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L'interpretazione conforme a Costituzione tra Corte costituzionale e giudici comuni.

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1

U

NIVERSITÀ DEGLI STUDI DI

P

ISA

D

IPARTIMENTO DI

G

IURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE A CICLO UNICO IN GIURISPRUDENZA

Tesi di Laurea:

L’interpretazione conforme a Costituzione tra Corte

costituzionale e giudici comuni

Candidato: Relatore:

Mario Umberto Bitti Prof. Roberto Romboli

(2)
(3)

3

INDICE:

A) Introduzione (pag. 8)

B) L’interpretazione giuridica

1. Una definizione di interpretazione giuridica e alcune distinzioni teoriche

(pag. 9)

2. Teorie sull’interpretazione (pag. 13)

3. La distinzione tra disposizione e norma (pag. 30)

4. I metodi interpretativi e l’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale

(pag. 40)

C) Specificità dell’interpretazione costituzionale e discrezionalità del giudice

(pag. 59)

D) Il canone dell’interpretazione “conforme” o “adeguatrice”

1.

Il canone dell’interpretazione conforme

(pag. 77)

2. L’interpretazione, le antinomie e i criteri ordinatori tra fonti

(pag. 79)

3.

Il concetto di interpretazione conforme a Costituzione. (80)

3.1. Il canone dell’interpretazione conforme come criterio <<nuovo>>

<<diverso>> rispetto a quelli tradizionali

(pag. 83)

3.2. Il canone dell’interpretazione conforme come <<criterio di

scelta>> o argomento decisorio

(pag. 85)

3.3. La “direzione” imposta all’interprete dal canone dell’interpretazione

conforme

(pag. 90)

4.

Le ragioni giustificative dell’interpretazione conforme (pag. 98)

5.

Le varie tipologie di interpretazione conforme

(pag. 105)

5.1(segue) interpretazione conforme al diritto “eurounitario” (pag. 106)

5.2(segue)

al

diritto

internazionale

(in

particolare

al

diritto

(4)

4

6. L’interpretazione conforme a Costituzione: Stato di diritto e Stato

costituzionale di diritto (pag. 120)

7. Modello “diffuso” e modello “accentrato-incidentale” di controllo di

costituzionalità

(pag. 126)

8. Il potere della Corte costituzionale e dei giudici di interpretare la legge in

modo conforme a Costituzione e i suoi limiti. L’“invenzione” delle sentenze

interpretative (di rigetto e di accoglimento)

(pag. 136)

8.1. Il discorso di Gaetano Azzariti

(pag. 144)

8.2. L’interpretazione conforme come “monopolio” della Corte

costituzionale

(pag. 148)

8.3. Il congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati di Gardone del

1965 (pag. 149)

8.4. La dottrina del diritto vivente e le sentenze interpretative di

accoglimento (e le altre tipologie di sentenze di accoglimento, parziali e

additive)

(pag. 151)

9.

L’efficacia delle decisioni interpretative di rigetto (pag. 156)

9.1. (segue) l’importanza della motivazione nella determinazione degli

effetti sostanziali della pronuncia interpretativa di rigetto

(pag. 164)

9.2. (segue) le vicende giurisprudenziali che hanno definito l’efficacia

delle pronunce interpretative di rigetto

(pag. 166)

9.3. La “seconda guerra tra le Corti”: dalla sentenza costituzionale n. 292

del 1998 alla sentenza Pezzella e alla sentenza costituzionale n. 299 del 2005.

L’affermarsi del valore soltanto persuasivo delle sentenze interpretative di

rigetto verso la generalità dei giudici

(pag. 175)

9.4. (segue) i recenti interventi della Corte di Cassazione sul tema

dell’efficacia delle sentenze interpretative di rigetto

(pag. 185)

10. Le pronunce “additive di principio”

(pag. 187)

11. La progressiva valorizzazione dei poteri interpretativi del giudice comune

nella individuazione della interpretazione della legge conforme a Costituzione. Il

rapporto tra interpretazione conforme e diritto vivente: la prevalenza della prima

(5)

5

e il carattere residuale del secondo. I fattori di crisi della <<dottrina del diritto

vivente>> (pag. 195)

11.1. Il problema dell’identificazione del diritto vivente e i vaghi

contorni del relativo concetto (pag. 198)

11.2. Diritto vivente e interpretazione conforme (pag. 200)

11.3. La tendenziale prevalenza della “dottrina” dell’interpretazione

conforme sulla “dottrina” del diritto vivente

(pag. 205)

11.4. (segue) il rapporto “diretto” tra Corte costituzionale e Corte di

Cassazione

(pag. 213)

11.5 (segue) il dovere di interpretazione adeguatrice e il principio di

diritto fissato dalla Corte di Cassazione per il giudizio di rinvio

(pag. 217)

11.6. (segue) ipotesi nelle quali la Corte ha assunto un atteggiamento

“conciliante” nei confronti della Corte di Cassazione (pag. 219)

11.7. La “dottrina” dell’interpretazione conforme e la sua

“radicalizzazione”

(pag. 221)

12. Le pronunce di inammissibilità (o di infondatezza) interpretative

(“correttive” e “adeguatrici”). Le questioni meramente <<ipotetiche>> e

l’inammissibilità per mancata o insufficiente interpretazione adeguatrice. La

difficoltà di tracciare una precisa linea di confine tra le questioni di legittimità

costituzionale e le questioni meramente interpretative. Il tendenziale

assorbimento delle prime nelle seconde per mezzo delle pronunce di

inammissibilità per <<insufficiente sforzo interpretativo>>

(pag. 228)

12.1 Alcuni casi di pronunce di inammissibilità per insufficiente sforzo

interpretativo

(pag. 243)

12.2 (segue) le pronunce interpretative “occulte” (pag. 250)

12.3 L’efficacia delle decisioni interpretative d’inammissibilità nel

giudizio a quo: preclusione o riproponibilità della questione di costituzionalità?

(pag. 257)

13. L’obbligo dei giudici a quibus di accertare l’impossibilità di

un’interpretazione adeguatrice e i requisiti di ammissibilità del giudizio di

(6)

6

costituzionalità normativamente previsti dalla legge costituzionale e ordinaria

(rilevanza e non manifesta infondatezza)

(pag. 264)

13.1. Il requisito della rilevanza della questione e l’obbligo del giudice di

verificare la possibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione della

legge da applicare nel giudizio principale

(pag. 268)

13.2. Il requisito della <<non manifesta infondatezza>> della questione e

il dovere d’interpretazione adeguatrice

(pag. 273)

13.3. Il rischio di “diffusione” del sindacato accentrato di costituzionalità

e di “inaridimento” del controllo incidentale sulle leggi

(pag. 279)

13.4. Breve analisi di alcune caratteristiche essenziali del modello di

sindacato di costituzionalità tedesco (pag. 282)

13.5. Alcuni rimedi prospettati in dottrina per evitare lo “stravolgimento”

del sindacato accentrato e il problema dell’inefficacia generale delle pronunce

interpretative di rigetto

(pag. 286)

14.

Il “nuovo utilizzo” delle decisioni interpretative (di rigetto e di

inammissibilità) da parte della Corte costituzionale: per “contrastare” un diritto

vivente incostituzionale o per affermare una lettura “creativa” o “ardita” della

legge

(pag. 292)

14.1. (segue) l’utilizzo delle pronunce interpretative di rigetto per

proporre letture alternative o contrastanti col diritto vivente

(pag. 294)

14.2. (segue) casi in cui le pronunce interpretative di rigetto sono state

utilizzate dalla Corte per proporre interpretazioni adeguatrici lontane dalla

lettera della disposizione di legge o addirittura con essa contrastanti (pag. 296)

15.

L’<<attenuazione>> dell’obbligo di interpretazione conforme in alcune

recenti pronunce della Corte costituzionale (pag. 313)

16.

Osservazioni conclusive (pag. 318)

(7)
(8)

8

A) Introduzione

L’interpretazione “conforme” o “adeguatrice” può essere definita come una forma di interpretazione giuridica, attraverso la quale si tenta di operare l’adeguamento del significato di un testo giuridico al significato di un altro testo giuridico, posto quest’ultimo in una relazione condizionante col primo. Questo adeguamento si rende necessario allo scopo di prevenire o evitare il contrasto tra i significati normativi ricavabili dai due testi, contrasto configurabile come antinomia (conflitto tra norme), situazione che impone, attraverso il ricorso ai cosiddetti “criteri di risoluzione delle antinomie” (cronologico, gerarchico, di specialità), di rimuovere, o comunque non applicare, una delle due norme.

L’interpretazione conforme, pertanto, può essere considerata un tipo di interpretazione, ossia un procedimento di attribuzione di significato ad un testo, con il quale si tenta di comprendere il significato di quest’ultimo alla luce del significato espresso da un altro testo, allo scopo di prevenire l’“eliminazione” del primo dal mondo delle fonti del diritto, vale a dire evitarne la dichiarazione d’invalidità. L’interpretazione conforme viene definita, infatti, come <<duplex interpretatio>>, poiché presuppone l’interpretazione tanto del testo “condizionato”, quanto del testo “condizionante”.

La Corte costituzionale, come si vedrà meglio oltre, trovandosi nella situazione di dover confrontare le norme legislative con quelle costituzionali, al fine di valutare la conformità delle prime rispetto alle seconde, non può limitarsi ad interpretare il parametro del giudizio di costituzionalità, ossia le disposizioni costituzionali, ma deve fare altrettanto con l’oggetto del giudizio stesso, vale a dire con la disposizione legislativa sottoposta al suo controllo. Per uscire dalla “rigida” alternativa tra accoglimento (dichiarazione di incostituzionalità) e rigetto (dichiarazione di infondatezza della questione), la Corte, fin dall’inizio della sua attività, ha fatto ricorso alla tecnica dell’interpretazione <<adeguatrice>>, dapprima attraverso le <<sentenze interpretative di rigetto>>, con le quali “salvava” la disposizione legislativa dalla dichiarazione d’incostituzionalità, “reinterpretandola” in senso conforme a Costituzione, e poi, più di recente, attraverso pronunce di carattere processuale, tramite le quali la Corte “rimprovera” il giudice a quo di non aver prescelto una possibile (secondo la Corte stessa) interpretazione conforme a Costituzione, evitando perciò di sollevare la quaestio legitimitatis. Come ha afferma la Corte nella celebre sentenza n. 356 del 1996, infatti, <<In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali>>. In altri termini, laddove sia astrattamente possibile un’interpretazione conforme a Costituzione, il giudice deve scegliere quest’ultima, qualificandosi dunque l’eventuale “questione di costituzionalità” sollevata come una <<mera questione d’interpretazione>>, di competenza del giudice comune, e non di legittimità costituzionale, di competenza del giudice delle leggi. Come si vedrà nel corso della trattazione, questo indirizzo della Corte costituzionale può compromettere il principio di autonomia ermeneutica del giudice, ricavabile dall’art. 101, secondo comma, della Costituzione, che stabilisce la soggezione del giudice <<soltanto alla legge>>.

L’interpretazione conforme potrebbe essere definita come una forma specifica di interpretazione sistematica, in quanto attraverso di essa si tenta una lettura della singola disposizione di legge alla luce di un sistema giuridico al cui vertice vi è la Costituzione, considerata come fonte del diritto, dalla quale sia possibile ricavare norme immediatamente applicabili. In altri termini, la Costituzione deve essere considerata non soltanto una fonte che condiziona la validità

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9

della legge, ma anche come fonte contenente norme precettive, ossia, ove tecnicamente possibile, di immediata applicazione giudiziaria, e utilizzabili dal giudice come criteri d’interpretazione della legge. L’interpretazione conforme o adeguatrice, tuttavia, può anche essere considerata, non tanto come un criterio di individuazione (o produzione) di significato, ma come un criterio di scelta, costituzionalmente orientato, tra i diversi, possibili e alternativi significati di una disposizione di legge, identificati tramite l’utilizzo dei comuni canoni interpretativi (letterale, sistematico, teleologico, ecc.). Come vedremo più avanti, la dottrina è divisa riguardo alla natura del canone dell’interpretazione conforme.

Si può dire con certezza, in ogni caso, che l’interpretazione conforme presupponga o implichi l’interpretazione giuridica, che costituisce la base della prima.

Per tale motivo verranno prima esaminati alcuni temi fondamentali dell’interpretazione giuridica, come la distinzione tra interpretazione-attività e interpretazione-prodotto; verranno esaminate alcune teorie interpretative che contestano “dogmi” del giuspositivismo, primo fra tutti quello dell’univocità del significato della disposizione di legge; verrà poi trattata la distinzione tra disposizione e norma nonché l’impatto che ha avuto, sull’interpretazione del diritto, l’avvento di una costituzione rigida e contenente disposizioni di principio esprimenti valori pre-giuridici che, per la loro struttura aperta e ampiamente indeterminata, pongono al centro dell’attività di produzione normativa il momento interpretativo-applicativo, di spettanza degli organi giurisdizionali (e amministrativi).

B) L’interpretazione giuridica

1) Una definizione di interpretazione giuridica e alcune distinzioni teoriche

L’interpretazione può essere definita come un’attività intellettuale finalizzata ad attribuire, o ad ascrivere, significato ad un determinato significante; o, più nello specifico, essa rappresenta un processo mentale volto alla assegnazione di significato ad un enunciato linguistico, ossia ad un insieme di parole, o significanti, avente un senso compiuto.

Tuttavia, l’espressione “interpretazione” non allude soltanto ad un’attività o a un processo di attribuzione di significati a significanti: con la stessa espressione si può fare riferimento, infatti, anche al prodotto o risultato di tale procedimento. Dunque, si può distinguere tra interpretazione-attività e interpretazione-prodotto1.

Si può affermare, pertanto, che l’interpretazione riguardi insiemi di parole, ossia di segni riconducibili ad un determinato codice linguistico (comprendente regole, essenzialmente convenzionali, di carattere grammaticale, logico, sintattico, semantico) utilizzato per la comunicazione in un determinato contesto sociale. Tali segni devono, peraltro, dare vita necessariamente a “enunciati linguistici”, ossia a complessi di parole ai quali possa essere ascritto un significato compiuto secondo quella certa lingua.

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Il diritto è certamente un campo del sapere umano nel quale i problemi interpretativi occupano un ruolo centrale. L’attività del giurista, tanto quella del teorico quanto quella del pratico, infatti, deve confrontarsi costantemente con testi o documenti, siano essi trattati internazionali, costituzioni, leggi, regolamenti, sentenze e altri testi giuridicamente rilevanti o vincolanti. Ovviamente, l’esperienza giuridica non si esaurisce nei testi scritti, e in essa trovano spazio anche fatti, comportamenti e taciti accordi considerati, entro un contesto sociale storicamente determinato, come fonti del diritto, da cui scaturiscono vincoli giuridici: si fa riferimento, in particolare, alle consuetudini e alle convenzioni non scritte.

Tuttavia, le attività di ascrizione di significato ad un testo e quelle di attribuzione di significato o di senso a comportamenti normativi, avrebbero natura diversa, tanto che si potrebbe mettere in dubbio la possibilità di utilizzare per esse il medesimo vocabolo: infatti, <<la prima consiste nell’ascrivere significato a testi normativi, la seconda nell’ascrivere senso ad una prassi sociale: più precisamente, nell’inferire da una prassi sociale (l’esistenza) di norme>>2.

Nell’ambito dell’interpretazione giuridica, è possibile distinguere concettualmente tra interpretazione intesa quale <<attribuzione di significato ad un testo normativo>> (“interpretazione in astratto”), e interpretazione come <<qualificazione giuridica di una fattispecie concreta>> (“interpretazione in concreto”). In altri termini, con la prima attività ci si interroga sul senso da attribuire ad una sequenza di parole contenute in un testo normativo; con la seconda, invece, ci si domanda se una certa fattispecie ricada o meno entro il campo di applicazione di una data norma, previamente identificata3.

L’interpretazione “in astratto” sarebbe, dunque, l’assegnazione di un significato normativo ad un testo, senza alcun riferimento ad una fattispecie concreta; l’interpretazione “in concreto”, invece, <<consiste nel sussumere una fattispecie concreta nel campo di applicazione di una norma previamente identificata “in astratto”>>4. Dal punto di vista “logico”, le due attività dovrebbero avvenire in sequenza: vale a dire, la seconda implicherebbe logicamente la prima.

Si può affermare che le due tipologie di interpretazione svolgano due funzioni distinte anche se non separate: l’interpretazione “in astratto” serve per identificare le norme vigenti all’interno dell’ordinamento giuridico, e dunque a ridurre il grado di indeterminatezza dello stesso, dovuto all’equivocità (ossia alla polisemia) dei testi normativi; l’interpretazione “in concreto” serve stabilire quali casi concreti siano disciplinati da una singola norma previamente identificata, riducendone pertanto l’intrinseca indeterminatezza e vaghezza semantica5.

Tuttavia, sembrerebbe che tale distinzione abbia una rilevanza meramente teorica, in quanto nella mente del giudice non è affatto detto che le due attività siano logicamente scindibili o che si svolgano in senso “cronologico” (ossia prima l’interpretazione “in astratto” e poi l’interpretazione “in concreto”): potrebbe accadere, infatti, che le due attività si svolgano alla rovescia (ossia prima la qualificazione della fattispecie e poi la ricerca nei testi di una norma adatta al caso). Inoltre, secondo una certa corrente di pensiero, l’interpretazione giuridica, essendo un’attività eminentemente

2 M. Dogliani, Interpretazione, Dizionario di diritto pubblico, diretto da Sabino Cassese, Giuffrè, Milano, 2006

pag. 3180

3 R. Guastini, ibidem, pag. 15. 4 Ibidem.

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pratica, è sempre mossa dalla necessità di dare risposta a problemi concreti, e dunque far fronte a concrete esigenze di applicazione: pertanto, non sarebbe concepibile, in quest’ottica, un’attività interpretativa svolta “in astratto”. Questa si risolverebbe, infatti, in una mera “traslitterazione” o “traduzione” dell’enunciato normativo6, che consiste nel <<riformulare il testo interpretato>>7.

Si può, poi, distinguere (sempre concettualmente) tra interpretazione come “atto di conoscenza” e interpretazione come “atto di decisione”. L’interpretazione “cognitiva” o “accertativa”, consiste nell’identificare (o “enumerare”) i diversi possibili significati rientranti nella “cornice” di un testo normativo (tenendo conto delle regole linguistiche, dei criteri interpretativi in uso, delle tesi dogmatiche diffuse in dottrina, ecc.); l’interpretazione decisoria, invece, consiste nello scegliere, tra i diversi possibili significati, un solo significato, “scartando” dunque i rimanenti8.

Come vedremo, tale distinzione è valorizzata da Hans Kelsen, secondo il quale allo scienziato del diritto, in quanto tale, spetterebbe soltanto la prima forma di interpretazione; mentre la seconda, consistendo nella scelta tra diversi significati tutti astrattamente possibili, sarebbe il risultato di una decisione discrezionale basata sulle preferenze soggettive dell’interprete, su giudizi di valore non imposti dal diritto positivo9.

Tuttavia, questa ricostruzione viene criticata in dottrina, in quanto, si nota, sarebbe poco realistico pensare che il giurista, e in particolare l’operatore pratico del diritto, prima di decidere quale significato normativo attribuire al testo in relazione ad una fattispecie concreta, proceda alla enumerazione di tutti i significati astrattamente ricavabili dal testo medesimo. Come scrivono F. Viola e G. Zaccaria, infatti, <<pensare che l’attività del giurista prenda astrattamente in esame tutti i possibili significati di un testo è assai lontano dalla realtà, perché dimentica che i significati normativi vengono costantemente precisati dall’interno di una pratica sociale>>. Inoltre, significherebbe ammettere <<una insanabile contrapposizione tra scienza del diritto da un lato, legislazione e giurisdizione dall’altro, mentre resterebbe in piedi il problema cruciale di individuare criteri credibili per sottrarre all’arbitrarietà o peggio alla causalità, il comportamento giudiziale attributivo di significati agli enunciati normativi>>10 .

È possibile, inoltre, distinguere due tipi di interpretazioni decisorie: il primo consiste nello scegliere tra i significati identificati tramite l’interpretazione cognitiva, ossia tra i significati astrattamente riconducibili al testo in base ai criteri interpretativi; il secondo tipo consiste nell’attribuire al testo un significato “nuovo”, <<non compreso tra quelli identificati o identificabili in sede di interpretazione cognitiva>>. Tale ultimo tipo di interpretazione può essere definita <<interpretazione creativa>>11.

L’interpretazione <<creativa>> può essere ricondotta al fenomeno della <<costruzione giuridica>>, ossia della creazione di <<norme inespresse>> (regole o principi) a partire da norme

6 G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, 2008, capitolo quinto, sezione seconda, edizione kindle. 7 Ibidem.

8 R. Guastini, ult. op. cit., pagg. 27-28.

9 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 2000, pag. 124. 10 F. Viola e G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, Laterza, Bari, pag. 171; v. anche pag. 323 11 R. Guastini, ult. op. cit., pag. 29.

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esplicite, ossia espressamente formulate dalle autorità normative12: a tale fenomeno possono essere ricondotti, ad esempio, l’analogia (legis e iuris) e il bilanciamento tra principi confliggenti13.

Ma proviamo a definire il concetto d’interpretazione. Come scrive G. Zagrebelsky, l’interpretazione <<è un’attività che si svolge tra due lati>>. Il termine <<interpretazione>>, derivante dal latino, è il risultato dell’unione di due termini: <<inter->>, che indica un qualcosa che sta in mezzo, in posizione mediana; e <<praes>>, che significherebbe <<garanzia>>, e che si collega alla voce verbale <<praestare>>, cioè <<stare davanti>>, <<assicurare>>, <<garantire>>14.

Detto questo, è possibile affermare che l’attività interpretativa è un’attività d’intermediazione, nella quale l’interprete fa da tramite tra l’oggetto dell’interpretazione e il destinatario o i destinatari della stessa: <<l’interpretazione non è dunque un rapporto a due, fra chi interpreta e ciò che è interpretato>>. Secondo questo G. Zagrebelsky, la posizione dell’interprete <<è quella di colui che fa da mediatore fra un autore che ha consegnato il suo messaggio a un testo destinato a sopravvivergli e un pubblico che ne riceve il contenuto>>15. Dunque, <<l’interprete è vincolato al testo, ma è gravato anche da un altro vincolo, che gli proviene dai destinatari del messaggio: deve essere comprensibile, anzi convincente, ciò che significa il dover “tenere conto” del contesto culturale in cui si svolge la ricezione>>16. Detto in altri termini, l’interpretazione è <<al centro di due flussi di influenza, che convergono da opposte direzioni, provenienti dal testo e dai destinatari del testo>>17.

L’interpretazione è, dunque, un’attività volta ad ascrivere o ad attribuire significato ad un testo contenente enunciati, ossia formulazioni linguistiche idonee ad essere comprese dai relativi destinatari, nonché ad elaborare altri enunciati che siano idonei ad esprimere il significato dei primi: dunque è un procedimento volto a ricavare, a partire da determinati enunciati, determinati significati che a loro volta devono essere inseriti in altri enunciati. Di conseguenza, l’interprete, oltre ad essere vincolato al testo, è gravato da un altro vincolo: il prodotto della sua attività dev’essere comprensibile nei riguardi dei destinatari dell’interpretazione. L’interpretazione, pertanto, è un’attività che prevede non soltanto l’esistenza di una relazione tra soggetto interpretante ed oggetto da interpretare, ma è condizionata anche dal fatto che essa si svolge entro un contesto sociale e culturale di ricezione: dunque, i suoi prodotti devono rendersi razionalmente comprensibili all’interno di un determinato uditorio o contesto di ricezione.

Per questo motivo, nell’interpretazione gioca un ruolo rilevante il fattore tempo: <<l’interprete è colui che congiunge il passato (il tempo del testo) al presente (il tempo dell’interpretazione), o magari al futuro (il tempo in cui l’interpretazione, oggi non ancora convincente, lo diventerà)>>18. La complessità dell’attività interpretativa consiste dunque nel fatto che l’interprete, per comprendere il testo normativo, non può limitarsi soltanto a un’analisi logico-grammaticale dello stesso, ma deve necessariamente fare riferimento anche ad elementi extra-testuali, “uscendo fuori” dal testo, per guardare al “contesto” nel quale esso è inserito. Dunque, l’interprete deve “contestualizzare” il testo, tenendo conto del contesto formale e materiale in cui fu

12 Ibidem, pag. 33. 13 Ibidem, pag. 32.

14 G. Zagrebelsky, ult. op. cit., cap. quinto, sezione seconda (<<Inter-praestatio>>). 15 Ibidem.

16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem.

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formato e approvato, e deve attualizzarlo, cioè adattarlo, per quanto possibile, alla situazione concreta e al contesto di ricezione del tempo in cui dev’essere applicato.

Si può dire dunque con G. Zagrebelsky che <<la mutevolezza delle interpretazioni è la manifestazione del flusso di influenza che i destinatari, nel tempo culturale che è il loro, esercitano sull’interprete, inducendolo all’ininterrotto procedere verso sempre nuove interpretazioni>>19. Questa visione dell’Autore, presuppone, come vedremo, una <<concezione duale>> del diritto, ossia un approccio al fenomeno giuridico che non si arresta a considerare un solo “lato” o aspetto dello stesso, considerandolo come un semplice “complesso di norme”, siano esse poste dalla ragione, come per il giusnaturalismo, o dalla volontà del legislatore, come sostiene il giuspositivismo: l’approccio “duale” prende in considerazione anche il lato sostanziale del diritto, ossia quella che nella visione di questo Autore può essere considerata la “normatività sociale” o la <<produttività del caso concreto>>20.

B2) Teorie sull’interpretazione

Il processo di codificazione del diritto, con le sue esigenze di certezza e di eguaglianza formale tra i soggetti, movimento storico avviatosi in Europa a partire dai secoli XVIII e XIX, richiedeva una oggettivazione del diritto in testi scritti, contenenti enunciazioni espressive della volontà di un potere legislativo sovrano e onnipotente, ossia non responsabile nei confronti di alcun altro potere e perciò assolutamente libero nel determinare i contenuti e le finalità delle leggi. Queste esigenze hanno portato alla necessità di concentrare nel legislatore tutti i poteri normativi. Ciò ha implicato una netta distinzione tra l’attività di normazione, riservata in via esclusiva al legislatore, e attività di interpretazione-applicazione, attribuita al giudice.

Quest’ultima attività è stata teoricamente inquadrata come un’operazione dichiarativa della volontà del legislatore, volontà già interamente incorporata nel testo di legge. Le idee, risalenti a Montesquieu21, del giudice come <<etre inanimé>> attraverso il quale parla la legge, <<la bouche qui

pronunce les paroles de la loi>>, e del potere giudiziario come <<potere nullo>>, sono espressione

emblematica del principio del monopolio legislativo nella produzione del diritto22, e dell’attività di interpretazione-applicazione giudiziale come attività di meccanica o automatica esecuzione dei comandi del legislatore.

Espressione teorico-filosofica del processo storico di codificazione del diritto è rappresentata dal <<positivismo legislativo>> o <<legalistico>>, dottrina che ebbe il suo massimo sviluppo nel corso del XIX secolo, epoca che ha sancito il trionfo definitivo della borghesia industriale, come classe economicamente e politicamente dominante o egemone.

In Francia, con la cosiddetta “Scuola dell’esegesi”, sorta nella prima metà dell’Ottocento a immediato seguito delle codificazioni napoleoniche, <<si affermò la regola in claris non fit

interpretatio, intesa quale principio metodologico di preclusione del ricorso a elementi esterni alla

lettera della legge per intenderne il significato, coerentemente con la definizione illuministica del giudice come “bocca della legge”, che pronuncia il diritto da valere nel caso concreto mediante

19 Ibidem.

20 Ibidem, cap. quinto, sezione quarta.

21 Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, L’ Esprit de lois, capitolo VI, libro XI.

22 L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Giuffrè, Milano, 1996, pag. 146, Il “diritto vivente”

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semplici e automatici sillogismi>>23. I testi di legge, in cui è incorporata la volontà del legislatore, vengono ad essere <<di per sé considerati sempre sufficienti per prevedere e per regolare tutti i casi possibili nell’esperienza concreta del diritto>>24.

L’interpretazione, dunque, viene ridotta a semplice ricognizione e riproduzione di un diritto preesistente, interamente compreso nelle leggi del sovrano, un’attività <<rigidamente vincolata al senso letterale del testo normativo e, perciò, ai giudizi di valore del legislatore storico>>25; l’applicazione del diritto ai casi concreti viene ad essere configurata, dunque, come <<l’esplicitazione di un senso già compiutamente consegnato all’interprete e precisamente e univocamente definito>>26.

In Germania si afferma dapprima la <<Scuola storica del diritto>> di Friedrich Carl von Savigny, che, com’è noto, si oppone al processo di codificazione27 e poi la <<Scuola pandettistica>>, <<che della prima abbandona l’anima storicistica per coltivare solo l’anima positivistica>>28. Espressione metodologica del giuspositivismo diviene la c.d. <<Giurisprudenza dei concetti>>, in base alla quale <<la materia giuridica viene elaborata secondo il modello delle scienze naturali impostato sulla relazione causa-effetto, cioè ordinata in un sistema di concetti ricavati per astrazione dal contenuto teoretico delle norme positive e depurati da ogni riferimento ai giudizi di valore ad esse sottesi>>29.

La <<dogmatica giuridica>> viene ad essere fondata esclusivamente sul diritto positivo: <<suo presupposto metodologico è che ogni regola particolare (norma giuridica data) deve essere riconducibile a una regola universale, e suo compito è di ricostruire il diritto positivo in una unità razionale mediante operazioni di astrazione generalizzatrice fondate sui concetti in cui si articola il discorso normativo>>30. Una volta creati, tramite processi di astrazione a partire dalle singole norme positive, ai concetti dogmatici viene attribuita <<forza produttiva di nuove regole di diritto con l’ausilio di semplici operazioni logico-deduttive>>31. In questo contesto, l’ermeneutica giuridica <<si immiserisce in un ruolo interno e subordinato alla dogmatica, si riduce a pura attività di analisi concettuale delle norme positive e classificazione dei loro contenuti analitici nelle categorie sistematiche>>32. L’attività dell’interprete viene dunque <<a rispecchiare e ad evidenziare significati precostituiti>>: la tesi fondamentale del formalismo positivistico, secondo cui <<il testo di legge va compreso sulla base dei soli dati linguistici (ragione per la quale l’applicazione consisterebbe esclusivamente nell’individuare con precisione e obiettività un significato precedentemente dato ed esattamente determinato) si fonda in modo molto chiaro sul presupposto dell’evidenza e dell’oggettiva univocità del testo di legge>>33.

23 Ibidem, pag. 69, Interpretazione e nuova dogmatica. 24 F. Viola e G. Zaccaria, ult. op. cit., pag. 176.

25 Ibidem. 26 Ibidem.

27 N. Bobbio, Il positivismo giuridico, Torino, 1996, pagg. 49 e ss. 28 L. Mengoni, ult. op. cit., pag. 69.

29 Ibidem.

30 Ibidem, pagg. 31-32, Dogmatica giuridica. 31 Ibidem, pag. pag. 35.

32 Ibidem, pag, 69, Interpretazione e nuova dogmatica. 33 F. Viola e G. Zaccaria, ult. op. cit., pag. 177.

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La dottrina giuspositivistica si fonda dunque sui seguenti postulati teorici: 1) una premessa metodologica, in base alla quale il diritto viene considerato <<come un fatto e non come un valore>>, e di conseguenza il giurista deve studiare il diritto come un fisico o un biologo studiano un fenomeno naturale, cioè <<astenendosi assolutamente dal formulare giudizi di valore>>34, altrimenti si sostituirebbe indebitamente al legislatore; 2) su tale premessa metodologica si fonda una concezione formalistica del diritto, in base alla quale la validità di una norma non viene fatta dipendere dalla sua rispondenza a determinati contenuti assiologici o dal fatto che essa sia effettivamente osservata dai consociati, ma dal fatto che la stessa sia stata emanata <<in un determinato modo stabilito dallo stesso ordinamento giuridico>>35; 3) una concezione <<coattiva>> o <<imperativistica>> del diritto, in base alla quale sono da considerare come propriamente giuridiche solo quelle norme fatte valere con la forza, vale a dire il cui rispetto è garantito tramite la minaccia di una sanzione, ossia di una conseguenza negativa per il trasgressore36; 4) la riduzione del diritto a legge, o meglio, il diritto non legislativo è valido a condizione che non si ponga in contrasto col diritto legislativo (si pensi al complesso rapporto tra legge e consuetudine)37; 5) da questi elementi deriva una <<teoria dell’ordinamento giuridico>>, che prende in considerazione non solo la singola norma, ma il complesso di norme giuridiche vigenti in una società, ovverosia un sistema giuridico che si basa sui postulati (o “dogmi”) della coerenza, in base alla quale non possono esistere contemporaneamente due norme giuridiche contrastanti (altrimenti, si verifica un’antinomia, da risolvere mediante l’applicazione dei criteri cronologico, gerarchico, di specialità), e della completezza, in base alla quale l’ordinamento giuridico reca già in sé, esplicitamente o implicitamente, tutte le regole per risolvere qualsiasi concreta controversia giuridica (attraverso il ricorso all’analogia e ai principi generali del diritto); 6) di conseguenza, viene elaborata una teoria del metodo o dell’interpretazione giuridica (definita da N. Bobbio <<teoria dell’interpretazione meccanicistica>>38), in base alla quale il giudice deve limitarsi ad una attività meramente dichiarativa, e non già creativa o produttiva del diritto, cioè deve ricavare, attraverso un procedimento di tipo logico-razionale, detto di deduzione-sussunzione, da una norma giuridica generale già data (fattispecie astratta o premessa maggiore), in relazione ad un caso concreto ad essa sussumibile (fattispecie concreta o premessa minore), la norma giuridica particolare (conclusione) da applicare al caso. Questo procedimento logico di mera deduzione, da premesse già date, di conclusioni necessarie, viene chiamato sillogismo giudiziale. Entro questa concezione, dunque, <<l’applicazione della legge non è che la riproduzione meccanica, in tutti i casi logicamente sussumibili nella fattispecie legale, di un significato normativo già compiutamente fissato una volta per tutte>>39.

Il giuspositivismo legalistico ottocentesco non contempla dunque la possibilità che dei comandi del legislatore possano darsi plurime interpretazioni. Esso si basa sul postulato della razionalità del legislatore, il quale perciò non può che esprimersi in modo chiaro e univoco, avendo egli previsto esplicitamente o implicitamente tutti i possibili casi nei quali la legge andrà ad essere applicata: di conseguenza, a ogni enunciato legislativo corrisponde sempre e soltanto una sola norma “vera”, in relazione ad ogni fattispecie concreta ad esso riconducile.

34 N. Bobbio, ult. op. cit., pag. 129. 35 Ibidem, pag. 130.

36 Ibidem, pagg. 130-131. 37 Ibidem, pag. 130. 38 Ibidem, pag. 131.

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I postulati fondamentali del giuspositivismo legislativo, appena esposti, fondano dunque una teoria “cognitivistica” dell’interpretazione: secondo tale visione, <<l'interpretazione è “scoperta” del significato “proprio”, oggettivo, dei testi normativi o della soggettiva intenzione delle autorità normative>>40.

Le due basi fondamentali di tale teoria sono: <<che le parole abbiano un significato “proprio”, “intrinseco”, dipendente dalla relazione oggettiva tra le parole e le cose>>, significato che, pertanto, preesiste all’interpretazione; che <<le autorità legislative [...] abbiano [...] una “volontà” o “intenzione” univoca e riconoscibile>>. Da tali premesse discende la conseguenza che <<scopo dell'interpretazione sia scoprire questo significato o questa intenzione preesistenti e che, per ogni enunciato normativo, esista un'unica interpretazione corretta>>41. Dunque, si può dire che, in base a questa teoria, <<ogni testo normativo è suscettibile di una, ed una sola, interpretazione vera (tutte le altre essendo false), ed ogni questione di diritto è suscettibile […] di una sola “soluzione corretta”>>42.

Tuttavia, proprio quest’ultimo punto è stato messo in crisi dalle teorie dell’interpretazione sviluppatesi nel corso dei primi decenni del XX secolo. Come reazione all’impostazione <<formalista>> e <<cognitivista>>, si sono poste innanzitutto le teorie <<scettiche>> o <<non-cognitiviste>> dell’interpretazione.

Secondo tali teorie, le norme giuridiche non costituiscono l'oggetto dell'interpretazione ma il loro risultato, <<nel senso che l'interpretazione è essenzialmente un atto di decisione, completamente libero da vincoli e dalla possibilità di controllo>>43. In base a queste teorie ogni enunciato ha un significato radicalmente indeterminato, e come tale incapace di vincolare i giudici: di conseguenza, le norme giuridiche sono il risultato di una pura decisione del giudice, non di un atto di cognizione. Questa teoria dell’“indeterminatezza radicale” del significato, pertanto, nega <<qualunque efficacia vincolante al diritto scritto, per cui tutto il diritto si ridurrebbe alle decisioni dei giudici>>44. Questa teoria porta con sé il rischio della distruzione delle basi fondamentali dello Stato di diritto, ossia la certezza del diritto, l’eguaglianza (formale) tra i cittadini, la separazione dei poteri.

Dunque, l'approccio scettico, al contrario di quello cognitivistico, <<rende plausibile ogni possibile esito ermeneutico e rischia, almeno in certi casi, di consegnare all'irrazionalità o quanto meno alla casualità il vasto campo dell'agire giuridico>>45.

Vi sono poi teorie definibili <<miste>> o <<ecclettiche>>, le quali ammettono che l’enunciato normativo presenti <<una cornice determinabile di significati possibili>>46. Queste teorie, che comprendono al loro interno tanto il giuspositivismo “critico” quanto le varie impostazioni ermeneutiche47, nascono da una insoddisfazione verso le due precedenti visioni: al giuspositivismo “tradizionale” contestano il fatto che questo ammette sempre e solo la possibilità di una e una sola

40 G. Zaccaria, Interpretazione della legge, Enciclopedia del diritto, Giuffrè, § 2. 41 Ibidem.

42 M. Dogliani, Interpretazione, Dizionario diritto pubblico, diretto da S. Cassese, pag. 3181. 43 G. Zaccaria, ult, op. cit., ibidem.

44 M. Dogliani, ult, op. cit., pag. 3181 45 G. Zaccaria, ult. op. cit., ibidem. 46 M. Dogliani, ult. op. cit., pag. 3182. 47 G. Zaccaria, ult. op. cit., ibidem.

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interpretazione “vera” (corrispondente alla volontà univoca del legislatore), dimenticando <<l’inevitabile “trama aperta” del linguaggio>>48; allo scetticismo imputano il fatto di ignorare i vincoli oggettivi e i condizionamenti che l’interprete subisce (o deve subire) all’interno di uno Stato di diritto, che accoglie al proprio interno il principio di separazione dei poteri49, confondendo, dunque, l’interpretazione con la legislazione.

In base a queste teorie, accanto ad un’attività cognitiva dell’interprete, volta ad identificare la <<cornice>> semantica dell’enunciato, ossia l’insieme dei possibili significati che esso può esprimere, ammette la presenza di un’attività “decisoria” o “ascrittiva”50, per mezzo della quale l’interprete sceglie, più o meno discrezionalmente o liberamente, uno tra i possibili significati.

Il primo esempio di teoria <<mista>> è il giuspositivismo c.d. <<critico>>, distinto da quello <<ingenuo>>51, i cui massimi esponenti sono Hans Kelsen e Herbert L.A. Hart.

Secondo il primo Autore, <<ogni attuazione del diritto è al tempo stesso, in parte, applicazione vincolata di norme esistenti e, in parte, creazione discrezionale di norme nuove>>52. Nella costruzione <<a gradi>> dell’ordinamento giuridico, teorizzata da H. Kelsen, ogni norma regola la produzione della norma di grado inferiore. Il vincolo generico derivante dalla “norma fondamentale”, che sta al vertice del sistema, diventa via via più specifico e circoscritto man mano che si discende attraverso successivi atti di applicazione, fino ad arrivare alla determinazione del comando concreto contenuto nella sentenza giudiziaria e nel provvedimento amministrativo. Quindi, man mano che si scendono i gradini di questa “piramide normativa”, <<le norme giuridiche diventano progressivamente sempre più dettagliate e la discrezionalità dell’interprete viene parallelamente ridotta, fino a scomparire, a mano a mano che dal vertice dell’ordinamento ci si avvicina alla sua applicazione al singolo caso concreto>>53. Come scrive lo stesso H. Kelsen, <<l’interpretazione è un procedimento spirituale che accompagna il processo di produzione del diritto nel nuovo sviluppo da un grado superiore a un grado inferiore regolato da quello superiore. Normalmente, l’interpretazione della legge deve rispondere alla domanda: come dalla norma generale della legge nella sua applicazione ad un fatto concreto si può estrarre la corrispondente norma individuale d’una sentenza o di un atto amministrativo?>>54. Afferma H. Kelsen che la norma di grado superiore determina il procedimento di produzione della norma di grado inferiore ed eventualmente il suo contenuto. Ma questo vincolo, questa determinazione non è mai completa: <<la norma di grado superiore non può vincolare in tutti i sensi l’atto per mezzo del quale viene eseguita. Sempre deve rimanere un margine più o meno ampio di potere discrezionale in modo che la norma di grado superiore, in rapporto all’atto di produzione o di esecuzione che la eseguisce, abbia sempre e soltanto il carattere di uno schema che dev’essere riempito per mezzo di questo atto>>55. Infatti, l’organo che ha posto la norma generale non può aver previsto tutte le circostanze concrete (di luogo, di tempo, ecc.), in presenza delle quali dev’essere data applicazione a una certa norma. Secondo H. Kelsen, vi può essere, nella norma superiore, un’indeterminatezza intenzionale, dovuta

48 Ibidem.

49 F. Viola e G. Zaccaria, ult. op. cit., pag. 322. 50 M. Dogliani, ult. op. cit., pag. 3182.

51 G. Zagrebelsky, ult. op. cit., capitolo quinto, sezione prima 52 Ibidem.

53 Ibidem.

54 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, 2000, pagg. 117 e ss. 55 Ibidem, pag. 118.

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ad una scelta consapevole dell’organo che ha posto la stessa, in modo da lasciare all’organo dell’esecuzione un margine di scelta più o meno ampio nella determinazione della norma inferiore. Ma vi è anche un’indeterminatezza non intenzionale della norma, che si ha quando <<il senso letterale della norma non è chiaro>>, per cui <<colui che deve eseguirla si trova dinanzi a molteplici possibili significati>>; oppure <<quando colui che eseguisce la norma crede di poter supporre che tra l’espressione letterale della norma e la volontà del legislatore esista una discrepanza per cui rimane in dubbio in qual modo questa volontà debba essere determinata>>56.

Pertanto, come afferma M. Luciani, <<nella ricostruzione kelseniana della nomopoiesi, legislazione e giurisdizione si distinguevano solo perché la prima era “attività di posizione della norma giuridica generale” e la seconda “attività di posizione della norma giuridica individuale”>>57.

Nella visione kelseniana, da una parte, tanto la legislazione, quanto la giurisdizione, sono attività vincolate. L’attività del legislatore, sottoposta alle norme della costituzione, più generiche di quelle della legge, subirà un vincolo di grado inferiore rispetto all’attività del giudice, che dà applicazione alle norme di legge: dunque, la differenza tra il vincolo del legislatore alla costituzione e vincolo del giudice alla legge è solo di grado, poiché dipende dalla rispettiva posizione che essi occupano nell’ordinamento.

D’altra parte, legislazione e giurisdizione sono entrambe funzioni costitutive, ossia di produzione normativa: <<anche il giudice produce diritto e quindi è anch’egli relativamente libero, nell’esercizio di questa funzione>>58. Infatti, <<anche la sentenza giudiziale viene in essere, così come la legge, in virtù di un atto di volontà e non mediante un atto conoscitivo>>59. Per H. Kelsen, dunque, l’ampiezza del margine di discrezionalità del soggetto che si trova ad applicare una norma, sia esso legislatore, giudice o funzionario (ma anche un privato che pone in essere un negozio giuridico), dipende dalla posizione dell’atto di sua competenza all’interno della struttura gerarchica dell’ordinamento giuridico.

L’interpretazione, come attività conoscitiva, consiste nella identificazione dei possibili significati inquadrabili entro la cornice normativa, e quanto più la norma ha una struttura ampia e generica, tanto più aumentano le possibilità semantiche. Per dirla con Kelsen, <<l’interpretazione della legge non deve condurre necessariamente a un’unica decisione come la sola esatta, bensì, possibilmente a varie decisioni che hanno tutte il medesimo valore in quanto corrispondono alla norma da applicarsi anche se soltanto una di esse, nell’atto della sentenza, diventa diritto positivo>>60.

Invece, l’interpretazione come attività decisoria consiste nella scelta di uno solo tra i possibili significati che la norma può esprimere: nella visione kelseniana, questa seconda attività, produttiva di norme, ha carattere discrezionale, costituisce un atto di volontà, e in essa entrano in gioco i giudizi di valore soggettivi dell’interprete, i quali non sono vincolati dal diritto positivo61.

56 Ibidem, pag. 119.

57 M. Luciani, Interpretazione conforme a costituzione, Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Annali IX, 2016, § 2. 58 K. Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, Giuffrè, 1966, pag. 111

59 Ibidem.

60 H. Kelsen, ult. op. cit., pag. 121. 61 Ibidem, pag. 124.

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H. Kelsen, dunque, si rivolge contro la <<giurisprudenza tradizionale>>, la quale ammette che la legge possa fornire, per ogni caso concreto, sempre un’unica soluzione normativa “esatta”, e che l’interpretazione giudiziale consista soltanto in un’attività puramente conoscitiva volta ad accertare l’unica norma “vera” da porre a base della decisione. L’Autore dichiara, al contrario, che non esiste alcun criterio obiettivo in base al quale l’interprete, tra le possibilità semantiche che la norma astrattamente offre, possa preferirne una e scartare le altre. Dal punto di vista del diritto positivo, ogni soluzione interpretativa, ammessa all’interno della cornice definita dalla norma, può essere accolta dall’interprete: spetta a quest’ultimo scegliere secondo la sua discrezionalità, cioè in base ad una sua valutazione soggettiva, quale soluzione preferire ai fini della decisione: questa scelta tra i possibili significati della norma non è fondata sul diritto positivo, ma sulla <<libera opinione dell’organo chiamato a realizzare l’atto>>62.

Un altro esponente del giuspositivismo “critico” novecentesco, Herbert L. A. Hart, sosteneva che la ragione della discrezionalità dell’interprete del diritto risiede nel fatto che il linguaggio giuridico, come ogni linguaggio umano, si serve di nozioni ed espressioni generiche e indeterminate e di enunciati aventi una struttura o trama aperta (open texture). Le norme, pertanto, presenterebbero, al loro interno, un nucleo linguistico-semantico chiaro e facilmente comprensibile; mentre, “ai margini” della loro portata applicativa, le stesse norme presenterebbero un “alone di incertezza”, dal significato più o meno oscuro o impreciso63.

Il <<margine di incertezza>> della norma dipende, dunque, dalla struttura di questa, che si serve di <<termini classificatori generali e astratti>>: uso necessario e inevitabile, in quanto scopo del legislatore è disciplinare classi di casi futuri, e non eventi particolari e individuali, storicamente determinati, compito quest’ultimo affidato alla giurisdizione e all’amministrazione64.

Per dirla con H. Hart, <<vi saranno invero dei casi chiari che ricorrono costantemente in contesti simili ai quali le espressioni generali sono chiaramente applicabili (…), ma vi saranno anche dei casi in cui non è chiaro se esse si applicano o no>>65. Dunque, ogni norma giuridica, in quanto necessariamente formulata in termini generali e astratti, a causa dei limiti del linguaggio umano, è caratterizzata da una <<zona di luce>>, un nucleo semantico certo in cui l’applicazione della norma ai casi concreti non suscita dubbi, in quanto i casi stessi sono facilmente riconducili alla fattispecie descritta dalla norma; e un’area di casi (penumbral cases, casi controversi) per i quali la norma si presenta di incerta applicazione, in quanto essi presentano delle peculiari caratteristiche che li rendono più difficilmente riconducibili alla fattispecie astratta prevista dalla norma.

Come H. Kelsen, anche H. Hart ritiene che tali incertezze non possano essere rimosse attraverso l’uso dei metodi interpretativi, poiché <<questi canoni sono essi stessi norme generali per l’uso del linguaggio, e fanno uso di termini generali che richiedono a loro volta di essere interpretati>>66. Se ci si trova davanti a un caso dubbio per via dell’incertezza semantica della norma, questa può aprire la strada a diverse interpretazioni alternative, e in tale ipotesi non sarà possibile conoscere e stabilire univocamente, attraverso criteri obiettivi, quella “esatta”.

62 Ibidem, pag. 124.

63 O. Chessa, I giudici del diritto. Problemi teorici della giustizia costituzionale, Franco Angeli, Milano, 2014,

pagg. 282 e ss.

64 G. Zagrebelsky, ult. op. cit., ibidem.

65 H. L. A. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 2002, pag. 148. 66 H. L. A. Hart, ult. op. cit., pag. 149.

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L’<<alone di incertezza>> dev’essere dissolto, in sede applicativa, ad opera del giudice, e quest’attività decisoria è libera, creativa, priva di vincoli giuridici. Anche per H. Hart la discrezionalità dell’interprete, che si manifesta nei <<casi difficili>>, collocati ai margini della portata applicativa della norma, assumerebbe dunque le sembianze di una decisione libera, non vincolata da canoni prestabiliti. Tale discrezionalità permette all’interprete, e in special modo al giudice, di offrire una soluzione ai casi “difficili” o “controversi”, per i quali risulta arduo individuare una regola certa ed indiscussa.

Insomma, “ai margini” della portata applicativa della norma generale, ossia con riferimento ai casi difficili che non ricadono sicuramente entro l’ambito di applicazione della stessa, l’attività del giudice sarebbe discrezionale, ossia basata su scelte di valore personali; per quanto riguarda, invece, i casi “facili”, ossia chiaramente riconducibili all’ambito di applicazione della una norma, l’attività interpretativa del giudice sarebbe un’attività conoscitiva. Per Hart, <<la discrezionalità giudiziale si deposita quindi negli interstizi che separano i domini certi delle norme: copre le falle, i buchi dell’ordinamento, fornendo una soluzione ai casi per quali non è possibile rintracciare una regola indiscussa>>67.

Tuttavia, come nota G. Zaccaria, la teoria hartiana dell’interpretazione <<lascia fuori dal proprio resoconto il momento della qualificazione del caso come “facile” o “difficile”, che si configura quindi come un ulteriore momento decisionale da parte del giudice, non necessariamente guidato o vincolato da una specifica teoria del significato. Ciò rischia di determinare uno sbilanciamento della teoria hartiana verso la teoria scettica>>68.

All’interno degli approcci “misti” o “eclettici” sono inquadrabili anche le teorie ermeneutiche: queste si basano essenzialmente sui concetti di <<precomprensione>> e di <<circolo ermeneutico>>.

La <<precomprensione>> definisce le <<condizioni di possibilità della comprensione dei testi giuridici>>, in quanto lega l’interprete con la <<cosa da interpretare>>69. Come afferma L. Mengoni, <<le condizioni di possibilità del comprendere “non sono riconducibili tutte nell’ambito di un “procedimento” o di un “metodo”, ma includono anzitutto un dato esistenziale costituito dalla comprensione originaria che inseparabilmente accompagna l’interprete in quanto modo di essere della sua esistenza umana. Questa comprensione originaria (o primaria), che precede l’attività riflessiva dell’interpretazione e la determina permanentemente attraverso le progettazioni (o anticipazioni) di senso che in essa si formano, è denominata dai discepoli di Heidegger, a cominciare da Bultmann, “precomprensione” (Vorverständnis) e definita come “rapporto vitale con la medesima cosa di cui parla il testo”, con “ciò in vista di cui” il testo è stato scritto, rapporto che sollecita nell’interprete l’interesse a intraprendere la conoscenza del testo>>70. La precomprensione <<mette in movimento il processo interpretativo, fornendo all’interprete un primo orientamento e aprendo la sua considerazione al contenuto linguistico dei testi e dei fatti>>71. Il singolo interprete <<si muove all’interno di un contesto e nell’ambito di una prassi che coinvolgono la comunità>>: infatti, <<pur legata ad un singolo interprete, che è chiamato ad applicare la disposizione astratta ad un caso concreto, la precomprensione non configura […] un atto della soggettività, un atto individuale;

67 O. Chessa, ult. op. cit., pag. 284. 68 G. Zaccaria, ult. op. cit., § 2.

69 F. Viola e G. Zaccaria, ult. op. cit., pag. 188.

70 L. Mengoni, ult. op. cit., pag. 6, Teoria generale dell’ermeneutica ed ermeneutica giuridica. 71 F. Viola e G. Zaccaria, ult. op. cit., pag. 187.

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essendo invece determinata sulla base della partecipazione ad un <<senso comune>>, essa è anche il risultato di una socializzazione professionale e di una formazione giuridica, di una catena di interpretazioni precedenti che entra a costituire una tradizione comune>>72.

La <<precomprensione>> dunque può essere definita come <<la rappresentazione anticipata del risultato che l'interprete suppone giuridicamente congruo>>: pertanto, costituisce un concetto che, secondo le prospettive ermeneutiche, descrive i condizionamenti che guidano la scelta del metodo interpretativo da parte del giurista73. Esso infatti, <<sta ad indicare “i motivi, gli atteggiamenti psicologici o sociologici che guidano la comprensione del testo da parte dell'interprete e determinano le valutazioni anticipate delle norme e delle situazioni di fatto”>>. In altre parole, <<il termine “precomprensione” rinvia ad un insieme di “supposizioni ipotetico-provvisorie circa l'esigenza di regolamentare i casi da decidere, condizionanti l'approccio dell'interprete ai testi ed alle situazioni pratiche”>>74.

Dunque, il concetto <<precomprensione>> indica l’esistenza nell’interprete <<di una comprensione immediata e pre-riflessiva, che precede ogni analitica argomentazione giuridica e ogni consapevole e articolata strategia di reperimento del diritto>>. Quest’ultimo non può essere compreso se non con un <<attesa di senso, con un orizzonte di senso>>75.

Le teorie ermeneutiche, poi, riconoscono l’esistenza di una relazione circolare che unisce, tramite l’attività dell’interprete, il caso concreto al diritto oggettivo, cioè al testo (o, spesso, all’insieme di testi) esprimente l’enunciato normativo, che intende regolare il primo: il testo normativo può essere realmente compreso nel suo significato soltanto se “interrogato” da un caso della vita e a questo raffrontato, secondo la logica della domanda e della risposta76. Dunque, nell’ambito delle visioni ermeneutiche si instaura un legame indissolubile tra interpretazione e applicazione del diritto.

G. Zagrebelsky, ad esempio, afferma che vi è un <<nesso di inscindibilità>>77, o relazione biunivoca, tra interpretazione ed applicazione (giudiziaria) del diritto, nel senso che non si può parlare, in senso proprio, della prima, nel caso in cui manchi la seconda: <<nell’uso giudiziario del diritto, l’applicazione è in funzione dell’interpretazione e l’interpretazione è in funzione dell’applicazione>>. Di conseguenza, l’<<interpretazione in astratto>>, che escluda la considerazione di fatti o casi, è impossibile: <<se non ci fosse questo processo di interrogazione pratica della norma, l’interpretazione si corromperebbe, infatti, in una semplice e vuota parafrasi della legge>>78. G. Zagrebelsky, considera infatti <<l’interpretazione giuridica come attività mossa da finalità essenzialmente pratiche>>79: essa trae la propria ragion d’essere dall’esistenza di fatti e casi concreti, controversi e bisognosi di regolazione, ed è diretta <<non alla conoscenza ma all’azione, cioè all’applicazione tramite decisione>>. Infatti, <<se non esistessero problemi pratici, nessuno si rivolgerebbe al diritto; se non ci fosse nulla da giudicare, non ci sarebbe il diritto>>: dunque, <<il caso

72 Ibidem, pagg. 187-188. 73 G. Zaccaria, ult. op. cit., § 2. 74 Ibidem.

75 F. Viola e G. Zaccaria, ult. op. cit., pag. 232. 76 Ibidem, pag. 189.

77 G. Zagrebelsky, ult. op. cit., ibidem. 78 Ibidem.

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è sempre ragion d’essere del diritto>>80. Per questo Autore, pertanto, la scienza giuridica non è una <<scienza teoretica>> alla stregua delle scienze naturali, come la intendeva il positivismo giuridico, ma è <<conoscenza applicata>> e <<condizionata dalla concretezza dei casi>>, alla cui risoluzione le norme sono finalizzate: <<la controversia è produttiva di diritto>>, e <<lo spazio della controversia è, per l’appunto, quello in cui si genera l’interpretazione>>81.

L. Mengoni afferma che <<il punto di partenza dell’interpretazione non è il testo (analogamente alle scienze della natura, la cui ricerca muove dalla “cosa in sé”), bensì un fatto della vita o una situazione problematica, sui quali il testo, che ha qualcosa da dire in proposito, viene interrogato>>: dunque, <<i referenti dell’interpretazione non si esauriscono nella dimensione linguistica del testo, (…) il testo fornisce un significato, e non semplicemente un senso, (…) soltanto se fatto reagire con un caso concreto>>82. Lo stesso Autore, citando un celebre saggio di Tullio Ascarelli83, afferma che <<a rigore la norma vive come “norma” solo nel momento in cui viene applicata e perciò appunto ogni applicazione di una norma richiede l’interpretazione di un testo, e cioè in realtà la formulazione (ai fini dell’applicazione) della norma>>. Pertanto, <<una volta applicata al caso per la cui soluzione è stata elaborata (in base a un testo), la norma diventa essa stessa testo nella forma di “precedente”, a sua volta bisognoso di interpretazione, ai fini delle applicazioni successive>>84.

Di conseguenza, l’Autore critica la dottrina giuspositivistica, in quanto concepisce l’interpretazione e l’applicazione come due momenti nettamente separati, <<nella convinzione dell’oggettiva univocità del testo e quindi della possibilità di comprenderlo alla stregua dei soli dati linguistici, onde l’applicazione si limiterebbe ad attuare un significato precostituito e già compiutamente definito una volta per tutte>> 85. Invece, <<tra i due momenti vi è un legame indissolubile>>, in quanto il significato degli enunciati normativi non può essere compreso pienamente se non quando un caso concreto “evochi” il testo normativo e questo venga messo a confronto con i dati di fatto <<extratestuali>> che emergono dal suo ambito normativo, inteso come il <<segmento di realtà sociale>> individuato come l’ambito di applicazione della norma86. Secondo L. Mengoni, per l’elaborazione della norma, <<il tenore letterale del testo svolge una funzione euristica di grande importanza, sia scartando i progetti di senso che con le parole della legge non hanno alcuna congruenza, sia sollecitando la forza evocativa o figurativa del linguaggio e così contribuendo alla formazione di ipotesi di soluzione oggettivamente fornite di senso>>87. Per questo Autore, però, l’analisi del linguaggio del testo normativo è necessaria, ma non sufficiente, in quanto fa astrazione dalla realtà sociale <<che sostanzia il quadro di riferimento problematico del testo>>: l’esegesi (ossia appunto l’analisi linguistica del testo) <<deve integrarsi in un’ermeneutica che non si esaurisce all’interno della dimensione terminologica riducendosi a mera teoria dell’interpretazione, ma si propone il compito ulteriore e decisivo di saggiare i concetti ricavati dall’analisi del testo nel processo comunicativo tra sistema giuridico e ambiente sociale circostante. Questo processo, che condiziona

80 Ibidem. 81 Ibidem.

82 L. Mengoni, ult. op. cit., pag. 16.

83 T. Ascarelli, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. dir. proc., 1957, pagg. 351 e ss.,

ora in Problemi giuridici, I, Milano, 1959.

84 L. Mengoni, ult. op. cit., pag. 17. 85 Ibidem.

86 Ibidem. 87 Ibidem.

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