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LA GESTIONE DINAMICA DEL RISCHIO DI CREDITO: I CREDIT DEFAULT SWAP E L'IMPATTO DELLE VARIAZIONI DEI RATINGS

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

Tesi di Laurea Magistrale

LA GESTIONE DINAMICA DEL RISCHIO DI CREDITO: I CREDIT DEFAULT SWAP E L’IMPATTO DELLE VARIAZIONI

DEI RATINGS Relatore: Emanuele VANNUCCI Controrelatore: Elena BRUNO Candidato: Rosario Domenico BOCHICCHIO

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INDICE

INDICE 1

INTRODUZIONE 4

CAPITOLO 1: I RISCHI BANCARI 6

1.1.PREMESSA 6 1.2. RISCHIO DI MERCATO 8 1.3. RISCHIO OPERATIVO 10 1.4. RISCHIO REPUTAZIONALE 14 1.5. RISCHIO DI LIQUIDITÀ 16 1.6. RISCHIO DI CREDITO 21

1.6.1. RISCHIO DI CREDITO E PATRIMONIO DI VIGILANZA 26

CAPITOLO 2: GESTIONE DINAMICA DEL RISCHIO DI CREDITO:

I DERIVATI CREDITIZI 31 2.1.PREMESSA 31 2.2. LE LOAN SALES 36 2.3.LA SECURITISATION 40 2.3.1. LA SECURITISATION CLASSICA 42 2.3.2. LA SECURITISATION SINTETICA 45 2.4. CREDIT DERIVATIVES 49

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2.4.2. TOTAL RATE OF RETURN SWAPS 57

2.4.3. CREDIT SPREAD OPTION 59

2.4.4. CREDIT LINKED NOTES 60

CAPITOLO 3: MODELLI DI PRICING 62

3.1.PREMESSA 62

3.2. MODELLI STRUTTURALI 65

3.2.1. MODELLO DI MERTON 66

3.2.1. MODELLO DI LONGSTAFF E SCHWARTZ 74

3.3. MODELLI IN FORMA RIDOTTA 78

3.3.1. MODELLO DI JARROW E TURNBULL 79

3.2.1. MODELLO DI MERTON 85

CAPITOLO 4: L’IMPATTO DELLE VARIAZIONI DEI RATING SUI

PREMI DEI CREDIT DEFAULT SWAP 89

4.1.PREMESSA 89

4.2. SOVEREIGN CREDIT RATING 92

4.3. RATING SOVRANI E SPREAD DEI CDS IN EUROPA 99

CONCLUSIONI 109 BIBLIOGRAFIA 111 SITOGRAFIA 117

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INTRODUZIONE

La crisi finanziaria dei mutui subprime iniziata negli Stati Uniti nel 2007 ha portato il tema del rischio di credito al centro del dibattito economico finanziario. L’intensità, la velocità e l’estensione della crisi nata con l’esplosione della bolla immobiliare americana e arrivata alla crisi dei debiti sovrani ha minato la fiducia nei confronti dell’intero settore finanziario e sconvolto i mercati. Le banche sono accusate di non aver riposto adeguata attenzione al rischio di credito e sul banco degli imputati è salito il modello di business originate to distribute tramite il quale le banche erogano prestiti per poi cederli sul mercato, senza più tenerli in bilancio fino a scadenza come avveniva nel modello originate and hold. Alla base del nuovo modello operativo ci sono le operazioni di credit risk transfer, tra cui la securitisation e i credit derivatives, le quali permettono il trasferimento del rischio a soggetti diversi dal creditore originario alimentando l’interconnessione dei mercati e di conseguenza la trasmissione della crisi dall’economia statunitense alle economie europee.

Particolare attenzione da parte delle policy maker e regolatori è rivolta al ruolo dei contratti di credit default swap, soprattutto dopo la recente crisi del debito sovrano, in virtù delle proprie peculiarità che ne hanno favorito la diffusione ma al tempo stesso li rendono facili da utilizzare per finalità speculative.

Il presente lavoro nel primo capitolo fa una breve rassegna dei rischi che caratterizzano l’attività bancaria, ponendo particolare attenzione al rischio di credito.

Il successivo capitolo mostra come sia cambiato l’atteggiamento delle banche nella gestione di tale alea grazie all’utilizzo delle tecniche di credit risk transfer, passando da una gestione statica a una gestione dinamica del rischio di credito. Si analizzano in questa sezione le caratteristiche, le tipologie e il funzionamento di loan sales e securitisation, soffermandosi in particolar modo sui credit derivatives.

Nel terzo capitolo si mostrano le modalità di pricing dei derivati creditizi. La valutazione del valore del derivato può avvenire seguendo approcci diversi. Da un lato ci sono i modelli strutturali che derivano il default facendo riferimento

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alle caratteristiche strutturali del reference entity; dall’altro lato ci sono i modelli in forma ridotta in cui l’arrivo al default viene inferito dai dati di mercato.

Infine è stata analizzata più da vicino la crisi dei debiti sovrani iniziata nel 2010. In questo periodo, soprattutto per i Paesi definiti “PIIGS”, c’è stato un abbassamento del proprio merito creditizio da parte delle Agenzie di rating e un’impennata sia dello spread rispetto ai Bund tedeschi sia del prezzo dei sovereign CDS. L’ultima sezione dell’elaborato riguarda proprio i movimenti registrati nei premi dei sovereign CDS europei in risposta alle variazioni del rating espresse da Standard & Poor’s.

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CAPITOLO 1 : I RISCHI BANCARI

1.1. Premessa

Il rischio è una componente intrinseca al fenomeno azienda. Dal momento che ogni attività d’impresa per raggiungere i propri fini deve agire in un contesto più ampio, cioè l’ambiente in cui opera, allora l’assunzione dei rischi che l’attività stessa comporta è la premessa affinchè si raggiunga un ritorno economico. Il rischio d’impresa deriva dalle differenze tra l’ambiente esterno in continua evoluzione e la “struttura aziendale” che invece presenta una tendenziale rigidità; maggiore è la variabilità dell’ambiente esterno e più difficile sarà per l’impresa prevedere il futuro, cioè più sarà alto il grado di rischio. Naturalmente la tipologia e il livello di rischio non è univoco per ogni azienda, ma invece è caratterizzato da una forte soggettività in base all’azienda stessa e all’attività svolta. Particolare attenzione al rischio è rivolta dalle imprese finanziarie in proprio l’assunzione dei rischi rappresenta la propria attività. L’individuazione, la quantificazione e la gestione del rischio è quindi un’attività core per l’intermediario capace di creare valore per l’impresa; difatti gestendo i rischi in modo efficace la banca minimizza i danni nel momento in cui l’evento incerto si verifica, ma con una gestione proattiva addirittura potrà sfruttare le opportunità che l’evento incerto stesso offre.

Lo scopo principale della funzione Risk Management risulta essere quello di consentire all'impresa di ottenere benefici durevoli da ogni attività che esso svolge, contribuendo così a creare valore per l'azienda e per i suoi stakeholder. Il suo svolgimento si esplica in diverse fasi: definizione degli obiettivi strategici dell’azienda; identificazione del rischio; valutazione del rischio, ossia la traduzione in termini quantitativi; trattamento del rischio, cioè sua gestione in senso stretto, col fine di applicare idonei strumenti per ridurre gli effetti negativi ad un livello congruo agli obiettivi aziendali; reporting, cioè diffusione delle informazioni concernenti il rischio sia all’interno che all’esterno; controllo e monitoraggio, sia riguardo all’andamento dei rischi sia riguardo all’efficacia del

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processo di risk management. Non basta individuare e valutare il rischio, ma bisogna saperlo governare. Contestualmente all’evoluzione dell’ambiente anche la funzione di risk management delle banche si è evoluta; seguendo la sua evoluzione notiamo un diverso trattamento riservato ai rischi. All’inizio venivano visti esclusivamente come un evento dannoso, downside risk, e l’attegiamento riservato loro era esclusivamente reattivo e veniva gestito tramite strumenti assicurativi. Successivamente il rischio puro fa posto al rischio speculativo, ossia entra in gioco il rapporto rischio-opportunità il quale trasforma l’azione del risk management da reattiva a proattiva, proprio per sfruttare anche gli effetti positivi che potrebbero scaturire dal rischio stesso(upside risk). L’ultimo passo che è stato fatto è quello di collegare tutti i rischi affrontati dall’azienda e che possono incidere sulla propria performance per arrivare a definire il profilo di rischio complessivo dell’impresa. Come ribadisce anche Basilea 2 si passa ad una gestione del rischio globale, integrata , cambiando anche il ruolo del risk manager all’interno dell’organizzazione. Le nuove regole europee hanno portato la funzione di risk management ad avere un ruolo sempre più centrale nella governance bancaria, ad uscire dalla dimensione di mero “ufficio studi” impegnato nella costruzione di sofisticati modelli quantitativi per diventare sempre più un interlocutore a supporto del Top Management e del Board nell’analisi e nel controllo delle diverse tipologie di rischio e nella comprensione delle implicazioni delle diverse scelte strategiche sul profilo di rischio della banca.

I seguenti paragrafi costituiscono una breve rassegna delle principali tipologie di rischi che caratterizzano l’attività bancaria .

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1.2. Rischio di mercato

Il rischio di mercato, o rischio di prezzo, è il rischio legato alle condizioni di mercato in cui operano gli intermediari finanziari. Lo sviluppo dell' operatività delle banche sui mercati finanziari e l'ampliamento dell'intermediazione in valori mobiliari e in valute ha determinare un aumento dei rischi connessi a variazioni dei prezzi di mercato. La crescente rilevanza assunta negli anni dal rischio di mercato deriva anche ad altri fenomeni che si sono verificati nei mercati finanziari. In primis c’è lo sviluppo del processo di cartolarizzazione (securitization) che ha portato alla progressiva sostituzione di attività di attività illiquide, come mutui e prestiti, con attività dotate di un prezzo e per cui possono essere scambiate su un mercato secondario. Un secondo fattore è stata la crescita del mercato degli strumetni derivati. Gli intermediari hanno aumentato sempre più le proprie posizioni in derivati, il cui valore di mercato dipende dalla variabilità dei prezzi delle attività sottostanti e/o dalle condizioni di volatilità degli stessi1. Inoltre anche la crescente volatilità imputabile alla progressiva internazionalizzazione degli stessi costituisce un fattore di accentuazione del rischio di mercato. Infine anche alcune nuove regole contabili, come lo IFRS 39, che impongono la contabilizzazione non più al costo storico ma al valore di mercato (fair value) hanno contribuito ad alimentare l’importanza dei metodi di rilevazione delle categorie di rischio di mercato, in quanto permettono immediatamente di evidenziare i profitti e le perdite registrate a seguito di variazioni di breve termine delle condizioni di mercato. Così nel 1993 il Comitato di Basilea (Direttiva CEE 93/6) ha formulato delle proposte per l’estensione dei requisiti patrimoniali a tali rischi e la definizione di metodologie per la sua misurazione. L’ attività di negoziazione e di investimento in valori mobiliari che pone in essere la banca risultano esposte quindi alla volatilità dei prezzi delle attività scambiate.

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Per rischio di mercato, o di prezzo, si intende il rischio di variazioni del valore di mercato di uno strumento o di un portafoglio di strumenti finanziari, dovuto a variazioni sfavorevoli ed impreviste dei mercati (prezzi azionari, tassi di interesse, tassi di cambio), e include i rischi su posizioni in valuta, in titoli azionari ed obbligazionari, così come tutte le altre attività e passività finanziarie scambiate da una banca.

Di solito esso è identificato con il solo portafoglio di negoziazione, il cosiddetto trading book2. Le posizioni detenute a fini di negoziazione sono quelle intenzionalmente destinate a una successiva dismissione a breve termine e/o assunte allo scopo di beneficiare, nel breve termine, di differenze tra prezzi di acquisto e di vendita, o di altre variazioni di prezzo o di tasso d’interesse. Per posizioni si intendono le posizioni in proprio e le posizioni derivanti da servizi alla clientela o di supporto agli scambi (market making)3.

A seconda della tipologia di prezzo cui si fa riferimento, come proposto da Sironi, si possono classificare 5 principali categorie di rischi di mercato4:

• Rischio di cambio, quando il valore di mercato di una posizione è sensibile a variazioni dei tassi di cambio. Si tratta delle attività o passività finanziarie in valuta estera o di derivati il cui valore dipende dal tasso di cambio;

• Rischio di interesse, quando il valore di mercato delle posizioni risente dell’andamento dei tassi di interesse;

• Rischio azionario, quando il valore di mercato delle posizioni assunte è sensibile all’andamento dei mercati azionari;

• Rischio merci, quando il valore di mercato delle posizioni è sensibile alle variazioni dei prezzi delle commodity;

2 in realtà tale tipologie di rischio riguarda anche il banking book, quindi riguarda ogni attività e passività finanziarie detenuta dalla banca.

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• Rischio di volatilità, quando il valore delle posizioni assunte è sensibile a variazioni della volatilità di una delle variabili considerate sopra.

Una misura omogenea del rischio complessivo assunto dalla banca è il Var (Value-at-risk) , che rappresenta il valore a rischio della banca in seguito a fluttuazioni avverse dei fattori di mercato rilevanti per le posizioni assunte nel trading book. L’utilizzo del value-at-risk rientra tra le metodologie dei modelli interni utilizzabile dalla banca previa autorizzazione da parte delle Autorità di Vigilanza, e contrapposta alla metodologia standardizzata prevista dalla normativa. Con Basilea 3 sono stati introdotti due requisiti concernenti i modelli interni; sono lo stressed Var e l’ Incremental Risk Charge (IRC).

1.3. Rischio operativo

Il concetto di rischio operativo fa parte dello svolgimento di ogni attività umana e per questo è caratteristico di ogni attività aziendale, e anche dell’attività bancaria. A causa della moltitudine di fattori che lo determinano è un rischio da non sottovalutare, anche se la disciplina solo negli ultimi anni ha affrontato l’argomento con più meticolosità attribuendogli maggior peso. Le ragioni che hanno portato ad una maggiore attenzione verso questa tipologia di rischio sono molteplici:

• Crescita dimensionale delle banche, accompagnata da una maggiore complessità organizzativa e alla nascita di nuove aree di business;

• Errori e disfunzioni nell’integrazione tra sistemi informativi ed operativi diversi, nel caso di operazioni di fusione e acquisizione;

• Lo sviluppo dell’ e-banking e dell’e-commerce che ha acrresciuto l’esposizione verso rischi potenziali come frodi esterne e di criminalità informativa;

• Il decentramento dei processi produttivi che può generare incertezza sulla divisione delle responsabilità;

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• L’utilizzo di strumenti per la mitigazione di altri rischi (derivati su credito, collateral, cartolarizzazione) può esporre la banca ad altre tipologie di rischio, come quello legale;

Per molto tempo il rischio operativo è stato considerato un insieme di rischi residuali rispetto al rischio di credito e di mercato; solamente con Basilea 2 viene a formarsi una definizione vera e propria. Le difficoltà riscontrate nel processo di definizione sono in parte dovute anche alle peculiarità che contraddistinguono il rischio operativo dai rischi di natura finanziari. Innanzitutto è un rischio puro e non speculativo, cioè espone la banca solo alla possibilità di subire perdite e non alla variabilità, al rialzo o al ribasso, dei risultati economici. Ciò lo rende incoerente con la logica rischio-rendimento, dove a maggior rischio è associato un maggiore rendimento atteso; maggiori rendimento si hanno solo nel caso in cui la maggiore esposizione è accompagnata da minori costi relativamente alle procedure e controlli interni. Inoltre la sua gestione è resa difficoltosa anche dalla carenza di strumenti di copertura che consentano di prezzarlo e trasferirlo sul mercato. Di fatto è un rischio che viene assunto involontariamente come conseguenza dello svolgimento delle attività poste in essere. Ne deriva che non è collegato ad una specifica attività ma riguarda trasversalmente tutta l’organizzazione il che lo rende più difficile da identificare e valutare rispetto ai rischi finanziari. La commistione del rischio operativo con gli altri rischi può portare a problemi riguardanti le perdite le quali, seppure presentano un’origine operativa, si manifestano come conseguenza del rischio di credito o di mercato il che può nascondere la reale natura operativa delle stesse; è il problema delle perdite di confine, su cui la disciplina prudenziale si sofferma per evitare doppi conteggi ed improprie riduzioni del requisito patrimoniale.

Sebbene il rischio operativo rappresenti uno dei rischi più importanti dell’attività, le banche hanno iniziato a gestirlo in modo “attivo” solamente dalla fine degli anni Novanta, quando anche le Autorità di Vigilanza hanno iniziato discussioni sull’argomento data la crescente importanza che hanno assunto gli eventi

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La circolare n.263/2006 della Banca d’Italia lo definisce come il rischio di subire perdite derivanti dall’inadeguatezza o dalla disfunzione di procedure, risorse umane e sistemi interni, oppure da eventi esogeni. Nel rischio operativo è compreso il rischio legale, mentre non sono inclusi quelli strategici e di reputazione. È una definizione causale perchè la finalità del Comitato di Basilea è quella di introdurlo, affianco al rischio di credito e di mercato, all’interno del primo pilastro, ossia tra i rischi per cui è necessaria una misurazione e gestione affinchè venga definita un’adeguata copertura patrimoniale. Dalla definizione è possibile quindi desumere i 4 fattori di rischio, che sono

• Risorse umane, si tratta di eventi come errori, frodi, violazioni di regole e procedure interne, problemi di negligenza, incompetenza o mancanza d’esperienza;

• Sistemi informatici, che include aspetti tecnologici come guasti, virus, incursioni di hacker;

• Processi, che concerne procedure e controlli interni difettosi o inadeguati. • Eventi esterni, che comprende tutte le perdite derivanti da cause esterne e non direttamente controllabili dalla banca, come il rischio politico, fiscale e legislativo, calamità naturali e furti.

Inoltre in Basilea 2 oltre alle cause è presente anche una classificazione degli eventi che possono portare a delle perdite, detti event types (Tabella 1):

Tabella 1:

Categoria di eventi Definizione

Frode interna

Perdite dovute ad attività non autorizzata, frode, appropriazione indebita o violazione di leggi, regolamenti o direttive aziendali che coinvolgano almeno una risorsa interna della banca.

Frode esterna Perdite dovute a frode, appropriazione indebita o violazione di leggi da parte di soggetti esterni alla banca.

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Fonte: Circolare Banca d’Italia 263/2006

Per rendere il capitale minimo di vigilanza più sensibile all’effettivo profilo di rischio delle banche Basilea 2 introduce un requisito patrimoniale anche a fronte del rischio operativo. Le opzioni di calcolo previste dal documento sono 3:

• Metodo base (Basic Indicator Approach, BIA) , che è il più semplice e anche il meno preciso. Si basa su una proxy semplificata dell’esposizione al rischio. Si applica una percentuale fissa della media dei valori del margine d’intermediazione riferito ai tre anni precedenti;

• Metodo standardizzato (Standardised Approach, TSA), che è un’evoluzione del modello base in quanto si impongono requisiti differenti in funzione delle diverse business units5.

Rapporto di impiego e sicurezza sul lavoro

Perdite derivanti da atti non conformi alle leggi o agli accordi in materia di impiego, salute e sicurezza sul lavoro, dal pagamento di risarcimenti a titolo di lesioni personali o da episodi di discriminazione o di mancata applicazione di condizioni paritarie.

Clientela, prodotti e prassi professionali

Perdite derivanti da inadempienze relative a obblighi professionali verso clienti ovvero dalla natura o dalle caratteristiche del prodotto o del servizio prestato.

Danni da eventi esterni Perdite derivanti da eventi esterni, quali catastrofi naturali, terrorismo, atti vandalici.

Interruzioni

dell’operatività e disfunzioni dei sistemi

Perdite dovute a interruzioni dell’operatività, a disfunzioni o a indisponibilità dei sistemi.

Esecuzione, consegna e gestione dei processi

Perdite dovute a carenze nel perfezionamento delle operazioni o nella gestione dei processi, nonché perdite dovute alle relazioni con controparti commerciali, venditori e fornitori.

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• Metodo avanzato (Advanced Measurement Approach, AMA), ossia le banche possono utilizzare i propri modelli interni subordinatamente ad alcune condizioni imposte dagli organi di vigilanza definiti nella Circolare di Banca d’Italia n.263 del 27 Dicembre 2006.

Nel 2016 il Comitato di Basilea ha avviato le consultazioni su varie materie, tra cui la gestione del rischio operativo. La nuova proposta elimina l’utilizzo dei modelli interni (AMA) e propone un’unica nuova metodologia standardizzata, definito il metodo di misura standardizzato (SMA). Il nuovo metodo per il calcolo dei requisiti di capitale incorpora caratteristiche di semplicità e comparabilità tipiche dei metodi semplificati e di risk sensivity dell’approccio avanzato. È costituito da due elementi: BI(business indicator), che rappresenta l’esposizione al rischio basandosi sul bilancio dell’intermediario; LC (Loss component), che invece si basa sui dati delle perdite registrate per il calcolo dei requisiti. Questa metodologia, nella versione del documento di consultazione, presenta alcune carenze. In particolare, non riconosce – al contrario di quanto previsto dai modelli AMA – alcuna forma di mitigazione del rischio operativo, come le polizze assicurative, gli accantonamenti specifici, o le misure di diversificazione dei diversi eventi di perdita. Inoltre, mancano nella metodologia incentivi alla gestione attiva del rischio6.

1.4. Rischio reputazionale

Alla base del funzionamento del sistema finanziario c’è la fiducia, fattore imprescindibile affinché le banche possano svolgere le proprie funzioni. La globalizzazione, la deregulation e una rapida innovazione dei prodotti e dei processi che hanno caratterizzato il mondo bancario, oltre al forte sviluppo dei

6 Fonte: Angelini P. :“Le modifiche del piano regolamentare e le sfide per le banche italiane”, Convegno “Unione Bancaria e Basilea 3 – Risk & Supervision 2016”.

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media e della comunicazione, hanno accentuato la necessità di una gestione adeguata del fattore reputazionale. La reputazione è la manifestazione esterna del livello percepito di rispetto da parte della banca di regole di comportamento e di valori (ad esempio, integrità, trasparenza, coerenza, credibilità ), quindi implica un giudizio di natura non solo economica ma il suo valore passa anche attraverso la percezione che ne hanno gli stakeholders.

Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria definisce il rischio reputazionale come: “il rischio derivante dalla percezione negativa da parte di clienti, controparti, azionisti, investitori, detentori di debito, analisti di mercato, altre controparti interessate o Regulator che possono influenzare negativamente la capacità della banca di sopravvivere, di stabilire nuovi rapporti commerciali o di accedere alle fonti di finanziamento tramite il mercato interbancario o attraverso operazioni di cartolarizzazione“. Il fatto che possa minare la sopravvivenza della banca lo rende un rischio di primaria importanza, anche se viene definito come un rischio di secondo ordine poiché si manifesta come ulteriore conseguenza di eventi sfavorevoli riconducibili a rischi appartenenti ad altre categorie, detti primari (operativi, legali e strategici ). Ciò non vuol dire che tutti gli effetti negativi scaturenti dai rischi primari condizionino la reputazione della banca, ma solo quelli che soddisfano due condizioni: ci sia una diretta responsabilità della banca o di un soggetto nell’adozione delle scelte che portano a effetti negativi per la reputazione; l’intervento di fattori idonei ad incidere sull’opinione interna ed esterna che si ha della banca. Questi fattori sono le cosiddette variabili reputazionali (ambiente esterno, immagine aziendale, processi di comunicazione) e possono vita provocare effetti sia diretti (economici) che indiretti (non economici). Tra i primi troviamo il downgrade del rating o la perdita di quote di mercato, multe e spese giudiziarie, riduzione del prezzo delle azioni, calo dei depositi, aumento delcosto della raccolta del capitale, e infine riduzione dei ricavi e possibili crisi di liquidità. Tra gli effetti non economici invece si annoverano per esempio il deterioramento delle relazioni con i clienti , problemi di attrazione delle risorse umane, peggioramento dell’immagine e la perdita di

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Il carattere multiforme del rischio di reputazione lo rende di difficile misurazione, rientra all’interno dei rischi cosiddetti non misurabili, per cui è necessario rafforzare soprattutto il contributo qualitativo della valutazione che si fonda sull’articolazione, sul ruolo dei controlli interni, sulle prescrizioni più o meno esplicitate di una good governance per permettere l’implementazione di politiche di misurazione e gestione dei tale alea. La banca sarà così in grado di migliorare la fiducia e la stabilità del sistema attraverso una sana e prudente gestione.

1.5. Rischio di liquidità

Le banche, a causa della peculiarità della struttura finanziaria, contraddistinta congiuntamente dalla presenza di passività a vista, da un elevato sfruttamento della leva finanziaria, e dal fattore “fiducia” intrinseco nella propria operatività, sono sottoposte ad un vincolo irrinunciabile di liquidità. Un’attenta gestione della liquidità, la disponibilità di adeguate riserve patrimoniali ed anche una corretta misurazione dei rischi sono fattori chiave per evitare che la fragilità finanziaria si trasformi in incapacità di finanziamento dell’economia. L’attività tipica che svolgono espone le stesse al rischio di liquidità, ossia il rischio che la banca non sia in grado di onorare i propri impegni di pagamento per l’incapacità sia di reperire fondi sul mercato, indicato come funding liquidity risk, sia di smobilizzare i propri attivi, ossia il market liquidity risk,. Il funding liquity risk fa riferimento all’impossibilità per una banca di onorare, con le proprie risorse liquide, in modo puntuale ed integrale un volume inaspettatamente elevato di richieste di rimborso da parte dei depositanti o di altre controparti creditorie, senza che tali richieste tuttavia compromettano la complessiva operatività quotidiana. Il market liquidity risk invece si presenta quando una banca è costretta a monetizzare rapidamente un volume consistente di attività, al fine di far fronte alle richieste di rimborso avanzate dai clienti o dai creditori in generale; l’equilibrio finanziario può essere pregiudicato qualora la banca realizzi

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un valore non sufficiente ad onorare i propri impegni. Considerando che gli squilibri di una singola istituzione finanziaria possono avere ripercussioni sistemiche, allora la gestione e il governo del rischio di liquidità risulta di fondamentale importanza per garantire il mantenimento della stabilità, non solo della singola banca, ma del sistema finanziario nel suo complesso. I fattori di rischio sono sia di natura endogena che esogena: sono endogeni o specifici quei fattori di rischio causati da eventi negativi specifici della banca, i quali comportano la perdita di fiducia da parte del mercato e che causano difficoltà nel reperire finanziamenti dal mercato in cui opera l’intermediario.; i fattori di rischio endogeni o sistemici invece nascono da eventi negativi causati da shock di mercato, quindi non direttamente controllabili dalla banca, quali ad esempio situazioni di crisi economiche e politiche.

Proprio la crisi del 2007 ha portato alla ribalta il problema del rischio di liquidità degli intermediari, fino ad allora oscurato dall’abbondante liquidità che caratterizzava i mercati interbancari, e costringendo gli organi competenti ad una attenta revisione del sistema di regolamentazione inerente l’attività bancaria e la gestione dei rischi, fino ad allora sicuramente non adeguata. Infatti il “primo pilastro” di Basilea II non considera il rischio di liquidità nell’ambito nelle metodologie di calcolo dei requisiti patrimoniali, ma si limita a prevedere nel’ambito della vigilanza prudenziale che ogni banca adotti adeguati sistemi per misurare, monitorare e controllare tale rischio. Più precisamente, la precedente dottrina di Basilea II inseriva il rischio di liquidità tra quelli non misurabili del “secondo pilastro “, chiedendo alle banche di calcolare l’avanzo o il disavanzo di liquidità in riferimento alla posizione finanziaria netta. La liquidità è stata quindi uno dei temi centrali discussi nell’implementazione di Basilea 3, nel quale si è consolidata ancora di più la consapevolezza che un’adeguata composizione delle poste dell’attivo e del passivo sono più idonee a fronteggiare questi tipi di rischi rispetto al mantenimento dei requisiti patrimoniali. Per questo motivo il Comitato di Basilea nel 2008 ha pubblicato, come schema per la regolamentazione dei principi di liquidità, il documento “Principles for Sound Liquidity Risk

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Management and Supervision (“Sound Principles”)”, a seguito del quale sono stati sviluppati due requisiti minimi:

• Liquidity Coverage Ratio (LCR) • Net Stable Funding Ratio (NSFR)

L’indicatore di breve termine o Liquidity Coverage Ratio (LCR) mira ad assicurare che una banca mantenga un livello adeguato di attività liquide di elevata qualità non vincolate che possano essere convertite in contanti per soddisfare il suo fabbisogno di liquidità nell’arco di 30 giorni di calendario in uno scenario di stress di liquidità particolarmente acuto specificato dalle autorità di vigilanza. Lo stock di attività liquide dovrebbe come minimo consentire alla banca di sopravvivere fino al 30° giorno dello scenario, entro il quale si presuppone che possano essere intraprese appropriate azioni correttive da parte degli organi aziendali e/o delle autorità di vigilanza, oppure che la banca possa essere sottoposta a un’ordinata liquidazione. L’LCR si rifà alle metodologie tradizionali di “indice di copertura” della liquidità utilizzate internamente dalle banche per valutare l’esposizione a eventi di liquidità aleatori. Il totale dei deflussi di cassa netti nel caso dell’LCR va calcolato per un orizzonte futuro di 30 giorni di calendario. Il requisito prevede che il valore del rapporto non sia inferiore al 100% (vale a dire che lo stock di attività liquide di elevata qualità sia quantomeno pari al totale dei deflussi di cassa netti). Le banche devono soddisfare questo requisito nel continuo e detenere uno stock di attività liquide di elevata qualità non vincolate come difesa contro l’eventualità di gravi tensioni per la liquidità. Data la tempistica incerta di afflussi e deflussi, ci si attende inoltre che le banche e le autorità di vigilanza tengano conto di potenziali disallineamenti nell’arco del periodo di 30 giorni e assicurino che siano disponibili attività liquide in quantità sufficiente a soddisfare eventuali scompensi di cassa per l’intero periodo. 7

7 Fonte: Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria: “Basilea III – schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle banche e dei sistemi bancari , Dicembre 2010”.

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L’indice è dunque composto dal rapporto di due elementi:

𝐿𝐶𝑅 = 𝑠𝑡𝑜𝑐𝑘 𝑑𝑖 𝐻𝑄𝐿𝐴

𝑇𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑓𝑙𝑢𝑠𝑠𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑛𝑒𝑡𝑡𝑖 (𝑛𝑒𝑖 30 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 𝑠𝑢𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑖) ≥ 100%

Al numeratore dell’indice troviamo lo stock di attività liquide di elevata qualità, i cosiddetti HQLA(High quality Liquid Assets), composti a loro volta da attività di primo livello, cioè il contante e le attività ad esso assimilabili, e attività di secondo livello, costituite da attività con più basso grado di liquidità. Un asset , per essere classificato come HQLA, deve essere facilmente liquidabile sul mercato anche in periodi di tensione e deve essere possibile utilizzarlo come collaterale presso la banca centrale.

Il denominatore della formula, il totale dei deflussi di cassa netti, è definito come totale dei deflussi di cassa attesi al netto del totale degli afflussi di cassa attesi nell’arco dei 30 giorni di calendario successivi nello scenario di stress specificato. Il totale dei deflussi di cassa attesi è calcolato moltiplicando i saldi in essere delle tipologie di passività e impegni fuori bilancio per i tassi ai quali ci si attende che si verifichi il loro utilizzo o prelievo. Il totale dei cash flow attesi in entrata è ottenuto moltiplicando i saldi in essere delle varie categorie di crediti contrattuali per i relativi moltiplicatori ai quali ci si attende che essi affluiscano, fino a un massimale del 75% dei totale dei deflussi di cassa attesi.

Il secondo indice è il Net Stable Funding Ratio (NSFR), che punta a rafforzare invece la resilienza su un più lungo orizzonte temporale (un anno). L’NSFR è definito come il rapporto tra l’ammontare disponibile di provvista stabile (Available Amount of Stable Funding, ASF) e l’ammontare obbligatorio di provvista stabile (Required Amount of Stable Funding, RSF). Questo rapporto deve mantenersi continuativamente a un livello almeno pari al 100% :

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Per provvista stabile si intendono i tipi e gli importi di capitale di rischio e di debito che si ritiene costituiscano fonti affidabili di fondi su un orizzonte

temporale di un anno in condizioni di stress prolungato.

L’ammontare disponibile di tale provvista (ASF) è quella parte di patrimonio e di passività che è ritenuta essere ‘‘affidabile’’ entro l’anno: capitale, azioni privilegiate con scadenza uguale o superiore all’anno, depositi liberi e/o a termine con scadenza inferiore ad un anno ma che si ritiene rimangano presso l’istituto per un periodo di tempo prolungato, provvista all’ingrosso non garantita con scadenza inferiore ad un anno che ritiene anche qui rimangano presso l’istituto per un periodo di tempo prolungato. L’ammontare obbligatorio (RSF) è invece l’ammontare di provvista richiesto all’intermediario. Tale ammontare, imposto dalle autorità di vigilanza, è calcolato in base a ipotesi prudenziali riguardo alle caratteristiche del profilo di rischio delle attività di un istituto e delle sue esposizioni fuori bilancio. Esso è composto dagli investimenti in “attività meno liquide”, come prestiti e titoli non vincolati, immobilizzazioni, partecipazioni e operazioni fuori bilancio. I valori contabili a bilancio vengono attribuiti a una delle categorie stabilite dal documento del Comitato di Basilea, a cui sono associati dei fattori di harcuit8 per l’ASF e per il RSF, coefficienti di ponderazione che vengono applicati alle rispettive voci. Le due somme ponderate di tali valori vanno a costituire rispettivamente il numeratore e il denominatore dell’NSFR. In conclusione, l’inasprimento delle condizioni di mercato e del funding ha reso necessario l’introduzione di novità regolamentari, il cui scopo è il rafforzamento del presidio del rischio di liquidità degli intemediari finanziari per evitare devastanti contagi a livello sistemico. Le nuove regole si prefiggono dunque l’obiettivo di innalzare la qualità del capitale, così da rendere le banche pronte ad affrontare eventuali crisi e ad assrobirne le perdite, sia in un’ottica di continuità aziendale sia di liquidazione.

8 la percentuale di valore di mercato che viene sottratta a un asset quando questo viene usato come collaterale.

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1.6. Rischio di credito

Il credito costituisce il core business di una banca, pertanto il relativo rischio costituisce la componente principale dei rischi. Con esso si intende la possibilità che una variazione inattesa del merito creditizio di una controparte nei confronti del quale esiste un’esposizione generi una corrispondente variazione inattesa del valore di mercato della posizione creditizia. Muovendoci da tale definizione possiamo intuire che per rischio di credito non si intende solamente il rischio che la controparte sia insolvente, cioè il caso in cui non onori gli obblighi di natura finanziaria assunti, ma pur non divenendo insolvente, la capacità di far fronte agli impegni si assottiglia parallelamente ad un deterioramento delle condizioni economico-finanziarie del debitore, causando quindi una perdita di valore della posizione creditoria. Cosi alla categoria rischio di credito fanno parte diverse tipologie di rischio9 :

• Rischio d’insolvenza: è il rischio connesso alla completa inadempienza della controparte. Quindi il fattore alla base del rischio è l’insolvenza. • Rischio di migrazione: è il rischio connesso a un deterioramento del

merito creditizio della controparte, che fa aumentare la probabilità di una futura insolvenza o genera una perdita di valore della posizione. Viene anche definito rischio di downgrading se la controparte in questione ha un rating pubblico, il quale viene rivisto al ribasso. È il deterioramento del credito,in questo caso, ad essere alla base del rischio.

• Rischio di spread: è il rischio connesso a un rialzo degli spread richiesti dal mercato agli emittenti che appartengono ad una classe di merito creditizio. In questo caso il merito creditizio dell’emittente non peggiora, ma il valore di mercato dei titoli emessi diminuisce e lo spread richiesto dal mercato dei capitali, che rappresenta il premio per il rischio, aumenta rispetto ai titoli emessi da chi ha un merito creditizio migliore. Ciò si può verificare quando c’è un fenomeno di avversione al rischio degli

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investitori: è il fenomeno del flight to quality. Quindi il fattore di rischio è costituito dall’aumento dell’avversione al rischio.

• Rischio di recupero: è il rischio che, dopo la liquidazione delle attività di una controparte ormai insolvente, il tasso di recupero sia inferiore a quanto originariamente stimato dal creditore, o perché i tempi di recupero sono maggiori rispetto a quanto previsto oppure perché il valore di realizzo del credito è inferiore rispetti ai livelli stimati o ancora perché si è ridotto il valore delle garanzie. È quindi la riduzione del tasso di recupero, cioè il tasso di recupero dell’esposizione che il creditore si aspetta di recuperare, che va ad impattare sul rischio di credito.

• Rischio di sostituzione: è il rischio connesso all’insolvenza della controparte, ma questa volta si riferisce ad una controparte di una transazione in strumenti derivati scambiati in mercati over-the-counter (OTC). In questo caso è la natura delle esposizioni, cioè i derivati, a incidere sul rischio.

• Rischio Paese: è il rischio che eventi di natura politica o legislativa impediscano ad una controparte non residente di essere adempiente alle proprie obbligazioni. Anche in questo caso il fattore alla base del rischio di credito è costituito dalla natura delle esposizioni, in particolar modo il fatto che la controparte sia non residente.

Emerge chiaramente che non è corretto ragionare solo secondo una logica binomiale(solvente/insolvente), poiché il rischio di credito ha luogo non solo in caso di insolvenza della controparte ma anche nel caso di semplice deterioramento del merito creditizio del debitore da cui dipende la capacità di rispettare gli impegni assunti, dove quindi l’evento default rappresenta l’evento estremo di una distribuzione. Inoltre tale rischio può nascere sia da operazioni in bilancio, ossia dagli impieghi classici, e sia da operazioni fuori bilancio (gli impieghi Off Balance Sheet) e sia da transazioni internazionali.

La banca nel momento in cui assume un’esposizione creditizia si espone automaticamente al rischio di credito, cioè alla possibilità di subire perdite parziali o totali del capitale prestato. Tali perdite possono essere attese, ossia

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quelle perdite che la banca si aspetta, a priori, di subire in un periodo di tempo in riferimento ad un determinato portafoglio crediti; oppure inattese, ossia quelle perdite non prevista al momento dell’erogazione. Prima di analizzare le suddette tipologie di perdite e le implicazioni che ne scaturiscono dalla loro gestione, focalizziamo l’attenzione sugli elementi che costituiscono i driver fondamentali del rischio connesso a un’esposizione, che sono10 :

• Probabilità di insolvenza ( Probability of Default,PD): indica la probabilità che il debitore diventi inadempiente entro un dato intervallo di tempo, in genere entro 1 anno. Essendo una probabilità, il suo valore è compreso tra 0 e 1, e viene calcolata sulla base delle caratteristiche della controparte.

• Tasso di perdita in caso di insolvenza (Loss Given Default, LGD): è la percentuale dell’esposizione complessiva che non è recuperabile qualora si verifichi l’evento di default. Speculare al tasso di perdita in caso di insolvenza è il recovery rate (RR), cioè la frazione del credito che invece viene recuperata. Diversi sono i fattori che incidono su questa grandezza: le garanzie, forma tecnica di debito e grado di seniority e fattori giudiziali e stragiudiziali.

• Esposizione in caso di default (Exposure at Default, EAD): è l’importo per cui la banca è esposta verso la controparte nel momento del default. • Scadenza (maturity, M) : indica la scadenza effettiva

Tutti questi elementi hanno natura aleatoria e l’intermediario, prima di assumere una posizione creditizia, andrà alla ricerca della migliore stima di essi. Come ci suggerisce la definizione di rischio di credito affinchè si possa parlare di rischio, occorre che la variazione del merito creditizio della controparte sia inattesa. Nel processo che porta la banca ad assumere un’esposizione creditizia nei confronti di una controparte, se ci si aspetta che quest’ultima subisca una diminuzione del proprio merito creditizio, tale previsione di deterioramento è già inclusa nella stima della probabilità d’insolvenza, la cui variazione si ripercuoterà su un

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maggiore livello del tasso attivo richiesto dall’intermediario. Di conseguenza, il rischio reale per la banca sarà costituito dal fatto che le valutazioni ex-ante si dimostrino ex-post errate, che si verifichino eventi inattesi. Come anticipato già in precedenza, il rischio di credito è costituito da perdite attese e perdite inattese. Per perdite attese (EL) si intende la perdita che la banca prevede mediamente di subire, in un dato periodo di tempo, rispetto ad una dato credito o portafoglio crediti. Essa non è altro che il valore medio della distribuzione di perdite. La stima di questa prima forma del livello di rischio richiede la stima di 3 componenti già visti poco sopra, che sono la probabilità d’insolvenza (PD), il tasso di perdita in caso di insolvenza (LGD) e il valore atteso dell’esposizione nel momento dell’insolvenza (EAD); analiticamente avremo che la perdita attesa, per la singola esposizione, sarà uguale al prodotto di tali elementi:

𝐸𝐿 = 𝑃𝐷 ∙ 𝐿𝐺𝐷 ∙ 𝐸𝐴𝐷

A livello di portafoglio crediti, la sua valutazione non cambia in quanto la perdita attesa sarà uguale alla somma delle perdite attese delle singole esposizioni che lo costituiscono,non c’è l’effetto diversificazione; analiticamente avremo per un portafoglio (P) composto da N esposizioni, di cui per ognuna di esse si conoscono gli elementi 𝑃𝐷! , 𝐿𝐺𝐷! , 𝐸𝐴𝐷! , con i={1,2,…N} :

EL! = PD!

!

!!!

∙ LGD! ∙ EAD!

La misura della perdita attesa quindi non restituisce una rappresentazione adeguata del rischio in quanto ci fornisce solamente il valore intorno al quale si concentra la distribuzione. La banca affronterà tale componente attesa del rischio di credito tramite un’adeguata politica di accantonamenti ai fondi rischi, che quindi è contabilizzata, e nella definizione del pricing nei confronti della clientela. Perciò il rischio in senso stretto sarà costituito dalla variabilità delle perdite effettive che si verificheranno ex-post rispetto a quelle attese invece

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previste ex-ante, e l’attenzione per la gestione del rischio di credito sarà sull’altra sua componente inattesa.

La perdita inattesa (UL) invece rappresenta la parte di perdita non prevista al momento della concessione del finanziamento. La stima si effettua solitamente utilizzando lo scarto quadratico medio, per cui per la singola esposizione, in termini assoluti, avremo :

𝑈𝐿 = 𝐸𝐴𝐷 ∙ 𝑃𝐷 − 𝑃𝐷!

Il discorso cambia riguardo ad un portafoglio crediti, dove c’è la correlazione fra le diverse esposizioni che costituisce un altro elemento di variabilità; ciò perché la diversa correlazione che esiste tra le varie poste che formano il portafoglio influisce sulla sua variabilità. È naturale che la variabilità aumenti in caso di correlazione positiva mentre diminuisca in caso di correlazione negativa, fino ad una possibile completa eliminazione in caso di perfetta correlazione negativa. In termini analitici, la perdita inattesa di un portafoglio con N titoli, ognuno con un peso w e dato il coefficiente di correlazione 𝜌!,! , sarà:

𝑈𝐿! = 𝑤! ∙ 𝑤! ∙ 𝜌!,! ∙ 𝑈𝐿! ∙ 𝑈𝐿!

!

!!! !

!!!

L’entità di tali perdite deve trovare un’adeguata copertura mediante il patrimonio dell’intermediario. La dotazione di capitale che la banca deve mantenere viene stimata tramite modelli di varia natura(approccio alla Merton, attuariali, basati su fattori macroeconomici), derivanti dai modelli per la gestione del rischio di mercato, che hanno in comune il concetto di Value-at-Risk (Var) che consentono di tener conto degli effetti della diversificazione. La distribuzione delle perdite non è simmetrica perché il default ha probabilità bassa ma porta ad ingenti perdite, perciò bisogna valutare il peso della coda definendo l’intervallo di

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avere la massima perdita con probabilità del 99,9% cui la banca è esposta, in un determinato intervallo di tempo, tale che una perdita maggiore si può avere solamente nell’0,1% dei casi.

Come mostrato in Figura 1, la perdita attesa da coprire con il proprio patrimonio è uguale alla differenza tra la massima perdita così determinata e la perdita attesa (EL), che rappresenta il valore medio.

Figura 1

Fonte: Banking & Insurance. Gi Group. 2010

1.6.1. Il rischio di credito e Patrimonio di Vigilanza

La banca nell’espletamento della propria attività assume un certo grado di rischio che deve essere quantificato e supportato attraverso un adeguato livello di capitale, definito patrimonio di vigilanza. In un sistema finanziario sempre più concorrenziale, globalizzato e interconnesso si è ritenuta necessaria una regolamentazione internazionale per garantire la stabilità e imporre condizioni equanimi e condivise come cornice per una dinamica competitiva migliore. Nel 1974 nasce cosi il “Comitato di Basilea”, costituito dai governatori delle Banche Centrali dei dieci Paesi più industrializzati (G10), un organismo di consultazione all’interno della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bank for International

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Settlements,BIS). Il Comitato si interroga circa l’identificazione di strumenti idonei per garantire la stabilità del sistema bancario internazionale, ma non avendo autorità sovranazionale formula linee guida che vengono accettate come normativa vincolante in oltre 100 Paesi.

Nel 1988 il Comitato raggiunse un primo accordo (Basilea 1) in cui per la prima volta furono introdotti i requisiti di capitale uniformi e correlati alla rischiosità delle attività delle banche con lo scopo di proteggere i depositanti verso eventuali perdite. Il requisito minimo imposto da tale accordo per far fronte al rischio di credito e di mercato è che il capitale sia almeno pari al 8% delle attività ponderate per il rischio:

𝑃𝑉

𝐴! ∙ 𝑃! ≥ 8%

dove:

PV=Patrimonio di Vigilanza (Tier1 e Tier2) 𝐴! = 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡à 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑎

𝑃! = 𝑝𝑜𝑛𝑑𝑒𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙!𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡à𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑎

Per quanto riguardo il rischio di credito, si distinguono 4 fattori di ponderazione che riflettono diversi gradi di rischiosità :

Tabella 2: rischio nullo 0% Rischio minimo 20% Rischio medio 50% Rischio elevato 100%

Cassa Crediti verso

banche multilaterali di sviluppo Mutui ipotecari su immobili ad uso residenziali Crediti verso imprese private Crediti verso Banche Centrali di Paesi OCSE Crediti verso banche di Paesi OCSE Facility per l’emissione di titoli Crediti verso Banche Centrali di Paesi non OCSE Titoli di Governi di

Paesi OCSE

Crediti verso enti pubblici

Partecipazioni in imprese private

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La standardizzazione dei fattori di ponderazione preclude automaticamente la differenziazione delle misure di rischio per la stessa tipologia di clientela. Non c’è correlazione tra reale profilo di rischio della banca e capitale di vigilanza perché non viene preso in considerazione il rischio di credito specifico. Le imprese private per esempio sono assoggettate tutte alla medesima ponderazione per il rischio (100%), senza creare nessuna distinzione concernente il diverso merito creditizio che delle varie imprese, aprendo la strada a problemi di moral hazard nella concessione dei finanziamenti. Inoltre non viene preso in considerazione il diverso grado di rischio che si ha in base alla diversa vita residua delle esposizioni o al differente grado di differenziazione di un portafoglio. C’è scarsa considerazione anche della riduzione del rischio attraverso la copertura con collaterals o credit derivatives.

Per superare i limiti del primo accordo il Comitato di Basilea nel 2004 ha pubblicato un nuovo accordo (Basilea 2) circa l’adeguatezza patrimoniale.

La riforma di Basilea 2 si basa su 3 pilastri :

• Pillar I: Requisiti patrimoniali minimi. Prevede che le banche si dotino di un capitale di vigilanza adeguato ai rischi assunti (introdotto il rischio operativo oltre a quello di credito e di mercato), confermando la misura del 8% per il capitale da accantonare, ma modificando profondamente le modalità di misurazione delle attività ponderate per il rischio per avere una maggiore corrispondenza tra rischi e patrimonio.

• Pillar II: Processo di controllo prudenziale da parte delle Autorità di Vigilanza.

Punta ad accrescere i poteri di controllo delle Autorità di Vigilanza che dovranno verificare l’affidabilità e la coerenza, ed eventualmente apportare le opportune misure correttive, circa le politiche e le procedure utilizzate dalle banche per la misura e il governo dei propri rischi, incentivandole la ricerca del metodo più idoneo

• Pillar III: Disciplina di mercato. Introduce obblighi di informativa e di trasparenza verso il pubblico per permettere cosi di avere più robuste basi conoscitive sul rischio e la solidità della banca. Essa deve fornire

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informazioni riguardanti il patrimonio di vigilanza, l’esposizione ai rischi e i relativi processi di valutazione.

Il nuovo accordo di Basilea, molto più articolato e complesso del precedente, mira a rafforzare la solidità, la stabilità e la trasparenza del sistema finanziario internazionale e quindi del sistema economico nel suo complesso.

Focalizzandoci sul rischio di credito, Basilea 2 “rivoluziona” la misurazione del rischio di credito e del relativo accantonamento di patrimonio. Già con Basilea 1 abbiamo visto che le attività venivano pesate con l’applicazione di un coefficiente di ponderazione che però era standardizzato per ogni categoria della controparte; ora invece il coefficiente di ponderazione assume elasticità, è una variabile dipendente dal merito creditizio della controparte. La valutazione sintetica del merito di credito di una controparte è il rating, in base al quale si applicano i diversi coefficienti di ponderazione per stabilire l’assorbimento minimo di capitale. Sono previste 3 metodologie utilizzabili dalle banche per il calcolo del rischio di credito:

• Metodo Standard (Standard Rating Based Approach, S.R.B.) • Metodo Internal Rating Based di base (IRB Foundation) • Metodo Internal Rating Based avanzato (IRB advanced)

Il metodo più semplice è sicuramente il primo, utilizzato dalle piccole banche, e consiste in una versione riveduta e corretta della metodologia già prevista dagli accordi di Basilea 1, infatti adotta pesi di rischio prestabiliti dalle Autorità di Vigilanza in base alla categoria del debitore e al rating, se presente, valutato da agenzie indipendenti accreditate dette ECAI (External Credit Assessement Institution). Prendendo ad asempio i coefficienti di ponderazione in funzione del rating per i crediti verso le aziende (Tabella 3), si può notare come i coefficienti di ponderazione siano ora più aderenti alla reale rischiosità assunta rispetto all’utilizzo dell’unico coefficiente del 100 % previsto nella normativa precedente.

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Tabella 3: RATING (S&P) Da AAA a AA- Da A+ a A- Da BBB+ a BB- Inferiore a BB- SENZA RATING PMI Coefficiente di ponderazione 20% 50% 100% 150% 100% 75%

Fonte: elaborazione propria

Le banche che utilizzano il metodo IRB effettuano il calcolo del rating del cliente al loro interno, attraverso la stima delle variabili PD, LGD, EAD e M per l’approccio avanzato, mentre nell’approccio base la banca stima solamente la PD poiché la le altre variabili sono determinate da specifici valori prudenziali fissate dalle Autorità di Vigilanza. I metodi di valutazione devono essere approvati dagli organi di vigilanza,

L’accordo di Basilea 2 riconosce 3 categorie di strumenti di mitigazione del rischio : garanzie reali, garanzie personali e derivati su credito.

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CAPITOLO 2 : GESTIONE DINAMICA DEL RISCHIO DI CREDITO

2.1. Premessa

Le banche sono imprese la cui principale attività, accanto all’operatività in strumenti finanziari e all’offerta di servizi alla clientela, è rappresentata dall’intermediazione creditizia, che consiste nell'esercizio congiunto della raccolta del risparmio tra il pubblico e dell'erogazione del credito; le banche sono così esposte principalmente al rischio di credito. Una sua corretta gestione è alla base del delicato ruolo svolto dall’intermediario, che deve essere caratterizzato da una sana e prudente gestione. Il rischio di credito è la causa della maggior parte delle perdite subite dagli intermediari finanziari ed è la maggiore causa dell’assorbimento di capitale regolamentare. La gestione del rischio di credito, e quindi la ricerca di strumenti e tecniche per mitigarne l’esposizione, ha un ruolo centrale nella valutazione economica delle transazioni e nel processo decisionale degli operatori.

Una gestione efficace del rischio di credito mira da un lato a ridurre il rischio mediante interventi sulle caratteristiche delle singole esposizioni e del portafoglio, e dall’altro a ottimizzare il profilo rischio-rendimento del portafoglio in un’ottica di allocazione efficiente del capitale. Come vedremo si è passati da una gestione di tale rischio statica a una dinamica. Per minimizzare le perdite associate al portafoglio crediti la banca può intervenire a livello di singola esposizione attraverso un’attenta selezione (screening) dei prenditori, l’utilizzo di clausole accessorie e l’acquisizione di garanzie. Per contenere invece il rischio di credito a livello di portafoglio deve mantenere una qualità soddisfacente dello stesso, operando sulla sua composizione, in particolare in merito al suo grado di concentrazione e di diversificazione. Più specificatamente, la politica dei prestiti impone alla banca scelte riguardanti oltre la composizione del portafoglio crediti anche la dimensione dei prestiti, il tutto in una cornice di vincoli sia interni e sia esterni, che delimitano o comunque influenzano l’attività creditizia e la gestione

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una banca per vari motivi, quali ad esempio: il mantenimento della quota di mercato; costituiscono gli impieghi più remunerativi poiché i ricavi derivano sia dagli interessi che dalle commissioni; attraverso di essi si instaurano le relazioni con i clienti permettendo di acquisire informazioni; per ultimo i prestiti creano i depositi, sono cioè l’incipit della creazione dei depositi. L’altro obiettivo è il mantenimento di una qualità soddisfacente del portafoglio per minimizzare il rischio di credito, il rischio di interesse, di cambio e così via. Per mantenere un portafoglio di qualità bisogna operare sulla sua composizione, sia in senso quantitativo che qualitativo, ossia sul grado di concentrazione e di diversificazione. La concentrazione riguarda la dimensione relativa delle varie posizioni in portafoglio. Un maggior grado di concentrazione, cioè quando una componente prevale sulle altre, si traduce in una maggiore incidenza del rischio idiosincratico o specifico, e l’inadempienza di un singolo affidato può gravare pesantemente sulla banca. Per ridurre tale possibilità la banca dovrebbe teoricamente frazionare maggiormente il proprio portafoglio, il che comporta un aumento delle spese amministrative. La diversificazione è legata invece all’aspetto qualitativo in quanto esprime la correlazione tra le probabilità di inadempienza delle controparti. Come già detto prima, la perdita inattesa è legata al grado di correlazione dei singoli impieghi: una minore correlazione riduce la variabilità della perdita attesa, riduce la perdita inattesa; ciò significa che a parità di rendimento atteso, una correlazione minore (o negativa) fra i singoli impieghi consente di ridurre il grado di rischio del portafoglio. La diversificazione può avvenire su diverse variabili: settore economico, natura del beneficiario, area geografica, valuta e forma tecnica.

La possibilità del portafoglio prestiti di essere governato secondo le linee guida sopra indicate dipende da un insieme di fattori, veri e propri vincoli, interni alla banca o a esse esterni. È dunque il sistema di vincoli in cui la banca si trova ad operare a definire quanto e come il portafoglio possa crescere.11 I vincoli esterni

sono quei fattori su cui la banca non ha una diretta capacità di intervento, quali

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ad esempio : andamento del ciclo economico (livello e distribuzione del PIL, scelte in materia di risparmio, consumi e investimenti), decisioni di politica monetaria (tassi di interesse, coefficiente di riserva obbligatoria), normativa previgente (coefficienti patrimoniali minimi obbligatori di Basilea, normativa “grandi fidi”), e caratteristiche del sistema finanziario (liquidità ed efficienza dei mercati monetari e dei capitali, concorrenza nel settore bancario). I vincoli interni sono invece quei fattori interni alla banca che influenzano la politica dei prestiti, come: dimensione e struttura organizzativa della banca (numerosità e localizzazione degli sportelli, efficienza strutture di valutazione fidi, qualità del risk management,), dimensione e composizione del passivo (incidenza dei depositi e dei debiti interbancari sul totale della raccolta, grado di patrimonializzazione, struttura per scadenze della raccolta), e caratteristiche del management e dell’azionariato della banca, che definiscono l’obiettivo rischio/rendimento. I margini di manovra nella composizione e nella gestione del portafoglio prestiti sono quindi di gran lunga inferiori a quelli possibili invece per il portafoglio titoli, perché per la banca c’è l’esigenza di preservare il valore della relazionale della clientela che impedisce politiche di ridimensionamento delle singole esposizioni, perché l’operatività prettamente di carattere territoriale di molte banche porta ad un’elevata concentrazione settoriale e geografica del portafoglio clienti. Inoltre l’illiquidità e il carattere personalizzato dei prestiti fa sì che la possibilità di modificare il profilo rischio-rendimento di portafoglio, quindi la sua composizione, è limitata perché prescinde dall’origination di nuovi contratti e richiede quindi tempi lunghi di adattamento. Il passaggio da una gestione statica a una gestione dinamica del portafoglio crediti è avvenuta attraverso l’utilizzo delle tecniche di Credit Risk Transfer (CRT)12 , che hanno allentato il sistema di vincoli per l’attuazione degli obiettivi di politica dei prestiti. Tali strumenti consentono all’intermediario di vendere i prestiti già originati sia in maniera diretta ( loan sales ) sia attraverso un veicolo ( securitization ) e consentono anche il trasferimento del solo rischio di credito

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relativo ad un prestito ( credit derivatives ). Questi sono gli strumenti innovativi di Credit Risk Transfer, che non godono di ottima fama in quanta considerati la causa della recente crisi finanziaria, e su cui ci concentreremo in questo lavoro. Ad essi si aggiungono gli strumenti tradizionali che comprendono diverse forme di garanzia e di assicurazione del credito, come le fideiussioni, le lettere di credito, le polizze fideiussorie, gli avalli.

La creazione e lo sviluppo di strumenti di Credit Risk Transfer è stata resa possibile grazie a un continuo processo di innovazione finanziaria e tecnologica: la standardizzazione dei contratti, lo sviluppo di modelli di valutazione e gestione del rischio di credito sempre più evoluti, le tecnologie informatiche che hanno reso possibili analisi e simulazioni estremamente sofisticate e il trasferimento di informazioni a basso costo sono tutti fattori che hanno attenuato il problema delle asimmetrie informative13 tra venditore e acquirente di prestiti14 e hanno reso più trasparente e liquido il mercato del credito. L’utilizzo di queste tecniche ha cambiato radicalmente il modello di business delle banche. Si parla, infatti, di passaggio da un modello Originate to hold ( OTH ) ad un modello Originate to distribuite ( OTD ). Storicamente le banche hanno adottato un approccio buy and hold, cioè le attività e i rischi connessi vengono mantenuti nei bilanci della banca e l’intero processo dell’attività di prestito è nelle mani di un unico soggetto, quali: la fase di screening, cioè di selezione tra i potenziali debitori meritevoli di fido; la fase di erogazione del finanziamento, cioè di origination che ovviamente presuppone capacità di funding e di risorse finanziare da erogare; segue il monitoring dell’affidato fino al momento della scadenza o del default. Nell’intermediazione creditizia classica i prestiti sono altamente personalizzati perché adattati alle esigenze del cliente, e la fonte di guadagno deriva dallo spread tra l’interesse attivo e l’interesse passivo . L’utilizzo di questi strumenti innovativi permette alle banche di abbandonare l’approccio buy and hold, spostando l’operatività bancaria verso un modello Originate to distribuite. La

13 Poiché i prestiti sono contratti fortemente personalizzati e fondati sullo scambio di informazioni private tra banche e debitori, allora la negoziazione di prestiti già originati è causa di fenomeni di moral hazard e di selezione avversa.

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possibilità di vendere i prestiti ha portato alla standardizzazione dei contratti di prestito, che perdono la caratteristica della personalizzazione. Inoltre il processo di prestito non è più svolto dall’unico intermediario originator del finanziamento ma può essere scomposto nelle sue singole funzioni e affidato a diversi soggetti, ognuno dei quali è specializzato in una determinata attività. La banca si specializza in determinate funzioni del processo di concessione del prestito in particolare origination o servicing. Nei casi più estremi della specializzazione addirittura l’intermediario passa da avere funzioni piene ad essere una specie di broker, fungendo da semplice ponte tra i prenditori di fondi e i finanziatori. Naturalmente la fonte di guadagno non può più essere lo spread tra interessi , ma l’attenzione della banca è rivolta alla formazione di un margine da commissioni e alla realizzazione di plusvalenze derivanti dalle cessioni. Con lo sviluppo e la diffusione delle tecniche di Credit Risk Transfer l’intermediazione creditizia ha intrapreso una decisa virata verso il mercato e l’intermediazione mobiliare. Inoltre il ricorso al mercato secondario dei prestiti ha comportato una forte differenziazione tra la funzione commerciale e la gestione del rischio. L’attività di origination dei prestiti è svolta dalle unità periferiche della banca (sportelli, filiali), che svolgono l’attività di ricerca delle migliori opportunità di impiego e la valorizzazione delle relazioni di clientela per perseguire i propri obiettivi in termini di volumi e rendimenti. Invece l’attività di credit risk management è svolta a livello centralizzato, andando a ricalibrare il portafoglio prestiti secondo il profilo rischio-rendimento desiderato e indipendentemente dai vincoli di clientela. L’utilizzo degli strumenti di credit risk transfer se da un lato rende più flessibile la gestione del portafoglio creditizio, dall’altro può aumentare l’instabilità finanziaria. C’è infatti chi li annovera tra le cause della grande crisi finanziaria poiché ne hanno facilitato la propagazione e ne hanno aumentato a dismisura gli effetti. Difatti l’uso di tali strumenti viene associato spesso a comportamenti imprudenti, come la riduzione della dotazione di capitale e delle riserve di liquidità, l’attuazione di politiche creditizie aggressive, minore attenzione nello svolgimento della fase di screening e/o di monitoring, l’aumento

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