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ATTIVITÀ PROTETTIVA DI NUOVI INIBITORI DELL’ACETILCOLINESTERASI ADDIZIONATI DI UNA PORZIONE H2S-DONOR, NEI CONFRONTI DEL DANNO DI TIPO INFIAMMATORIO IN CELLULE DI MICROGLIA (BV2)

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Dipartimento di Farmacia

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

TESI DI LAUREA

ATTIVITÀ PROTETTIVA DI NUOVI INIBITORI

DELL’ACETILCOLINESTERASI ADDIZIONATI DI UNA PORZIONE

H

2

S-DONOR, NEI CONFRONTI DEL DANNO DI TIPO INFIAMMATORIO

IN CELLULE DI MICROGLIA (BV2)

Relatori:

Prof. Vincenzo Calderone

Dott.ssa Alma Martelli

Dott.ssa Valentina Citi

Candidata:

Badia Az dine

(2)

Alla mia cara famiglia

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ةزيزعلا

(3)

I

Indice

Capitolo 1

Introduzione

1.1 Le malattie neurodegenerative………... 1 1.2 La malattia di Alzheimer………... 2 1.2.1 Epidemiologia……….………. 2 1.2.2 Caratteristiche cliniche……… 4

1.2.3 Patogenesi e genetica molecolare……….……... 5

1.2.3.1 Neuroinfiammazione……… 11 1.2.3.2 Danno ossidativo………... 13 1.2.3.2.1 ROS……… 16 1.2.3.2.2 RNS……….…... 17 1.2.4 Fattori di rischio………. 20 1.2.4.1 Modificabili……….. 20 1.2.4.2 Non modificabili ……….. 21 1.2.5 Diagnosi………. 22 1.2.5.1 Imaging……… 22 1.2.5.2 Biomarkers……….. 23 1.2.6 Terapie farmacologiche………. 24

1.2.6.1 Inibitori dell’acetilcolinesterasi (AchEI)……….. 24

1.2.6.2 Inibizione del recettore NMDA……… 28

1.3 Il solfuro di idrogeno (H2S)………. 29

1.3.1 Proprietà chimico-fisiche……….. 29

1.3.2 Biosintesi………... 30

1.3.3 Metabolismo……….. 32

1.3.4 Ruolo protettivo nell’AD………... 33

1.3.5 H2S-donors………. 35

(4)

II 1.3.5.2 Polisolfuri……….. 35 1.3.5.3 GYY4137 (morpholin-4-methoxyphenyl-morpholino-phosphoinodithionate)………...……. 36 1.3.5.4 Ditioltioni……….. 37 1.3.5.5 Isotiocianati………... 38 1.3.5.6 Ariltioammidi……… 40

Capitolo 2

Scopo della ricerca

………. 40

Capitolo 3

Materiali e metodi

3.1 Materiale utilizzato per la sperimentazione in vitro……… 45

3.1.1 Colture cellulari………. 46

3.1.2 Mezzo di coltura……… 46

3.1.3 Sostanze e soluzioni tampone……… 47

3.1.4 Soluzioni delle sostanze testate………. 48

3.2 Protocollo sperimentale………... 48

3.2.1 Scongelamento……….. 49

3.2.2 Piastratura……….. 49

3.3 Esperimenti……….. 52

3.3.1 Valutazione della vitalità cellulare, dello stress ossidativo e della quantità di ossido nitrico………..…. 52

3.3.1.1 Vitalità………..…. 52

3.3.1.2 Stress ossidativo………..….. 53

3.3.1.3 Ossido nitrico………..….. 54

3.3.2 Rilevazione del rilascio di H2S in substrati biologici mediante sonda fluorescente (WSP-1)………...….. 54

(5)

III

3.3.2.1 WSP-1………...…... 55

3.4 Analisi dei dati………. 57

3.4.1 Vitalità, Stress ossidativo, NO………...….... 57

3.4.2 WSP-1……….... 57

Capitolo 4

Risultati e discussioni

………. 58

Bibliografia

………. 65

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1

Capitolo 1

Introduzione

1.1 Malattie neurodegenerative

Il successo della medicina nel ridurre la mortalità nelle prime fasi della vita ha spostato progressivamente il peso sociale delle malattie verso l’età geriatrica. Infatti una conseguenza dell'aumento dell'aspettativa di vita è una crescente incidenza di malattie neurodegenerative. Queste patologie debilitanti e attualmente orfane di terapia risolutiva, sono una fonte crescente di sofferenza per i pazienti colpiti, così come per le persone che devono prendersene cura [Walker L.C., Jucker M. 2015].

Queste malattie comprendono un'ampia varietà di condizioni patologiche legate all'età, causate da una disfunzione progressiva e dal deterioramento del sistema nervoso centrale (SNC). Nonostante l’enorme diversità nei fenotipi clinici, la maggior parte delle malattie neurodegenerative è accomunata da una caratteristica particolare, che è l'accumulo di proteine specifiche della patologia, in aggregati insolubili. L’insieme delle proteine include: la β-amiloide (Aβ) delle placche senili e la proteina tau dei grovigli neurofibrillari (Neurofibrillary tangles, NFTs) caratteristici della malattia di Alzheimer [Glenner G.G., Wong C.W., 1984; Kosik K.S. et al., 1986], la α-sinucleina (α-syn) dei corpi e dei neuriti di Lewy caratteristica della malattia di Parkinson [Spillantini M.G. et al., 1998], gli aggregati TDP-43 tipici della sclerosi laterale amiotrofica (amyotrophic lateral sclerosis, ALS) e della degenerazione lobare frontotemporale [Neumann M. et al., 2006], le inclusioni di huntingtina arricchite con poliglutammina (polyQ) presenti nella malattia di Huntington [DiFiglia M. et al., 1997] e le placche di prioni riscontrate nella malattia di Creutzfeldt-Jakob (Creutzfeldt-Jakob disease, CJD) [Bolton D.C. et al., 1982].

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1.2 La malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer (Alzheimer’s disease, AD) è la malattia neurodegenerativa progressiva più diffusa nell’uomo e la principale causa di demenza in tutto il mondo [Scheltens P. et al., 2016].

I criteri e le linee guida rivisti, nel 2011, dal National Institute on Aging e dall’Alzheimer association (NIA-AA) hanno riconosciuto tre stadi della malattia di Alzheimer: lo stadio preclinico, seguito da una lieve compromissione cognitiva (mild cognitive impairment, MCI) e dall’esordio finale della demenza [Hebert L.E. et al., 2013; Jack C.R. Jr et al., 2011]. Questi stadi sono così descritti:

1. Stadio preclinico, presintomatico, caratterizzato dalla rilevazione dei segni anatomopatologici tipici dell’AD attraverso la presenza di biomarcatori o con tecniche di neuroimaging. In questa fase il paziente è ancora capace di vivere autonomamente ma inizia ad avere alcune lacune di memoria. 2. Stadio intermedio, caratterizzato da una lieve, ma progressiva

compromissione delle funzioni cognitive. È lo stadio più lungo ed è caratterizzato da difficoltà nel linguaggio e nell’esprimere pensieri e da comportamenti inadeguati.

3. Stadio finale, caratterizzato da un declino cognitivo più pronunciato, con la totale perdita della capacità nel rispondere all’ambiente circostante.

1.2.1 Epidemiologia

Insieme alla demenza vascolare, l'AD corrisponde al 60-80% di tutti i casi di demenza [Ashraf G.M. et al., 2016]. Secondo il rapporto mondiale sull’Alzheimer, si stima che 50 milioni di persone in tutto il mondo siano attualmente colpite dalla demenza, un numero che secondo le previsioni è destinato a triplicarsi a 152 milioni entro il 2050 [World Alzheimer Report, 2018]. Diversi fattori di rischio modificabili e non modificabili sono stati descritti per l'AD, sebbene l'invecchiamento rimanga il più significativo [Hickman R.A. et al.,

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2016]. Infatti, dopo i 65 anni di età, la prevalenza di AD raddoppia ogni 5 anni [Lane C.A. et al., 2018].

Il tema delle demenze è al centro dell’attenzione a livello europeo ed internazionale anche in virtù del progressivo invecchiamento delle popolazioni, che sta portando ad un rilevante cambiamento demografico, con ricadute in termini di sanità pubblica e sulla sostenibilità dei sistemi sanitari [https://demenze.iss.it/contesto-europeo-ed-internazionale/]. La prevalenza della demenza nei paesi industrializzati è circa dell’8% negli ultrasessantacinquenni e sale ad oltre il 20% dopo gli ottanta anni.

Inoltre, l’AD è in notevole aumento nella popolazione generale ed è stata definita secondo il Rapporto OMS e ADI (Alzheimer’s Disease International) una priorità mondiale di salute pubblica: “nel 2010, 35,6 milioni di persone risultavano affette da demenza con stima di aumento del doppio nel 2030, il triplo nel 2050, con 7,7 milioni di nuovi casi ogni anno (1 ogni 4 secondi) e una sopravvivenza media dopo la diagnosi di 4-8-anni. La stima dei costi è di 604 miliardi di dollari/anno con incremento progressivo, costituendo quindi una continua sfida per i sistemi sanitari. Tutti i Paesi devono includere le demenze nei loro programmi di salute pubblica; a livello internazionale, nazionale, regionale e locale sono necessari programmi e coordinamento su più livelli e tra tutte le parti interessate.” (Rapporto diffuso dall’OMS a Ginevra, 11 aprile 2012).

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L’Italia è uno dei paesi europei con maggior numero di anziani: il 17% della popolazione (circa 9,5 milioni di individui), ha superato i 65 anni di età. Sono pertanto in aumento tutte le malattie croniche, legate all’età, e tra queste le demenze. Il progressivo incremento della popolazione anziana comporterà un ulteriore consistente aumento della prevalenza dei pazienti affetti da demenza. Sempre in Italia, il numero totale dei pazienti con demenza è stimato in oltre un milione (di cui circa 600.000 con demenza di Alzheimer) e circa 3 milioni sono le persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei loro cari. Le conseguenze sul piano economico ed organizzativo sono facilmente immaginabili, tenendo conto che i soli costi annuali diretti per ciascun paziente vengono, in diversi studi europei, stimati in cifre variabili da 9 000 a 16 000 Euro, a seconda dello stadio della malattia. Stime di calcolo relative ai costi sociosanitari delle demenze in Italia ipotizzano cifre complessive pari a circa 10-12 miliardi di Euro annui, e di questi 6 miliardi per la sola malattia di Alzheimer [https://demenze.iss.it/epidemiologia/].

1.2.2 Caratteristiche cliniche

La storia della malattia di Alzheimer iniziò nel 1901, quando il Dottor Alois Alzheimer ebbe in cura Auguste D. - la prima paziente a cui furono diagnosticati sintomi tipici di AD [Pietrzak K. et al., 2018]. Dopo la morte di quest’ultima, nel 1906, fu eseguita la prima autopsia e furono descritte le caratteristiche anatomopatologiche della malattia. Il dottor Alzheimer notò la tipica atrofia cerebrale (Fig. 1.2), sconosciuta fino a quel momento, e placche diffuse in tutta la corteccia cerebrale [Burns A. et al., 2002; Dahm R. et al., 2006; Jellinger K.A. et al., 2006]. Dopo oltre un secolo di indagini sui meccanismi patologici, la malattia di Alzheimer è la causa prevalente di demenza e purtroppo, è ancora definita come una malattia incurabile e progressiva. Al momento attuale, il trattamento può essere solo sintomatico, ritardando l'insorgenza dell'AD di circa 2 anni [Gauthier S., Scheltens P., 2009].

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Fig. 1.2 Perdita complessiva di tessuto nervoso in soggetto affetto da AD (a dx) in confronto al

controllo normale (a sx), in sezione coronale e assiale dell’encefalo. Le regioni evidenziate sono: (a) ventricoli laterali, (b) ippocampo e (c) corteccia cerebrale.

Nel momento in cui i sintomi cognitivi vengono diagnosticati, nel cervello sono già evidenti cambiamenti neurodegenerativi significativi e le opportunità per gli approcci terapeutici causali modificanti la malattia sono limitate [Villemagne V.L. et al., 2013].

La progressione della malattia di Alzheimer è lenta ma inesorabile, con decorso sintomatico che può superare i 10 anni. I sintomi iniziali sono i disturbi della memoria a breve termine e di altre funzioni mnesiche; con il progredire della malattia, emergono altri sintomi, tra cui disturbi del linguaggio, perdita delle abilità matematiche e delle abilità motorie acquisite. Negli stadi finali della malattia, i pazienti possono presentare incontinenza, mutismo e incapacità nella deambulazione. Malattie intercorrenti, come la polmonite, possono essere spesso causa di morte. [Robbins S.L. et al., 2005]

1.2.3 Patogenesi e genetica molecolare

La malattia di Alzheimer è caratterizzata da distinti cambiamenti tissutali associati all'accumulo di peptidi β-amiloidi (Aβ) extracellulari, derivati dalla scissione della proteina precursore dell'amiloide (APP) e da depositi intracellulari della proteina tau iperfosforilata. Geneticamente, la malattia è distinta in due forme: familiare (FAD) e sporadica. Meno del 5% circa dei pazienti è affetto da FAD [Alzheimer’s Association, 2016 ] causata da mutazioni delle proteine APP, presenilina-1 o

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presenilina-2 [ Goate A. et al., 1991; Rogaev E.I. et al., 1991; Sherrington R. et al., 1995], che aumentano i livelli o la propensione all'aggregazione di Aβ. L'AD sporadico invece è fortemente associato all'espressione di apolipoproteina E ε4 (APOE4), mentre l'espressione di APOE2 è protettiva [Raber J. et al., 2004]. Gli astrociti e la microglia esprimono l'APOE2 sotto il controllo di recettori nucleari per gli ormoni; questa svolge un ruolo importante nella fagocitosi di Aβ mediante la microglia [Terwel D. et al., 2011]. L'equilibrio tra produzione e rimozione di Aβ sembra determinare il carico di amiloide nel cervello nell’AD [Hyman B.T. et al., 1993], inoltre l’eziologia di AD sporadico è associata maggiormente con la disfunzionalità della clearance di Aβ piuttosto che con l’incremento nella produzione di Aβ [Mawuenyega K.G. et al., 2010]. Come fagociti insiti al sistema nervoso centrale, le cellule gliali sono i principali responsabili della clearance fagocitaria delle Aβ o della loro degradazione locale, attraverso il rilascio di enzimi degradanti [Heneka M.T., 2017].

Un’evidenza cumulativa indica che gli aggregati di Aβ e tau sono neurotossici e innescano processi neurodegenerativi nel cervello, suggerendo che Aβ e tau siano fondamentali per guidare la patogenesi dell'AD [Bakota L. et al., 2016; Gautam V. et al., 2015; Hardy J. et al., 2002; Penazzi L. et al., 2016]. È interessante notare che l'espressione di APOE4 è stata associata ad una maggiore produzione di Aβ, guidata dall'aumento dell'espressione APP nei neuroni [Huang Y.A. et al., 2017].

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Fig.1.3 Meccanismo di generazione dell’amiloide nella malattia di Alzheimer. La proteina

precursore dell’amiloide (APP) è una proteina transmembrana, con potenziali siti di clivaggio per tre distinti enzimi (α-, β-, γ-secretasi) come dimostrato in A. Il dominio Aβ si estende dal lato extracellulare della proteina fino al dominio transmembrana. Se la APP è scissa dalla α-secretasi (B), il successivo clivaggio dalla γ-secretasi non porta Aβ. Al contrario, la scissione da β-secretasi è eseguita dalla γ-secretasi (C) e produzione di Aβ, che potrà quindi aggregarsi in forme fibrillari.

Le conoscenze attuali dei principali eventi patogenetici della AD si basano sulle proprietà di Aβ. Questo peptide si aggrega rapidamente, forma strutture a foglietto β, si colora con rosso Congo, è relativamente resistente alla degradazione, attiva la risposta reattiva di astrociti e microglia e può essere direttamente neurotossico. I peptidi Aβ derivano dalla processazione della APP. La APP è una proteina con funzione cellulare incerta, localizzata sulla superficie cellulare e caratterizzata da un singolo dominio transmembrana (Fig. 1.3). Una forma solubile di APP può essere rilasciata dalla superficie cellulare in seguito ad operazioni di clivaggio proteolitico da parte dell’enzima α-secretasi; almeno tre distinti enzimi hanno mostrato attività secretasica. Le molecole di APP che vengono sottoposte a questo clivaggio non danno origine al frammento Aβ. Tuttavia, la APP di superficie può venire internalizzata e quindi subire processi che generano peptidi Aβ che sono

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meno solubili e tendono ad aggregarsi in fibrille di amiloide. Le fibrille si generano attraverso operazioni di clivaggio in sede N-terminale prima dell’inizio del dominio transmembrana per opera dell’enzima β-secretasi (BACE-1) e all’interno del dominio transmembrana per azione di γ-secretasi [Robbins S.L. et al., 2005]. Questo processo è fisiologicamente attivo in tutte le cellule, e la γ-secretasi è implicata in altri importanti processi di proteolisi intramembranosa, tra cui il clivaggio del Notch, una molecola che determina il destino delle cellule. Il clivaggio del Notch determina il rilascio all’interno della cellula di parti di molecole coinvolte nei processi di segnalazione cellulare e di regolazione della trascrizione [Mumm J., Kopan R., 2000].

L’AD e le taupatie correlate sono inoltre istopatologicamente caratterizzate dall'accumulo intracellulare di proteina tau che conduce ai cosiddetti grovigli neurofibrillari [Maccioni R. B. et al., 2001].

La proteina Tau promuove l'assemblaggio della tubulina in microtubuli, uno dei principali componenti del citoscheletro neuronale che definisce la morfologia e fornisce supporto strutturale ai neuroni [Kosik K. S., 1993] (Fig.1.4). Il legame di Tau alla tubulina è regolato dal suo stato di fosforilazione, che normalmente è regolato da un'azione coordinata di proteine chinasi e fosfatasi [Mandelkow E. M. et al., 1995; Liu F. et al., 2005]. In condizioni patologiche, come nel caso dell’AD, non solo la fosforilazione anormale della proteina Tau diminuisce la sua capacità di legame alla tubulina, portando alla disorganizzazione dei microtubuli, ma si ha anche polimerizzazione della stessa proteina che si aggrega sotto forma di NFTs [Avila J., 2008; Iqbal K., Grundke-Iqbal I., 2008] (Fig.1.5).

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Fig. 1.4 La proteina Tau stabilizza i microtubuli attraverso 4 domini di legame (in blu). Il legame è

regolato dalla fosforilazione (in rosa) della stessa proteina, ad opera di chinasi e fosfatasi. La Tau iperfosforilata può inibire anche il trasporto assonale.

Fig. 1.5 Progressione della taupatia: in condizioni fisiologiche Tau stabilizza i microtubuli. Nelle

taupatie, l’iperfosforilazione innesca una perdita dell’affinità verso i microtubuli. La Tau solubile si aggrega in frammenti patologici, fino a formare grovigli neurofibrillari insolubili. I frammenti vengono, inoltre, secreti in compartimenti extracellulari contribuendo alla propagazione della taupatia ai neuroni vicini. Stimoli infiammatori, come Aβ, stimolano la produzione microgliale di mediatori infiammatori tipo IL-1, che conducono alla up-regulation di chinasi coinvolte nella fosforilazione di Tau e quindi alla perpetuazione della patologia.

Molti loci genici sono stati identificati per l’AD familiare. Il primo di questi è stato il gene che codifica per la APP localizzato sul cromosoma 21. Tutte le mutazioni patogenetiche del gene APP determinano un aumento della produzione

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di Aβ. Inoltre, l’insorgenza di AD negli individui con trisomia 21 è stata messa in relazione con un’aumentata produzione di APP e quindi di Aβ dovuta ad un effetto genico dose-dipendente. Sono stati identificati altri due loci genetici sui cromosomi 14 e 1 associati ad AD familiare ad insorgenza precoce; questi probabilmente spiegano la maggior parte degli alberi genealogici della malattia di Alzheimer familiare ad insorgenza precoce. I geni contenuti su questi due cromosomi codificano per proteine intracellulari altamente correlate, la prenisilina-1 (PS1) e la prenesilina-2 (PS2). Ancora prima che questi geni fossero clonati, era stato riscontrato che il fenotipo cellulare di queste mutazioni determinava aumentati livelli di produzione di Aβ, soprattutto Aβ42. Attualmente, studi condotti su topi knock out, studi di mutagenesi diretta di PS1 e PS2, studi farmacologici e di purificazione biochimica dimostrano che le prenisiline sono componenti della γ-secretasi e che probabilmente sono parte del complesso multiproteico che contiene il sito attivo [Selkoe D., 2001]. Quindi gli studi di genetica supportano fortemente l’ipotesi che l’evento patogenetico alla base dell’AD sia l’accumulo di Aβ [Robbins S.L. et al., 2005].

Diversamente da questi loci, in cui le mutazioni causano la malattia di Alzheimer, un allele (ε4) del gene dell’apolipoproteina E (ApoE) localizzato sul cromosoma 19, si associa a un aumentato rischio e a una più precoce età di insorgenza della malattia di Alzheimer [Strittmatter W.J. et al., 1993]. La presenza dell’allele ε4 è associata ad un maggior quantitativo di Aβ nel cervello ed è più frequente nei pazienti con malattia di Alzheimer rispetto ai soggetti sani. L’ApoE può legarsi con Aβ ed è presente nelle placche, ma il modo in cui questo allele possa aumentare il rischio di malattia di Alzheimer è ancora sconosciuto. Altri loci genici coinvolti nell’aumento del rischio di AD sono stati localizzati sul cromosoma 12, dentro o vicino al gene per α2-macroglobulina, e sul cromosoma 10 [Blacker D. et al., 1998; Bertram L. et al., 2000].

Resta ancora da stabilire come Aβ sia correlata ai processi neurodegenerativi dell’AD, quanto questa sia associata ad altri segni patologici dell’AD come gli ammassi neurofibrillari o l’anomala iperfosforilazione della proteina tau e che cosa controlli la progressione della malattia. Esistono, però, varie linee di

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evidenza che indicano come sia i piccoli aggregati di Aβ sia le fibrille più grandi siano direttamente neurotossici e possano favorire varie risposte cellulari, tra cui il danno ossidativo. Inoltre, anche le reazioni di altri tipi cellulari nel cervello possono influenzare la malattia. Si ritiene che la reazione infiammatoria che accompagna la formazione di depositi di Aβ possa avere sia effetti protettivi, favorendo la clearance dei peptidi aggregati, che effetti dannosi [Zandi P.J., Breitner J., 2001; McGeer P.L., McGeer E.G., 2001; In t' Veld B.A. et al., 2001; Weggen S. et al., 2001].

1.2.3.1 Neuroinfiammazione

L'infiammazione è una risposta fisiologica protettiva, necessaria per regolare i processi associati ai meccanismi di danno nell'organismo. Diversi benefici correlati alle attività infiammatorie comprendono la protezione contro i microrganismi, la riparazione dei tessuti e la rimozione dei detriti cellulari. Il SNC possiede alcune caratteristiche che ne differenziano le attività immunitarie e infiammatorie rispetto a quelle che si verificano nel resto dell’organismo. Principalmente, queste differenze derivano dalla presenza della barriera ematoencefalica (BEE), che limita il passaggio dei leucociti nel parenchima cerebrale, e dalle interazioni cellulari della microglia e degli astrociti, responsabili della maggior parte delle risposte immunitarie e infiammatorie del SNC [Ransohoff R.M. et al., 2015]. Sebbene la neuroinfiammazione si presenti, innatamente, come meccanismo protettivo quando nel SNC è presente una lesione, l'alterazione di uno qualsiasi dei componenti di questa risposta può compromettere il microambiente cellulare e diventare nocivo per il cervello. Molte condizioni neurodegenerative, inclusa l'AD, sono state associate alla presenza di neuroinfiammazione anormale [Ransohoff R.M., 2016].

Numerosi studi suggeriscono che una forte risposta infiammatoria sistemica periferica causata da lipopolisaccaride batterico (LPS) [Noh H. et al., 2014] o da infezioni virali [Zhou L. et al., 2013] provochi la successiva infiltrazione dei leucociti, dalla periferia al SNC, con conseguente neuroinfiammazione e

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neurodegenerazione. La noxa infiammatoria è seguita dall'attivazione iniziale della microglia, che induce il rilascio di mediatori proinfiammatori che favoriscono la permeabilizzazione della BEE. La conseguenza è un’infiltrazione all'interno del sistema nervoso centrale di leucociti periferici, comprese le cellule T dei macrofagi, che condividono diverse caratteristiche funzionali con la microglia [Noh H. et al., 2014], tra cui l'espressione dei recettori toll-like (TLR) e dunque la capacità di essere attivati da aggregati proteici o da pattern molecolari associati ai patogeni [Noh H. et al., 2014; Ostanin D.V. et al., 2009 ], l'espressione del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II e la capacità di presentare antigeni alle cellule T CD4+ [Huber S. et al., 2004]. Pertanto, la successiva permeabilità della BEE porta alla possibilità che i macrofagi periferici possano acquisire un ruolo rilevante nel processo della neuroinfiammazione. L'alterazione delle cellule T CD4+ e CD8+ è stata osservata a livello periferico nei pazienti con malattia neurodegenerativa, suggerendo la presenza di una persistente sfida antigenica e che le cellule T possano giocare un ruolo fondamentale nelle malattie neurodegenerative. Da notare che il rapporto tra i linfociti CD8+ e CD4+ o il passaggio ad una risposta immunitaria di tipo Tc1/Th1 (T-citotossico/T-helper) può contribuire ad una reazione infiammatoria cerebrale dannosa e alla presenza di anticorpi contro l'antigene neuronale, osservati nelle malattie neurodegenerative, avvalorando l’ipotesi del coinvolgimento del sistema immunitario nell’eziopatogenesi di queste patologie [Amor S. et al., 2010]. Di conseguenza, una risposta neuroinfiammatoria acuta è benefica per il SNC, riducendo al minimo il danno con l’attivazione del sistema immunitario innato [Crutcher K.A. et al., 2011; Popovich P.G., Longbrake E.E., 2008]. Al contrario, l'infiammazione cronica è caratterizzata dalla lunga attivazione della microglia che causa il rilascio di mediatori dell'infiammazione, portando ad un aumento dello stress ossidativo e nitrosativo che perpetuano il ciclo infiammatorio [Tansey M.G. et al., 2007], prolungando ulteriormente l'infiammazione [Rivest S., 2009; Schmid C.D., 2009], che è determinante nelle diverse malattie neurodegenerative [Block M.L., Hong J.S., 2005]. Di conseguenza, la neuroinfiammazione cronica e l'attivazione della microglia giocano un ruolo centrale nella fisiopatologia della malattia neurodegenerativa. Ad esempio, la microglia attivata da IL-1,

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colocalizzata con placche di β amiloide e grovigli neurofibrillari in AD o presente in regioni degenerative del motoneurone in pazienti affetti da SLA [Henkel J.S. et al., 2004], porta ad anormale fosforilazione della proteina τ [Mrak R.E., Griffin W.S.T., 2005]. Inoltre, la neuroinfiammazione è stata associata alla causa o alla conseguenza dello stress ossidativo cronico, una caratteristica chiave di tutte le malattie neurodegenerative in quanto provoca alterazioni strutturali genetiche. Le cellule microgliali sono la principale fonte di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e dell’azoto (RNS), di TNF-α e glutammato, che sono tutti mediatori neurotossici quando rilasciati ad alte dosi dopo l'attivazione della microglia [González H. et al., 2004; Qian L. et al., 2007 ; Gordon R. et al., 2012], a seguito dello stimolo dei recettori TLR determinato dalle proteine aggregate [Magro F. et al., 2004; Panaro M.A. et al., 2008], come osservato nei pazienti con AD [Querfurth H.W., LaFerla F.M., 2010], sclerosi multipla [Chastain E.M. et al., 2011], malattia di Parkinson [Braak H. et al., 2003] o sclerosi laterale amiotrofica [Saccon R.A. et al., 2013].

1.2.3.2 Danno ossidativo

Lo stress ossidativo è dato dalla produzione di specie reattive dell'ossigeno (ROS) in quantità che superano la capacità dei sistemi antiossidanti dell’organismo di neutralizzarne gli effetti [Dringen R., 2000]. Queste specie di radicali liberi, che contengono uno o più elettroni spaiati agiscono come donatori di elettroni, causando l'ossidazione che determina il potenziale danno a lipidi, proteine e acidi nucleici [Gadalla M.M., Snyder S.H., 2010]. Probabilmente, il più importante di tutti i bersagli cellulari delle ROS è il sistema nervoso, specialmente i neuroni che sono altamente suscettibili ai danni di queste specie [Dumont M., Beal M.F., 2011]. Le cellule neuronali possiedono sistemi di difesa antiossidanti relativamente primitivi che le rendono soggette allo stress ossidativo. Sebbene le cellule gliali (microglia e astrociti) siano le cellule di supporto del sistema nervoso, sono anche il punto cruciale della maggior parte dei processi neuroinfiammatori. La stretta associazione tra cellule neuronali e cellule gliali rende i neuroni vulnerabili alle ROS e agisce come elemento patogenico di molte malattie neurodegenerative. I radicali liberi hanno la capacità di intaccare

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proteine, polisaccaridi, doppi strati fosfolipidici e DNA causando quindi danni ossidativi alle cellule. In particolare, l'ossidazione degli acidi nucleici provoca

condizioni patologiche che vengono rilevate con l’aumento dei livelli di 8-idrossil-2-deossiguanosina nel DNA e 8-idrossiguanosina nell'RNA. Il radicale

idrossile provoca danni al DNA, portando alla rottura del filamento e alla formazione di cross-linking tra le basi. La serie totale di eventi porta al danno neuronale [Reynolds A. et al., 2007].

Il SNC è vulnerabile allo stress ossidativo a causa del suo maggiore consumo di ossigeno. Nell'uomo, sebbene il cervello costituisca solo una piccola percentuale del peso corporeo, occupa il 20% del consumo basale di O2. La presenza di O2 è fondamentale nel cervello: per esempio, il neurone necessita di elevate quantità di O2 per la sua crescita, per la sintesi di ATP nei mitocondri, necessaria per mantenere gli opportuni gradienti (concentrazioni intracellulari elevate di K+ e ridotte di Na+ e Ca2+). Inoltre, per la produzione di glucosio, molecola fondamentale nei processi metabolici, il cervello utilizza circa 4 × 1021 molecole di O2 al minuto [Beal M.F., 1998]. La catena respiratoria dei mitocondri è responsabile della formazione della maggior parte delle ROS ed in particolar modo dell'anione superossido (O2.-) prodotto in primo luogo nei tessuti umani. Fisiologicamente, l'1-2% di O2 consumato, viene generalmente convertito in ROS [Riccio A. et al., 2006].

Lo sviluppo dello stress ossidativo (OS) in AD è stato correlato alla disfunzione mitocondriale, portando alla sovrapproduzione di superossido che conduce al danno sinaptico [Friedland-Leuner K. et al., 2014; Bhat A.H. et al., 2015]. La disfunzione mitocondriale nell'AD sembra infatti, essere collegata alla maggiore presenza di ROS e RNS [Islam M.T., 2017]. Studi su modelli animali hanno dimostrato che un aumento della produzione di Aβ intracellulare potrebbe innescare la disfunzione mitocondriale precocemente e indipendentemente dalle placche di Aβ, e che l'accumulo di queste alterazioni con l'invecchiamento porta alla rottura dei complessi della catena respiratoria (principalmente III e IV) e ad una significativa riduzione della generazione di NADH. Gli autori hanno, inoltre, suggerito che un progressivo aumento della produzione di ossidanti insieme ad una diminuzione dei componenti antiossidanti può portare alla perdita

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dell'omeostasi cerebrale osservata nell'AD [Müller W.E. et al., 2010]. Tuttavia, nell'AD, è stato dimostrato che prima della comparsa delle placche senili, il cervello presenta ipometabolismo del glucosio a causa di anormali vie metaboliche ossidative nei mitocondri che inducono anche una maggiore produzione di ROS e il successivo danno cellulare ossidativo [Maruszak A., Zekanowski C., 2011]. Inoltre, le varianti dei profili di espressione genica in AD hanno mostrato una ridotta espressione di NeuroD6, che codifica per un fattore di trascrizione coinvolto nell'attivazione di risposte antiossidanti e nel mantenimento della produzione di antiossidanti mitocondriali [Uittenbogaard M. et al., 2010; Fowler et al., 2015]. L'analisi dei dati RNA-Seq e microarray ha indicato una consistente downregulation di NeuroD6 nel cervello di individui con AD, suggerendo questa come possibile biomarker per l'AD [Satoh J.I. et al., 2014]. Inoltre, le basi del DNA sono vulnerabili ai danni causati dallo stress ossidativo, implicando idrossilazione e nitrazione delle proteine nell'AD [García-Blanco A. et al., 2017]. Cambiamenti nei marcatori ossidativi sono stati riportati in regioni del cervello come ippocampo e corteccia parietale inferiore, regioni particolarmente compromesse nell’ AD [Floyd R.A., Hensley K., 2002]. Il cervello è considerato particolarmente vulnerabile all'OS e suscettibile alla perossidazione lipidica a causa del suo elevato contenuto lipidico, della presenza di acidi grassi polinsaturi e delle basse concentrazioni di antiossidanti [Butterfield D.A. et al., 2013]. Nell'AD, gli effetti neurotossici di Aβ inducono l'OS attraverso la perossidazione lipidica, la degradazione proteica e l'ossidazione degli amminoacidi, che a loro volta aumentano la produzione di ROS e RNS mediante feedback positivi [Swomley A., Butterfield D.A., 2015]. Alchenali, 4-idrossinonali (HNE) e 2-propenali (acroleina) sono prodotti reattivi ottenuti dalla perossidazione lipidica indotta da Aβ. Questi agenti possono modificare covalentemente alcuni residui di amminoacidi o modificare la conformazione proteica, fattori che a loro volta influiscono sulla funzionalità. Pertanto, è stata proposta una correlazione tra l’aumento della perossidazione lipidica e la modifica strutturale del GLT1 (trasportatore del glutammato), spiegata da un aumento del legame dell'HNE a causa dell'eccesso di Aβ42.Questi eventi possono compromettere la funzione della microglia, inducendo l'inibizione del trasporto del glutammato (neurotrasmettitore

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inibitorio) e aumentando l'eccitotossicità dei neuroni nell'AD [Butterfield D.A. et al., 2002].

1.2.3.2.1

ROS

Un radicale libero è una molecola che presenta uno o più elettroni non accoppiati negli orbitali esterni, che fanno sì che la molecola risulti instabile e in cerca elettroni da molecole vicine. Di solito sono derivati del metabolismo dell'ossigeno che vengono definiti specie reattive dell'ossigeno (ROS). Le ROS sono prodotte sia in condizioni fisiologiche che patologiche. La loro produzione fisiologica a concentrazioni molto basse regola l'attività mitocondriale, i fattori di trascrizione, le vie di segnalazione, la regolazione LTP (long term potentiation) e anche il tono vascolare attraverso l’NADPH ossidasi (NOX) [Dröge W., 2002; Kamsler A., 2003; Serrano F., Klann E., 2004; Li Y., Pagano P.J, 2017]. Anche nella risposta immunitaria fisiologica, le ROS vengono rilasciate ad alte concentrazioni da leucociti e microglia [Liu Y. et al., 2010; Thomas D.C., 2017].

Le ROS nei tessuti periferici e cerebrali sono rappresentate da: O2.-, radicale alcossilico (RO.), radicale perossilico (ROO.), radicale idrossilico (HO.) e dai

composti in grado di generare radicali liberi come perossido di idrogeno (H2O2), aldeidi (HCOR), acido idrocloridrico (HOCl), perossidi organici (ROOH) e ozono (O3) [Miranda S. et al., 2000]. O2.- è altamente reattivo e ossida la maggior parte delle molecole cellulari [Angelova P.R., Abramov A.Y., 2018], ma la sua capacità di attraversare le membrane biologiche è molto limitata a causa della sua carica negativa. L' H2O2 può attraversare le membrane biologiche con relativa facilità; non è un radicale libero in senso stretto, ma attraverso la reazione di Fenton genera HO. [Gutteridge J.M., 1994; Lledias F., Hansberg W., 2000].

Le ROS sono prodotte da diversi meccanismi, ma i mitocondri, attraverso la catena di trasporto degli elettroni, rappresentano la più alta fonte fisiologica di O2 .-e H2O2 [Angelova P.R., Abramov A.Y., 2018]. L'efficienza della catena di trasporto degli elettroni si riduce con l'età, comportando una maggiore produzione di questi radicali [Eckmann J., 2013]. Le conseguenze fisiopatologiche sono la perossidazione lipidica nel cervello di pazienti con AD [Lovell M.A. et al., 1995],

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malattia di Parkinson [Dexter D. et al., 1986] e malattia associata ai corpi di Lewy [Castellani R.J. et al., 2002], nel liquido cerebrospinale (CSF) in pazienti affetti da malattia di Huntington [Boll M.C. et al., 2008] e da sclerosi multipla [Hunter M.I. et al., 1985], e nel plasma di pazienti con sclerosi laterale amiotrofica [Simpson E.P. et al., 2004]. Queste evidenze rispecchiano un drammatico danno della funzionalità delle membrane cellulari in queste patologie. Altre fonti rilevanti di ROS sono le NOX (NADPH ossidasi) [Colton C.A., 1994], i perossisomi [Speijer D., 2011; Cimini A. et al., 2009], le ossidasi neuronali come le monoaminossidasi (MAO) [Maker H.S. et al., 1981], le xantine ossidasi [Norstrand I. et al., 1979], e le lipo- e cicloossigenasi proinfiammatorie [Nakagomi T. et al., 1989]. Tutte queste fonti alternative di ROS sono coinvolte anche nei processi neurodegenerativi associati all'invecchiamento. È stato riportato che l’eccessiva espressione di NOX nella microglia e negli astrociti contribuisca alla morte neuronale nell'AD [Bruce-Keller A.J. et al., 2010; KChay O. et al., 2017]. Risultati simili sono stati ottenuti in neuroni dopaminergici che contribuiscono all'insorgenza della malattia di Parkinson [Zawada W.M. et al., 2015].

1.2.3.2.2

RNS

Queste specie radicaliche derivano dal gastrasmettitore NO (Fig. 1.6), che è un messaggero biologico altamente diffusibile e che esercita un ruolo essenziale nella fisiologia del SNC. Esistono tre isoforme enzimatiche implicate nella produzione di NO: NO sintetasi neuronale (nNOS, tipo I), NO sintetasi inducibile (iNOS, tipo II) e NO sintetasi endoteliale (eNOS, tipo III). Nel SNC, l'espressione di nNOS è modulata sia da risposte fisiologiche che patologiche [Riccio A. et al., 2006]. La produzione di NO a livello centrale genera grandi quantità di RNS in seguito all’attivazione della microglia. NO reagisce prontamente con O2∙- per generare perossinitrito (ONOO-) che è considerato la RNS reattivamente più potente (Fig. 1.7). In condizioni patologiche, queste specie vengono prodotte in grande quantità, in particolare il radicale NO, risultato dell’attivazione della microglia, che attiva la NO sintetasi inducibile (iNOS). [Shefa U. et al., 2017]

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18 L-Arginina L-Citrullina NO ONOO. nNOS O.

Fig. 1.6 La molecola di NO. Tra la molecola di Ossigeno e di Azoto si forma un doppio legame covalente. L’atomo di azoto manca di un elettrone nell’orbitale sp2, che fa sì che NO sia una molecola molto reattiva

Eccessiva produzione di ROS

+

Fig. 1.7 La sintesi di NO ad opera della nNOS, attraverso la conversione di Arginina in

L-Citrullina. L’eccessiva produzione di specie radicaliche dell’ossigeno con alta affinità di legame per NO produce i perossinitriti, ovvero RNS molto reattive.

A concentrazioni molto basse, l'NO impedisce la competizione tra l'ossigeno e la citocromo-ossidasi (enzima della catena respiratoria mitocondriale, implicato nella riduzione dell’ossigeno), svolgendo un ruolo essenziale nella regolazione della fisiologia a livello del metabolismo energetico cellulare. NO, però, può essere tossico se viene prodotto in eccesso [Pacher P. et al., 2007]. Inoltre, l'NO è molto più dannoso in condizioni patologiche concomitanti con la produzione di ROS, a causa dei radicali prodotti dalla sua interazione con gli anioni superossido. I derivati causano stress nitrosativo nei neuroni, influenzando negativamente le funzioni mitocondriali e molte proteine che sono associate con le funzioni fisiologiche dei neuroni [Ghasemi M., Fatemi A., 2014]. Una conseguenza è la

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perturbazione della respirazione mitocondriale e il disturbo di molti componenti mitocondriali attraverso reazioni ossidative. NO e il suo derivato perossinitrito causano l'arresto della respirazione mitocondriale in molti organismi [Stewart V. C., Heales S. J. R., 2003].

NO è anche responsabile dell'inibizione della ribonucleotide-reduttasi, enzima contenente Fe e che genera deossi-ribonucleotidi dai ribonucleotidi [Lepoivre M. et al., 1990; Lepoivre M., et al., 1991]. Attraverso l’inibizione di questo enzima, NO ostacola la sintesi del DNA e la divisione cellulare e distrugge il DNA mediante nitrosilazione e reazioni deaminative che causano la rottura delle catene [Wink D A. et al., 1991]. NO, prodotto da iNOS, è un componente importante anche nella neurotossicità indotta da HIV [Adamson D. C., 1991] e della lesione del midollo spinale [Xu J. et al., 2001]. Uno studio ha dimostrato che la produzione di NO, mediata da iNOS, può essere stimolata sia da IFN-γ che da LPS batterico (Fig. 1.8), diminuendo l'espressione di geni specifici della mielina, portano alla morte di oligodendrociti [Jana M., 2013].

Fig. 1.8 Induzione della NO sintetasi nei macrofagi. Il lipopolisaccaride (LPS) viene rilasciato

dalle pareti di batteri infettivi, causando il rilascio del fattore di necrosi tumorale (TNF-α). Questo fattore si lega ai macrofagi e attiva proteine intracellulari come il fattore nucleare KB (NF-kB), che induce la trascrizione dell’NO sintetasi. Una volta sintetizzata, la NO sintetasi macrofagica produce di continuo NO, che può uccidere le cellule batteriche, ma anche danneggiare le cellule ospiti. Pertanto, NO è un effettore non specifico in grado di uccidere o inibire la crescita di molti bersagli, sia patogeni che fisiologici.

Nell'AD e in altre demenze neurodegenerative, l'NO ha un ruolo nella degenerazione e nella morte delle cellule neuronali attraverso neurotossicità NO-mediata [Law A. et al., 2001]. La Aβ innesca la generazione di NO da parte delle

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cellule della microglia e degli astrociti [Campolo M. et al., 2014; Akama K. T. et al., 1998; Grossi L., 2014]. Innanzitutto, Aβ stimola le cellule T CD4+ e quindi attiva le cellule microgliali producendo citochine [Dickson D. W. et al., 1993]. La iNOS attiva il rilascio di NO causato dalla microglia stimolata. Nell'AD, l'attivazione di iNOS e la produzione di NO sono causate anche dai grovigli neurofibrillari (NFT) [Vodovotz Y. et al., 1996]. Quindi NO può causare stress ossidativo che interrompe la respirazione mitocondriale, ma a concentrazioni fisiologiche il suo effetto benefico di prevenzione e trattamento dell'AD è notevole.

NO è una molecola con effetti pleiotropici nel cervello. Favorisce le funzioni sinaptiche mediante un’azione di potenziamento a lungo termine (LTP, long term potentiation) e di modulazione positiva della traduzione proteica delle estremità dendritiche. È anche fondamentale per garantire il corretto apporto di sangue ai neuroni ed è stato dimostrato che è un gastrasmettitore con proprietà antiapoptotiche. Le funzioni fisiologiche dell'NO sono così importanti, per il cervello e il sistema vascolare, che le terapie che mirano alla regolazione diretta della sua produzione possono essere dannose. Tuttavia, l'inibizione della produzione di radicali liberi, l'uso di scavengers di ONOO- o la stimolazione di effetti depletanti l’NO, come l'aumento dei livelli di cGMP o l'attività della fosfodiesterasi, potrebbero costituire approcci terapeutici vantaggiosi [Picón-Pagès P. et al., 2018]

1.2.4 Fattori di rischio

1.2.4.1 Modificabili

I fattori di rischio per l’AD sono prevalentemente legati al rischio cardiovascolare (diabete, ipertensione e obesità) o allo stile di vita (fumo, inattività fisica, alimentazione, attività mentali e sociali). Il diabete è stato associato con un aumentato rischio di AD; è stato suggerito che possa incrementarne il rischio, agendo direttamente sull’accumulo di Aβ nel cervello, poiché l’iperinsulinemia inibisce la clearance di Aβ, competendo attraverso la degradazione enzimatica

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dell’insulina [Farris W. et al., 2003; Selkoe D.J., 2000]. Elevati valori di pressione arteriosa potrebbero incrementare il rischio di AD, diminuendo l’integrità della BEE e causando, quindi, una maggior permeabilità di questa verso proteine che potrebbero essere alla base di danni alle cellule, di apoptosi e anche accumulo di Aβ [Deane R. et al., 2004].

Il fumo può essere alla base di un aumentato rischio di AD attraverso vari meccanismi, prevalentemente legati allo stress ossidativo e alle risposte infiammatorie [Durazzo T.C. et al., 2004].

Studi epidemiologici hanno mostrato che l’attività fisica ha effetti benefici sulla salute cerebrale, grazie a diversi meccanismi che includono l’attivazione della plasticità neuronale, il potenziamento della vascolarizzazione cerebrale, la stimolazione della neurogenesi, la riduzione dell’entità dell’infiammazione e della tendenza all’accumulo di placche amiloidi. Individui che praticano costantemente attività fisica, hanno mostrato una riduzione del rischio di AD del 50%, rispetto a quelli con stile di vita sedentario [Rolland Y. et al., 2008; Vos S.J.B. et al., 2017]. Attività cognitive, sociali e intellettuali, congiuntamente al raggiungimento di livelli di istruzione e occupazione più alti hanno mostrato una riduzione nel rischio di declini cognitivi e di demenza attraverso l’incremento di riserve cognitive e della capacità del cervello di resistere agli effetti di danni neuropatologici [Stern Y., 2012]. Studi osservazionali hanno mostrato consistentemente che le persone coinvolte in attività mentali stimolanti presentano meno possibilità di sviluppare AD [Barnes D.E., Yaffe K., 2011].

Il fatto che 1/3 dei casi di AD sia potenzialmente attribuibile a fattori di rischio modificabili evidenzia il potenziale della riduzione di questi in temine di prevenzione della patologia [Crous-Bou M. et al., 2017].

1.2.4.2 Non modificabili

L'APOE4 è il principale fattore di rischio genetico per la malattia di Alzheimer. Il rischio di sviluppare AD è superiore al 50% per i portatori omozigoti del gene di

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APOE4 e al 20-30% per gli eterozigoti di APOE3 e APOE4. APOE4 ha diversi effetti sulla malattia di Alzheimer: interferisce con la clearance dell'Aβ, [Castellano J.M. et al., 2011] ed è anche trasformata in frammenti neurotossici [Mahley R.W., Huang Y., 2012]. Inoltre, è stato osservato in modelli animali di AD, esprimenti l'APOE4, che si ha la disinibizione di un meccanismo di segnalazione della ciclofillina A nei periciti dei vasi sanguigni cerebrali, con conseguente degenerazione di questi vasi, riduzione della funzionalità della barriera ematoencefalica e neurodegenerazione indipendente da Aβ [Bell R.D. et al., 2012].

1.2.5 Diagnosi

Per quanto un approccio terapeutico contro la malattia di AD possa essere efficace, necessita di strumenti diagnostici validi, considerando che ad oggi il gold standard diagnostico è rappresentato dall’analisi post-mortem di reperti autoptici. Si pensa che il processo neurodegenerativo abbia inizio circa 20-30 anni prima dell’esordio clinico della patologia. Su questa assunzione si sono basati molti degli studi di messa a punto di metodi diagnostici [Galimberti D., 2012].

Le tecniche attualmente utilizzate prevedono tecniche di neuroimaging o di rilevazione di marcatori nei fluidi biologici.

1.2.5.1 Imaging

• Tomografia ad emissione di positroni (PET)

Gli agenti PET hanno come bersagli gli aspetti patologici più caratteristici dell’AD: il ridotto metabolismo del glucosio in specifiche aree del cervello e l’accumulo di placche amiloidi. Il PET ¹⁸F-fluorodeossiglucosio, ad esempio, misura l’assorbimento di glucosio nei neuroni e nelle cellule gliali. [Perani D. et al., 2014]

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23 • MRI funzionale (fMRI)

Questa tecnica utilizza uno speciale software per valutare il flusso sanguigno cerebrale durante attività che richiedono l’utilizzo di funzioni di memoria e rileva i cambiamenti temporali nell'ossigenazione del sangue. Le aree con attività sinaptica più intensa sono evidenziate da un flusso sanguigno più elevato. Diversi studi hanno indicato che è possibile osservare un pattern specifico per l’AD in termini di perfusione delle aree cerebrali durante lo sviluppo della malattia [Khandai A.C., Aizenstein H.J., 2013].

• MRI volumetrica

La progressione di AD si correla ad una progressiva perdita del tessuto cerebrale, ciò può essere dimostrato misurando il volume degli spazi del fluido cerebrospinale (CSF) che si espandono con il processo di atrofia cerebrale [Olsson, B. et al., 2016]

1.2.5.2 Biomarkers

• Biomarcatori del fluido cerebrospinale (CSF)

È appurato che il CSF sia in contatto diretto con il fluido extracellulare dei ventricoli cerebrali, quindi il livello dei marcatori specifici nel CSF può essere un fattore predittivo dei cambiamenti biochimici che avvengono all’interno del SNC. La concentrazione dell’isoforma Aβ42 nel liquido cerebrospinale di pazienti affetti da AD risulta specificamente diminuita di circa il 50% rispetto ai soggetti sani; tuttavia nelle fasi più precoci il livello di Aβ 42 può essere aumentato. Pur sapendo che le placche amiloidi rilevate nel cervello dei pazienti di AD sono un segno distintivo specifico della malattia, queste rilevazioni sono giustificate dal fatto che la concentrazione iniziale elevata di peptide Aβ42 è propedeutica alla formazione di depositi amiloidi insolubili, che una volta formati causano un diminuito livello di peptidi Aβ42 nel CSF. La comprensione di questo meccanismo ha permesso l’utilizzo di questo peptide come un probabile biomarcatore della diagnosi di AD o del monitoraggio della progressione della malattia [Pietrzak K. et al., 2018].

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24 • Biomarcatori sanguigni

Diversi studi hanno dimostrato che la valutazione dei metaboliti del sangue può fornire una valida indicazione dei progressi patologici della malattia di Alzheimer. È stato recentemente dimostrato che il diminuito livello dei metaboliti della tiamina ematica potrebbe servire come biomarcatore di diagnosi dell’AD con una sensibilità del 77,4% e una specificità del 78,1%, comparando i pazienti affetti da AD con controlli sani. Inoltre, l'utilizzo della tecnica HPLC rende questa strategia particolarmente accessibile se si tiene conto della sua semplicità di esecuzione e dei bassi costi. Un altro approccio è quello di utilizzare autoanticorpi per distinguere una lieve compromissione cognitiva (MCI) a causa del processo naturale di invecchiamento causato da altre malattie neurodegenerative, nonché la fase iniziale di AD da quello più avanzato.

Non si hanno ancora molti dati che descrivano l’accuratezza e la specificità dei biomarcatori prelevati dal sangue per la diagnosi di AD e quindi non sono stati proposti metodi convalidati di campionamento del sangue, tuttavia la semplicità e non invasività di questa tecnica favorisce la propensione verso ulteriori studi [DeMarshall C.A. et al., 2016].

1.2.6 Terapie farmacologiche

1.2.6.1 Inibitori dell’acetilcolinesterasi (AchEI)

La degenerazione del sistema colinergico è un importante elemento patofisiologico dell’AD [Perry E.K. et al., 1978; Schliebs R., Arendt T., 2006]. I neuroni colinergici costituiscono la principale fonte di acetilcolina (Ach) a livello corticale, ovvero la struttura maggiormente intaccata nell’AD. È stato osservato che il numero di neuroni colinergici, così come l’attività dell’acetilcolintransferasi e il riassorbimento di colina, risultano costantemente ridotti nel cervello di pazienti affetti da AD in fase avanzata [Davies P., Maloney A.J., 1976; Whitehouse P. et al., 1982]. Un calo della concentrazione di Ach nel SNC è pertanto direttamente correlato con la compromissione cognitiva [Perry E.K. et

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al., 1978]. Questi risultati hanno portato all'ipotesi colinergica di AD [Francis P.T. et al., 1999].

La neurotrasmissione colinergica si basa sulle proteine implicate nella sintesi, immagazzinamento e degradazione del neurotrasmettitore Ach. La sintesi ha luogo nel citoplasma dei neuroni colinergici. L’enzima acetilcolintransferasi sintetizza Ach, condensando una molecola di colina con una di acetil-CoA. In seguito il neurotrasmettitore è trasferito attraverso il trasportatore vescicolare dell’Ach (VAchT), dal citosol alle vescicole sinaptiche [Potter L.T., 1970]. L’Acetil-CoA è fornito dai mitocondri, mentre la colina proviene dalla dieta. Nel momento in cui avviene una depolarizzazione a livello neuronale, l’Ach viene esocitata dalle vescicole sinaptiche e rilasciata nello spazio sinaptico, dove può interagire con recettori nicotinici o muscarinici. L’Ach, ivi rilasciata, è rapidamente inattivata ad opera di Acetilcolinesterasi (AchE), che la scindono in colina e acetato. Ogni molecola di AchE può idrolizzare fino a 5 000 molecole di Ach al secondo; questo aspetto fa dell’AchE uno degli enzimi cineticamente più efficienti [Potter P.E. et al., 1984]. Farmaci ad azione inibitoria sulla acetilcolinesterasi (AchEI) possono aumentare i livelli di Ach nello spazio sinaptico e in parte migliorare i disturbi cognitivi correlati alla malattia di Alzheimer [Raina P. et al., 2008; Sun Y. et al., 2008]. Tuttavia, questi farmaci producono effetti benefici solo per un breve periodo di tempo, circa da uno a tre anni, e non possono arrestare la progressione della malattia [Sun Y. et al., 2008]. Sono attualmente disponibili in terapia, con medesima efficacia, i seguenti inibitori dell’acetilcolinesterasi, approvati per il trattamento sintomatico dell’AD: tacrina, donepezil, rivastigmina e galantamina [Aisen P.S. et al., 2012; Birks J., 2006].

• La tacrina (tetraminoacridina, THA), un inibitore delle colinesterasi e modulatore muscarinico a lunga durata di azione, è stato il primo farmaco trovato capace di determinare qualche beneficio nella malattia di Alzheimer. A causa della sua tossicità epatica la tacrina è stata quasi completamene sostituita nella pratica clinica da nuovi AchEI.

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• Il donepezil è un inibitore selettivo e reversibile dell’acetilcolinesterasi. Inoltre, il donepezil funge da ligando allosterico potenziante l’attività dell’acetilcolina sui recettori nicotinici di tipo α-4 e α-7. Per mezzo di questo meccanismo d’azione, il donepezil attiva sistemi intracellulari in grado di favorire la sopravvivenza neuronale come il protoncogene Akt e la proteina Bcl-2, come pure di ridurre l’attivazione (calcio-dipendente) dell’ossido nitrico sintetasi che determina la formazione di specie reattive dell’azoto come il perossinitrito. Dopo somministrazione orale, il donepezil ha un’eccellente biodisponibilità e raggiunge la concentrazione massima al picco in 3-7 ore. Il farmaco presenta un legame farmaco-proteico di circa il 90% ed un’emivita di circa 70 ore; è metabolizzato dal fegato per mezzo dei CYP3A4 e CYP2D6. Numerosi studi clinici hanno dimostrato l’efficacia del donepezil 5-10 mg nel migliorare le capacità cognitive e le attività della vita quotidiana di soggetti con demenza di Alzheimer lieve-moderata. I principali effetti collaterali del donepezil sono dolore toracico, nausea, vomito e perdita di peso.

Fig. 1.8 Struttura chimica del donepezil.

• La rivastigmina è un inibitore non selettivo dell’acetilcolinesterasi. Inoltre, la rivastigmina forma un complesso carbamoil-enzima, caratterizzato da un legame covalente, che rende il complesso più resistente all’idrolisi. La rivastigmina ha una buona biodisponibilità dopo somministrazione orale, con legame farmaco-proteico di circa il 40%, e la concentrazione ematica al picco è raggiunta dopo un’ora. L’emivita è di 1.5-2 ore; è metabolizzata soprattutto nel plasma ad opera di colinesterasi plasmatiche. Attualmente la rivastigmina è stata formulata anche sottoforma di cerotto transdermico che garantisce concentrazioni ematiche stabili del farmaco. Al dosaggio di

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6-12 mg/die è usata nel trattamento della demenza di Alzheimer lieve moderata e il suo impiego ha portato a miglioramento di: capacità cognitive, attività della vita quotidiana e valutazione globale. I principali effetti collaterali della rivastigmina in capsule sono capogiri, anoressia, nausea, vomito e dispepsia. L’insorgenza di tali effetti collaterali è ridotta in caso di somministrazione transdermica.

Fig. 1.9 Struttura chimica della rivastigmina

• La galantamina è un alcaloide terziario isolato da numerose piante come alcune specie di narciso ed il bucaneve Galanthus nivalis. La galantamina condivide con il donepezil la capacità di attivare sistemi di segnalazione intracellulari in grado di aumentare la sopravvivenza neuronale come Akt e di ridurre la citotossicità mediata da ossido nitrico e da specie reattive dell’azoto. Ha un’eccellente biodisponibilità dopo somministrazione orale ed un ridotto legame con le proteine del plasma (15-30%); raggiunge la concentrazione plasmatica di picco entro 1-2 ore dalla somministrazione ed ha un’emivita di 5-7 ore. È metabolizzata dalle isoforme 3A4 e 2D6 del CYP. La galantamina si è dimostrata efficace nel migliorare le capacità cognitive ed il comportamento di individui con demenza di Alzheimer lieve-moderata, mentre in caso di demenza severa il farmaco ha mostrato un qualche effetto solo sulle prestazioni cognitive. Gli effetti avversi più comuni sono: anoressia, vomito, diarrea, calo ponderale e vertigini. Talvolta possono manifestarsi anche bradicardia di gradi lieve, disturbi del sonno e allucinazioni [Katzung B. G., Preziosi P., 2009].

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Fig. 1.10 Struttura chimica della galantamina.

1.2.6.2 Inibizione del recettore NMDA

L’ipotesi glutammatergica della malattia di Alzheimer si basa sul fatto che l’accumulo della placca amiloide e dei peptidi Aβ nell’ippocampo risultano in una iperattivazione dei recettori glutammatergici NMDA, causando: eccitotossicità indotta dal glutammato, ridotto potenziamento a lungo termine, formazione di radicali liberi e incremento di morte neuronale [Danysz W., Parsons C.G., 2012]. La memantina è l’unico inibitore non competitivo del recettore NMDA del glutammato. Dopo somministrazione orale, la memantina dimostra un’eccellente biodisponibilità, la concentrazione plasmatica di picco è raggiunta in 6-8 ore e l’emivita raggiunge valori di 60-80 ore. Circa il 50% del farmaco è escreto immodificato dal rene, mentre il restante va incontro a reazioni di glucuronazione nel fegato. La memantina 20 mg/die è indicata sia in monoterapia che in associazione al donepezil nel trattamento della demenza di Alzheimer di grado grave. Effetti indesiderati (5-6%) sono vertigini, confusione, cefalea, stipsi, tosse, ipertensione e allucinazioni [Katzung B. G., Preziosi P., 2009].

Sono urgentemente richiesti nuovi trattamenti preventivi, che ritardino l’esordio della malattia o che la curino. Le linee di ricerca hanno maggiormente focalizzato gli studi su approcci: anti-amiloidi, includendo strategie di immunizzazione attiva e passiva, inibitori di γ- e β-secretasi e antiaggreganti. Diversi studi di fase 3 su strategie anti-amiloidi su pazienti con malattia di Alzheimer da lieve a moderata sono stati pubblicati con risultati deludenti [Doody R.S. et al., 2013].

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29

1.3

Il solfuro di idrogeno (H

2

S)

Il solfuro di idrogeno (H2S), scoperto nel 1777 da Carl Wilhelm Scheele, è tradizionalmente noto come un inquinante atmosferico dall'odore caratteristico di uova marce. La tossicità di H2S è conosciuta da centinaia di anni ed è paragonabile a quella del monossido di carbonio (CO) o dell’acido cianidrico (HCN) [Li Q., Lancaster J.R. Jr., 2013; Evans C.L., 1967]. L'esposizione a 300 ppm di H2S porta ad edema polmonare mentre a 1000 ppm provoca la morte immediata [Kabil O., Banerjee R., 2010].

Questa molecola gassosa però è stata recentemente riconosciuta come gastrasmettitore endogeno, insieme all’ossido nitrico (NO) e al monossido di carbonio (CO) [Vandiver M.S., Snyder S.H., 2012]. I gastrasmettitori sono molecole gassose biosintetizzate endogenamente attraverso diverse vie biochimiche. Nel 1996 Abe e Kimura dimostrarono che l'H2S endogeno agisce come un neuromodulatore a livello del sistema nervoso centrale [Abe K., Kimura H., 1996]. Dopo questa scoperta, una serie di studi hanno rivelato vari effetti biologici di H2S, che includono il vaso-rilassamento [Köhn C. et al., 2012; Ariyaratnam P. et al., 2013], la protezione del miocardio da lesioni ischemiche [Calvert J.W. et al., 2010], e la citoprotezione nei confronti dello stress ossidativo [Wen Y.D. et al., 2013].

1.3.1 Proprietà chimico-fisiche

A temperatura e pressione ambiente, H2S esiste sottoforma di gas incolore, dal tipico odore pungente di uova marce. Per le sue caratteristiche di acido debole, risulta solubile in acqua (80 mM a 37°C). In soluzione si trova in equilibrio tra la forma indissociata e quella ionica (H2Saq ⇌ HS⁻ ⇌ S²⁻). I valori di pKa per la prima e la seconda dissociazione sono rispettivamente 7,0 e 12,05 [Vorobets V.S. et al. 2002; Kabil O., Banerjee R., 2010; Mark G. et al., 2011]. A pH fisiologico, di 7.4, H2S esiste principalmente come HS⁻, ma è comunque presente una quota, sebbene più piccola di H2S libero (il rapporto di HS⁻/ H2S è ~ 3:1), mentre la

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quantità di anione solfuro (S²⁻) è molto bassa. Poiché non è stato possibile determinare quale forma di H2S (H2S, HS⁻ o S²⁻) sia la specie attiva nei sistemi biologici, il termine H2S viene utilizzato per riferirsi ai solfuri totali presenti in soluzione (ossia H2S + HS⁻ + S²⁻) [Zhao Y. et al., 2014].

1.3.2 Biosintesi

Nei tessuti dei mammiferi, il solfuro di idrogeno può essere biosintetizzato attraverso una via non enzimatica e una enzimatica.

La via biosintetica non enzimatica, meno importante, procede secondo la reazione:

2 C6H12O6 + 6 S0 + 3 H2O → 3 C3H6O3 + 6 H2S + 3 CO2

in cui a partire da due molecole di glucosio e tre di acqua, lo zolfo elementare viene ridotto ad H2S. Questa reazione può avvenire anche in presenza di altri substrati, tra cui il glutatione (GSH) e i trasportatori di elettroni NADH e NADPH, che sono in grado di promuovere la sintesi di H2S in lisati cellulari di eritrociti umani. [Searcy D.G., Lee SH., 1998; Wang R., 2002].

Per quanto riguarda la via biosintetica enzimatica, la L-Cisteina rappresenta il substrato principale per la produzione di H2S. Gli enzimi responsabili sono almeno quattro: cistationina β-sintasi (CBS) e cistationina γ-liasi (CSE) che utilizzano la vitamina B6 come cofattore, 3-mercaptosulfotransferasi (3-MST) e cisteinaminotransferasi (CAT) [Hu L.F. et al., 2011]. Tutti questi enzimi sono espressi in modo differente nell’organismo: ad esempio nel SNC l’enzima maggiormente espresso è la CBS, che a questo livello rappresenta la principale sorgente di H2S [Abe K., Kimura H., 1996]. CSE, invece è espresso nei tessuti periferici come fegato, pancreas, utero, intestino e sistema cardiovascolare [Kimura H., 2011]. La biosintesi enzimatica avviene attraverso le seguenti quattro vie:

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• La prima prevede l’idrolisi della L-cisteina, ad opera della CBS, per dare L-serina e H2S (Fig. 1.11) [Porter P. et al., 1974].

Fig. 1.11: Prima via biosintetica

• La seconda via consiste, prima nella dimerizzazione di due molecole di L-cisteina, poi nella scissione della cistina in tioL-cisteina, piruvato e ammoniaca. La tiocisteina può andare incontro a un processo non enzimatico che la trasforma in L-cisteina e H2S [Cavallini D. et al., 1962], oppure andare incontro ad un processo enzimatico catalizzato dalla CSE in presenza di gruppi R-SH che dà origine a H2S e CysS-R (Fig. 1.12) [Yamanishi T., Tuboi S., 1981; Stipanuk M.K., Beck P.W., 1982].

Fig. 1.12: Seconda via biosintetica

• La terza via biosintetica prevede l’intervento dell’enzima CAT che catalizza la trasformazione di cisteina e α-chetoglutarato in L-glutammato e 3-mercaptopiruvato. Quest’ultimo può essere desolforato ad opera della 3-mercaptopiruvato solfotransferasi per fornire piruvato e H2S

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[Kuo S.M. et al., 1983; Shibuya N. et al., 2009]. Quando, invece nell’ambiente di reazione sono presenti ioni solfito, il 3-mercaptopiruvato viene convertito in piruvato e lo ione solfito in tiosolfato ad opera dell’enzima CAT. Il tiosolfato reagisce poi con il glutatione ridotto (GSH) per formare H2S, SO32- e glutatione in forma ossidata (GSSG) (Fig. 1.13) [Martelli A. et al., 2012].

Fig. 1.13: Terza via biosintetica

• L’ultima via di sintesi avviene ad opera dell’enzima cisteina liasi, che utilizzando la vit. B6 come cofattore, catalizza la condensazione della L-cisteina con lo ione solfito per formare L-cisteato e liberare H2S (Fig. 1.14) [Li et al. 2009].

Figura 1.14: Quarta via biosintetica

1.3.3 Metabolismo

L’H2S è catabolizzato nelle cellule dell’organismo attraverso diverse vie. La via principale avviene mediante un’ossidazione mitocondriale in vari tessuti [Hildebrandt T.M., Grieshaber M.K., 2008]. In una reazione catalizzata

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dall’enzima chinone ossidoreduttasi, H2S è convertito in persolfuri; questi sono a loro volta ossidati a solfiti e tiosolfiti. A concentrazioni fisiologiche di ossigeno, i tiosolfiti vengono ulteriormente metabolizzati in solfati facilmente eliminabili [Mikami Y. et al., 2011]. H2S può anche essere metilato per azione dell’enzima tiol-S-metiltransferasi. Inoltre, anche proteine non mitocondriali, come la emoglobina e la mioglobina, possono catabolizzare H2S attraverso ossidazione [Berzofsky J.A. et al. 1971; Stein A., Bailey S.M., 2013]. In misura minore, H2S può interagire anche con le specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto [van Kampen E.J., Zijlstra W.G., 1983; Stein A., Bailey S.M., 2013].

1.3.4 Ruolo protettivo nell’AD

Le basi molecolari dell’effetto protettivo di H2S a livello del SNC nelle malattie neurodegenerative sono state al centro di molti studi negli ultimi anni. Evidenze sempre più numerose, grazie a studi condotti sia in vitro che in vivo, suggeriscono che l’H2S abbia notevoli potenziali terapeutici per il trattamento dell’AD [Hai-Jun W. et al., 2014]. Gli effetti protettivi avvengono secondo i meccanismi descritti di seguito:

• Effetto antinfiammatorio

La neuroinfiammazione è fortemente implicata nell’eziologia della maggior parte delle malattie neurodegenerative. Le cellule non-neuronali come la microglia, gli astrociti e gli oligodendrociti costituiscono il microambiente che permette il normale funzionamento dei neuroni. Tuttavia, in caso di eventi patologici o di tossicità, la loro iperattivazione può avviare molte cascate indesiderate o neurotossiche. Il lavoro pionieristico di Hu et al. ha rivelato le proprietà antinfiammatorie di H2S in modelli di neuroinfiammazione indotta da LPS sia in colture primarie di cellule di microglia che di microglia immortalizzate murine (BV-2) [Hu L.F. et al., 2007].

L’effetto antinfiammatorio è dovuto all’inibizione dei segnali cellulari degli enzimi iNOS e MAP-chinasi [Hu L.F. et al., 2007]. È stato osservato che

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