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Danno polmonare da ventilazione nel grave cerebroleso acuto

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SOMMARIO

INTRODUZIONE ... 2

DANNO CEREBRALE ACUTO ... 5

L’ARDS ... 14

L’ARDS NEL PAZIENTE CRITICO NEUROLOGICO ... 18

MATERIALI E METODI ... 27

RISULTATI E CONCLUSIONI ... 30

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INTRODUZIONE

Diversi studi hanno evidenziato come fin dall’ammissione i pazienti con danno neurologico acuto presentino alterati meccanismi respiratori. Si ha un basso rapporto P/F ed un suo peggioramento nei cinque giorni successivi anche in quei pazienti senza evidenti alterazioni radiografiche che soddisfino i criteri per la diagnosi di ARDS [15]. Le più importanti complicanze polmonari in questi pazienti sono [14]:

 Polmonite (che può colpire più del 60% di tali pazienti e può essere legata ad inalazione o a VAP)

 ARDS (che si sviluppa in un 20-30% di tali pazienti)

 Embolia polmonare

 Complicanze collegate al trauma polmonare diretto (in quanto nei pazienti con trauma cranico spesso è associato anche un trauma polmonare come fratture costali, contusioni polmonari, pneumotorace / pneumomediastino, emotorace / emomediastino)

Il danno neurologico acuto, il basso grado di coscienza, l’incapacità di proteggere le vie aeree, l’alterazione delle barriere di difesa naturali, la ridotta motilità, e gli insulti fisiopatologici secondari al danno cerebrale acuto ma anche il danno legato alla strategia ventilatoria sono le principali cause di complicanze polmonari nei pazienti critici neurologici.

Nel paziente cosciente la pervietà delle vie aeree superiori è garantita da un appropriato e persistente tono dei muscoli dilatatori delle vie aeree superiori e da multeplici riflessi. Una disfunzione neurologica tale da dare perdita di coscienza può portare alla perdita di tali riflessi e mettere a rischio la pervietà delle vie aeree. A ciò si deve aggiungere che nei pazienti con perdita di coscienza

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l’ostruzione del faringe causata dalla caduta all’indietro della lingua è la principale causa di chiusura delle vie aeree. La perdita dei riflessi può portare inoltre a inalazione con lo sviluppo successivo di complicanze quali polmonite e ARDS. Oltre a ciò per permettere un’adeguata inspirazione ed espirazione il paziente deve essere capace di generare una pressione adeguata tale da vincere la resistenza delle vie aeree e l’elastanza polmonare. Deve pertanto avere una compliance polmonare sufficiente, accompagnata da una contrazione muscolare ritmica e controllata. Tale controllo della ventilazione origina nei neuroni dorsali e ventrali del midollo allungato (centro del respiro). Questi neuroni generano un ritmo respiratorio intrinseco che è azionato mediante i nervi frenici ed intercostali. Modificazioni di tale ritmo possono essere indotte da centri situati a monte, inclusi il ponte, la corteccia ma anche dall’impulso afferente proveniente dai recettori di stiramento polmonari (riflesso di Hering-Breuer) e chemocettori periferici. Insulti a carico del SNC possono alterare questo sistema e portare ad un aumento o riduzione del drive respiratorio con conseguente iper- o ipoventilazione. Anche con un adeguato stimolo nervoso proveniente dai centri respiratori, gli impulsi devono raggiungere la giunzione neuromuscolare e dare una contrazione muscolare efficace. Questo sforzo muscolare deve essere tale da superare le forze elastiche (elastanza) e non elastiche (resistenza delle vie aeree) per permettere un aumento del volume polmonare e creare una pressione negativa [17].

Nei gravi cerebrolesi acuti le alterazioni della compliance possono essere secondarie a inalazione, polmonite, edema neurogeno, pneumotorace, contusioni polmonari, ARDS. Una riduzione della compliance aumenterà pertanto il lavoro respiratorio e porterà ad una rapida insufficienza respiratoria per esaurimento muscolare [17].

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L’obbiettivo nel trattamento di questi pazienti è quello di prevenire, trattare e ottimizzare l’ipossiemia e mantenere la disponibilità di ossigeno a livelli adeguati per limitare l’insulto neurologico secondario [14].

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DANNO CEREBRALE ACUTO

Il danno cerebrale tipicamente avviene in due stadi: primario e secondario. Tali stadi si differenziano in base al meccanismo che genera il danno e alla tempistica con cui il danno insorge. Il danno primario (Tab. 1) si riferisce al danno iniziale causato dall’evento scatenante da cui ne risulta un danno focale o diffuso, la cui diagnosi può generalmente essere fatta radiograficamente (ad eccezione del danno assonale diffuso per la cui diagnosi è necessaria una RMN). Esso può essere traumatico o non traumatico. La forma traumatica si verifica quando una forza esterna agisce dando origine a lesioni vascolari (quali ematoma epidurale, sottodurale acuto o subacuto su cronico, emorragia subaracnoidea, emorragia intracerebrale) e/o lesioni parenchimali (quali contusione, danno assonale diffuso). La forma atraumatica invece avviene in maniera spontanea senza la sovrapposizione di forze esterne ma prevede una certa predisposizione dei pazienti: si possono quindi osservare lesioni vascolari in pazienti con ipertensione arteriosa, malformazioni artero-venose , aneurismi (che generalmente portano ad ESA, emorragia intracerebrale); oppure si possono osservare lesioni ischemiche con successivo edema perilesionale in pazienti ipertesi, diabetici, vasculopatici, fumatori , ipercolesterolemici.

Il danno secondario è espressione della neuroinfiammazione ed avviene giorni o settimane dall’evento iniziale [19]. A seguito di un danno cerebrale acuto il cervello è provato da eventi interni ed esterni che agiscono come agenti stressanti: eccitotossicità glutammato dipendente, stress ossidativo, eventi infiammatori, squilibri elettrolitici e metabolici, meccanismi proteolitici, disfunzione mitocondriale, alterazioni della BEE da una parte e ipossia, ipotensione e ipercapnia dall’altra. (Fig. 1) [20].

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Tabella 1 Danno neurologico acuto

La neuroinfiammazione agisce attraverso l’attivazione di citochine (sia pro- che anti-infiammatorie quali le citochine appartenenti alla famiglia delle IL, TNF, interferoni e vari fattori di crescita) e della cascata del complemento ma anche attraverso l’attivazione, citochina mediata, delle cellule del sistema immunitario sia localmente (la perdita dell’integrità della BEE favorisce il passaggio delle cellule del sistema immunitario, ne deriva che il cervello perde la sua caratteristica di “organo immunologicamente privilegiato”) che a livello sistemico determinando disfunzioni organiche, neurologiche e non [16,18,19].

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Figura 1 Patofisiologia del danno cerebrale acuto

L’insufficienza respiratoria è riconosciuta come la più comune disfunzione sistemica extracranica (si riscontra nel 20-25% di tali pazienti) seguita da alterazioni cardio-vascolari, coagulopatia, sepsi e insufficienza renale fino ad arrivare ad una insufficienza multi-organo (MOF) nei casi più gravi [18].

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Approfondimento: biomarkers di danno cerebrale

I più comuni ed utilizzati biomarkers di danno cerebrale acuto includono S100B, NSE (neuron specific enolase), e MBP (myelin basic protein). Tali markers riflettono l’estensione del danno tissutale e sono pertanto dei buoni indici per l’outcome a lungo termine dei pazienti con danno cerebrale acuto. L’S100B è il marker più studiato tra questi; è una proteina a basso peso molecolare legante il calcio, secreta dagli astrociti. Normalmente tale proteina è scarsamente rappresentata nel LCR e nel siero ma a seguito di un danno cerebrale acuto i livelli di tale proteina nel LCR e nel siero aumentano significativamente. Tuttavia la S100B non è un marker di danno cerebrale acuto in quanto non attraversa rapidamente la barriera ematoencefalica e la si può ritrovare nel sangue di un paziente con trauma periferico senza danno cerebrale. Nella ricerca di marker più adatti altre molecole sono state considerate, tra queste GFAP (glial fibrillary acid protein), NSE (neuron specific enolase), MPB (myelin basic protein), BDPs (α-II-spectrin breakdown products), ubiquitin C-terminal hydrolase-L1 ed altre citochine [12].

IL-1 appartiene alla famiglia di citochine che giocano un ruolo chiave nella risposta infiammatoria sia centrale che periferica. Essa esplica i suoi effetti principali agendo sul recettore IL-1R, che è espresso su molti tipi cellulari cerebrali. Ci sono però evidenze che IL-1 possa agire anche in maniera diversa, come ad esempio possa avere un’azione intranucleare diretta regolando la trascrizione genica e lo splicing dell’ RNA. La famiglia delle IL-1 comprende gli agonisti IL-1α, IL-1β, l’antagonista IL-1ra e l’agonista IL-18.

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Tra questi l’ IL-1β è la più rappresentata nel danno cranico; è una citochina pro-infiammatoria ed è implicata nel rilascio della fosfolipasi 2, di prostaglandine, e nell’attivazione della ciclo ossigenasi 2.

Tale citochina è quindi principalmente implicata nella regolazione del rilascio di altre citochine ma si è visto essere implicata anche nell’apoptosi, nell’adesione dei leucociti alle cellule endoteliali, nell’alterazione della barriera ematoencefalica e nella formazione dell’edema.

TNFα è una potente citochina pro-infiammatoria prodotta dagli astrociti e dalle cellule della microglia ed è prodotto precocemente in risposta al danno neuronale.

GM-CSF è un’altra citochina pro-infiammatoria espressa nei neuroni, nelle cellule della microglia e negli astrociti.

IL-10 è una citochina che ha un potente effetto anti-infiammatorio; agisce inibendo i mediatori infiammatori come IL-1β e TNFα principalmente ma anche IL-1α, GM-CSF, IL-6, IL-8, IL-12 E IL-18. Questa citochina potrebbe giocare un ruolo importante nella fase tardiva dopo il danno cerebrale acuto.

IL-6 nel cervello è espressa negli astrociti, nelle cellule della microglia e nei neuroni. Essa inibisce la sintesi del TNF, induce la sintesi del NGF (nerve grow factor), inibisce la tossicità mediata dal NMDA e promuove la differenziazione e la sopravvivenza dei neuroni. Ciò suggerisce che la sua espressione è benefica a seguito di un danno neuronale. Tuttavia la sua limitata capacità di superare la BEE ne limita il suo utilizzo come marker ematico ma lascia spazio per un suo utilizzo con la tecnica di microdialisi.

IL-8 è una chemochina secreta dalle cellule gliali, macrofagi e cellule endoteliali.

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Un ruolo importante nello sviluppo del danno cerebrale secondario sembra essere giocato anche dall’aumento dell’attività simpatica (simpathetic storm) con elevati livelli di catecolamine nel sangue periferico associati ad aumentato rilascio di norepinefrina in prossimità degli organi da parte delle terminazioni nervose simpatiche [16,18,19].

Per fronteggiare a questo carico stressante, il corpo umano si sforza di mantenere le funzioni cerebrali entro un certo limite (tramite l’allostasi), allo scopo di garantire l’omeostasi cerebrale. Quando parliamo di omeostasi cerebrale ci riferiamo al mantenimento di valori accettabili di parametri fisiologici quali metabolismo ed ossigenazione cerebrale, flusso ematico cerebrale, equilibrio acido-base cerebrale e autoregolazione. Con il termine “allostasi” si indica quel processo attivo che permette di raggiungere una stabilità attraverso dei cambiamenti, quali la produzione di ormoni e mediatori. Sia il cervello in via di sviluppo che quello adulto mostrano un certo grado di plasticità strutturale e neurochimica nell’adattamento a situazioni stressanti e questa viene detta plasticità cerebrale stress- e allostasi-indotta. Le aeree

E’ un importante mediatore per l’attivazione e la chemiotassi dei neutrofili. Essa è rilasciata dagli astrociti in risposta alle citochine infiammatorie IL-1β e TNFα. Si è visto come i suoi livelli siano più bassi nel plasma dei sopravvissuti rispetto ai deceduti.

MCP-1 (monocyte chemoattractant protein-1) è una chemochina prodotta dagli astrociti nel giro di alcune ore dal danno; essa correla con l’aumento della reclutazione dei macrofagi e quindi con il danno neurologico secondario [12].

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coinvolte in questa plasticità includono regioni della corteccia prefrontale, dell’ippocampo e dell’amigdala.

La cura intensiva di questi pazienti ha lo scopo di:

 Prevenire e trattare il danno secondario

 Riconoscere e trattare i fattori che alterano l’omeostasi cerebrale

Per far ciò l’intensivista può agire su una serie di variabili sistemiche quali: funzione emodinamica e respiratoria, temperatura corporea, equilibrio elettrolitico, osmolalità, etc. [16,18,19].

Un continuo monitoraggio intensivo di tali pazienti permette di avere informazioni utili a raggiungere tali scopi. Il monitoraggio della pressione intracranica è la pratica standard in molti centri di neurochirurgia. Sono stati utilizzati altri monitoraggi della funzione cerebrale quali: ossimetria tissutale cerebrale, monitoraggio del flusso ematico cerebrale, microdialisi, monitoraggio della temperatura cerebrale ed elettroencefalografia in continuo. Tali monitoraggi tuttavia danno per lo più misure focali, sono invasivi ed è richiesto personale altamente formato sia per il loro utilizzo che per l’interpretazione dei loro dati [20].

La ventilazione meccanica è la componente principale del trattamento precoce del danno cerebrale acuto migliorando gli scambi gassosi e permettendo uno stretto controllo dei parametri respiratori, una riduzione del lavoro muscolare e del consumo metabolico. Il principale obbiettivo durante la ventilazione meccanica di un paziente con un danno cerebrale acuto è quello di permettere la neuroprotezione, evitando l’insorgenza di un insulto secondario.

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Il target della ventilazione meccanica in questi pazienti è dato pertanto da [16,18]:

L’uso di elevati volumi tidalici per mantenere una moderata ipocapnia (PaCO2 30-35 mmHg) nel trattamento dell’ipertensione endocranica

L’uso di bassi livelli di PEEP per ottimizzare l’ossigenazione e preservare il drenaggio venoso cerebrale

Nella gestione precoce del danno cerebrale acuto sono stati studiati altri trattamenti non chirurgici tipo: iperossia normobarica / iperbarica e ipotermia terapeutica (anche se non ci sono sufficienti evidenze per raccomandarne il loro utilizzo routinario), corticosteroidi ev ( indicati solo nei pazienti con insufficienza ipofisaria), magnesio ev ( effetti benefici su modelli animali ma associato a peggior outcome e maggior tasso di mortalità nell’uomo), statine (inibiscono la biosintesi del colesterolo, riducono l’infiammazione, proteggono i neuroni dall’effetto eccitotossico e ne riducono l’apoptosi), progesterone (un effetto neuroprotettivo è stato dimostrato in studi su animali: sembrerebbe inibire l’effetto tossico del glutammato, la morte cellulare e l’infiammazione e inoltre sembrerebbe regolare l’espressione delle acquaporine, che potrebbero avere un ruolo nello sviluppo dell’edema cerebrale), ciclosporina A (è un immunosoppressore che su modelli animali attenuerebbe l’insufficienza mitocondriale dopo un danno cerebrale, diminuendo lo stress ossidativo e la perossidazione lipidica), eritropoietina (avrebbe un effetto neuroprotettivo e neurorigenerativo attraverso la riduzione dell’apoptosi, dell’infiammazione, dello stress ossidativo e dell’effetto citotossico, diminuirebbe l’accumulo di leucociti a livello cerebrale e promuoverebbe l’angiogenesi e la neurogenesi. Studi clinici sono in corso in USA e Australia), acido tranexamico (antifibrinolitico che potrebbe ridurre la mortalità e morbidità dopo un danno cerebrale traumatico). Oltre a ciò si possono

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distinguere trattamenti chirurgici quali: evacuazione ematomi intracranici, craniotomia decompressiva e posizionamento DVE [20].

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L’ARDS

Secondo la definizione di Berlin del 2011, l’ARDS è un danno infiammatorio polmonare acuto e diffuso che porta ad un aumento della permeabilità vascolare polmonare, un aumento del peso polmonare ed ad una perdita del parenchima polmonare ventilato. Le caratteristiche cliniche sono l’ipossiemia e le opacità radiografiche bilaterali associate all’aumento della commistione venosa (per l’aumento dello shunt polmonare), aumento dello spazio morto fisiologico e diminuzione della compliance polmonare. La caratteristica morfologica della fase acuta (Fig. 2) è il danno alveolare diffuso caratterizzato da perdita dell’integrità della barriera alveolo-capillare, dall’edema ricco di proteine sia a livello alveolare che interstiziale, dalla formazione di membrane ialine a livello alveolare, dalla disfunzione e deplezione del surfactante che causa collasso delle unità polmonari. La sua insorgenza avviene entro una settimana dall’insulto clinico conosciuto o dal nuovo peggioramento dei sintomi respiratori. La seconda fase fibro-proliferativa coinvolge il reclutamento dei mio-fibroblasti che secernono una eccessiva quantità di matrice extra-cellulare e promuovono la guarigione per fibrosi. Il criterio basato sulla pressione di incuneamento polmonare è stato rimosso dalla definizione e quindi rientrano nella definizione anche quei quadri di insufficienza respiratoria non totalmente spiegati dall’insufficienza cardiaca o dal sovraccarico di liquidi. Anche il termine ALI è stato rimosso dalla definizione ed il rapporto P/F deve essere valutato con PEEP e CPAP maggiore o uguale a 5 cmH2O. Ciò permette di distinguere tre classi di gravità dell’ARDS: lieve (se tale rapporto è tra 200 e 300 mmHg), moderata (se è tra 100 e 200 mmHg) e grave (se è minore di 100 mmHg).

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Figura 2 Fase acuta dell’ ARDS

La compliance del sistema respiratorio riflette il grado di perdita del volume polmonare ed è solitamente minore di 40 ml/cmH2O nella forma severa. L’aumento dello spazio morto è comune nei pazienti con ARDS ed è associato con l’aumento della mortalità ma, poiché la sua misurazione è variabile, viene considerata in tale definizione il volume minuto standardizzato ad una PaCO2 di 40 mmHg (VE corr) che risulta maggiore di 10 lt/min nella forma severa. La mortalità aumenta con l’aumentare del grado dell’ARDS: si passa da un 27% nell’ARDS lieve, ad un 32% nel moderato fino ad un 45% nel severo. Allo stesso modo la mediana dei giorni liberi da ventilatore diminuisce all’aumentare del grado: si passa da 20 giorni nel lieve a 16 giorni nel moderato, fino a 1

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giorno nel severo; mentre la mediana della durata della ventilazione meccanica aumenta all’aumentare del grado: 5 giorni nel lieve, 7 giorni nel moderato e 9 giorni nel severo. Il 29% dei pazienti con lieve ARDS all’insorgenza progredisce nella forma moderata e il 4% nella forma severa entro 7 giorni; il 13% dei pazienti con forma moderata all’insorgenza progredisce in severa entro 7giorni [1,2,4,11,13].

Molti fattori di rischio per ARDS si riscontrano frequentemente nelle terapie intensive tra cui: (1) fattori legati ai pazienti, come età, razza, patologie polmonari restrittive, ipertensione arteriosa, inalazione pre-intubazione in pazienti con perdita di coscienza (anche senza polmonite), traumi (tra cui sia traumi toracici come contusioni polmonari, ma anche altri tipi di traumi, come i traumi cranici isolati); (2) fattori correlati alla ventilazione, come la pressione delle vie aeree, la VAP; e (3) fattori non correlati alla ventilazione come trasfusioni multiple, bilancio dei fluidi, sepsi, utilizzo di sostanze vasoattive etc. La gestione ottimale dell’ARDS richiede una diagnosi precoce, il trattamento delle cause scatenanti e la prevenzione del danno secondario. Recenti studi indicano come decisioni terapeutiche prese precocemente possono migliorare l’esito di tali pazienti. La più efficace strategia preventiva potrebbe coinvolgere un approccio multimodale caratterizzato per esempio da ventilazione protettiva con bassi volumi correnti per ridurre il VALI (ventilator-associated lung injury), un precoce ripristino volemico, etc.

Un volume tidalico di 6 ml/kg PBW (predicted body weight) è associato ad una riduzione del rischio assoluto di sviluppare ARDS del 10,9% se paragonato ad un volume tidalico pari a 10 ml/kg PBW [1, 2, 3,9,13]. Tuttavia si è visto come anche una ventilazione con volume tidalico di 6 ml/kg PBW associato a pressioni di plateau di 30 cmH2O possa causare iperinflazione polmonare e VALI e possa anche non garantire un adeguato scambio dei gas [13].

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Per questo motivo sono state proposte diverse strategie che possano essere affiancate alla ventilazione protettiva come l’utilizzo di alti livelli di PEEP, la posizione prona, il blocco neuromuscolare, la HFOV (high frequency oscillatory ventilation), e il supporto extracorporeo (ECMO, extracorporeal membrane oxygenation e ECCO2R, extracorporeal carbon dioxide removal).

L’utilizzo di alti livelli di PEEP associati ad una ventilazione protettiva (la cosiddetta “open lung” strategy) possono migliorare l’ossigenazione e prevenire l’atelectrauma. Tuttavia non è ancora chiaro quale sia la modalità migliore per regolare la PEEP al letto del paziente. I pazienti che sembrano beneficiare di più degli alti livelli di PEEP sembrano quelli che hanno un danno polmonare maggiore e una severa ipossiemia.

Per quanto concerne l’utilizzo di agenti bloccanti neuro-muscolari in infusione continua si è visto come questi possano contribuire a garantire l’adattamento del paziente al ventilatore prevenendo così il collasso alveolare e la sovra-distensione derivanti dall’asincronia paziente-ventilatore. Tuttavia questo accorgimento non dovrebbe essere utilizzato per più di 48h a causa dell’elevato rischio di CIP (Critical Illness Polyneuropathy) e CIM (Critical Illness Myopathy) [13].

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L’ARDS NEL PAZIENTE CRITICO NEUROLOGICO

L’ ARDS è molto comune nei pazienti critici neurologici ed è responsabile di un aumento della mortalità e soprattutto riduzione dei giorni liberi da ventilatore, aumento della degenza ospedaliera e della morbidità; quest’ultima include varie alterazioni neuropsicologiche come ad es. declino cognitivo e depressione, ma anche insufficienza d’organo (non solo polmonare), diminuzione della qualità della vita etc. [3,4,9].

L’ARDS è stata riportata nel 25% dei pazienti con danno cerebrale traumatico isolato, così come nel 20-30% dei pazienti con ESA. Qualsiasi tipo di danno cerebrale acuto può innescare l’ARDS, ma ancor più la risposta infiammatoria sistemica (SIRS) che si può sviluppare sia precocemente (al secondo o terzo giorno dall’inizio della ventilazione meccanica) che tardivamente ( al settimo/ottavo giorno dall’inizio della ventilazione meccanica) secondo una distribuzione bimodale [3,4,5,14].

La sua patofisiologia nei pazienti con danno cerebrale è complessa: prima del 2009 si dava credito alla “blast injury theory”. Tale teoria proponeva che l’aumento improvviso della PIC causasse una “sympathetic storm” che inducesse un’azione combinata tra meccanismi idrostatici e aumento della permeabilità dei vasi polmonari con formazione del cosiddetto edema polmonare neurogeno. Dal 2009, a seguito dell’osservazione che una risposta infiammatoria sistemica gioca un ruolo cruciale nello sviluppo del danno polmonare associato al danno cerebrale, è stato proposto un “double hit model” (Fig. 3). In questo modello il primo “hit” è dato dalla cascata adrenergica e dall’infiammazione sistemica che rendono il polmone più suscettibile al danno, mentre il secondo “hit” è il risultato di variabili non neurologiche come infezioni, trasfusioni, ventilazione meccanica, uso di farmaci vasoattivi, procedure chirurgiche.

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Figura 3 Fisiopatologia dell’ARDS nel trauma cranico isolato: “double hit model”

Fattori di rischio per lo sviluppo di ARDS nei pazienti critici neurologici sarebbero quindi: la severità del danno neurologico iniziale (basso GCS), l’ipertensione indotta durante la degenza per mantenere una elevata CPP (attraverso l’uso di sostanze vasoattive), ma anche fattori extracranici come lo sviluppo di sepsi, la giovane età, il sesso maschile, la razza bianca, fumatori, anamnesi positiva per DM, BPCO, ipertensione arteriosa e abuso di sostanze. Tuttavia anche la tarda età rappresenterebbe un fattore di rischio aggiuntivo per lo sviluppo di ARDS; essa è infatti associata a funzioni fisiologiche ed immunologiche compromesse, anche in assenza di malattie, con uno stato basale

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infiammatorio da cui ne risulta una maggior suscettibilità ad infezioni sia batteriche che virali e ad altri tipi di insulti [3,4,7,14,15].

Entro pochi minuti da un danno cerebrale acuto si innescherebbe una cascata adrenergica (si ritiene che le zone trigger includano l’ipotalamo ed il midollo, in particolare le aree A1 e A5, i nuclei del tratto solitario e l’area postrema) che porterebbe allo sviluppo di una robusta risposta infiammatoria. La complessità di questi meccanismi coinvolgerebbe una componente cellulare data da cellule cerebrali, quali cellule gliali (che sembrerebbero rimanere attivate per diversi mesi dal danno cerebrale), cellule della microglia, astrociti ma anche da leucociti provenienti dal torrente ematico associate ad una componente chimica, costituita da citochine pro-infiammatorie (IL-1, TNF, IL-6), citochine anti-infiammatorie (IL-4, IL-10, TGFβ) e citochine chemiotattiche o chemochine (IL-8) che guidano l’accumulo di cellule immunitarie parenchimali e periferiche (neutrofili, linfociti T e B) nella zona cerebrale danneggiata e a livello sistemico. Questa complessa interazione tra citochine e i vari tipi cellulari chiamata “neuroinfiammazione” porterebbe ad una serie di eventi potenzialmente dannosi, responsabili del danno secondario, cerebrale e non, tra cui stress ossidativo ed eccitotossicità ma anche eventi riparativi che includono l’angiogenesi, la neurogenesi e la cicatrizzazione che sarebbero responsabili della neuroriparazione. Anche la cascata adrenergica sembrerebbe contribuire a questi eventi attivando l’NFkB nei macrofagi, con conseguente produzione di citochine infiammatorie soprattutto a livello polmonare in modo dose dipendente. Questi mediatori pro-infiammatori modulerebbero l’espressione delle molecole di adesione, quali ICAM-1 con conseguente infiltrazione dei neutrofili, attivazione dei macrofagi a livello alveolare e aumentata produzione polmonare di leucotriene B4 con conseguente danno strutturale degli pneumociti di tipo II. L’attivazione acuta del sistema immunitario è poi seguita da un’immunosoppressione (responsabile della suscettibilità secondaria dei tessuti,

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soprattutto a livello polmonare: second “hit”). Questa shifterebbe la risposta immunitaria da Th1 a Th2 per proteggere il cervello dalla risposta immune adattativa. Questo stesso meccanismo protettivo contribuisce anche a rendere il polmone più suscettibile ai successivi insulti secondari, che altrimenti sarebbero stati innocui. Questi successivi insulti potrebbero superare lo shift e ristabilire la risposta immunitaria Th1 direttamente contro gli antigeni del SNC e portare ad un danno cerebrale secondario [3,4,7,8,12].

Così come è stata provata l’esistenza di una interazione cervello-polmone a seguito di un danno acuto cerebrale nello sviluppo dell’ARDS è anche vero il contrario, ovvero esiste una interazione polmone-cervello durante la ventilazione meccanica che è responsabile dei principali disordini neurologici che possono svilupparsi nei pazienti critici, anche non necessariamente neurologici. Questi sono alterazioni cognitive, ma anche sintomi psicopatologici, come ansia e depressione. Recenti studi hanno mostrato che pazienti sottoposti a ventilazione meccanica spesso hanno episodi di asincronia nella loro interazione col ventilatore. Il modello neurofisiologico di risposta a questo discomfort respiratorio (dispnea) coinvolge stimoli neurali che raggiungono la corteccia somato-sensoriale e sono di diversa origine: impulsi provenienti dai centri motori corticali e dal tronco encefalico; afferenze provenienti dai meccanorecettori situati nei muscoli respiratori, nei polmoni, nelle vie aeree e nel torace; una diminuzione dei riflessi inibitori del nervo vago e delle vie afferenti dei nervi intercostali sul centro respiratorio secondari alla riduzione del TV nella ventilazione protettiva ed infine l’attivazione del sistema limbico e paralimbico. Tutto ciò risulta nella generazione di una serie di alterazioni neuropsicologiche e di delirio nei pazienti critici sottoposti a ventilazione meccanica. L’eziologia di tali alterazioni sembrerebbe legata all’ infiltrazione di monociti e macrofagi nei polmoni con alterazioni della membrana alveolo-capillare e al rilascio dei mediatori dell’infiammazione come

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le citochine (IL-6, TNFα, IL-1β MCP-1), che hanno come target altri organi, incluso il cervello. Ciò porterebbe ad una alterazione della BEE, con rilascio di PGE2 e NO, e a modifiche del flusso ematico cerebrale con alterazioni neuronali di natura prevalentemente ipossica. La regione che maggiormente risente dell’ipossia a livello cerebrale è l’ippocampo, struttura che è strettamente legata all’apprendimento e alla memoria. Altre alterazioni consisterebbero nello slargamento dei ventricoli cerebrali e nell’atrofia generalizzata da compressione[10,19].

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REGIME TERAPEUTICO NELL’ARDS DEL PZ CRITICO

NEUROLOGICO

Mentre uno stretto controllo dei livelli ematici di CO2 e O2 rappresentano le priorità nei pazienti con danno cerebrale acuto, promuovendo quindi l’utilizzo di una strategia ventilatoria basata su elevati volumi correnti, bassi livelli di PEEP ed elevata FiO2, il trattamento ottimale dell’ARDS prevede una strategia ventilatoria protettiva (bassi volumi correnti al fronte di una più elevata frequenza respiratoria ed elevati livelli di PEEP) consentendo un certo grado di ipercapnia (ipercapnia permissiva) per proteggere il polmone da ulteriori stimoli nocivi nel bel mezzo del processo ripartivo a seguito del primo “hit”.

Il razionale di ridurre la CO2 ematica nel danno cranico acuto sta nella riduzione della ICP legata ad una riduzione del volume ematico cerebrale. Gli aumenti infatti della PaCO2 causerebbero vasodilatazione delle arterie cerebrali e ciò potrebbe causare un aumento della ICP, se la compliance intracranica è ridotta (Fig. 4). Alcuni studi hanno tuttavia dimostrato che una eccessiva iperventilazione potrebbe avere effetti deleteri piuttosto che benefici in tali pazienti, contribuendo allo sviluppo del danno cerebrale secondario [3,4,5]. Identificare ed ottenere una strategia ventilatoria sicura, che tenga conto sia della neuro-protezione che della protezione polmonare, rappresenta una sfida [16]. E’ necessario quindi stabilire un regime terapeutico che permetta la combinazione di una ventilazione polmonare protettiva associato alla prevenzione dell’ipercapnia, sia nella prevenzione che nel trattamento dell’ARDS [3,4,5]. Tuttavia, poiché l’ARDS può insorgere anche dopo diversi giorni dal danno cerebrale acuto, non sempre è possibile attuare una ventilazione protettiva preventiva, soprattutto in quei pazienti che vengono ventilati con pressioni di supporto.

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Figura 4 Compliance cerebrale

In questi pazienti infatti il volume corrente è più elevato rispetto ad una ventilazione protettiva, ma ciò non significa che abbiano un maggiore rischio di sviluppare ARDS [3,4,5].

Un’altra priorità per la neuroprotezione dovrebbe includere l’ottimizzazione della disponibilità di ossigeno al fine di prevenire l’ipossiemia (PaO2< 60 mmHg o SpO2<90%) e quindi i danni neurologici secondari. L’ipossiemia si verifica nel 22% di tali pazienti ed è associata ad un significativo aumento della mortalità e morbidità [3,4]. L’ottimale livello di ossigenazione può essere raggiunto utilizzando un’adeguata FiO2 e attraverso l’applicazione della PEEP. Gli effetti benefici di una supplementare FiO2, che viene comunemente applicata nei pazienti critici neurologici, sono ancora controversi. Alcuni studi dimostrano come all’aumentare della FiO2 è associato un progressivo aumento della concentrazione cerebrale di glutammato (misurato grazie alla tecnica di microdialisi cerebrale) soprattutto per valori di PaO2>150 mmHg (iperossia). Il glutammato è il maggior neurotrasmettitore eccitatorio (80-90% delle sinapsi cerebrali) e il mantenimento dei suoi livelli cerebrali è essenziale in un danno

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cerebrale. A seguito di un danno cerebrale acuto i livelli di glutamato a livello sinaptico possono aumentare drammaticamente, tanto che gli astrociti non riescono a rimuovere tale eccesso e ciò può portare ad un danno eccitotossico. Una iperossigenazione potrebbe aggravare il danno cerebrale secondario in tali pazienti probabilmente attraverso un aumento dello stress ossidativo, ma potrebbero anche essere implicati la vasocostrizione cerebrale e l’esacerbazione della neuroinfiammazione. Uno stretto controllo dell’ossigenazione sistemica, evitando elevati livelli di FiO2 e di conseguenza di PaO2 (FiO2>60% e PaO2>150 mmHg), può pertanto essere raccomandata in tali pazienti [4,6]. La PEEP favorisce il reclutamento degli alveoli collassati, migliora l’ossigenazione arteriosa e riduce l’elastanza del sistema respiratorio, aumentandone così la compliance. Tuttavia la PEEP potrebbe ridurre la circolazione cerebrale, attraverso meccanismi sia emodinamici che CO2 mediati, e contribuire anch’essa allo sviluppo del danno cerebrale secondario. Pertanto l’effetto della PEEP sull’emodinamica cerebrale dovrebbe essere monitorato in questi pazienti e utilizzato per regolare la sua applicazione. L’euvolemia dovrebbe essere raggiunta e mantenuta per minimizzare gli effetti della PEEP sulla pressione arteriosa e quindi sulla CPP. Il valore della PEEP dovrebbe essere minore dell’ICP per minimizzare l’interferenza sull’efflusso venoso: la PEEP provoca infatti un aumento della pressione nell’atrio destro dovuto alla passiva trasmissione della pressione pleurica (modello del resistore di Starling). Per ridurre tale effetto i pazienti dovrebbero essere mantenuti con un’inclinazione di 30°. Inoltre gli effetti della PEEP sul reclutamento / sovra-distensione polmonare dovrebbero essere attentamente monitorati valutando le variazioni di PaCO2 e PaO2. Nei pazienti con danno cerebrale acuto complicato con ARDS l’applicazione di una PEEP eccessiva può portare a sovra-distensione polmonare, contribuendo all’aumento dello spazio morto e della PaCO2, che causa quindi vasodilatazione cerebrale. Quando invece si applica una PEEP

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adeguata, si ha un reclutamento polmonare; a questo punto la riduzione dello shunt e il miglioramento dell’ossigenazione costituiscono l’effetto predominante, mentre la riduzione della PaCO2 dovuta alla riduzione dello spazio morto è meno pronunciata e così pure la ICP e la perfusione cerebrale non cambiano significativamente [4, 15,18].

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MATERIALI E METODI

Lo scopo dello studio è valutare l’entità del danno polmonare indotto da ventilazione nei pazienti con gravi lesioni cerebrali acute (G.C.S. ≤8). I risultati ottenuti si basano sull’osservazione dei dati raccolti su 15 pazienti e ci permettono di fare delle considerazioni preliminari, utili eventualmente a sviluppare e testare in futuro un protocollo di ventilazione da utilizzare in questa tipologia di pazienti.

I dati dello studio sono stati raccolti nel reparto di Anestesia e Rianimazione VI dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana durante il periodo dal 01/01/2015 al 16/05/2015; i dati prendono in considerazione 15 pazienti con danno neurologico acuto:

 4 pz con emorragia cerebrale spontanea in sede tipica

 1 pz con emorragia cerebrale spontanea in sede atipica

 2 pz con stato di male epilettico

 7 pz con trauma cranico grave isolato associato o meno ad altre lesioni non di interesse polmonare o con minimo interesse polmonare

 1 pz con meningite/encefalite Criteri di inclusione:

Per essere inclusi i pazienti dovevano presentare i seguenti requisiti:

 danno neurologico acuto TC visibile focale o diffuso

 stato di coma di origine cerebrale

 degenza in UTI maggiore di 5 gg

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28 Criteri di esclusione:

Sono stati esclusi dallo studio i pz con i seguenti requisiti:

 trauma cranico associato a trauma polmonare grave

 ventilazione meccanica in modalità PCV nelle prime 72 h o in modalità SIMV per meno di 72h

I pazienti di età compresa tra i 25 e gli 87 anni (con una media di 55,8 aa e una mediana di 57 aa), 7 maschi e 8 femmine, tutti con un danno neurologico acuto tale da richiedere una IOT e ventilazione meccanica, sono stati esaminati durante la degenza in UTI sulla base di molteplici parametri: età, sesso, PBW, comorbidità, terapia domiciliare, giorni di degenza, GCS all’ammissione, tipo di danno neurologico acuto, GOS e esito (trasferimento in altra UTI, altro reparto o decesso). Sono inoltre stati presi in considerazione altri parametri quali interventi chirurgici a cui i pazienti sono stati sottoposti, entità della sedazione, necessità di trasfusioni, modalità e parametri di ventilazione (VT, FR, VT/PBW, PS, PEEP), valori di PIC (qualora presente il catetere intraparenchimale), PAM, PPC (qualora possibile calcolarla), utilizzo di terapie anti ipertensione endocranica quali TPS, ipertonica o mannitolo.

Per quantificare il tipo e l’entità del danno polmonare (considerando anche l’eventuale insorgenza di VAP) sono stati esaminati diversi parametri: emogasanalitici per ogni giornata di degenza quali PaCO2 minima e P/F minimo, ma anche livelli di GB, temperatura corporea (se al di sopra di 37°C), terapia antibiotica effettuata, livelli di PCT, positività o meno dei BAS/BAL. Tali parametri sono stati confrontati con VT/PBW e PEEP.

L’entità e l’evoluzione del danno cranico, nelle sue componenti primario e secondario, è stata valutata prendendo in esame il valore massimo della PIC, il

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valore minimo della PAM ed il valore minimo della PPC nelle 24h ed eventuale terapia anti ipertensione endocranica.

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RISULTATI E CONCLUSIONI

I dati raccolti dimostrano che:

 i pazienti con comorbidità cardiovascolari e polmonari simultaneamente hanno una degenza in terapia intensiva maggiore rispetto ai pazienti con solo un tipo di comorbidità ed hanno una prognosi peggiore (Fig. 5):

2 comorbidità (cv e polmonare): degenza media: 30,3 giorni (1 pz. deceduto)

1 comorbidità (cv o polmonare): degenza media: 21,5 giorni (nessun pz. deceduto)

nessuna comorbidità: degenza media: 10,6 giorni (nessun pz. deceduto)

Figura 5 Rapporto tra comorbidità cv/polmonari e degenza

3 dei 10 pz con almeno 1 comorbidità (30%) sono stati trasferiti in un’altra terapia intensiva; 6 pz (60%) sono stati trasferiti in una sub-UTI o in una riabilitazione; 1 di questi 10 pz è deceduto (10%); i pz invece che hanno avuto una prognosi migliore (trasferimento in reparto diverso da

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UTI, sub-UTI o riabilitazione) non avevano comorbidità: 4 pz su 5 (80%) trasferiti in repato; 1 pz su 5 in UTI (20%) (Fig.6)

Figura 6 Prognosi in relazione a comorbidità

 I pz che hanno avuto una maggior incidenza di P/F≤200 sono prevalentemente pz con comorbidità sia cv che polmonari (Fig. 7)

Figura 7 Rapporto tra P/F e comorbidità

 Si può osservare come tutti i pz con PIC >20 hanno almeno una comorbidità (Fig. 8) e come PIC >20 mmHg siano più frequenti in pz con maggior incidenza di P/F≤200 (Fig. 9).

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Figura 8 Rapporto tra comorbidità e PIC

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 i pz che hanno avuto una PEEP media ≥7 cm H2O (7 pz su 15: 46%) sembrerebbero aver avuto una prognosi peggiore (Fig. 10): verosimilmente la necessità di tenere una PEEP maggiore è espressione di una peggiore situazione polmonare, correlabile alla peggior prognosi.

Figura 10 Rapporto tra PEEP e prognosi

Di questi pz (con PEEP media ≥7 cmH2O) 4 sono stati trasferiti in riabilitazione/sub-UTI o altro reparto (57%), 1 pz è deceduto (14%), 2 pz sono stati trasferiti in altra rianimazione (29%).

Dei restanti 8 pz (con PEEP MEDIA <7) 2 sono stati trasferiti in altra rianimazione (25%), gli altri 6 sono stati trasferiti in riabilitazione/ sub-UTI o altro reparto (75%).

In relazione al quesito oggetto dello studio abbiamo messo in relazione il possibile danno polmonare da ventilazione indotto da modalità ventilatorie protettive per il cervello:

 un volume tidalico superiore a 8 ml/kg, determinato dalla necessità di tenere una PaCO2 tale da non inficiare la pressione intracranica

 una ventilazione con PEEP tendenzialmente bassa, inferiore a 7 cm H2O, impostata per prevenire un eccessivo incremento della pressione media

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intratoracica che avrebbe determinato un possibile ostacolo al deflusso venoso cerebrale

Un altro elemento di danno polmonare durante ventilazione invasiva del pz con grave cerebrolesione acquisita anche se non direttamente correlato alla modalità di ventilazione è l’elevato rischio di sviluppo di VAP cui un polmone “mal ventilato” può essere ulteriormente predisposto.

Dalla sottostante tabella (Tab. 2) possiamo osservare come i pazienti sottoposti ad un VT/PBW ≥10 ml/kg hanno più frequentemente valori minimi di P/F<200 (3pz su 3: 100%) rispetto ai pazienti ventilati con VT/PBW<10 ml/kg (7 pz su 12: 58,3%); i pazienti con valori minimi di PaCO2 <27 mmHg hanno più frequentemente valori minimi di P/F<200 (5 pz su 7: 71%) rispetto a quelli con valori minimi di PaCO2 >27mmHg (5 pz su 8: 63%); i pz che hanno almeno un valore di PIC massima ≤9 (4 pz su 6: 67%) hanno meno frequentemente valori minimi di P/F<200 rispetto ai pz che hanno tutti i valori di PIC massima >9 (2 pz su 2: 100%); pazienti con una PEEP minima ≤5 cmH2O hanno meno frequentemente valori minimi di P/F <200 (5 pz su 9: 56%) rispetto a quelli con PEEP minima >5 cmH2O (5 pz su 6: 83%).

Per quanto riguarda lo sviluppo di VAP si può vedere come i pz con un VT/PBW >10ml/kg hanno la stessa frequenza di VAP (1 pz su 3: 33%) rispetto a quelli con un VT/PBW<10ml/kg (4 pz su 12: 33%); mentre i pz con PaCO2 minima <27 mmHg hanno una frequenza di VAP maggiore (4 pz su 7: 57%) rispetto a quelli con PaCO2 minima >27 mmHg (1 pz su 8: 13%); i pz con PIC ≤9 sviluppano più frequentemente VAP (4 pz su 6: 67%) rispetto a quelli con PIC>9 (1 pz su 2: 50%); allo stesso tempo pz con PEEP minima >5 cmH2O sviluppano più frequentemente VAP (4 pz su 6: 67%) rispetto a pz con PEEP minima ≤5 cmH2O (1 pz su 9: 11%).

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VT/PBW

PaCO2

min PEEP min P/F < PIC < VAP

pz 1 11,5 25 5 >150<200 no pic NO pz 2 9,6 25 10 <100 2 SI pz 3 8,8 26 6 >200<250 9 SI pz 4 12,7 30 5 >100<150 6 NO pz 5 9,8 27 5 >100<150 10 NO pz 6 8,4 22 6 >150<200 no pic NO pz 7 8,3 27 6 >150<200 3 SI pz 8 9,5 21 5 300 no pic NO pz 9 9,7 25 8 >100<150 12 SI pz 10 8,5 27 6 >150<200 no pic NO pz 11 11,4 24 5 >150<200 5 SI pz 12 9,4 27 5 >300 no pic NO pz 13 9,5 27 5 >250<300 no pic NO pz 14 8,2 34 4 >300 val neg NO pz 15 8,8 29 5 >150<200 no pic NO

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