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Proprieta nutraceutiche e nutrizionali del dolcificante Stevia Rebaudiana Bertoni. Evidenze di efficacia nel trattamento del diabete mellito di tipo 2.

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DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Scienze della Nutrizione Umana

TESI DI LAUREA

PROPRIETA’ NUTRACEUTICHE E NUTRIZIONALI DEL DOLCIFICANTE

STEVIA REBAUDIANA BERTONI. EVIDENZE DI EFFICACIA NEL

TRAT-TAMENTO DEL DIABETE MELLITO DI TIPO 2.

Relatore: Candidata:

Dott.ssa Testai Lara Dott.ssa Prencipe Vincenza

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INDICE

INTRODUZIONE

………..………...……….... 3

CAPITOLO 1

1- PANCREAS

1.1- Cenni anatomici

………... ……... 5

CAPITOLO 2

2- DIABETE MELLITO

2.1- Epidemiologia

……… ……... 8

2.2- Definizione e concetti generali

…………... 9

2.3- Storia del diabete mellito

………. 10

2.4- Classificazione del diabete mellito

………. 11

2.5- Insulina

………... 16

2.6- Ormoni pancreatici ad attività controinsulare o

controre-golatori

……… 18

2.7- Etiopatogenesi

……… 19

2.8- La diagnosi di diabete mellito

………. 24

2.9- Le complicanze del diabete mellito

……… 26

2.10- La prevenzione del diabete mellito

…... 29

CAPITOLO 3

3- GLI EDULCORANTI

3.1- Definizione

……… 30

3.2- Gli edulcoranti di sintesi

……….. 32

Aspartame

……….... …….. 33

Saccarina

………. …….. 35

Acesulfame k

……….. …….. 36

Ciclammati

………... …….. 37

3.3- Gli edulcoranti naturali o derivati da composti naturali

...39

D- Fruttosio

……… 39

Sorbitolo

………. 40

Xilitolo

……….... …….. 41

Mannitolo

……… 42

Maltitolo

………. …….. 43

Lactitolo

………. …….. 44

Isomalto

………. …….. 44

Glicirrizina

………. …….. 45

3.4- Le proteine dolcificanti

………. 46

La taumatina

………... 47

La monellina

……… …….. 49

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2

La mabinilina

………... …….. 50

La pentadina e la brazzeina

... 51

La curculina

………. …….. 52

La miraculina

………... 53

CAPITOLO 4

4- LA STEVIA REBAUDIANA BERTONI

4.1- Descrizione botanica della pianta

……... 55

4.2- Aspetti nutrizionali della Stevia

………... 59

4.3- Costituenti bio-farmacologicamente attivi

……… 63

4.4- Profilo farmacocinetico dei glicosidi terpenici

………….... 65

4.5- Considerazioni sulla sicurezza/tossicità

………... 66

4.6- Tipologie di impiego della Stevia

……… 67

4.7- Benefici della Stevia

……… 68

4.8- Evidenze dell’azione ipoglicemizzante di Stevia e della

sua utilità nel diabete

………... 71

CONCLUSIONI

……… 80

BIBLIOGRAFIA

……… …….. 82

WEBSITES

……….. …….. 89

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3

INTRODUZIONE

L'obesità e il diabete di tipo 2 sono le due più grandi epidemie che con-tinuano ad aumentare nei paesi industrializzati. Circa due terzi degli adulti americani sono attualmente in sovrappeso o obesi e quindi au-menta il rischio per una serie di condizioni dannose per la salute com-presi il diabete di tipo 2, le malattie cardiache e il cancro.

Negli ultimi anni le richieste dei consumatori, orientate sempre di più verso dolcificanti ipocalorici, congiuntamente alla crescita esponenziale del numero di pazienti affetti da malattie causate dall’eccessivo consu-mo di zuccheri, hanno spinto consu-molti studiosi e tecnologi alimentari a ri-cercare e scoprire nuovi prodotti a basso contenuto calorico, da immet-tere nel futuro mercato, che siano in grado di ridurre o eliminare gli ef-fetti collaterali che caratterizzano numerosi dolcificanti artificiali attual-mente in uso.

Anche se non sussistono prove concrete che il consumo di saccarosio possa influire direttamente sullo sviluppo del diabete mellito, risulta or-mai certo che le diete costituite da alte quantità di saccarosio causano un aumento di peso con conseguenti effetti negativi sulla tolleranza glu-cidica e hanno dimostrato indurre un certo numero di complicanze me-taboliche tra cui iperinsulinemia, iperglicemia, ipertensione e insulino-resistenza.

Una maggiore preoccupazione per tali patologie ha spinto col tempo ad una modificazione alimentare in cui i cambiamenti dietetici sono stati tali da ridurre notevolmente la quota dei carboidrati semplici e raffinati nella dieta.

E’ soprattutto in questo periodo che si verifica la maggiore diffusione degli edulcoranti artificiali e delle proteine dolcificanti in alternativa a quelli tradizionali, al fine di avere un maggior controllo del peso e della salute.

Questa tesi vuole porre l’attenzione sui glicosidi steviolici estratti dalla pianta Stevia rebaudiana Bertoni.

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La Stevia è una pianta del Sud America con elevati contenuti zuccheri-ni, nessuna controindicazione è stata attualmente riscontrata e può es-sere utilizzata da soggetti diabetici. Si ritiene, quindi, che questa pianta possa sostituire gran parte degli zuccheri nel commercio mondiale. Le proprietà della Stevia sono da attribuire ai suoi principi attivi, in parti-colare allo stevioside, che non degradano col calore e in ambiente aci-do e non inciaci-dono sui livelli glicemici.

Infatti, i glicosidi steviolici hanno un intenso potere dolcificante, fino a trecento volte superiore a quello del saccarosio, correlato a un bassis-simo apporto calorico, il che lo rende ideale anche per quelle classi di consumatori che vogliano aggirare il problema dell’aumento di peso senza rinunciare ai cosiddetti ”dolci piaceri della vita”.

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CAPITOLO 1

1- PANCREAS

1.1- CENNI ANATOMICI

Il pancreas è una ghiandola di forma allungata situata in posizione re-troperitoneale, all’altezza della prima e seconda vertebra lombare (Arti-co, 2006). Il mesocolon trasverso lo attraversa orizzontalmente e lo di-vide in due parti: una in rapporto con la regione sovramesocolica, l’altra in rapporto con la regione sottomesocolica. Il pancreas presenta una voluminosa testa inserita nella concavità della C duodenale (Figura1); dopo un breve restringimento (istmo), assume forma rettangolare pro-lungandosi verso sinistra (corpo) e termina assottigliandosi con la coda, che si dirige verso l’ilo della milza (Artico, 2006).

Figura1: Anatomia del pancreas (Immagine presa dal web).

L’asse dell’organo è leggermente obliquo dal basso in alto e da destra a sinistra. Il pancreas ha rapporto anteriormente con la parete posteriore dello stomaco, con il mesocolon trasverso, con il colon, con il duodeno e con le anse intestinali. Posteriormente prende rapporto con l’ultimo tratto del coledoco, la vena porta, la vena cava inferiore, l’aorta, l’arteria

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e le vene mesenteriche superiori, il rene e il surrene di sinistra e il pe-duncolo renale di destra. Una profonda doccia è scavata sul margine superiore dell’organo, qui decorrono l’arteria e la vena lienale. Il perito-neo ricopre il pancreas anteriormente; la coda, invece, nella sua parte terminale può essere completamente rivestita dal peritoneo. Il pancreas presenta due dotti escretori: il dotto pancreatico principale o di Wirsung, che parte dalla coda e arriva fino alla testa dell’organo per sboccare, assieme al coledoco, nell’ampolla di Vater e il dotto accessorio o di Santorini, che si trova nella porzione superiore della testa e sbocca nel-la papilnel-la duodenale minore.

Nel pancreas coesistono una formazione ghiandolare esocrina, simile per alcuni aspetti a quella delle ghiandole salivari sierose, e una parte endocrina, formata da piccoli agglomerati di tessuto epiteliale endocrino o isolotti di Langerhans (Artico, 2006). La componente esocrina è costi-tuita da adenomeri tubuloacinosi a secrezione sierosa. Gli acini sono costituiti da cellule prismatiche con reticolo endoplasmatico rugoso, uno sviluppato apparato di Golgi e numerosi granuli di zimogeno che con-tengono vari enzimi come lipasi, amilasi, chimotripsina, carbossipepti-dasi, ribonucleasi. Questi enzimi vanno a formare il succo pancreatico, il quale possiede un pH molto alto in quanto ricco di ioni bicarbonato. La secrezione e la formazione dei granuli di zimogeno è sotto il controllo di ormoni quali la secretina e la pancreozimina-colecistochinina, prodotti dalle cellule del sistema endocrino diffuso a livello delle cripte intestinali del duodeno (Artico, 2006).

Gli isolotti pancreatici, o isole di Langerhans, costituiscono la parte en-docrina del pancreas. Sono piccole formazioni, rotondeggianti od ovali, sparse entro il parenchima esocrino di tutto il pancreas, ma sono più numerosi in corrispondenza della coda. Gli isolotti sono formati da cor-doni cellulari, anastomizzati tra di loro e in intimo rapporto con i sinusoi-di. Nei comuni preparati, le cellule dei cordoni appaiono come elementi poliedrici poco colorabili, difficilmente distinguibili in tipi diversi. Con co-lorazioni apposite e al microscopio elettronico si identificano, per le loro caratteristiche, cellule α, cellule β e cellule δ. Le cellule α rappresentano circa il 20% degli elementi insulari e mentre nell’uomo sono sparse tra

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le altre cellule insulari, in altre specie (roditori) sono disposte nelle parti periferiche degli isolotti (Balboni et al., 2000). Hanno forma irregolare e contengono granulazioni citoplasmatiche colorabili in rosso con la floxi-na e in nero con alcuni metodi di impregfloxi-nazione argentica. Questi gra-nuli sono solubili in acqua, insolubili in alcool e resistono all’autolisi (Balboni et al., 2000).

Le cellule α producono il glucagone, un ormone di natura polipeptidica, che agisce sul ricambio degli zuccheri promuovendo la glicogenolisi epatica ed alzando così la glicemia.

Le cellule β sono le più numerose (circa il 75-80%), hanno forma polie-drica od ovale e contengono granuli ben colorabili con l’ematossilina cromica e con la paraldeide fucsina, ma non con i metodi all’argento; i granuli sono insolubili in acqua, solubili in alcool e non resistono all’autolisi (Balboni et al., 2000). Le cellule β producono l’insulina, una proteina che agisce in antagonismo al glucagone abbassando la glice-mia; essa favorisce la glicogenosintesi epatica e l’utilizzazione del glu-cosio da parte dei muscoli.

Le cellule δ sono le meno numerose (circa il 5%) e si trovano sparse tra le altre cellule. Sono presenti nell’uomo, ma non in tutte le specie ani-mali. Sono molto simili alle cellule α e presentano granuli argirofili, che tuttavia si differenziano per la loro diversa colorabilità con alcuni metodi istologici. Le cellule δ producono somatostatina, che agirebbe regolan-do l’immissione in circolo dell’insulina e del glucagone.

L’attività endocrina delle cellule insulari è regolata essenzialmente dalle variazioni del tasso glicemico. Concorrono tuttavia a questa regolazione anche fattori nervosi ed endocrini.

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CAPITOLO 2

2- DIABETE MELLITO

2.1- EPIDEMIOLOGIA

La prevalenza del diabete mellito nel mondo è aumentata drammatica-mente negli ultimi due decenni. Nel 2000 più di 150 milioni di persone nel mondo erano diabetiche e si prevede che per il 2025 ci saranno più di 320 milioni di persone con diabete mellito (Cheng, 2005). Inoltre, ogni anno nel mondo muoiono a causa dei diabete mellito 4 milioni di perso-ne (9% dei decessi globali).

Tra i paesi industrializzati, il Giappone ha indici di incidenza molto bas-si; negli USA l’incidenza annuale del diabete mellito di tipo 2 è del 2,27/1000 abitanti, più elevati sono i valori di alcune popolazioni indiane dell’Arizona e dell’America e nelle isole del Pacifico. Anche i paesi scandinavi e i paesi del Nord-Europa hanno tassi di incidenza elevati (soprattutto la Finlandia con un tasso di 35/100.000/anno). In Italia, la Sardegna ha un valore di incidenza relativamente elevato (24/100.000/anno).

I dati italiani indicano un'incidenza tra 4 e 7/100.000/anno, valori che si avvicinano a quelli della Francia (3,7/100.000/anno) e dell’Inghilterra (7,7/100.000/anno). Nel 2000 la prevalenza del diabete mellito è stata stimata intorno allo 0,19% della popolazione di età inferiore ai 20 anni e all' 8,6% della popolazione di età superiore ai 20 anni. Negli individui ol-tre i 65 anni la prevalenza era dei 20,1% (Vannozzi, 2009).

Il diabete mellito tipo 2 può essere definita la malattia del benessere, in quanto la dieta e il comportamento alimentare attuali hanno un rilevante e spesso decisivo ruolo di rischio. I tassi di prevalenza sono condiziona-ti dall'aumento dell'età media della popolazione con una percentuale maggiore di anziani, più esposti al rischio di sviluppare il diabete mellito. Pur esistendo una specifica familiarità, le variabili ambientali sono ca-paci di incidere sullo sviluppo clinico della malattia.

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Stime e proiezioni sul periodo 1994-2010 indicano la triplicazione a li-vello mondiale dei casi di diabete mellito tipo 2. Per l'Europa Occidenta-le è stato stimato un aumento dei casi di diabete mellito tipo 2 del 54,9% dal 1994 al 2010 (Vannozzi, 2009).

Negli USA l'incidenza annuale del diabete mellito tipo 2 è del 2,27/1000 abitanti. In Giappone e nelle popolazioni cinesi sono rilevabili bassi va-lori di prevalenza, mentre quelli più elevati sono tipici di alcune popola-zioni indiane dell'Arizona e dell'America e nelle isole del Pacifico. In Ita-lia la prevalenza è aumentata dal 2,5% negli anni '70 all'attuale 4-4,5%.

2.2- DEFINIZIONE E CONCETTI GENERALI

Il diabete mellito è una malattia eterogenea multifattoriale, caratterizza-ta da iperglicemia e da altre alterazioni mecaratterizza-taboliche conseguenti a difet-ti della secrezione o dell‘azione dell’insulina oppure ad entrambi i mec-canismi (American Diabetes Association, 2005).

La manifestazione tipica del diabete mellito è caratterizzata da una i-perglicemia cronica e da alcune alterazioni del metabolismo lipidico e proteico.

Il diabete mellito induce lo sviluppo progressivo di complicanze specifi-che microvascolari e di alterazioni non specifispecifi-che macrovascolari. Le persone affette da diabete mellito hanno un aumentato rischio di svilup-pare malattie cardiovascolari, alterazioni vascolari periferiche, malattie cerebrovascolari e a lungo termine sviluppano retinopatia, nefropatie con o senza insufficienza renale, neuropatie. Il diabete mellito general-mente viene diagnosticato facilgeneral-mente e i pazienti vengono orientati pre-cocemente verso la terapia.

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2.3- STORIA DEL DIABETE MELLITO

Una delle testimonianze più antiche della storia della patologia diabeti-ca è il papiro di Ebers (1550 a. C).

Il papiro prende il nome dall’egittologo Georg Ebers e fu scoperto a Te-be nel 1862 in una tomba. Sul papiro sono descritte alcune malattie e disordini vari, tra cui una condizione di poliuria che ricorda il diabete mellito.

Il diabete, parola di origine greca usata per la prima volta da Areto di Cappadocia, è un termine che significa “passare attraverso” e sembra descrivere alcune malattie caratterizzate da poliuria.

Nel V-VI secolo fu riportata in letteratura una correlazione tra la poliuria e il sapore dolciastro come il miele nelle urine.

Thomas Willis nel XVII secolo sviluppò acute osservazioni…ed affermò la completa ignoranza sulla etiopatogenesi del diabete mellito (Vannoz-zi, 2009).

Nello stesso secolo, Thomas Sydenham ipotizzò che il diabete fosse una malattia sistemica che insorgesse quando il “chilo” non veniva dige-rito completamente; Matthew Dodson dimostrò che anche il siero dei pazienti diabetici conteneva una sostanza di sapore dolce, da lui rico-nosciuta come zucchero. John Rollo, medico inglese, fu il primo ad usa-re il termine mellito (dalla radice gusa-reca e latina di “miele”) per distingue-re questa condizione con poliuria da altdistingue-re malattie in cui era però as-sente la glicosuria (come il diabete insipido).

Nel XIX secolo alcuni ricercatori, tra cui Claude Bernard, si interessaro-no a questa malattia; egli dimostrò che nella regolazione della glicemia era coinvolto il sistema nervoso centrale. Altre scoperte caratterizzaro-no questo secolo: Prout ricocaratterizzaro-nobbe il coma come complicanza del te mellito e Kussmaul descrisse la fame d‘aria della chetoacidosi diabe-tica (Vannozzi, 2009). Langerhans e Edouard Laguesse, nella seconda metà del 1800, scoprirono le isole di Langerhans, la parte endocrina del pancreas. L’idea di trattare con estratti pancreatici i pazienti con diabete mellito risale alle ricerche di Minkowski e Mering: essi evidenziarono

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con i loro studi che i cani, dopo asportazione del pancreas, sviluppava-no il diabete. I risultati di questi due studiosi furosviluppava-no insoddisfacenti, ma da quel momento la ricerca scientifica sul diabete ebbe una svolta. Nei primi anni del ‘900, un medico di Berlino, Gurg Zuelzer, tentò di trattare con estratti pancreatici un paziente diabetico molto grave; questo all’inizio mostrò un miglioramento, poi però entrò in coma e morì una volta esaurito l‘estratto pancreatico. Negli anni ‘20 all’Università di To-ronto ci furono importanti scoperte da una collaborazione tra Grant Ban-ting, Charles Best, James Collip e J.J.R. Macleod.

Banting e Best nel 1921 riferirono che l‘iniezione di un estratto di tessu-to pancreatico, ottenutessu-to da 6 a 8 settimane dopo il legamentessu-to del dottessu-to pancreatico, determinava nell’animale diabetico la scomparsa dell’ iper-glicemia e della glicosuria (Vannozzi, 2009). Nel 1923 Banting e Macle-od ricevettero il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia per la sco-perta dell’insulina (Vannozzi, 2009). Un ragazzo di 14 anni in gravi con-dizioni cliniche fu il primo paziente trattato con l’insulina.

2.4- CLASSIFICAZIONE DEL DIABETE MELLITO

Bouchardat nel 1875 affermò che il diabete mellito poteva essere defi-nito una sindrome piuttosto che una malattia e distinse un diabete co-siddetto "magro" da un diabete ''grasso”, due differenti quadri clinici con diversa prognosi e diverso trattamento (Vannozzi, 2009). ll termine "diabete mellito secondario" fu introdotto negli anni ’30 per definire i ca-si di diabete causati da alcune malattie come la pancreatite cronica e l’emocromatosi.

Himsworth nel 1936 classificò il diabete mellito in due forme: insulino-sensibile ed insulino-resistente; successivamente affermò che il diabete fosse una sindrome che include disturbi diversi dal punto di vista clinico, metabolico, biochimico ed etiologico.

Hugh-Jones nel 1955, differenziò un diabete mellito di tipo 1 e un diabe-te mellito di tipo 2. Il diabediabe-te mellito di tipo 1 colpiva soggetti per lo più

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giovani e si presentava con un quadro clinico più grave, mentre il diabe-te mellito di tipo 2 si presentava spesso con un quadro clinico più lieve, colpiva soggetti di mezza età, generalmente obesi, e raramente richie-deva un trattamento con insulina. Nello stesso periodo vennero intro-dotti altri termini nella pratica clinica (diabete chimico, subclinico, pre-diabete).

Irvine suddivise il diabete mellito di tipo 1 in due sottotipi, in base al ri-scontro di insule pancreatiche distrutte da malattie autoimmuni geneti-camente determinate (tipo 1a), da infezioni virali o da un altro agente o da una combinazione dei due eventi (tipo 1b) (Vannozzi, 2009).

Nel 1979 venne proposta una nuova classificazione del diabete mellito, pubblicata dal National Diabetes Data Group, che diventò la base arti-colata per la classificazione raccomandata dagli esperti dell'Organizza-zione Mondiale della Sanità (WHO, 1980). Nel 1985 si introdusse un'ul-teriore categoria diabetica, il diabete mellito da malnutrizione. Nella ta-bella 1 viene presentata la classificazione WHO del diabete mellito.

CATEGORIE CLINICHE A. Diabete mellito:

1. diabete mellito insulino-dipendente (IDDM) 2. diabete mellito non insulino dipendente (NIDDM) - con obesità

- senza obesità

3. diabete mellito da malnutrizione (MRDM)

4. altri tipi di diabete mellito associati a determinate condizioni e sindromi 5. diabete mellito gestazionale

B. Ridotta tolleranza glucidica: 1. senza obesità 2. con obesità

3. associata a particolari situazioni e sindromi

CATEGORIE A RISCHIO STATISTICO:

1. Pregressa anormalità della tolleranza glucidica 2. Potenziale anormalità della tolleranza glucidica

Tabella 1: Classificazione WHO del diabete mellito e delle altre categorie di intolleranza gluci-dica (Vannozzi, 2009).

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Secondo questa classificazione le tre classi più importanti sono: il dia-bete mellito, distinto in una forma insulino-dipendente e una forma non insulino-dipendente e altri quadri clinici di diabete mellito secondario correlato a diverse situazioni anatomo-cliniche.

La terminologia tipo 1 e tipo 2 è da preferire per evitare la possibile con-fusione che deriva dal concetto di diabete mellito “insulino- indipenden-te” (Albert & Hockaday, 1993).

Il diabete mellito da malnutrizione colpisce prevalentemente soggetti giovani malnutriti ed è frequente nelle zone tropicali.

Nella tabella 2 sono riportate alcune condizioni che possono rappresen-tare comuni cause di diabete mellito secondario.

1. Diabete da malattie pancreatiche (pancreatite cronica, emocromatosi) 2. Diabete da farmaci e tossici (diuretici, cortisonici, diazossido)

3. Diabete in corso di malattie endocrine (tireotossicosi, feocromocitoma, sindrome di Cushing, iperaldosteronismo, acromegalia)

4. Diabete da anomalie dell’insulina o dei suoi recettori 5. Diabete associato a sindromi genetiche

Tabella 2: Diabete mellito secondario: classificazione (Vannozzi, 2009).

Il diabete gestazionale è il diabete mellito che insorge o si presenta in gravidanza o che è diagnosticato per la prima volta in gravidanza; non entrano nella definizione le donne gravide già diabetiche. La gran parte delle donne con questo tipo di diabete torna, dopo il parto, ad uno stato normoglicemico, ma conserva comunque un rischio maggiore di mani-festare un diabete mellito. Alcune donne invece rimangono diabetiche anche dopo la gravidanza.

Le condizioni cliniche con insulino-resistenza sono caratterizzate da una ridotta efficacia dell'insulina. L'insulino-resistenza compare in molti pazienti con ridotta tolleranza glucidica o con diabete mellito di tipo 2. L'obesità è la causa più frequente di insulino-resistenza.

Molti progressi clinici e scientifici nell’ambito della comprensione etiolo-gica del diabete mellito hanno permesso di delineare una nuova

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classi-14

ficazione, più semplice ed accurata nel precisare quanto già indicato precedentemente (American Diabetic Association, 2008).

La nuova classificazione, è l'attuale strumento di orientamento clinico. L'attuale classificazione del diabete mellito include 4 classi cliniche (ta-bella 3):

1. Diabete mellito di tipo 1. 2. Diabete mellito di tipo 2.

3. Altre forme di diabete mellito dovute ad altre cause, come difetti ge-netici nella funzione delle β cellule, difetti gege-netici nell'azione dell'insuli-na, malattie del pancreas esocrino e forme indotte dai farmaci.

4. GDM o Diabete mellito gestazionale (diagnosticato durante la gravi-danza).

1. Diabete mellito tipo 1 (distruzione delle cellule β, che solitamente determina insufficienza insulinica assoluta):

A. Immunomediato B. Idiopatico

2. Diabete mellito tipo 2 (può variare da una forma con predominante insulino-resistenza e carenza insulinica relativa a una forma con predominante difetto secretorio e insulino-resistenza).

3. Altri tipi specifici di diabete:

A. Difetti genetici della funzione β cellulare caratterizzati da mutazioni genetiche a livello di: 1. Fattore di trascrizione nucleare degli epatociti (HNF) 4α (MODY 1) 2. Glucochinasi (MODY 2)

3. HNF-1α (MODY 3)

4. Fattore del promoter insulinico 1 (MODY 4) 5. HNF-1β (MODY 5)

6. Neuro D1 (MODY 6) 7. DNA mitocondriale

8. Conversione della proinsulina o dell’insulina B. Difetti genetici nell’azione dell’insulina

C. Malattie del pancreas esocrino (pancreatiti, pancreasectomia, neoplasie, fibrosi cistica) D. Endocrinopatie (acromegalie, sindrome di Cushing, ipertiroidismo)

E. Indotto da farmaci (glucocorticoidi, ormoni tiroidei, clozapina) F. Infezioni (rosolia congenita, citomegalovirus)

G. Forme rare di diabete immunomediato (anticorpi anti-recettore dell’insulina)

H. Altre sindromi genetiche talvolta associate a diabete (sindrome di Down, sindrome di Tu-ner)

4. Diabete mellito gestazionale (DMG)

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Le due categorie principali di diabete mellito sono il diabete di tipo 1 e il diabete di tipo 2. Il diabete di tipo 1 viene suddiviso in 1A, causato da distruzione autoimmunitaria delle cellule β del pancreas e 1B che non presenta marcatori immunologici ma sviluppa deficit insulinico attraver-so meccanismi ancora non noti e predispone allo sviluppo di chetoaci-dosi; molti dei pazienti classificati nella categoria 1B sono di origine a-froamericana o asiatica (Vannozzi, 2009). II diabete mellito di tipo 2 è caratterizzato invece da insulino-resistenza, alterata secrezione insuli-nica e aumento della produzione di glucosio. Nel diabete mellito di tipo 2 l’iperglicemia è da correlare a diversi difetti genetici e metabolici nell'azione e/o nella secrezione dell’insulina.

Il diabete mellito tipo 2 è preceduto da una fase di alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glucose, IFG) o alterata tolleranza glucidica (impaired glucose tolerance, IGT). Non è più usata l’età come criterio classificativo in quanto, nonostante il diabete mellito di tipo 1 compaia prevalentemente prima dei 30 anni di età, un processo autoimmune di distruzione delle cellule β può comparire a qualsiasi età. Gli altri tipi di diabete mellito comprendono difetti genetici nella secrezione o nell'a-zione dell’insulina e una serie di condizioni che alterano la tolleranza glucidica.

Il diabete giovanile ad insorgenza nell'età adulta (maturity onset diabe-tes of the young, MODY) è un fenotipo di diabete mellito caratterizzato da ereditarietà autosomica dominante, iperglicemia ad insorgenza pre-coce e alterazioni della secrezione insulinica. Sei diverse varianti di MODY sono state identificate finora.

Infine, nel 1988 Reaven introdusse il concetto di Sindrome Metabolica o X. Reaven sottolineava il fatto che l’insulino-resistenza e l'iperinsuline-mia si sviluppavano da una disregolazione del metabolismo glucidico e lipidico, che si manifestava con vari gradi di tolleranza glucidica e con aumento dei livelli plasmatici di trigliceridi e diminuzione del colesterolo HDL (Reaven, 2005).

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2.5- INSULINA

L’insulina è una molecola composta da due catene polipeptidiche (A e B) unite tra loro da due ponti disolfurici, un terzo legame disolfuro si ri-trova sulla catena A. La catena A è formata da 21 residui aminoacidici, la catena B da 30. La biosintesi dell‘insulina si realizza attraverso due prodotti intermedi: la pre-proinsulina e la proinsulina (Vannozzi, 2009). La pre-proinsulina è il primo prodotto di sintesi ed appena sintetizzata è ridotta a proinsulina a livello del reticolo endoplasmatico rugoso. La proinsulina è trasferita all’apparato di Golgi, dove è scissa in quantità equimolecolari di insulina e peptide C, molecola biologicamente inattiva. Il peptide C è meno suscettibile dell’insulina alla degradazione epatica e costituisce pertanto un utile marker della secrezione insulinica.

L’insulina è invece degradata nel fegato, nella placenta e nel rene. La sua emivita è di circa 5-8 minuti. La produzione di insulina in un indivi-duo sano normopeso è di 18-40 unità al giorno, pari a 0,2-0,5 U/kg/die; circa la metà di questa quantità è secreta allo stato basale e il rimanen-te in risposta ai pasti (Vannozzi, 2009).

La corretta secrezione di insulina da parte delle cellule β del pancreas è molto importante nella regolazione dell’omeostasi del glucosio e degli altri substrati. L’assenza o una riduzione di tale capacità determina l’ in-sorgenza del diabete mellito.

La secrezione di insulina è finemente regolata, con l’obiettivo di assicu-rare concentrazioni costanti di glucosio plasmatico sia dopo i pasti sia durante il digiuno.

Questa regolazione si realizza attraverso un’interazione e coordinazio-ne tra diversi nutrienti, ormoni pancreatici e gastrointestinali e coordinazio- neurotra-smettitori del sistema nervoso autonomo. Il glucosio, gli aminoacidi, gli acidi grassi e i corpi chetonici promuovono la secrezione di insulina. Le isole di Langerhans presentano una ricca innervazione sia adrenergica che colinergica: la stimolazione dei recettori α-2-adrenergici inibisce la secrezione di insulina mentre gli agonisti β-2-adrenergici e la stimola-zione vagale ne aumentano il rilascio (Vannozzi, 2009).

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Il glucosio è lo stimolo principale per la secrezione di insulina ed è più efficace quando viene assunto per via orale piuttosto che per via veno-sa. Questo perchè l'assunzione di glucosio o di cibo induce il rilascio di ormoni gastrointestinali e stimola l'attività vagale.

La secrezione dell'insulina è stimolata dai pasti e principalmente dall'aumento della glicemia. Infatti, livelli di glucosio superiori a 70 mg/dl aumentano la sintesi dell’insulina, stimolando la traduzione e la proces-sazione delle proteine. Il glucosio è trasportato all'interno della cellula β pancreatica mediante il GLUT2, trasportatore del glucosio.

Nella cellula, il glucosio viene fosforilato ad opera della glucochinasi e trasformato in glucosio-6-fosfato. L'ulteriore metabolismo di quest'ultimo attraverso la glicolisi genera ATP che inibisce l’attività di un canale del potassio ATP-dipendente; tale inibizione induce una depolarizzazione della membrana della cellula β con conseguente apertura di canali del calcio voltaggio-dipendenti, con influsso di calcio e stimolazione della secrezione di insulina (Vannozzi, 2009).

La diminuzione della glicemia inibisce invece la secrezione dell'ormone. Gli agenti che sono in grado di aumentare la secrezione dell'insulina possono essere suddivisi in due categorie: i fattori denominati stimola-tori o iniziastimola-tori, cioè stimoli capaci di stimolare l’increzione di insulina da soli come il D-glucosio, il D-mannosio ed alcuni aminoacidi, e i fattori definiti potenziatori o amplificatori, cioè stimoli secondari come il frutto-sio, gli acidi grassi, il glucagone, alcuni farmaci e gli ormoni gastrointe-stinali. Questi pur essendo da soli inefficaci a stimolare la secrezione di insulina, sono in grado di aumentarne la quantità in presenza di gluco-sio. Il ruolo "anabolizzante" dell'insulina implica infatti il suo rilascio in ri-sposta all'aumentata disponibilità di principi nutritivi quali gli aminoacidi, gli acidi grassi a catena lunga e breve ed i corpi chetonici (Brunetti et al., 2001). Inoltre, la secretina, la gastrina ed altri importanti ormoni ga-strointestinali possono indurre un rilascio di insulina. E’ tuttavia impor-tante rilevare che il glucosio è di gran lunga il più rilevante controllore della secrezione insulinica; il glucosio può essere considerato il solo ini-ziatore fisiologico della secrezione insulinica (Henquin 1994).

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2.6- ORMONI PANCREATICI AD ATTIVITA’

CONTROIN-SULARE O CONTROREGOLATORI

Le insule del pancreas contengono quattro tipi di cellule, ognuno dei quali secerne un determinato ormone.

Le cellule α producono il glucagone, rappresentando circa il 10-20% delle cellule insulari, le β (circa il 70-80%) producono insulina, le cellule δ (5-10%) producono somatostatina, le cellule PP (10-30%) producono il polipeptide pancreatico.

Gli ormoni sono definiti controregolatori quando sono in grado di con-trastare gli effetti dell’insulina; essi generalmente determinano la libera-zione di energia dalle riserve energetiche attraverso azioni opposte a quelle dell'insulina.

Il glucagone è un ormone polipeptidico composto da una singola catena di 29 aminoacidi. Le sue azioni possono essere così schematizzate (Vannozzi, 2009):

1- Attiva la glicogenolisi. 2- Inibisce la glicogenosintesi.

3- Attiva la gluconeogenesi e la chetogenesi epatiche. A livello del fega-to il glucagone stimola il trasporfega-to intracellulare degli aminoacidi, inibi-sce la sintesi proteine e stimola la proteolisi e pertanto la gluconeoge-nesi da aminoacidi.

L'iperglicemia inibisce la secrezione del glucagone che è invece stimo-lato dall’ipoglicemia. Il glucagone è dunque il più importante ormone an-tagonista dell'insulina e fa parte dei cosiddetti ormoni controinsulari. Es-so è il cosiddetto ormone dell'emergenza energetica in quanto intervie-ne quando intervie-nell'organismo si realizzano condizioni di carenza di substra-ti. Il glucagone è un ormone catabolico; esso induce o modula la produ-zione di glucosio a partire dai depositi di glicogeno, dagli aminoacidi e dai grassi.

La somatostatina è un polipeptide di 14 aminoacidi. Essa viene secreta anche da determinate cellule della mucosa intestinale. La somatostati-na, oltre a inibire la secrezione dell’ormone della crescita, possiede

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un'azione inibente su varie funzioni gastrointestinali, come la secrezio-ne della maggior parte degli ormoni digestivi e la motilità dell’intestino. La somatostatina possiede una forte attività inibitoria sulla secrezione sia di insulina che di glucagone.

Il polipeptide pancreatico (PP), costituito da una catena di 36 aminoaci-di, inibisce le secrezioni pancreatiche e lo svuotamento della colecisti. Tra gli altri ormoni controregolatori troviamo l'adrenalina che agisce aumentando la produzione epatica di glucosio, sviluppando la glicoge-nolisi ed incrementando l'apporto al fegato di precursori neoglucogene-tici. Aumenta anche la secrezione di glucagone ed inibisce la liberazio-ne dell'insulina. L'adrenalina stimola la lipolisi con liberazioliberazio-ne di acidi grassi.

Il cortisolo e tutti i glicocorticoidi determinano iperglicemia in quanto stimolano la gluconeogenesi, attivano la demolizione delle proteine ed inducono il fegato a produrre alte concentrazioni di enzimi neoglucoge-netici.

2.7- ETIOPATOGENESI

E’ molto importante comprendere l’etiopatogenesi di ciascun tipo di dia-bete se si vuole tentare di adottare una condotta terapeutica ottimale ed adatta.

La più eclatante e precoce anomalia del diabete mellito, indipendente-mente dall’etiopatogenesi o dalle condizioni predisponenti indotte ge-neticamente o ambientali, è la comparsa dell’iperglicemia. Dato che l'in-sulina è il più importante modulatore dell’omeostasi del glucosio, l'iper-glicemia è considerata come la conseguenza di un deficit di azione dell'insulina. Questo deficit può essere il risultato di una mancanza as-soluta o relativa dell'insulina stessa o il risultato di una resistenza all'a-zione dell'insulina a livello delle cellule bersaglio.

Dopo queste iniziali considerazioni si può analizzare la etiopatogenesi dei diversi tipi di diabete mellito.

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ETIOPATOGENESI DEL DIABETE MELLITO TIPO 1

Il diabete mellito tipo 1 è caratterizzato dalla distruzione delle cellule β del pancreas con conseguente deficienza dell’insulina. La predisposi-zione genetica induce il diabete mellito di tipo 1, ma esistono altri fattori come cause scatenanti o promoventi, tra cui l’azione di virus, sostanze tossiche, fenomeni autoimmunitari e fattori ambientali.

Il sospetto di un ruolo di fattori genetici nella patogenesi del diabete di tipo 1 ha ricevuto le prime conferme in seguito all'identificazione e ca-ratterizzazione degli antigeni di istocompatibilità: il rischio di ammalarsi di diabete mellito tipo 1 sembra aumentare quando sono presenti speci-fici antigeni di istocompatibilità (Vannozzi, 2009). Tuttavia, molti casi di diabete non possiedono un convincente substrato genetico; questo ha portato a ritenere che la patogenesi del diabete mellito tipo 1 sia più complessa e che siano implicati fattori ambientali. Questi potrebbero in-durre un processo autoimmune con conseguente e progressiva distru-zione delle β cellule deputate alla secredistru-zione insulinica.

Altri fattori devono essere implicati nel determinare lo sviluppo del dia-bete considerando che la concordanza nei gemelli monozigoti varia tra il 30 e il 70%.

Il principale gene che determina la suscettibilità al diabete mellito di tipo 1A è nella regione HLA del cromosoma 6 (Vannozzi, 2009). Sembra i-noltre che i polimorfismi della regione promoter del gene dell'insulina siano responsabili di un 10% della predisposizione al diabete di tipo 1A. Il rischio di sviluppare il diabete mellito di tipo 1A è di circa 10 volte su-periore nei parenti di pazienti affetti (Vannozzi, 2009).

Il diabete mellito tipo 1 è il risultato di un attacco autoimmunitario diretto contro le insule di Langerhans o più precisamente contro le cellule β re-sponsabili della secrezione di insulina. L'importanza dei fattori immuni-tari è stata peraltro convalidata dal rilievo della presenza di insulite, di anticorpi antiinsula pancreatica, di T-linfociti attivati, e di autoanticorpi anti-insulina, presenti nel siero di circa la metà dei pazienti con diabete tipo 1 di nuova diagnosi (Epstein, 1994).

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Le cause che potrebbero indurre il processo autoimmune sembrano es-sere virali o tossiche. In effetti in alcuni casi un'infezione virale precede l'insorgenza del diabete e numerose osservazioni hanno dimostrato che un ruolo importante potrebbe essere svolto da particolari virus quali i vi-rus Coxsackie B, l'Echovivi-rus 4, il vivi-rus della parotite, il vivi-rus della rosoli-a, ed il Citomegalovirus (Szopa & Taylor, 1993).

L'ipotesi etiologica virale del diabete mellito di tipo 1 deve comunque essere considerata con cautela; le infezioni virali infatti sono forse con-dizioni promoventi e non agenti etiologici primitivi (Vannozzi, 2009).

ETIOPATOGENESI DEL DIABETE MELLITO TIPO 2

Il diabete mellito tipo 2 è la forma di diabete più frequente ed è caratte-rizzato da una elevata familiarità. La predisposizione genetica ha un ruolo essenziale nell’insorgenza del diabete mellito tipo 2, sebbene mol-ti e diversificamol-ti fattori ambientali siano variabili e sicuramente non tra-scurabili nel favorire la comparsa del diabete (Vannozzi, 2009).

Nei soggetti con predisposizione genetica, la malattia è infatti precipita-ta da fattori ambienprecipita-tali come la dieprecipita-ta, un elevato apporto calorico, e la sedentarietà. Il sospetto che la dieta possa giocare un ruolo importante nella etiopatogenesi del diabete tipo 2 risale a molto tempo fa, infatti nel 1978 West affermava nella sua monografia che l'obesità era il più im-portante fattore nutrizionale nella etiologia del diabete mellito (West, 1978).

Esiste ormai concordanza di opinioni nel ritenere che il diabete mellito tipo 2 sia una malattia essenzialmente correlata ad un eccesso alimen-tare combinato ad un deficit di insulina o meglio ad un accumulo ener-getico aggravato dalla carenza di insulina (Vannozzi, 2009).

Il diabete in questo caso è spesso associato all'obesità ed il rischio di ammalarsi aumenta progressivamente con l'aumentare dell'indice di massa corporea, anche se deve essere ricordato che non tutti gli obesi sviluppano un diabete mellito tipo 2, essendo possibile che in alcuni in-dividui sia più che sufficiente la "sola" suscettibilità genetica per

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re al diabete senza correlazioni ben definite con le abitudini alimentari (Vannozzi, 2009).

La dieta occidentale, ricca in grassi animali e povera in fibra alimentare, sembra predisporre al diabete mellito tipo 2, mentre un elevato conte-nuto in carboidrati complessi e fibra si associa ad una più bassa inci-denza di diabete; le evidenze epidemiologiche attuali, che mettono in relazione il diabete mellito tipo 2 con diete ad elevato contenuto in grassi e povere in carboidrati, indicano nella carenza di fibra alimentare (soprattutto della fibra solubile) il fattore principalmente coinvolto nel fa-vorire la comparsa del diabete (Vannozzi, 2009).

Circa il 75% dei pazienti con diabete durante la diagnosi è obeso. Si possono sintetizzare le seguenti considerazioni (Vannozzi, 2009): 1. Esiste una correlazione significativa tra grado o intensità dell'obesità di una popolazione e prevalenza del diabete mellito.

2. L'obesità precede spesso l'insorgenza del diabete mellito, anche se molti soggetti non obesi sviluppano diabete mellito.

3. L'obesità è considerabile un segno predittivo significativo dello svi-luppo del diabete mellito.

4. L'incidenza del diabete mellito negli obesi è più rilevante rispetto ai soggetti di peso normale o accettabile.

5. La riduzione del peso determina normalizzazione o riequilibrio delle alterazioni metaboliche proprie del diabete mellito.

Il diabete mellito tipo 2 non si associa ad alterazioni immunologiche né si accompagna a particolari fattori di istocompatibilità, come è invece possibile verificare nei pazienti con diabete tipo 1 (Vannozzi, 2009). I pazienti con diabete mellito di tipo 2 presentano due anomalie fisiopa-tologiche:

1. Una ridotta secrezione di insulina.

2. Una insulino-resistenza a livello degli organi bersaglio.

I meccanismi patogenetici dell'iperglicemia nel diabete mellito tipo 2 non sono al momento chiariti. La controversa spiegazione patogenetica na-sce dall'importanza che deve essere data alle due anomalie preceden-temente descritte, cioè deve essere chiarito se l'elemento essenziale nella patogenesi del diabete mellito tipo 2 sia la deficienza insulinica o

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la resistenza all’insulina, responsabile di una eccessiva stimolazione delle cellule pancreatiche tale da condurre all'esaurimento della funzio-nalità stessa del pancreas (Vannozzi, 2009). Nel soggetto non diabetico un carico di glucosio induce una pronta secrezione di insulina che ripor-ta alla norma i valori glicemici. Nei pazienti con diabete mellito tipo 2 i livelli di insulina possono essere normali o elevati, ma in ogni caso non risultano essere efficaci a contrastare l'iperglicemia.

D'altra parte, mentre nel diabete mellito tipo1 la distruzione delle cellule β pancreatiche, parziale o totale, spiega il correlato deficit insulinico, e quindi il meccanismo patogenetico da cui derivano tutte le anomalie metaboliche e i disordini tipici della malattia diabetica, nel diabete tipo 2 il quadro funzionale e metabolico-ormonale appare complesso e non omogeneo in tutti i pazienti (Vannozzi, 2009). Infatti, alle volte, i livelli di insulina rientrano in un range fisiologico di normalità, pur in presenza di una iperglicemia; in altri casi invece, l’insulinemia è ridotta e il quadro clinico è sovrapponibile a quello del diabete mellito tipo 1. Sebbene il contenuto pancreatico di insulina sia normale o solo lievemente diminui-to, la secrezione di insulina in risposta ad un pasto è comunque tipica-mente ridotta nel diabete tipo 2, soprattutto nella prima fase; la fase ini-ziale dell'intolleranza glucidica infatti è caratterizzata da un aumento della glicemia in risposta ad un introito di carboidrati (Vannozzi, 2009). Il grado di produzione endogena e il rilascio di glucosio dal fegato riman-gono inalterati nonostante l'afflusso di glucosio introdotto con gli alimen-ti; i tassi di glucosio aumentano allora eccessivamente inducendo una prolungata stimolazione di secrezione insulinica (Vannozzi, 2009). La seconda fase della secrezione dell’insulina può essere, come già ac-cennato, normale o talvolta esagerata. Questo dato induce a ritenere che la causa dell'iperglicemia nel diabete mellito tipo 2 possa essere ri-conducibile non tanto ad una difettosa secrezione di insulina quanto piuttosto ad una resistenza all'attività dell'ormone (Vannozzi, 2009).

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2.8- LA DIAGNOSI DI DIABETE MELLITO

La diagnosi di diabete mellito è agevole in presenza del tipico quadro sintomatologico, clinico e bioumorale: poliuria, sete intensa (polidipsia), astenia, calo ponderale, elevati livelli glicemici, glicosuria (Vannozzi, 2009).

La comparsa di poliuria, polidipsia, astenia e calo ponderale rappresen-tano la manifestazione clinica più frequente del diabete mellito. La do-cumentazione delle anormalità biologiche come l’iperglicemia e la gli-cosuria conferma la diagnosi. Al di là di una relativa semplicità nella di-agnosi deve essere sempre rammentato che situazioni particolari pos-sono portare a pericolosi ritardi diagnostici, un esempio di questo può essere, tipicamente durante l'infanzia, una enuresi notturna ripetuta scambiata per un problema funzionale tipico di quella età e sintomo in-vece di poliuria da glicosuria (Vannozzi, 2009).

La determinazione della glicemia è il primo esame che permette di con-fermare il sospetto clinico di diabete. La glicemia al mattino dopo 12 ore di digiuno è normalmente compresa tra 70 e 110 mg/dl. Valori uguali o superiori a 140 mg/dl in almeno due occasioni in assenza di altre situa-zioni interferenti sono considerate diagnostiche di diabete mellito. Alla luce delle ricerche, che hanno puntualizzato e revisionato i criteri per la diagnosi di diabete mellito, si afferma al momento che valori uguali o superiori a 126 mg/dl in almeno due rilevazioni, e sempre in assenza di altre situazioni interferenti, sono diagnostici di diabete mellito (Vannoz-zi, 2009). I criteri per la diagnosi comprendono (Vannoz(Vannoz-zi, 2009):

- Glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (assenza di apporto calorico da alme-no 8 ore).

Oppure:

- Sintomi dell'iperglicemia + una glicemia casuale (a random) ≥ 200 mg/dl.

Oppure:

- Glicemia a 2 ore dal pasto 200 mg/dl durante un test per la tolleranza glucidica orale.

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L'individuazione dei diversi parametri diagnostici ha permesso di defini-re una nuova categoria di intolleranza al glucosio corrispondente ai va-lori compresi tra 110 mg/dl e 125 mg/dl (American Diabetes Associa-tion, 2008). Questa condizione di intolleranza al glucosio viene chiama-ta Impaired Fasting Glucose (IFG) cioè alterachiama-ta glicemia a digiuno (A-merican Diabetes Association, 2008).

La maggioranza dei diabetici può presentare glicosuria. La ricerca del glucosio nelle urine è pertanto, insieme alla determinazione della glice-mia plasmatica, fondamentale nella diagnosi del diabete; la glicosuria è spesso utilizzata nel monitoraggio del diabetico (Vannozzi, 2009). Tra gli altri esami essenziali ricordiamo quelli più comunemente usati nella pratica clinica (American Diabetes Association, 2008):

1. Carico orale di glucosio (OGTT: Oral Glucose Tolerance Test). 2. Test da carico venoso di glucosio (IVGTT: Intravenous Glucose Tole-ranceTest).

Se un paziente con iperglicemia è sintomatico o se è dimostrato un aumento significativo della glicemia a digiuno in più di una occasione, non è necessario eseguire la curva da carico che risulterebbe comun-que di tipo diabetico (Vannozzi, 2009). Potrà essere eseguito un moni-toraggio delle glicemie giornaliere senza alcun carico orale o endovena di glucosio.

Il carico orale di glucosio è importante per la diagnosi di diabete mellito quando il paziente è asintomatico o presenti una glicemia a digiuno in-feriore a 126 mg/dl ma superiore a 110 mg/dl e soprattutto in presenza di condizioni e fattori di rischio per l'insorgenza di diabete mellito (obesi-tà, elevata incidenza di diabete tra i parenti di primo grado, dislipidemie) (Vannozzi, 2009). Il test viene eseguito al mattino dopo un periodo di digiuno di circa 10-12 ore, facendo assumere al paziente un carico ora-le di glucosio (American Diabetes Association, 2008). Vengono in se-guito eseguiti prelievi ematici a digiuno e ogni 30 minuti per due ore do-po l'assunzione del glucosio. In assenza di iperglicemia a digiuno si par-la di diabete mellito se dopo OGTT par-la glicemia determinata sul ppar-lasma supera il valore di 200 mg/dl nel prelievo effettuato a due ore e almeno in un'altra determinazione (Vannozzi, 2009).

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Si definisce ancora ridotta tolleranza glucidica o IGT (Impaired Glucose Tolerance) quando durante il carico orale di glucosio ritroviamo glicemie > 140 mg/dl (o uguali a 140 mg/dl) in uno dei prelievi eseguiti ma a 2 ore la glicemia è compresa tra 140 e 199 mg/dl (American Diabetes As-sociation, 2008).

Il test da carico venoso di glucosio consiste nella somministrazione en-dovena di glucosio e si valuta in seguito la curva di scomparsa del glu-cosio dal circolo (Vannozzi, 2009). L'alterata glicemia a digiuno (IFG) e la ridotta tolleranza glucidica (IGT) sono condizioni definite come pre-diabete e sono fattori di rischio per lo sviluppo di pre-diabete e l’insorgenza di malattie cardiovascolari (Shaw et al., 1999; Nathan et al., 2007). In assenza di una iperglicemia certa questi criteri dovrebbero essere con-fermati da ripetute misurazioni in giorni diversi (Vannozzi, 2009). Il cari-co orale di glucari-cosio non è raccari-comandato cari-come test di routine, ma può essere richiesto nella valutazione dei pazienti con IFG o quando vi è il sospetto di diabete nonostante una normale glicemia a digiuno o nella valutazione postpartum delle donne con diabete gestazionale (GDM) (Vannozzi, 2009).

2.9- LE COMPLICANZE DEL DIABETE MELLITO

Il peggior rischio per i pazienti affetti da diabete mellito è la possibilità che la patologia possa degenerare nelle “complicanze”, spesso legate alla durata e al compenso metabolico.Il diabete può determinare com-plicanze acute o croniche.

Le complicanze acute del diabete sono più frequenti nel diabete di tipo 1, rispetto a quello di tipo 2 e sono determinate dalla carenza o assenza di insulina nell’organismo. Esse sono (www.diabete.net):

Chetoacidosi

La chetoacidosi è causata dalla carenza/assenza di insulina nell’ orga-nismo che non permette alle cellule di utilizzare il glucosio per produrre

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energia. In questa situazione il corpo è costretto ad utilizzare i lipidi; ciò produce sia energia e sia corpi chetonici che vengono eliminati con le urine.

Se i corpi chetonici sono presenti in concentrazioni troppo elevate, pro-vocano la chetoacidosi diabetica.

I primi sintomi sono: anoressia (mancanza di appetito), nausea, vomito e dolori addominali.

Se la chetoacidosi non viene curata tempestivamente e adeguatamente progredisce fino al coma chetoacidosico.

Coma iperosmolare non chetosico

Il coma iperosmolare non chetosico solitamente si verifica in pazienti anziani nei quali la capacità di assumere liquidi è minore rispetto ai gio-vani.

Da questa situazione deriva la quasi impossibilità di compensare le perdite idriche dovute alla diuresi, al punto da causare la disidratazione delle cellule.

I primi sintomi consistono in uno stato confusionale a cui segue il coma. In alcuni casi possono manifastarsi altri sintomi come convulsioni o de-ficit motori.

Le complicanze croniche del diabete più diffuse sono quelle vascolari ed oculari.

Sono più frequenti nel diabete di tipo 2 rispetto a quello di tipo 1 e si manifestano generalmente dopo 10-15 anni dalla comparsa della malat-tia (www.diabete.net).

Gli organi bersaglio sono l’occhio, il rene, il sistema nervoso e il sistema cardiovascolare.

Il disturbo oculare di più frequente riscontro è la retinopatia emorragi-co-essudativa, mentre il più importante è la retinopatia proliferativa, responsabile della perdita o di una grave riduzione della vista e che ri-chiede, data la sua gravità, interventi tempestivi.

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Gran parte dei diabetici presenta la retinopatia, una lesione dei vasi sanguigni nella parte posteriore dell’occhio, entro alcuni anni dall’insorgenza della malattia.

Un’ulteriore complicanza è la nefropatia diabetica, che colpisce il rene al punto che questo organo non è più in grado di filtrare adeguatamente le scorie del metabolismo. Nella sua forma più lieve colpisce una buona percentuale di diabetici, di cui una quota degenera nell’insufficienza re-nale fino a richiedere il trapianto del rene (www.diabete.net).

La neuropatia è invece una malattia del sistema nervoso che colpisce circa il 30% dei diabetici. Si presenta sotto forma di intorpidimento e formicolio agli arti con dolori ai polpacci simili a un crampo, specialmen-te notturni, diminuita sensibilità e comparsa di ulcerazioni alla pianta dei piedi. Questo disturbo può generare il piede diabetico, determinato da lesioni vascolari e nervose che provocano gravi deformazioni ossee e disturbi della vascolarizzazione terminale.

Le complicanze del sistema neurovegetativo possono portare come conseguenze dei disturbi intestinali (diarrea), vescicali (incontinenza u-rinaria) e sessuali (disfunzione erettile).

Infine possono manifestarsi nei diabetici anche forme di coronaropatia e vasculopatia cerebrale.

Infine una categoria particolare è rappresentata dalle complicanze del diabete gestazionale che possono influire negativamente sul corretto sviluppo del feto causando malformazioni congenite, un elevato peso alla nascita, fino a un alto rischio di mortalità perinatale.

Può sembrare un paradosso, ma le complicanze sono meno temibili nelle forme più conclamate. Questo perché il diabete conclamato con-sente una diagnosi e un trattamento tempestivo, mentre una forma a lungo silente rimane misconosciuta e mina indisturbata gli organi ber-saglio (www.diabete.net).

Occorre quindi, l’utilizzo di una terapia che mantenga la glicemia nella normalità ed evitare così fluttuazioni e picchi iperglicemici, che sarebbe-ro la causa principale delle complicanze.

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2.10- LA PREVENZIONE DEL DIABETE MELLITO

Il diabete mellito tipo 2 dipende da fattori predisponenti genetici, da fat-tori ambientali e comportamentali (obesità, sedentarietà, alimentazione quantitativamente scorretta e/o qualitativamente irrazionale) (Vannozzi, 2009). È probabile che la prevalenza del diabete mellito aumenti nei prossimi 10-30 anni: la causa della crescita viene imputata alle pro-gressive e rapide variazioni delle abitudini di vita (Vannozzi, 2009). Nuovi orizzonti scientifici evidenziano che la prevenzione del diabete mellito tipo 2 è possibile: la correzione dei più importanti fattori di rischio (trattamento dell'obesità, educazione alimentare, attività fisica) contri-buisce a ridurre l'incidenza o ritardare l'esordio del diabete mellito, ma-lattia che esplica riflessi altamente negativi sulla morbilità e sulla morta-lità delle persone colpite (Vannozzi, 2009).

La natura della prevenzione è particolarmente importante per i pazienti affetti da IGT o IFG ossia nella fase pre-diabete, nei quali il monitorag-gio del diabete andrebbe fatto ogni 1-2 anni.

Un monitoraggio più stretto andrà effettuato nei pazienti con fattori di ri-schio cardiovascolare quali fumo, ipertensione arteriosa e dislipidemia. Uno studio finlandese in particolare ha accertato che la riduzione del peso corporeo, il miglioramento dell'alimentazione e l'aumento dell'atti-vità fisica sono in grado di ridurre del 58% in 4 anni il rischio di progres-sione del diabete mellito (Tuomilehto et al., 2001). Altri studi, randomiz-zati e controllati, confermano l'efficacia della prevenzione del diabete mellito migliorando lo stile di vita e usando farmaci ipoglicemizzanti (Knowler et al., 2002; Buchanan et al, 2002; Chiasson et al., 2002; Ra-machandran et al., 2005; Gerstein et al., 2006).

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CAPITOLO 3

3- GLI EDULCORANTI

3.1- DEFINIZIONE

Gli edulcoranti sono sostanze utilizzate per conferire sapore dolce ai ci-bi e alle bevande o per la loro edulcorazione estemporanea, aggiunte agli alimenti in sostituzione del saccarosio.

Queste sostanze appartengono a classi chimiche molto diverse e ven-gono divise in due gruppi: edulcoranti di sintesi e naturali. Inoltre gli e-dulcoranti vengono classificati in “ee-dulcoranti intensivi“ e “ee-dulcoranti polioli” o di massa in base al loro potere edulcorante.

Per potere edulcorante si intende il rapporto tra la concentrazione di una soluzione di saccarosio, preso come confronto, e quella di un dolci-ficante che produce la stessa intensità di sapore dolce (Melis, 2012). Il potere edulcorante di una sostanza spesso è compreso in un range di valori più o meno ampio, perché varia in funzione di alcuni parametri, quali la temperatura, il pH e la concentrazione (Melis, 2012). La scala di misurazione di questo parametro è calcolata assumendo il valore 1 per il saccarosio (Tabella 4).

Zuccheri Potere edulcorante

Saccarosio 1,00 Fruttosio 1,50 Glucosio 0,74 Galattosio 0,60 Maltosio 0,50 Lattosio 0,30

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Per edulcoranti intensivi si intendono quelle sostanze edulcoranti ad al-to potere dolcificante (da 30 a 500 volte quello del saccarosio), per cui ne bastano piccolissime quantità per sostituire il saccarosio; inoltre permettono di ridurre notevolmente l’apporto energetico dell’alimento avendo un potere calorico quasi nullo. In Italia quelli più diffusi sono: l’acesulfame K, l’aspartame, il ciclammato e la saccarina.

Gli edulcoranti polioli, chiamati anche polialcoli o zuccherialcol, sono agenti edulcoranti di “sostituzione” o “di massa”. I polioli hanno un pote-re dolcificante simile a quello del saccarosio, ma il loro contenuto ener-getico è più basso rispetto a quello degli zuccheri (circa 2,4 kcal/g con-tro 3,9 kcal/g del saccarosio). Quelli più utilizzati in Italia sono il sorbito-lo, il maltitosorbito-lo, il mannitosorbito-lo, l’isomalto e lo xilitolo.

E’ stato, inoltre, constatato che più dolcificanti insieme esplicano un’azione sinergica, per cui le miscele di più dolcificanti hanno un potre edulcorante superiopotre al valopotre della media aritmetica dei poteri e-dulcoranti dei singoli componenti (Melis, 2012).

E’ stato dimostrato che sotto lo zero e sopra i 50°C non si ha la perce-zione dei sapori e, quindi, anche del dolce. Un altro parametro che inci-de sull’intensità inci-del sapore è il pH, ma è impossibile fare una previsione perché la sua influenza varia da una sostanza all’altra.

La risposta agli stimoli sensoriali è rapida e il gusto è percepito in 50 millisecondi. La solubilità in acqua è una condizione essenziale per tutti i gusti in quanto gli stimoli di questi sono trasmessi per mezzo dell’acqua.

Infatti, affinchè le papille gustative percepiscano il sapore di una so-stanza, questa deve essere idrosolubile, perché la saliva funge da sol-vente; perciò le sostanze con elevata massa molare generalmente inso-lubili in acqua, come i polimeri vinilici, i poliesteri e le poliamidi, sono in-sapori.

Le caratteristiche richieste agli edulcoranti, oltre al loro potere dolcifi-cante, sono la qualità del gusto dolce, la rapidità di insorgenza di que-sto e la persistenza della sensazione dolce. Fattori limitanti, invece, possono essere la presenza di un retrogusto amaro e, soprattutto, la potenziale tossicità.

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3.2- GLI EDULCORANTI DI SINTESI

Gli edulcoranti di sintesi sono composti aventi un potere edulcorante maggiore rispetto a quello del saccarosio (da 30 a 500 volte superiore), mentre il loro apporto energetico è pressoché nullo. Vengono anche de-finiti dolcificanti intensivi. I fattori limitanti l'uso di questi edulcoranti sono la presenza di retrogusto amaro e metallico e la potenziale tossicità, tali problemi possono essere limitati utilizzando associazioni di dolcificanti in modo da ottenere un buon effetto dolcificante mantenendo basse le dosi di ciascuna sostanza, e rispettando le dosi giornaliere accettabili, così come ha stabilito l'EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Ali-mentare). E' comunque consigliabile non utilizzare i dolcificanti di sintesi in gravidanza, allattamento e sotto i tre anni di età.

Gli edulcoranti di sintesi più diffusi sono l'aspartame, la saccarina, l'a-cesulfame K e i ciclammati, i quali vengono impiegati dall’industria ali-mentare nella produzione di alimenti e bibite “light”.

Caratteristiche generali degli edulcoranti di sintesi

Proprietà dei principali edulcoranti intensivi (Melis, 2012).

Edulcorante Retrogusto Solubilità in acqua Stabilità in solu-zione Stabilità al calore Acesulfame K Leggermente a-maro

Buona Buona Buona

Aspartame Dolce prolungato Scarsa a 20°C Buona a pH 3-5 Scarsa

Ciclammati Amaro, metallico Buona Buona a pH 2-8 Buona

Saccarina Amaro, metallico Buona Buona a pH 3,5-8 Buona

Taumatina Persistente, liqui-rizia

Buona Buona a pH 2-10 Buona a pH

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Aspartame: edulcorante noto con la sigla E 951. E’ l’estere metilico di un dipeptide: L-aspartil-L-fenilalanina. L'aspartame (Figura 2) è un di-peptide artificiale composto da due aminoacidi: l'acido aspartico e la fe-nilalanina (la cui estremità carbossilica viene esterificata con metanolo). Si presenta sotto forma di polvere bianca granulare, inodore, dal sapore dolce privo di retrogusto e in grado di conferire una sensazione dolce simile a quella del saccarosio e di intensità da 80 a 250 volte superiore al saccarosio.

│________________│ │________________││________│ Acido aspartico Fenilalanina Metanolo

Figura 2: Formula chimica dell’aspartame (Immagine presa dal web).

E’ stato scoperto casualmente nel 1965, quando il chimico James Schlatter, lavorando alla produzione di un farmaco contro le ulcere allo stomaco, combinò i due aminoacidi e si accorse che il miscuglio era dolce.

L’aspartame tende a esaltare il sapore di frutta quali l’arancia e il limo-ne.

La sua solubilità in acqua dipende dalla temperatura (è massima a 25°C) e dal pH (è massima a pH 5,2). La soluzione acquosa è partico-larmente stabile a valori di pH compresi tra 3,6 e 4,5 e poco stabile alla alte temperature, perché l’aspartame è termolabile, degradandosi a di-chetopiperazina con conseguente perdita o diminuizione dell’effetto e-dulcorante; perciò non è adatto nei prodotti da forno e nelle fritture

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lis, 2012). Benchè abbia un contenuto energetico equivalente a 4 Kcal/g, come il saccarosio, le quantità utilizzate nella formulazione di a-limenti dietetici e ipocalorici sono talmente esigue che il suo apporto ca-lorico è irrilevante. Trova impiego nella preparazione di bevande ipoca-loriche, yogurt, dessert, gelatine, bibite istantanee, succhi di frutta, con-fetteria e prodotti farmaceutici.

I prodotti alimentari contenenti aspartame devono riportare in etichetta la dicitura “contiene una fonte di fenilalanina”, a tutela dei soggetti affetti dal difetto genetico nel metabolismo fenilalaninico. Alcuni individui, non possedendo l’enzima per convertire la fenilalanina in tirosina non sono capaci di metabolizzare l’aminoacido, producendo fenilchetonuria. Il sintomo più importante è il ritardo mentale, generalmente grave, che si verifica nella gran parte dei pazienti non trattati.

Diversi studi su animali da laboratorio hanno evidenziato la comparsa di tumori al cervello a seguito dell’assunzione orale di questo edulcorante (Humphries et al., 1986), epilessia, sindrome di affaticamento cronico, morbo di Parkinson, morbo di Alzheimer, ritardo mentale, linfoma, fi-bromialgia e diabete, che possono essere favoriti o peggiorati dalla sua assunzione elevata e cronica, ma nessuno studio ha dimostrato un rap-porto causa effetto tra questi fenomeni, né è riuscito a definire il mec-canismo d'azione di una eventuale tossicità. Il dibattito sull'aspartame si è riacceso successivamente nel 2005, in seguito alla pubblicazione di uno studio promosso dalla California Environmental Protection Agency, che ha individuato un aumento dell'incidenza di linfomi e leucemie nei topi femmina a seguito di assunzione di bassi dosaggi di aspartame (Melis, 2012). Inoltre uno studio pubblicato sull’European Journal of Oncology nel 2005 ha ulteriormente segnalato questi effetti e ha ipotiz-zato un legame tra la formaldeide rilasciata dal metabolismo dell’aspartame e l’aumento dell’incidenza di tumori cerebrali (Melis, 2012). A tal proposito l'EFSA ha confermato la dose giornaliera ammis-sibile, sebbene non abbia riconosciuto la relazione fra l'insorgenza di tumori e il consumo di aspartame. La sicurezza dell'aspartame è stata riaffermata anche negli Stati Uniti dal National Cancer Institute a segui-to di un’indagine su mezzo milione di persone durata 5 anni, da cui non

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è emerso nessun aumento significativo nell’incidenza di linfomi, leuce-mie, né tumori al cervello (Melis, 2012).

Saccarina: edulcorante noto con la sigla europea E 954 (Figura 3). Venne sintetizzata nel 1879 accidentalmente da Ira Remsen, un pro-fessore della John Hopkins University, e Costantin Fahlberg, un suo ri-cercatore (Melis, 2012).

Figura 3: Formula chimica della saccarina (Immagine presa dal web).

La scoperta fu resa pubblica solo nel 1880 e brevettata da Fahlberg nel 1884.Nonostante fosse stata commercializzata poco dopo la scoperta, la saccarina non divenne popolare fino al razionamento dello zucchero imposto dalla prima guerra mondiale. La sua diffusione crebbe nel 1960-1970 tra le persone sottoposte a diete ipocaloriche, in quanto l’apporto energentico è nullo. La saccarina è stata fondamentale, so-prattutto per le persone diabetiche: infatti, non altera i livelli sanguigni di insulina.

Tuttavia fin dalla sua introduzione, la saccarina è stata al centro di pre-occupazioni per la sua potenziale cancerogenicità. Nel 1960 alcuni dati sperimentali mostrarono che il prodotto, a dosi molto elevate, induceva un aumento nell’incidenza del cancro alla vescica nei ratti da laboratorio (Melis, 2012). Nel 1977, infatti, l’FDA bandì la saccarina sulla base di tali studi e questa posizione è stata successivamente rivista negli anni novanta, attraverso specifici dati epidemiologici, per cui oggi la saccari-na è stata piesaccari-namente riconsiderata come edulcorante (Melis, 2012).

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Essa è in commercio tal quale o come sale sodico, calcico o potassico. Ha una dolcezza di 250-500 volte più elevata del saccarosio, la sua dolcezza è accompagnata da un retrogusto amaro/metallico; tale effet-to tuttavia, è più o meno marcaeffet-to secondo la sensibilità del consumaeffet-to- consumato-re. Per mascherare questo sapore sgradevole, è possibile miscelarla con altri composti come il ciclammato, il fruttosio, l’aspartame.

A causa della sua capacità di attraversare la placenta, deve essere usata con prudenza, se non del tutto evitata, in gravidanza. Inoltre è sconsigliato l’utilizzo nei bambini di età inferiore a 3 anni.

Acesulfame K: chiamato anche acesulfame potassico, e conosciuto con la sigla europea E 950. Esso ha una struttura chimica che in parte ricorda quella della saccarina (Figura 4), di cui condivide anche diverse particolarità chimico-fisiche, ma la sua dolcezza è decisamente più gra-devole ed è diffusamente impiegato (Melis, 2012).

L’acesulfame K si presenta come una polvere bianca cristallina, inodo-re, molto solubile in acqua e poco solubile in etanolo, stabile alle tempe-rature elevate; infatti, ha il vantaggio di rimanere stabile durante i pro-cessi di lavorazione e ha un potere dolcificante fino a 200 volte superio-re a quello del saccarosio. E’ idoneo anche, essendo termostabile, per i prodotti dolciari che devono essere sottoposti a cottura.

Figura 4: Formula chimica dell’acesulfame k (Immagine presa dal web).

Possiede un sapore dolce deciso e netto, e conferisce agli alimenti un retrogusto amaro solo nel caso in cui sia utilizzato ad alte

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ni, comunque per ovviare a questo inconveniente è frequentemente im-piegato in sinergia conaltri edulcoranti intensivi (Tabella 5).

Così, ad esempio, viene associato all’aspartame negli yogurt alla frutta e in varie bibite.

E’ una sostanza priva di rischi per la salute, infatti non sono stati evi-denziati problemi legati ai suoi prodotti di degradazione, dal momento che viene assorbito a livello intestinale ed escreto immodificato per via urinaria. Non bisogna trascurare però il fatto che, come tutti i dolcificanti di sintesi, tranne l’aspartame, va a toccare i delicati meccanismi di con-trollo dell’insulina, causando un aumento della sua produzione (azione insulinotropica) (Melis, 2012). Acesulfame-dolcificante associato Sinergia Acesulfame-Aspartame >40% Acesulfame-Sciroppo ad alto titolo Fruttosio >20% Acesulfame-Ciclammato >25% Acesulfame-Sciroppo di glu-cosio >15% Acesulfame-Neoesperidina >25% Acesulfame-Saccarosio >13%

Tabella 5: Potere sinergico dell’acesulfame in associazione (Melis, 2012).

Ciclammati: edulcorante con la sigla europea E 952. I ciclammati sono dolcificanti intensivi di sintesi che derivano dai sali di sodio e di calcio dell’acido ciclammico (Figura 5).

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