vendita, COM 2011, 635 definitivo.

3 Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sul diritto contrattuale europeo, COM 2001,

398 definitivo.

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quale contenitore di definizioni di termini giuridici, principi fondamentali e modelli coerenti di regole di diritto contrattuale, dalle diverse possibili utilizzazioni in ambito europeo 5.

Nell’arco di pochi anni il lavoro finanziato dalla Commissione è portato a compimento e fra la fine del 2007 e il 2008 viene pubblicata una prima interim outline edition denominata ‘Draft Common

Frame of Reference (DCFR). Principles, Definitions and Model Rules of European Private Law’ ,

che si proponeva di essere modello del futuro Common Frame of Reference da adottarsi da parte delle istituzioni europee. Tale versione è stata seguita nel 2009 dall’edizione definitiva in sei poderosi volumi, contenenti 1023 articoli di model rules, completati con note di analisi e commenti, illustranti la formulazione di ogni regola e le sue relazioni con le altre, nonché l’origine delle stesse (risultante da un’analisi comparatistica degli ordinamenti nazionali e di altre opere accademiche, segnatamente i Principles of European Contract Law (PECL), “incorporati” nel DCFR praticamente senza modificazioni).

Sotto il profilo dei contenuti, va sinteticamente osservato che il DCFR va ben al di là dei rapporti contrattuali, includendo anche model rules in materia di acquisizione e perdita della proprietà dei beni mobili, garanzie mobiliari e trusts, con oltre 120 definizioni concernenti concetti essenziali nell’ambito del diritto privato, formulate in maniera innovativa sia rispetto ai PECL, sia rispetto agli ordinamenti giuridici nazionali.

Tuttavia, sino ad oggi, nonostante il completamento del DCFR, l’Unione europea non ha formalmente adottato alcun Common Frame of Reference da utilizzare per gli scopi originariamente immaginati. Il poderoso lavoro del DCFR è stato utilizzato dalla Commissione, in forma ridotta e limitata, per comporre nel 2011 la proposta regolamentare di un diritto “comune” europeo della vendita6. Tale scelta della Commissione, comunque riduttiva rispetto ai risultati raggiunti con la

redazione del DCFR, in qualche modo salvava dall’oblio un lavoro che, pur essendo assai pregevole sotto il profilo della ricerca accademica, aveva generato molte perplessità a livello politico e pratico, specie negli Stati membri. Per decisione della Commissione il proposto regolamento si articolava in tre parti: la parte propriamente normativa del regolamento, obbligatoria in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, e i due allegati allo stesso. I sedici articoli che componevano la parte propriamente normativa del regolamento (nel gergo degli operatori ribattezzati lo ‘chapeau’, ad indicare, da un lato, il carattere preliminare dello stesso e , dall’altro, lo stretto collegamento che esiste fra questa parte del regolamento e l’Allegato I al medesimo, contenente la disciplina sostanziale del contratto di vendita), definivano e regolavano alcuni profili fondamentali della prospettata futura normativa

5 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Diritto contrattuale europeo e revisione

dell’acquis: prospettive per il futuro, COM 2004, 651 definitivo.

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comune a livello europeo: la natura opzionale della disciplina europea della vendita, il suo ambito di applicazione oggettivo e soggettivo, i rapporti fra la disciplina europea della vendita contenuta nell’Allegato I e le altre possibili fonti regolamentari in tema di vendita, numerose definizioni da utilizzare nella disciplina vera e propria della vendita. La procedura legislativa adottata è quella ordinaria e della quale è stata completata solo la fase di “prima lettura” da parte del parlamento , il quale il 26 febbraio 2014 ha adottato la risoluzione legislativa sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo a un diritto comune europeo della vendita7. La

caratteristica probabilmente più importante e innovativa della proposta era il suo carattere opzionale. L’art. 8 dello chapeau infatti prevedeva l’applicazione del diritto comune di vendita subordinatamente all’accordo delle parti del contratto di vendita accordo, i cui termini e modalità erano disciplinati con notevole rigore, qualora una delle parti del contratto fosse un consumatore. L’autonomia dei contraenti era quindi il catalizzatore fondamentale dell'immaginato diritto europeo di vendita . La proposta è stata purtroppo accantonata dalla nuova Commissione europea ed al suo posto si attende un testo normativo per la realizzazione di un Digital Single Market8, che riduce così ancora di più l'obiettivo dell'armonizzazione normativa. Tale realizzazione è stata prospettata dalla Commissione per la fine del 2016. Pertanto, occorre domandarsi se, per lo meno, per la fine del 2016, l'Europa potrà giovarsi di un mercato digitale unico o se anche questa volta le attese non saranno soddisfatte.

Torneremo nel dettaglio della normativa europea vigente al termine di questo percorso espositivo. Per una migliore comprensione dell’argomento che ci accingiamo ad affrontare, occorre però come prima cosa inquadrare storicamente il concetto di “contratto” e di “autonomia delle parti”.

La ragione di optare per un approccio storico-logico emerge dalle illuminanti parole di Filippo Gallo: <<…il diritto è un fenomeno estremamente complesso, nel quale il nuovo si coniuga col

vecchio, le innovazioni si inseriscono sul fondo tradizionale….occorre avere presente che conoscere i contenuti normativi non equivale a conoscere il diritto>> 9 .

7 COM(2011)0635 – C7-0329/2011 – 2011/0284(COD). 8 COM (2015) 192 final.

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CAPITOLO PRIMO

L’esperienza giuridica romana

1. Labeone: l’ultro citroque obligatio

Ben radicato e riconosciuto nella sua importanza dall’attuale cultura giuridica, il concetto di “autonomia delle parti” è però il frutto di un enorme sforzo teorico-giuridico di sistemazione e categorizzazione, che si snoda in un lungo percorso storico che arriva sino ai nostri giorni e la sua genesi, strettamente legata alla nascita della categoria dei contratti, è da ricercarsi nell’esperienza giuridica romana.

Attualmente, nel nostro ordinamento, col segno contratto si indica l’atto bilaterale o plurilaterale produttivo di effetti patrimoniali:

art. 1321 c.c: (nozione) Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire regolare o estinguere tre loro un rapporto giuridico patrimoniale.

Nell’esperienza giuridica romana non si è mai avuta una nozione collimante con quella richiamata, la materia degli atti giuridici era ispirata alla tipicità e si tendeva a distinguere tra atti volti alla costituzione di rapporti giuridici e atti diretti invece ad estinguerli, nonché nell’ambito dei primi, tra atti ad efficacia obbligatoria e atti ad efficacia reale. Dall’epoca delle XII Tavole, è mancata per un lungo periodo la stessa nozione di contratto; l’elaborazione di tale concetto è iniziata verosimilmente in età repubblicana avanzata. Ancora oggi la dottrina romanistica non è concorde nel giudizio sulla nozione di contratto che i giuristi romani, delle diverse epoche e delle diverse scuole, dovevano aver maturato e contribuito a consolidare nel tempo. Emersero comunque più linee ricostruttive, i cui tratti istitutivi continuano ad influenzare la materia contrattuale fino alla grande compilazione giustinianea. Per restare il più possibile aderenti alla realtà storica è preferibile, in ogni caso, analizzare le posizioni dei singoli giuristi che, già prima dell’introduzione del ius respondendi ex auctoritate principis, avevano rilievo per il diritto vigente. L’incidenza da

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queste opinioni avuta quando furono esposte in età classica, e l’influenza dalle stesse esercitata sui commissari giustinianei, nonché sulla posteriore tradizione romanistica10 ce ne impongono

un'attenta analisi.

Va sottolineato inoltre che nelle fonti romane, prese globalmente in considerazione, l’uso del sostantivo contractus, derivato dal verbo contrahere, non appare molto comune fino al II sec. d.C. In precedenza venivano impiegate espressioni come res contracta o contrahenda, negotium

contractum, di cui una chiara testimonianza è data dalla definizione di Labeone riportata da Ulpiano

in D.50,16,19, o contractus rei o infine negotii. Il neutro contractum sembra quindi aver preceduto il termine al maschile contractus11. Vediamo più da vicino la definizione ulpianea:

D. 50,16,19 ( Ulp. 11 ad ed.): “Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam

‘agantur’, quaedam ‘gerantur’ ,quaedam ‘contrahantur’… contractum autem aultro citroque obligationem quod Graeci συνάλλαγμα vocant , veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem …"

[Labeone nel primo libro del suo <commento all’editto> del pretore urbano, definisce quelle cose che ‘sono compiute’, quelle che sono ‘gestite’ , quelle che sono ‘contratte’…quanto contratto, poi, <è> un’obbligazione da una parte e dall’altra, che i Greci chiamano sinallagma, come la compravendita, la locazione , la conduzione e la società…].

Quella sopra riportata è la nozione labeoniana di contratto, si colloca alla fine della repubblica ed è cronologicamente la più antica a noi pervenuta. Come riferisce Ulpiano, il giurista dell’età augustea contrappone il contractum all’actum, individuando come caratteristica del primo la bilateralità delle obbligazioni che nascevano a carico delle parti (ultro citroque obligatio), denominata con il termine greco, συνάλλαγμα. Perché si potesse configurare un contratto, doveva sorgere tra le parti un reciproco vincolo, ritenendosi perciò essenziale non tanto l’elemento soggettivo dell’accordo, quanto l’esistenza dell’elemento oggettivo del rapporto obbligatorio corrispettivo12.

Ricordandoci sempre che il metodo della giurisprudenza romana è casistico anziché sistematico, con scarsa propensione per l'astrazione concettuale e normativa, la definizione labeoniana può essere considerata il primo tentativo di definire la categoria in questione, con riferimento all’attività negoziale.

10 Filippo Gallo “Synallagma ”, vol. I, cit. p. 21 ss.

11 Luchetti, Petrucci “Fondamenti romanistici”, cit., p. 21-22. 12 Luchetti, Petrucci , “Fondamenti romanistici”, cit., p. 71.

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Afferma in proposito il Burdese 13: <<un vero e proprio concetto di contratto…, primo ed unico

comparente nelle fonti latine, è quello di Labeone, che lo limita all’ultro citroque obligatio , ad atto obbligatorio di per sè produttivo tra le parti agenti di vincoli obbligatori reciprocamente collegati, e per questo costituiti sulla base del mero consenso in quanto dispositivo di assetti di interesse tipicamente individuati o eventualmente ad essi affini…>>

Sempre Alberto Burdese14 ci fa notare come un altro studioso il Santoro15 prospetti un'originale,

articolata, revisione della dottrina tradizionale che in questa definizione vede la delimitazione della nozione di contractum (o contractus) alle figure contrattuali ad efficacia obbligatoria bilaterale: egli vi scorge invece la concettualizzazione del contratto come incontro di volontà tra i soggetti contraenti , cioè come atto giuridico bilaterale. Significativo a tal proposito sarebbe il fatto che Labeone riporti, come esempi di ultro citroque obligatio, tre dei quattro contratti consensuali gaiani. Quanto all’assenza del mandato, la stessa può essere dovuta, piuttosto che ad una sua caduta accidentale, alla sua bilateralità solo imperfetta, per cui gli obblighi del mandante verso il mandatario sono meramente eventuali e successivi rispetto a quelli del mandatario verso il mandante. A favore dell’interpretazione del contratto labeoniano proposta da Santoro, come puro accordo, resterebbe il riferimento del testo al termine greco συνάλλαγμα, evocante l’idea della convenzione. Senonché, ci dice Burdese, giustamente il Biscardi16 ha richiamato in proprosito

l’attenzione su taluni passi aristotelici dell’Etica Nicomachea, da cui emerge con chiarezza l’originario valore semantico del termine, allusivo all’idea di interrelazione o scambio, il termine

συναλλάγματα, secondo quest'ultimo autore, indica la reprocità delle obbligazioni, il giusto

equilibrio economico tra una prestazione e una controprestazione, lo scambio e non l'accordo di volontà presupposto. Ciò non toglie, ad avviso di Burdese, che proprio il richiamo al termine greco

συνάλλαγμα, evocante nel suo significato comune il concetto di generico affare e più

specificatamente l’accordo ad esso sottostante, sia potuto servire, nell’intento di Labeone, a sottolineare l’accordo delle parti sullo scambio di prestazioni reciprocamente dovute. Prosegue il Burdese: << la definizione labeoniana del contractum, contenuta in D.50,16,19, costituisce uno dei

termini di una triplice definizione relativa, rispettivamente all’actum, al contractum e al gestum….. da intendersi come regolamento di confini concettuali tra nozioni vicine ma distinte l’una dall’altra…..una separazione tra concetti differenti, senza pretesa di complessiva completezza , anziché a una divisione esaustiva di un unico genus in varie species. All’actum Labeone

13 Alberto Burdese , “Il contratto romano tra forma ,consenso e causa”, in “Le dottrine del contratto nella

giurisprudenza romana” , Padova, 2006, p. 95.

14 A.Burdese , “Sul concetto di contratto e contratti innominati in Labeone”, in “Le dottrine del contratto nella

giurisprudenza romana”, cit., p. 116 ss.

15 R.Santoro, “Il contratto nel pensiero di Labeone” , Palermo,1983.

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riconoscerebbe un significato generale, ma non per questo tale da ricomprendere contractum e gestum…. Si tratta a mio avviso di atto giuridico volontario , diretto cioè nell’intento delle parti a produrre effetti giuridici, il quale si effettua necessariamente tramite fatti o parole che lo caratterizzano ai fini della sua efficacia: e non solo di atto obbligatorio…..dall’actum si distinguerebbe il contractum non tanto, come vuole il Santoro, per la sua natura di atto obbligatorio convenzionale, quanto piuttosto perché a differenza del primo, prescinde dalla necessità di fatti o parole determinate, pur potendo anch’esso essere posto in essere tramite fatti o parole, ove ciò che lo qualifica sarebbe il consenso, comunque espresso , sugli impegni reciprocamente assunti. A entrambi si contrapporrebbe poi il gestum, visto come attività non solo posta in essere sine verbis ma in sé meramente materiale e come tale qualificata re (sine verbis facta), che non presenta carattere di atto negoziale, a differenza dell’actum e del contractum…… Quale che ne sia stato lo spunto … che Labeone abbia inteso, con la sua definizione, isolare valori rigorosi, in contrapposizione ai valori correnti, di agere , gerere, contrahere, ritengo tuttavia più probabile che ciò che egli abbia fatto in riferimento a concreti interessi di regime giuridico come potrebbe essere , almeno in relazione al concetto di contractum, quello di aprire la tutela di figure atipiche, piuttosto che a interessi meramente filologici. Saranno i giustineanei a conservare la definizione Labeoniana quale mera curiosità erudita, inserendola sotto la rubrica de verborum significatione di D.50,16.>>.

Talamanca17 invece aderisce all’opinione prevalente che mette in risalto l’elemento oggettivo del

rapporto obbligatorio corrispettivo: il modo in cui il giurista augusteo definiva il contractus- o

contractum- in correlazione all’actum ed al gestum, quali altri termini relativi all’attività negoziale,

darebbe un significato di contractus stesso che è in modo netto, riduttivo rispetto a quello che sta alla base della bipartizione di Gai 3.88 fra obligationes ex contractu ed ex delicto. Contractum o

contractus, è l’ultro citroque obligatio, l’atto da cui nasce obbligazione a carico di entrambe le parti

del rapporto: alla connotazione, che in questo caso viene data, segue quella che ha l’apparenza di una enumerazione , e non di una completa descrizione della denotazione del termine, enumerazione la quale si riferisce all’emptio-venditio ,alla locatio-conductio, alla società. “La tentazione,

ricorrente in una certa dottrina, di identificare nel contractus labeoniano il negozio bilaterale, e cioè la conventio, non trova giustificazione nel passo ulpianeo, che si apre, invece, con puntuale facilità all’interpretazione seguita nel testo: le argomentazioni in senso contrario, sia permesso il giudizio sintetico, convincono ancora di più , nella loro infondatezza , dell’opinione che si può definire ‘tradizionale’. Il passo di Labeone- Ulpiano pone senza dubbio, altri problemi a

17 M.Talamanca , “Contratto e patto nel diritto romano”, in “Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana”,

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cominciare da quello dell’omissione, se tale sia, del ricordo del mandato ( che Labeone abbia avvertito il carattere imperfettamente bilaterale di questa figura contrattuale?) alla ulteriore caratterizzazione del contractus (o contractum) quale ultro citroque obligatio mediante il ricordo dell’equivalenza del termine greco συνάλλαγμα , la quale crea più problemi di quanti ne risolva (contro le ipotesi avventurose che identificano in Aristotele delle radici lontane o vicine dell’impiego particolare che Labeone fa di συνάλλαγμα ”.

Anche Filippo Gallo aderisce alla tesi maggioritaria18: mentre Labeone espresse la definizione in

parola nel primo libro , e cioè nella parte iniziale al commento all’editto, Ulpiano la richiamò nel libro undicesimo, vale a dire nel corso dell’opera . Pur non escludendo intervenuti mutamenti nell’ordine dell’editto , il dato sembrerebbe riflettere una diversa visione dei due giureconsulti. Per Labeone la definitio enunciata in tema di actum e contractum costituirebbe un elemento portante della sua dottrina e della sua attività di giureconsulto. Perciò egli la espresse nella parte iniziale del commento all’editto. Ulpiano , come si sa, non condivideva, in materia contrattuale, la concezione labeoniana ( sia nel riferire il contenuto di Pedio D.2,14,1,3 che quello di Aristone D.2,14,7,2, il giureconsulto severiano usa l’avverbio eleganter. Lo stesso invece si astiene da questa qualifica nel citare la definitio labeoniana), la quale per quanto profonda e aderente alla realtà, non riscosse compiuto seguito nell’esperienza romana e in quella successiva. In coerenza egli la richiamò in modo occasionale nel corso della trattazione. Ulpiano nell’enunciare la propria concezione, secondo cui la conventio è elemento fondamentale di ogni contratto non richiama Labeone, ma Sesto Pedio (D.2,14,1,3). Sostiene Gallo: <<Labeone penetrava la realtà e vedeva lontano. Egli ebbe presente

che l’uomo, dotato di volere ed intelligenza, agisce nei confronti degli altri uomini e della realtà esterna…..Di qui la rilevazione, nell’ambito dei fatti produttivi di effetti giuridici, della categoria del fatto giuridico umano , vale a dire del fatto rilevante per il diritto, posto in essere dall’uomo, quale volente ed intelligente, nei confronti della realtà esterna e degli altri uomini. Risulta così delineata la categoria generale dell’actum (prima individuazione dell’atto giuridico). L’elemento che la fonda è costituito dal collegamento alla volontà ed intelligenza dell’uomo. Essa prescinde dalle distinzioni tra lecito ed illecito, tra unilateralità e bilateralità (o plurilateralità), tra produzione di obbligazioni e di altri effetti giuridici (in specie reali). Queste come altre distinzioni (ad esempio, tra atti formali e non formali, astratti e causali), già presenti nell’esperienza romana, saranno poste in rilievo ed elaborate dalla dottrina molti secoli dopo>>. Labeone, sottolineò

l’elemento decisivo della derivazione dall’uomo, rilevando che l’actum può essere realizzato sia mediante parole che coi fatti: “et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid

18 F.Gallo espone chiaramente la sua posizione nel saggio “Eredità di Labeone in materia contrattuale” in “Le dottrine

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agatur”. Emergerebbe così in via di principio l’irrilevanza delle modalità d’azione, pur lasciandosi

spazio, ad esempio, alla prescrizione di forme particolari (per ragioni di ponderatezza, di sicurezza del traffico giuridico ecc.) in ordine a settori determinati. Nell’ambito dell’actum Labeone avrebbe individuato il contractum, attribuendo rilevanza, nella sfera degli atti umani assunti nella visuale del diritto (e aventi in qualche modo riflessi, come si è rilevato, nei confronti degli altri uomini) ai comportamenti volti alla creazione di obbligazioni reciproche tra le parti. La bilateralità soggettiva pur presente, sarebbe sottintesa nella visione sopra descritta dell’actum. In questa impostazione l’elemento che caratterizza e delimita secondo Labeone, la categoria del contractum è costituito dalla c.d. bilateralità oggettiva, dalla corrispettività delle prestazioni concordate. Sempre Gallo afferma: <<Labeone percepì che la corrispettività delle prestazioni è da sola sufficiente a rendere

vincolante l’accordo. Coerentemente costruì il contractum come categoria aperta,si hanno figure consolidate (il giureconsulto cita, quali esempi, la compravendita, la locazione conduzione e la società), ma si riconosce, al di là di esse, l’accordo su ogni prestazione e controprestazione purché portanti i consueti requisiti. Il mezzo per farlo valere, al di fuori delle figure tipiche, dotate di apposite azioni, è individuato nell’actio praescriptis verbis. È chiaro che al di fuori della corrispettività delle prestazioni, la genesi del vincolo abbisogna di apposito riconoscimento. Vengono cioè ammesse solo figure tipiche. Ed è pure chiaro che , al di fuori di tal sfera, la sussunzione della forma della bilateralità o unilateralità soggettiva, più che imposta dalla realtà , appare frutto di scelta. Si raffrontino ad esempio, la stipulatio romana e la nostra cambiale. Si pensi inoltre alla diversa configurazione assunta dalla donazione nello stesso corso dell’esperienza giuridica romana>>. La categoria costruita da Labeone formò oggetto di elaborazione nei secoli

successivi. Ancora nel nostro sistema il contratto con prestazioni corrispettive risulta sottoposto ad apposita disciplina (postulata dalla pluralità e reciprocità delle obbligazioni) e copre la massima parte dell’area contrattuale. Non si riduce però a questo l’eredità lasciata in materia da Labeone. Ancora oggi l’ammissione della figura generale del contratto troverebbe giustificazione nei contratti con prestazioni corrispettive, dato che, al di fuori di essi, continuano ad ammettersi soltanto ipotesi tipiche. Aggiunge ancora Gallo che, dove l’elaborazione successiva si è discostata dalla linea labeoniana, si sarebbe reso necessario il ricorso a correttivi, si pensi alla configurazione del contratto come accordo (cioè alla sua fondazione sull’elemento delle bilateralità soggettiva), alla quale si sarebbe posto rimedio con il requisito della causa, restando, secondo questo autore, difficile disconoscere che, nella generalità dei casi, la causa della prestazione (la giustificazione cioè del sottostante impegno, ritenuta idonea dall’ordinamento) è data da una controprestazione. Non è esatta quindi, secondo Gallo, la visuale, talora adottata, della forma intesa come sostitutiva della causa. Unita all'astrattezza, la forma esonera bensì l’attore dal provare in giudizio la causa del

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contratto; ma la mancanza della causa può essere fatta valere dal convenuto mediante l’exceptio

doli generalis. <<La visione ricostruita di Labeone, carica di innovazioni, si presentava troppo avanzata rispetto al livello raggiunto in tema di atto giuridico e di contratto dalla scientia iuris del suo tempo. La dottrina racchiusa nella sua definitio non venne ricevuta, nella globalità, dagli altri giureconsulti dell’epoca imperiale e neppure dai compilatori giustinianei. L’elaborazione in materia di contratto , ripresa da posizione arretrata, si indirizzò verso la polarizzazione dell’elemento del consenso (in certo senso del contenitore). Cionondimeno il pensiero innovatore di Labeone lasciò un’influenza profonda , condizionando passi significativi dell’indicata elaborazione, i quali possono essere visti come avvicinamenti parziali alla teoria in esame del giureconsulto (sotto altri aspetto, quali correttivi connessi al suo mancato accoglimento globale). Considero , in detta prospettiva , l’apporto di Sesto Pedio e quello di Aristone….>>19.

2. Sesto pedio: contratto, obbligazione, convenzione

Una prospettiva totalmente opposta , e per altro con maggior seguito nei giuristi del tempo, è quella riscontrabile nella definizione di contratto di Sesto Pedio formulata sul finire del I sec d.C. ed accolta da Ulpiano in D. 2, 14,1,3:

D.2,14,1,3 (Ulp. 4 ad ed.) …. Adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat

Pedium nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem sive re sive verbis fiat……

[ …. A tal punto poi il nome di convenzione è generale, che elegantemente dice Pedio che non vi è nessun contratto, nessuna obbligazione, che non abbia in sè una convenzione, sia che si tratti di un contratto reale sia che si tratti di un contratto verbale…].

Qui requisito necessario ed indispensabile per l’esistenza di un contratto diviene l’accordo tra le parti, la conventio, anche quando per il perfezionamento fosse stato necessario qualche ulteriore requisito, come la consegna della cosa , nei contratti reali, o l’uso di certe parole, in quelli verbali. Sul significato profondo del dictum Pedii, il dibattito in seno alla letteratura specialistica è da sempre acceso e continue sono le sue riletture. Notevole seguito ha l’opinione secondo la quale il contratto e l’obbligazione a cui fa riferimento Pedio, per dire che in entrambi è connaturato l’elemento convenzionale, formino in realtà un tutt’uno. Prevalente in chi sostiene la tesi della

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“endiadi”, è la convinzione che Pedio si rifacesse a una nozione di contratto ben diversa da quella di Labeone: per quest’ultimo il contratto è l’ultro citroque obligatio ossia il vincolo obbligatorio per ambedue le parti che lo hanno stretto, per Pedio il contratto è l’accordo che produce obbligazioni in capo a ciascuna delle parti o anche di una soltanto, salva la sua insufficienza, ovviamente ai fini del determinarsi degli effetti obbligatori, in presenza di una delle fattispecie capaci di generarle, in aggiunta all’accordo stesso, della consegna della res o la pronuncia di certa verba o l’uso delle

litterae (ammettendo che nell’originale di Pedio l’espressione sive re sive verbis fosse completata

dalle parole sive litteris) .

Nella discussione intorno al dictum Pedii è intervenuto anche Giorgio La Pira20 secondo il quale

merito di Pedio sarebbe l’aver fortemente contribuito a dare un grado maggiore di unità alla scienza giuridica del suo tempo, formulando dottrine che sono ancora fondamentali per la dommatica del diritto privato, servendosi di adeguati strumenti tecnici, quali l’analisi delle definizioni, le sistemazioni, l’interpretazione analogica, l’interpretazione dei negozi giuridici e delle norme giuridiche.

Esemplare, secondo La Pira è l’operazione logica compiuta da Pedio in tema di contratto, obbligazione e convenzione, comprovata da quanto riferisce Ulpiano in D.2,14,1,3: Pedio avendo davanti alla mente le varie categorie ancora disunite delle fonti obbligatorie contrattuali (re, verbis,

litteris, consensu), nota che esse mostrano un elemento essenziale comune , la conventio. Da questo

punto di vista “il pactum conventum non è solamente una categoria del diritto pretorio: è altresì una categoria del diritto civile perché in essa si unificano tutti i negozi bilaterali che producono obbligazione…il difficile qui stava nel porsi per la prima volta il problema. Si trattava di una intuizione felice che era sfuggita allo stesso Labeone. Ma una volta posto il problema la soluzione si imponeva: l’analisi della varie causae contrattuali di obbligazione (re, verbis, litteris, consensu) non poteva non dare , quale elemento generico, la conventio”. Starebbe così , secondo La Pira, Pedio alla base del processo storico che condurrà “alla definizione moderna di contratto”, ponendo il fondamento di quella identificazione fra contratto e patto che costituirà una conquista definitiva del diritto moderno; situandosi invece Labeone ad un livello inferiore avendo distinto fra agere, gerere e contrahere, senza scorgere sotto queste tre specie di negozi bilaterali un elemento comune che li unificasse . Pedio quindi avrebbe individuato il genus del contratto, che ha come elemento aggregante la conventio: se i negozi bilaterali obbligatori dello ius civile “hanno il loro fondamento ultimo nell’accordo delle parti, è verso questo accordo che deve volgersi l’interpretazione dei giuristi e dei giudici. Il formalismo quando vi sia, si atteggia quindi a strumento a servizio della effettiva volontà delle parti: è questo il nuovo principio che va maturando da tempo nella

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giurisprudenza romana (anche in relazione allo ius civile) e che solo ora con Pedio, riceve una precisa formulazione: nullum esse contractum, nullam esse obligationem quae non habeat in se

conventionem, sive re sive verbis sive litteris fiat” e d'altro canto, poiché anche i contratti

formali-reali, verbali, letterali, “vanno interpretati in funzione della volontà delle parti” giocoforza, “se essa manca, il negozio ancorchè possieda tutti i requisiti formali, è, almeno praticamente , inefficace (nam, et stipulatio quae verbis fit nisi habeat consensum nulla est). Pedio a differenza di Labeone , avrebbe concepito il contratto quale ente giuridico di latitudine tale da includere tutti i negozi bilaterali con effetti obbligatori riconosciuti dall’ordinamento (tipicamente o meno), in quanto connotati dall’indefettibile ricorrere della conventio, a prescindere sia dalla sua sufficienza ai fini del prodursi di quegli effetti (richiesta invece da Labeone, secondo cui gli atti con effetti obbligatori a carattere reale, verbale o letterale rimanevano al di fuori della figura del contratto) sia dalla bilateralità o unilateralità dei medesimi effetti (bilateralità presa da Labeone per appartenenza alla categoria del contratto).

La ricostruzione di La Pira, nonostante il favore di cui gode, non convince Luigi Garofalo21:

<<sebbene qui – D.50,16,19- non si parli dell’elemento convenzionale, non credo affatto che Labeone non lo intravedesse al di sotto sia dei rapporti obbligatori nascenti re, verbis e litteris, frutto cioè di un atto, sia dei rapporti obbligatori derivanti da emptio venditio, locatio, conductio e societas, esito quindi di un contratto: ma egli non vi accenna perché la tematica sottesa alla sua dissertazione su atto e contratto riguarda non già il modo in cui gli uni e gli altri rapporti potevano sorgere (ché , se questa fosse stata, Labeone li avrebbe probabilmente accorpati sulla base del loro discendere da una pluralità di fonti di omogenea natura convenzionale), bensì le condizioni al ricorrere delle quali l’ordinamento accoglieva in sé, assicurandone la tutela, gli accordi che prevedessero l’impegno di una o ciascuna parte di eseguire una prestazione a vantaggio della controparte…….Ciò che gli consente appunto di distinguere, all’interno del novero degli accordi riconosciuti dal sistema come idonei a produrre effetti obbligatori, due categorie in relazione di contiguità: quella dell’atto, che abbraccia gli accordi che intanto riuscivano a produrre questi effetti in quanto vi si accompagnasse la consegna della res o la pronuncia dei verba o l’uso delle litterae; e quella del contratto,che racchiude gli accordi capaci dei soliti effetti solo perché imponevano alle parti lo scambio di due prestazioni. E se la prima categoria, che – evidenzia Labeone- annovera per esempio la stipulatio e il mutuo (a questo sembra rinviare la numeratio che compare nel testo), quali espressioni dell’agere verbis e rispettivamente re, era priva di potenzialità sul piano evolutivo, la seconda ne era viceversa gravida. In quanto edificata astraendo dalle figure tipiche dell’emptio venditio, della locatio condutio e della societas l’elemento minimo presente in

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tutte (ovviamente in aggiunta a quello convenzionale), ossia l’ultro citroque obligatio senza ulteriori specificazioni, vi era inquadrabile un qualunque accordo in virtù del quale le parti si assumessero il peso reciproco di una prestazione, integrante o meno una delle richiamate figure….attratto così nell’orbita del contratto….un accordo di tal genere , quando non qualificabile come emptio, venditio,locatio conductio o societas, reclamava comunque dall’ordinamento, per ragioni di intrinseca coerenza , una protezione sostanzialmente corrispondente a quella assicurata alle tre fattispecie citate: problema alla cui soluzione Labeone si era proficuamente dedicato…..e cioè che egli riteneva che dovesse concedersi sulla base del ius civile a ciascuno dei soggetti che quell’accordo avessero stretto di far valere in giudizio l’inadempimento dell’altro mediante generale actio praescriptis verbis , che veniva così ad affiancarsi, assolvendone la stessa funzione, agli specifici mezzi processuali a disposizione delle parti di un’emptio venditio, di una locatio conductio o di una societas>>. Analizzando poi direttamente il pensiero di Pedio, il Garofalo

esclude non solo che nel dictum Pedii (circoscrivendo a “nullum esse contractum, nullam

obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat”) gli accusativi contractum e obligationem siano utilizzati in forma di endiadi, ma pure che la nozione di contratto

sia più ampia di quella di Labeone, tanto da coincidere con il concetto di negozio bilaterale con effetti obbligatori, essendo invece plausibile proprio il contrario: vale a dire che Pedio accettava la separazione fra atto e contratto proposta da Labeone con implicito riferimento agli accordi con cui una o ciascuna parte prometteva di effettuare una prestazione nei confronti dell’altra, rimodulando però in senso restrittivo l’area coperta dalla seconda figura , onde impedire l’eclissarsi della sottoclasse dell’atto a carattere reale. Pedio quindi sarebbe intervenuto, secondo questa visione, nel dibattito scientifico del tempo, prefiggendosi due obiettivi. Il primo era quello di portare alla luce ciò che nella classificazione labeoniana era immanente ma che rischiava di non trapelare, ossia che là dove si fosse riscontrata l’esistenza di una ultro citroque obligatio, e dunque di un contratto come sua fonte, oppure di un rapporto obbligatorio non reciproco conseguente all’agere re, verbis, o

litteris, e quindi a un atto, sempre si sarebbe riscontrata anche l’esistenza di un accordo. L’altro

obiettivo era quello di garantire la permanenza in vita dell’agere re. Secondo Garofalo, a Pedio non era sfuggito che, così come concepita da Labeone, la categoria del contratto aveva un impatto parzialmente distruttivo su quella collaterale dell’atto, dal momento che toglieva un’apprezzabile ragion d’essere all’agere re. Destrutturando questo rapporto rilevano due elementi: un accordo tra due parti contemplante l’impegno dell’una di eseguire la consegna di una cosa e l’impegno dell’altra di tenere un contegno immancabilmente esteso alla restituzione della res; l’attuazione del primo impegno. Solo se questa fosse intervenuta, dunque l’accordo sarebbe entrato nella sfera del diritto, risultando protetto da apposite azioni; diversamente ne sarebbe rimasto fuori: salvo però

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transitarvi (in quanto rispondente ai requisiti di contenuto richiesti per l’accesso alla figura del contratto), e godere della tutela offerta dall’actio praescriptis verbis, nella prospettiva ricostruttiva propria di Labeone. A seguirla, quindi, l’agere re, sarebbe stato fagocitato dall’agire per il tramite di accordi che rientravano nella famiglia del contratto , cessava la sua utilità. Pedio per salvaguardare l’agere re ridelinea la figura del contratto, circoscrivendola agli accordi che vincolavano ciascuna parte al compimento di una prestazione e che, riconosciuti direttamente dall’ordinamento, erano protetti da azioni edittali, oppure nell’ipotesi in cui non lo fossero, avessero dato luogo all’esecuzione di una prestazione, essendo allora tutelati dall’actio praescriptis verbis, esercitabile dal solo soggetto adempiente. Gli accordi invece che imponevano a una parte la consegna di una cosa e all’altra una condotta che comunque comprendeva la sua restituzione, non trovavano ingresso nella categoria del contratto, in quanto già prima inglobati nei singoli atti a carattere reale tipicamente previsti dal sistema e come tali assistiti da azioni edittali. Garofalo ammette che manca una prova sicura che Pedio abbia corretto nel modo descritto la nozione di contratto affacciata da Labeone e proprio per neutralizzare le supposte ripercussioni di questa sull’agere re. A sostegno della sua tesi però richiama il passo D.19,4,1,3 : “ideoque Pedius ait alienam rem dantem nullam

contrahere permutationem”. In questo passo Paolo si affida a Pedio per un’importante precisazione

in materia di permuta 22. Pedio esclude (secondo Garofalo) che assurga a contratto un accordo

avente ad oggetto una permuta, implicante l’impegno di ciascuna parte a procedere alla datio di una

res, cioè alla trasmissione di una cosa in proprietà, a favore dell’altra, se non vi avesse fatto seguito

alcuna datio, come nel caso in cui fosse intervenuto il trasferimento della cosa materialmente intesa e però non della proprietà di questa , a causa del suo appartenere a un terzo. Tutto questo sarebbe confermato da quanto Paolo scrive in apertura del paragrafo precedente a quello su riportato , supponendo (sulle orme di La Pira ) che egli si sia ispirato all’opera di Pedio là dove osserva: “emptio ac venditio nuda consentientium voluntate contrahitur, permutatio autem ex re tradita

initium obligationi praebet” (la compravendita si contrae con la mera volontà dei contraenti, mentre

la permuta dà inizio all’obbligazione con la consegna della cosa).

Garofalo proseguendo nella trattazione ci sottolinea come la posizione assunta da Pedio in merito alla figura del contratto (da datare alla seconda metà del I sec. d.C.) abbia potentemente influito su due giuristi di epoca appena posteriore, Aristone e Mauriciano , il cui pensiero in materia di contratto conosciamo grazie al famoso passo D.2,14,7,2. , e che giova sempre ricordare, essere un lungo frammento di Ulpiano, che tratta un argomento caro alla meditazione scientifica di età classica, e cioè il peso che gli accordi avevano in ambito giuridico.

22 Garofalo sottolinea che tale figura era ben nota alla pratica commerciale, non elevata tuttavia a tipo dall’ordinamento

di età classica, priva perciò di un’apposita tutela edittale. Da una parte dei Sabiniani essa era inclusa nella compravendita, così che beneficiasse delle azioni specificamente previste per questa.

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3. Aristone: la causa e il synallagma. Dalla tutela dei contratti innominati

verso la definizione di una categoria generale di contratto

L’esperienza giuridica romana è tendenzialmente basata sulla tipicità , che non sarà superata neanche nel <<sistema giustinianeo dei contratti>> 23 ma è possibile cogliere elementi di rottura

ed una progressiva apertura verso l’idea di libertà contrattuale 24.

A partire almeno dall’inizio del I sec a.C., l’accordo delle parti (cd. conventio) viene , in quanto tale, preso in considerazione dal pretore nell’edictum de pactis, senza apparenti limiti in relazione al contenuto. Come ci fa notare Mario Talamanca25, noi conosciamo di questo editto solo la

redazione giulianea, intorno agli anni 120-130 d.C., ed in questa il pretore promette, genericamente , di tutelare i pacta conventa . Nonostante l’apparente ampiezza della promessa edittale, l’unica misura concreta di attuazione di essa , sul piano dei mezzi di difesa giudiziale , è dato dall’exceptio pacti , offrendo così una rilevanza soltanto negativa all’accordo fra le parti, nel senso che ad esso (sul piano del diritto onorario) viene riconosciuta soltanto l’efficacia di estinguere o differire l’esercizio dell’azione da parte del titolare di un diritto soggettivo26. Al principio ex nudo

pacto actio – e quindi obligatio – non oritur, il diritto classico, ma anche quello giustinianeo non

hanno mai rinunciato. Nonostante ciò, nei frammenti del commentario di Ulpiano all’editto De

Pactis in D.2,14,1 e 7 la conventio, intesa appunto come volontà delle parti è elemento

indispensabile (ed è questo quello che ci interessa) per l’esistenza dei nudi patti ed anche dei contratti. Esaminiamo questi frammenti più da vicino.

D. 2,14,7 pr.-a (Ulp. 4 ad ed.) : “iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam

exceptionem. 1. Quae pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed transeunt in proprium nomen contractus: ut emptio venditio, locatio conductio, societas…”

[Del diritto delle genti alcune convenzioni fanno nascere azioni, altre eccezioni. 1. Quelle che fanno nascere azioni non restano con proprio nome, ma transitano nel nome proprio di un contratto, come compravendita, locazione conduzione, società…..];

23 Che Talamanca in “Contratto e patto nel diritto romano” cit., p. 65, afferma essere creazione della giurisprudenza

medievale la quale procedeva ponendo sullo stesso piano materiali che, da un punto di vista storico, devono essere valutati diversamente nel loro rapporto con la realtà del VI secolo d.C.

24 Luchetti, Petrucci, “Fondamenti romanistici”, cit., p. 93.

25 M.Talamanca , “Contratto e patto nel diritto romano” , cit., pag 65.

26 Ma fino alle XII Tavole, almeno, risale l’efficacia civile del patto con cui si rimette l’esercizio della vendetta privata e

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D. 2,14,7,2-3 (Ulp. 4 ad ed.): “Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa,

eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem.ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc συνάλλαγμα esse et hinc nasci civilem obligationem… 3.si ob maleficium ne fiat promissum sit, nulla est obligatio ex hac conventione.”

[Ma anche se dalla convenzione non transiti un altro contratto, ma sussista una causa, Aristone elegantemente ha risposto a Celso che vi è una obbligazione. Come ad esempio, ti ho dato in proprietà una cosa, perché tu me ne dessi in proprietà un’altra, perché tu faccia qualcosa; questo è sinallagma e da qui nasce una obbligazione civile… 3. Se sia stato promesso <qualcosa> a causa di un delitto, perché non sia fatto, non vi è nessuna obbligazione da questa convenzione];

D. 2,14,7,4 (Ulp. ad ed.): “sed cum nulla subest causa, propter conventionem hic constat non posse

constitui obligationem: igitur nuda pactio obligationem non parit, sed parit exceptionem.”

[Ma quando non sussiste alcuna causa, è certo che qui non può costituirsi un’obbligazione a seguito della convenzione; pertanto una nuda pattuizione non fa nascere un’obbligazione, ma fa nascere un’eccezione].

Come si può notare, nei contratti la conventio fa sorgere obbligazioni, identificandosi con le figure contrattuali tipiche, già riconosciute dall’ordinamento, quali locazione, compravendita, società, oppure, quando una qualche causa sorregga l'impegno assunto e l'oggetto dello stesso sia lecito, anche in una figura contrattuale innominata. Dalle parole di Ulpiano vediamo come quest’ultima posizione si fosse già andata chiaramente delineando in Aristone verso la fine del I sec. d.C., il quale, in risposta a Celso, aveva individuato un contratto (συνάλλαγμα), e quindi una fonte di obbligazioni, nelle convenzioni di do ut des e do ut facias. Due erano i requisiti per cui potersi compiutamente identificare una “conventio” col termine “contractus”: in primo luogo, la presenza di una causa intesa quale esecuzione parziale del contratto o quale specifica funzione economica di scambio sottesa all'incontro delle volontà negoziali, secondariamente, la liceità dell'oggetto dedotto in obbligazione. Solo questa convenzione, per così dire “qualificata” era protetta da azioni.

Il pactum in quanto tale continua, dunque, in periodo giustinianeo ad assolvere soltanto alla funzione di parere exceptionem. Per quanto concerne il pactum ex intervallo, cioè quello su cui le parti si accordino in un momento successivo alla conclusione del contratto e relativo all’assetto di interessi precedentemente predisposto, sia nel periodo classico che in quello giustinianeo, può essere tutelato in via d’azione solo quando integri, ex novo, una fattispecie contrattuale. E’ solo in caso dei pacta in continenti (patti aggiunti al contratto contemporaneamente allo stesso) che la clausola accessoria su cui le parti si accordino al di fuori del contenuto tipico del contratto potrà

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essere tutelata in via d’azione, quando dal contratto nasca un iudicium bonae fidei ed il contenuto della clausola stessa sia compatibile con la funzione-socio economica tipica della figura contrattuale di cui si tratta.

L’uso della buona fede oggettiva per l’introduzione di nuove convenzioni è un’altra breccia nel sistema della tipicità contrattuale del diritto classico27 ; emblematico è il testo di D. 2,14,58 di

Nerazio Prisco, vissuto nei primi decenni del II sec d.C.

D. 2,14,58 (Ner. 3 mambr.): “Ab emptione venditione, locatione,conductione ceterisque similibus

obligationibus quin integris omnibus consensu eorum, qui inter se obligati sint, recedi possit, dubium non est. Aristoni hoc amplius videbatur, si ea, quae me ex empto praestare tibi oporteret, praestitissem et , cum tu mihi pretium deberes, convenisset mihi tecum, ut rursus praestitis mihi a te in re vendita omnibus, quae ego tibi praestitissem , pretium mihi non dares tuque mihi ea praestitisses:pretium te debere desinere mihi quia bonae fidei, ad quam omnia haec rediguntur, interpretatio hanc quoque conventionem admittit nec quicquam interest, utrum integris omnibus, in quae obligati essemus, conveniret, ut ab eo negotio discenderetur , an in integrum restitutis his, quae ego tibi praestitissem, consentiremus, ne quid tu mihi eo nomine praestares…”

[Da una compravendita, una locazione conduzione e tutte le altre obbligazioni simili non c’è dubbio che si possa recedere , prima dell’adempimento delle prestazioni, per consenso di quelli che si sono obbligati fra di loro. Più ampiamente ad Aristone sembrava che, se io ti avessi prestato quelle cose che dovevo prestarti in base alla compravendita e, quando tu <ancora> mi dovevi il prezzo , avessimo convenuto che , una volta ridatemi tutte quelle cose , tu cessassi di dovermi il prezzo, perché l’interpretazione di buona fede, alla quale tutto ciò si riporta , ammette anche questa convenzione e non importa se , non ancora adempiute le prestazioni, alle quali eravamo obbligati, conveniamo di recedere da quel negozio, oppure, ripristinate quelle cose che ti avevo prestato, consentiamo che tu non mi presti alcunché a tale titolo…]

Aristone quindi, fondandosi su una interpretazione di buona fede, ammetteva come possibile un recesso concordato tra le parti , convenzione questa che non consisteva in un nudo patto quanto in un vero e proprio contratto innominato. Infatti le parti contrattuali intendono costituire nuove obbligazioni, rivolte a realizzare il recesso dal precedente contratto, non rientrando però in nessuna delle figure tipiche contrattuali basate sul consenso. È evidente quindi che la buona fede operi da parametro per valutare l’ammissibilità di una convenzione, quella fondata sul contrarius consensus,

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che non adottava lo schema, di cui faranno uso i giuristi successivi, di renovare contractum quando si intendeva procedere alla risoluzione parziale della compravendita.

A margine del responsum del giurista traianeo si è sviluppato un lungo dibattito, che per densità e complessità presenta pochi eguali e che in questa sede non può che essere solo accennato. Lo si farà analizzando la celebre sequenza sopra riportata, prendendo in considerazione i punti di vista opposti di due studiosi contemporanei : Filippo Gallo e Tommaso Dalla Massara.

Incominciamo con le riflessioni di Gallo 28 che, sebbene riconoscano l’importanza dell’apporto di

Aristone, nell’ambito della tutela dei contratti innominati, contengono diverse critiche alla sua elaborazione. Gallo ci dice che , nella messa a punto di Aristone, l’espressione subsit tamen causa esprime il compimento di una delle prestazioni corrispettive oggetto della conventio , e al di fuori dei contratti tipici ( secondo la formulazione ulpianea, delle conventiones che transeunt in proprium

nomen contractus) , risulta richiesto per la formazione del συνάλλαγμα,, in aggiunta alla conventio,

il compimento di una delle prestazioni corrispettive. Gioverebbe a questo punto per comprendere meglio la portata dell’apporto di questo giurista, il confronto con la dottrina labeoniana, secondo cui il contratto è, per un verso, circoscritto alle convenzioni generatrici di obbligazioni reciproche e costituisce , per l’altro, una categoria generale , riempibile , nei limiti dell’obligatio ultro citroque, con ogni contenuto rispondente ai requisiti. Ebbene la scientia iuris romana non fece propria la visione labeoniana e si attestò, in materia contrattuale, sul criterio della tipicità e ravvisò il fondamento delle distinte figure nella bilateralità soggettiva. A questa tipicità, che rappresentava una chiusura rispetto alle esigenze percepite da Labeone, di una società caratterizzata da rapporti di scambio evoluti , Aristone avrebbe proposto un correttivo, costituito dal riconoscimento del

συνάλλαγμα labeoniano nei casi nei quali una delle prestazioni reciproche era già stata eseguita, vale

a dire quando era stata posta in essere, in aggiunta alla conventio, la causa giustificatrice della controprestazione. Gallo riconosce ad Aristone l’aver colto un dato rilevante, che trova ancora riscontro nella nostra esperienza giuridica contemporanea, e cioè il peso che assume il fatto concreto della iniziata esecuzione, nonché l’aver aperto la strada alla formazione della categoria dei c.d. contratti innominati, comprendenti l’area delle possibili combinazioni , non previste dai contratti tipici, fra prestazioni corrispettive: “do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias”. Il contributo aristoniano però, adducendo l’autorità di Labeone (attraverso il richiamo al termine

συνάλλαγμα), ne avrebbe travisato il pensiero: mentre il fulcro della dottrina labeoniana in tema di

contratto consisterebbe nel riconoscimento dell’obligatio ultro citroque scaturente dal consenso, in cui le obbligazioni, collegate dal consenso dei contraenti, non hanno bisogno di altro sostegno al di fuori della reciproca esistenza; nella visione aristoniana la bilateralità oggettiva verrebbe viceversa

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riversata nella logica sottesa alla configurazione dei contratti reali. Solo l’esecuzione di una delle prestazioni reciproche renderebbe infatti obbligatorio il compimento dell’altra. Il richiamo di Aristone al συνάλλαγμα labeoniano sembrerebbe frutto di un equivoco. Tuttavia , a quanto si ricaverebbe da Ulpiano, l’equivoco non venne rilevato: la messa a punto di Aristone incontrò seguito così come era stata presentata, e cioè quale esplicazione di detto συνάλλαγμα. Gallo conclude le sue riflessioni con queste parole: “ come si è notato , l’elaborazione aristoniana,

sfociata nella configurazione dei contratti innominati, risolse effettivi problemi, essa aprì una certa breccia alla libertà negoziale nella barriera costituita dalla tipicità dei contratti. Si trattò tuttavia di un arretramento in confronto alla dottrina di Labeone, il quale aveva percepito, con secoli di anticipo, l’esigenza dell’eliminazione di tale barriera…… È evidente che l’ammissione del vincolo obbligatorio, una volta che una delle parti ha eseguito il proprio impegno, costituisce un espediente escogitato per ovviare agli inconvenienti più gravi nel quadro del mantenimento del principio della tipicità contrattuale. È questo mantenimento che pone l’esigenza del rimedio. Com’è noto nel nostro sistema è accolta la figura generale del contratto... la sua definizione come accordo è delimitata (corretta) dal fondamento causale…… Lo schema generale del contratto labeoniano…. scopre la disarmonia insita nella definizione del contratto come accordo e nell’inclusione di quest’ultimo, insieme alla causa , tra i requisiti del contratto”.

Prendiamo adesso in considerazione le riflessioni di Tommaso Dalla Massara che rivalutano, rispetto a Gallo, l’apporto di Aristone , non considerandolo un mero correttivo e solo come l’apertura alla tutela dei contratti innominati, bensì il superamento della dottrina labeoniana e l’avvio verso il riconoscimento di una categoria generale di contratto. Il pensiero di Dalla Massara è espresso in un saggio interamente dedicato all’analisi dell’apporto aristoniano29, e con estrema

chiarezza ed analiticità ne illustra i caratteri salienti. D.2,14,7,2 viene compiutamente analizzato nei suoi singoli elementi presi in esame uno ad uno: res, alium contractum, eleganter,respondit,ut puta ,

obligationem, causa e συνάλλαγμα.

Nel segno res Dalla Massara ravviserebbe il significato di affare divisato dalle parti, senza una specifica valenza tecnico-giuridica, in tal senso deporrebbe non solo la considerazione in sé dei normali impieghi di res, ma anche quella degli specifici rapporti tra res e causa; essendo nota l’ampia sinonimia tra i due segni, egli precisa che tendenzialmente causa assume, al di là dei differenti contesti, un valore giuridicamente qualificato rispetto a res. Per Aristone più esattamente, la causa sarebbe ciò che consente di qualificare come contratto (ancorché innominato) una res. Appare, a Dalla Massara falsante l’opinione di chi nel termine res vuole vedere un collegamento

29 T. Dalla Massara , “Sul responsum di Aristone in D.2.14.7.2”, in “ Le dottrine del contratto nella giurisprudenza

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diretto con la conventio, poiché, occorre tenere presente che le parole sono originariamente quelle di Aristone, poi citate da Ulpiano: soltanto il secondo, ma non anche il primo, costruiva il proprio argomentare sull’idea di conventio. Aristone invece poneva l’attenzione sul profilo dell’affare, in relazione al contratto, considerato dal punto di vista sostanziale (… si in alium contractum res non

transeat..). La res è l’affare, il quale passa ad essere contratto allorché sussista una causa. Il

collegamento linguistico varrebbe a suggerire proprio l’idea di spostamento dal piano atecnico-economico a quello tecnico-giuridico: l’affare, logicamente antecedente a ogni qualificazione sub

specie iuris, diventa contratto. Il senso del trascorrere dall’uno all’altro piano si avvertirebbe in

maniera più chiara perché qui Aristone volge lo sguardo a una convenzione atipica: la res riceve una qualificazione giuridica ancorché non sia sussumibile in alcuno dei tipi edittali (e si riveli così irriducibile a uno dei modelli ideali di comportamento, secondo un giudizio che può dirsi di qualificazione tipologica); ciò che rileva quindi è la causa in concreto da valutarsi come il peculiare scopo che i soggetti intendono perseguire, in diretto collegamento con uno specifico assetto di interessi.

In relazione alla scelta dell’aggettivo alius, riferito a contractus, la dove si afferma si in alium

contractum res non transeat, occorre osservare, ci dice Dalla Massara, che esso identifica una res la

quale, pur non passando in alium contractum, è del pari idonea a essere qualificata come contratto. La res non è riconducibile ai tipi edittali (non ottiene una qualificazione tipologica), ma essa è pure

contractus (dunque ottiene comunque una qualificazione giuridica). L’aggettivo alius esprimerebbe

l’appartenenza a differenti specie del medesimo genere-contratto; se il riferimento fatto da Ulpiano al proprium nomen contractus allude alla presenza di una formula edittale, con attenzione principalmente rivolta alla prospettiva processuale, nel responsum di Aristone l’attenzione appare invece focalizzata su un piano di considerazione sostanziale. La dialettica tra le conventiones che transitano in un nomen e quelle che in esse non transitano, sulla quale Ulpiano aveva impostato il proprio discorso, si sovrappone a quella che emerge passando alle parole di Aristone tra contratti causalmente atipici, gli uni e gli altri comunque riconducibili entro la cornice unitaria (sotto il profilo sostanziale) di un’idea generale di contratto.

L’utilizzo da parte di Ulpiano dell’avverbio eleganter sarebbe posto a contraddistinguere il

responsum di Aristone (eleganter Aristo Celso respondit). Si osservi che poco prima, in D.2,14,1,3,

ricorreva l’uso del medesimo avverbio, lì però al fine di introdurre la celebre affermazione di Pedio circa la necessità di conventio. Dalla Massara ritiene che in entrambi i casi la scelta dell’avverbio

eleganter dia evidenza, oltreché all’apprezzamento per una speciale accuratezza stilistica ed

argomentativa, alla segnalazione di una citazione fedele della quale occorre presumere l’autenticità fin nell’impiego delle singole parole. Le due eleganti citazioni si corrisponderebbero anche

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nell’importanza riconosciuta loro da Ulpiano: si potrebbe dire che con esse si esprimono i principi fondamentali che fanno da sfondo alla ricostruzione del fenomeno contrattuale delineata entro il libro 4 ad edictum. Da un lato il consensualismo pediano e dall’altro il causalismo aristoniano paiono ispirare la rappresentazione ulpianea di contrahere. <<Nel quadro della stratificazione degli

apporti labeoniani (mantenuti a silenzioso presupposto, specie attraverso la menzione del συνάλλαγμα….) aristoniani , pediano ed infine ulpianei –tutti riscontrabili nella testimonianza ad esame- sembrano potersi cogliere i materiali concettuali da cui è ricavabile un’idea, ancora solo affacciata più che definita , di contratto…>>.

All’opinione aristoniana si contrappone quella di Celso, che non riconosce nel caso delineato il sorgere di effetti civili: il senso dell’opposizione è affidato alla scelta del verbo respondere, di cui è tuttavia discussa la precisa valenza.

Il periodo successivo è quindi introdotto da ut puta, che precede la rappresentazione dei casi do ut

des oppure do ut facias; in tali ipotesi, si afferma nel seguito, è da vedersi la presenza di un συνάλλαγμα e da cui scaturiscono obbligazioni civili. La presenza di “ut puta” assumerebbe

essenzialmente un valore di passaggio dall’affermazione della necessità della causa a quella riguardante il συνάλλαγμα.

L’impiego di obligationem, nella seconda occasione in cui il termine compare (ossia nella proposizione hoc συνάλλαγμα esse et hinc nasci civilem obligationem) ha sollevato dubbi di genuinità. Il termine obligatio parrebbe utilizzato solo nella prima sede (Celso respondit esse

obligationem) per indicare l'esistenza di un atto produttivo di un vincolo giuridico rilevante per il

diritto civile; cosicchè in tale successiva menzione, ove obligatio sembra invece evocare l’idea di rapporto, il termine dovrebbe reputarsi inserito. L’argomentazione invero non convince Dalla Massara: <<a prescindere dalle perplessità che suscita la netta attribuzione a obligatio, nel primo

luogo in cui vi si fa richiamo, del significato di ‘atto’ (obbligatorio o obbligante che sia), pare a me che, così facendo, si rischi di dogmatizzare un’interpretazione, per poi parametrare, sulla sola base di questa, l’autenticità del testo. Mi sembra invece necessario , in primo luogo , ripensare in termini più duttili la nozione di obligatio dei prudentes , nonché in secondo luogo, contestualizzare le due affermazioni (prima, Celso respondit esse obligationem, e poi, hoc συνάλλαγμα esse et hinc nasci civilem obligationem), prestando particolare attenzione ai nessi che si possono ravvisare tra i termini causa e συνάλλαγμα, da un lato, e obligatio , dall’altro: una specifica esegesi del testo ritengo porti a credere che il sorgere di effetti obbligatori, in relazione ad una convenzione atipica, risulti sempre collegato alla presenza di causa e συνάλλαγμα. Viceversa, accogliendo la menda di obligationem in actionem, si otterrebbe l’affermazione per cui dal συνάλλαγμα nasce direttamente

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