DIPARTIMENTO DI
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN
TRADUZIONE LETTERARIA E SAGGISTICA
TESI DI LAUREA
Das Opfer Helena di Wolfgang Hildesheimer.
Traduzione e commento
CANDIDATO
RELATORE
Maria Greta Carulli
Chiar.ma Dr.ssa Serena Grazzini
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INDICE
Introduzione ... pag. 4
1. Wolfgang Hildesheimer: l’autore e le sue opere ... pag. 7
1.1. Cenni biografici ... pag. 7 1.2. Hildesheimer e l’ebraismo ... pag. 9 1.3. Premi ... pag. 14 1.3.1. Opere e temi ... pag. 15
2. Il mito di Elena ... pag. 23
2.1. La nascita di Elena ... pag. 24 2.2. Il culto di Elena nella Grecia arcaica: la ragazza di Sparta ... pag. 27 2.3. Elena di Troia: moglie infedele e eidolon ... pag. 29 2.4. La morte di Elena ... pag. 36
3. Das Opfer Helena di Hildesheimer: l’opera ... pag. 38
3.1. Elementi di continuità e di discontinuità con la tradizione classica ... pag. 40 3.2. Trama ... pag. 42 3.3. Personaggi ... pag. 44 3.4. Ironia ... pag. 50 3.5. Riferimenti al nazionalsocialismo ... pag. 52 3.6. Dal radiodramma all’opera teatrale ... pag. 55 3.7.Un confronto con la rielaborazione del mito di Elena in altri autori
del ‘900: von Hofmannsthal, Giraudoux e Hacks ... pag. 59 3.7.1. Die ägyptische Helena di Hugo von Hofmannsthal ... pag. 60 3.7.2. La guerre de Troie n’aura pas lieu di Jean Giraudoux ... pag. 63 3.7.3. Die schöne Helena di Peter Hacks... pag. 65 3.7.4. La guerra ... pag. 67
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4. Commento alla traduzione ... pag. 69
4.1. Considerazioni generali sull’opera Das Opfer Helena... pag. 69 4.1.1. Il tipo di testo ... pag. 69 4.1.2. Il tipo di narratore... pag. 70 4.1.3. Il tipo di lettore ... pag. 71 4.2. Strutture sintattiche ... pag. 72 4.2.1. Dialoghi ... pag. 76 4.3. Lessico ... pag. 79 4.3.1. Modo di parlare dei personaggi ... pag. 83 4.3.2. Frasi idiomatiche ... pag. 87 4.4. Considerazioni sulla traduzione del saggio Das Opfer Helena di
Volker Jehle ... pag. 88
5. Conclusioni ... pag. 90
6. Bibliografia ... pag. 94
Traduzione Elena, vittima sacrificale
con testo a fronte ... pag. 99
Wolfgang Hildesheimer, Das Opfer Helena ... pag. 100 Volker Jehle, Wolfgang Hildesheimer Werkgeschichte,
Das Opfer Helena ... pag. 138
Appendice ... pag. 150
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INTRODUZIONE
Il presente lavoro è nato in concomitanza con la ricorrenza del centenario della nascita dell’autore ebreo-tedesco Wolfgang Hildesheimer (Amburgo, 9 dicembre 1916 – Poschiavo, 21 agosto 1991). L’elaborato è costituito dall’analisi e dalla traduzione, con testo a fronte, della sua pièce teatrale Das Opfer Helena (1959), e l’obiettivo del lavoro è valutare come lo scrittore Hildesheimer abbia rielaborato il mito di Elena, in un periodo storico che ha già conosciuto l’enorme devastazione causata dalle due guerre mondiali, gli orrori della Shoah e la bomba atomica. La struttura della tesi si articola su quattro capitoli che precedono la traduzione di
Das Opfer Helena, alla quale segue la traduzione dell’omonimo saggio di Volker
Jehle, biografo di Hildesheimer e curatore della sua opera omnia.
Nel primo capitolo si presenta l’autore, in particolare viene messo in rilievo il suo cosmopolitismo e il suo rapporto con l’ebraismo. Inoltre, è illustrata la sua produzione letteraria, formata da racconti, radiodrammi, opere teatrali, romanzi-monologhi e saggistica, con un riferimento alle relative tematiche. Tutta la sua produzione è plasmata fortemente dalla satira, dalla critica all’abuso di potere, dall’interesse per la storia (sia recente che del passato), per i miti e per le leggende. La caratteristica principale delle sue opere è sicuramente l’ironia, anche se la produzione più tarda è permeata maggiormente dalla malinconia, da un forte pessimismo nella visione del mondo, dominato dalla violenza e dal terrore, e dalla concezione dell’insensatezza della vita umana.
Il secondo capitolo è dedicato completamente al mito antico di Elena; si è ritenuto infatti necessario approfondire la figura di Elena e ricordare non solo gli aspetti più conosciuti del mito tradizionale, ma anche quelli meno noti, come per esempio la nascita, per poter fare successivamente un confronto con la protagonista della pièce teatrale di Hildesheimer. L’eroina greca è stata da sempre oggetto di interesse e di ispirazione per numerosi scrittori e il suo mito ha subìto nel corso del tempo diverse rielaborazioni. Già nel mondo antico è possibile trovare diverse interpretazioni della figura di Elena, a partire dall’Iliade e dall’Odissea, anche se in questi poemi il suo personaggio non ha un ruolo di primo piano. I vari autori del passato hanno esaminato il ruolo e la responsabilità di Elena riguardo alla
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guerra di Troia, dando nel tempo giudizi diversi, accusandola o scagionandola: talora è vista come una sposa adultera, talora come una donna in balia dell’eros, altre volte è considerata, invece, una moglie fedele che non si è mai recata a Troia, mentre a farlo è stato uno spettro simile a lei.
Nel terzo capitolo si analizza l’opera Das Opfer Helena: qui Elena ha un ruolo centrale, attivo e innovativo, perché oltre a essere la protagonista della trama, è la narratrice della storia: tramite i suoi monologhi, alternati con i dialoghi con gli altri personaggi, presenta quella che secondo lei è stata la vera vicenda che ha portato alla guerra di Troia. La Elena di Hildesheimer non è più l’archetipo dell’adultera, ma è una donna ferita, vittima sacrificale e, al tempo stesso, colpevole. L’opera è analizzata sotto vari punti di vista: dopo un breve confronto con il mito tradizionale, ci si sofferma sulla trama, vengono poi descritti i personaggi e altre peculiarità del testo, come la componente ironica e i riferimenti sottintesi agli eventi storici vissuti da Hildesheimer. Inoltre, si presentano le differenze che intercorrono nel passaggio dal radiodramma del 1955 alla pièce teatrale.
Accanto all’analisi di quest’opera, viene proposto anche un confronto con altre tre rielaborazioni novecentesche del mito di Elena: Die ägyptische Helena (1928) di Hugo von Hofmannsthal, La guerre de Troie n’aura pas lieu (1935) di Jean Giraudoux e, infine, Die schöne Helena (1964) di Peter Hacks. Le prime due opere sono antecedenti a Hildesheimer e probabilmente conosciute da quest’ultimo: se la prima dà una rilettura del tutto diversa del mito rispetto al suo testo e si concentra maggiormente sulla crisi matrimoniale tra Menelao ed Elena, la seconda, invece, presenta delle somiglianze con la sua opera, in particolare per la condanna delle guerre da parte dei protagonisti. L’ultima rielaborazione, sebbene sia successiva a Das Opfer Helena, non apporta modifiche interessanti al mito di Elena, tuttavia ne offre una lettura politica, assente in Hildesheimer. Sebbene queste rielaborazioni siano molto differenti tra loro, sia per come sviluppano la vicenda della guerra di Troia, sia per come presentano il personaggio di Elena, hanno tutte in comune il tema della guerra ed è possibile riscontrarvi il riferimento alla realtà storica del tempo: i loro personaggi si
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comportano come uomini contemporanei, anche quando fanno parte di un contesto antico, come nel caso dell’opera di Hofmannsthal.
Infine, il quarto capitolo dell’elaborato è dedicato al commento alla traduzione in italiano di Das Opfer Helena. In particolar modo, vengono analizzate alcune strutture sintattiche tipiche della lingua parlata individuate nell’opera, il modo in cui sono costruiti i dialoghi tra i personaggi e le scelte adottate per la loro traduzione. A ciò segue una considerazione sul modo di parlare dei protagonisti e sul lessico, ovvero sulle parole che ricorrono maggiormente nel testo e che sono importanti sia dal punto di vista semantico che logico.
Il presente lavoro termina con un’appendice, dove sono riportati in tabella alcuni passaggi del radiodramma di Das Opfer Helena del 1955 messi a confronto con quelli dell’opera teatrale.
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1. WOLFGANG HILDESHEIMER: L’AUTORE E LE SUE OPERE
1.1. CENNI BIOGRAFICI
Wolfgang Hildesheimer, nato ad Amburgo il 9 dicembre del 1916, era figlio di genitori ebrei: del chimico Arnold Hildesheimer e di Hanna Hildesheimer; aveva anche una sorella maggiore di nome Eva, a cui era molto legato.
L’eredità ebraica si è sempre mantenuta viva nella famiglia degli Hildesheimer, infatti tra gli antenati del padre c’erano stati numerosi rabbini; tuttavia Arnold Hildesheimer, per mancanza di interesse, aveva scelto di dedicarsi a una professione diversa. Da parte materna, invece, spiccavano librai e persone molto interessate alla letteratura e alla musica, che verosimilmente hanno avuto un’influenza notevole sul giovane Wolfgang.
Hildesheimer passò l’infanzia e la prima adolescenza serenamente, spostandosi tra varie città: Amburgo, Berlino, Mannheim, in Germania, e Nijmegen, nei Paesi Bassi. A differenza di molti ebrei d’Europa, perseguitati dal Terzo Reich in nome della dottrina nazista, egli emigrò con la sua famiglia, alla fine degli anni Venti, evitando così ogni fase del regime: dapprima si recò in Inghilterra, dove terminò gli studi liceali di tipo umanistico, e successivamente in Palestina, dove nel 1934 fece un apprendistato in falegnameria, imparando ad arredare gli ambienti interni della casa. Durante gli anni in cui Adolf Hitler era al potere, il giovane Hildesheimer si diplomò dapprima come sceneggiatore a Salisburgo e poi tornò per la seconda volta in Gran Bretagna, dove studiò arte e scenografia presso la
London Central School of Arts and Crafts, dal 1937 al 1939; sicuramente ebbe
modo di approfondire così la conoscenza della lingua inglese1.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, si recò nuovamente in Palestina, dove rimase per tutta la durata della guerra, lavorando in primo luogo come insegnante di inglese presso il British Institut di Tel Aviv (fino al 1942);
1 A questo proposito, scrive H. D. Sacker nel suo saggio Hildesheimer’s vision of literature: «Hildesheimer […] spoke excellent English of a well-educated, slightly old-fashioned and continentally precise variety […]», pag. 201.
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successivamente come ufficiale del Servizio Informazioni britannico2 (1943-1946) e come redattore di un giornale inglese, e infine come pittore a Gerusalemme.
Poco dopo la fine della guerra, Hildesheimer tornò in Germania, dove, dal 1946 al 1949, lavorò come interprete simultaneo e protocollista nei processi del tribunale di guerra di Norimberga. In questa occasione, come lui stesso ha riferito, si è dovuto confrontare con il dramma dell’Olocausto, di cui fino ad allora non era stato pienamente consapevole.
Nel 1950 entrò a far parte del cosiddetto Gruppo 473, una libera associazione di scrittori, che divenne il punto di riferimento più importante per la vita letteraria tedesca del dopoguerra. Nonostante il successo letterario già acquisito e il suo stretto contatto col Gruppo 47, Hildesheimer decise di lasciare di nuovo la Germania, ufficialmente per motivi climatici, in verità per abbandonare un paese di cui non approvava le scelte politiche: egli non tollerava infatti il modo con cui la Repubblica Federale di Germania tentava di cancellare gli orrori del passato nazista. Si trasferì quindi insieme alla moglie, Silvia Dillmann Hildesheimer, a Poschiavo, un comune svizzero del Cantone dei Grigioni (nella parte italofona del Cantone); in questo borgo passò la sua vita fino alla morte, diventandone anche cittadino onorario nel 1982. Altro suo luogo di elezione, dove passava molto tempo, era Urbino.
Nel 1975 Hildesheimer tenne un importante discorso intitolato “The End of Fiction”, in cui spiegava che era diventato ormai impossibile catturare il senso della catastrofe che affliggeva la società contemporanea. Per questo motivo era, a suo avviso, inutile continuare a scrivere, perché la realtà, con la sua brutalità,
2 Il British intelligence officer, oggi più noto come Military Intelligence, è l’agenzia di spionaggio per l’estero della Gran Bretagna.
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Il Gruppo 47 era un’organizzazione sorta a Monaco di Baviera nel 1947 e scioltasi nel 1967, di cui facevano parte giovani letterati e scrittori emergenti tedeschi, per lo più di sinistra, con l'intenzione di far risorgere la letteratura tedesca, praticamente inesistente dal regime nazista. Il Gruppo rinunciò a qualsiasi struttura organizzativa, ma anche all’elaborazione di un programma letterario comune. I membri si incontravano regolarmente in riunioni e sedute, durante le quali venivano letti testi non ancora pubblicati e subito giudicati in dibattito aperto. Questo acquistò per il Gruppo il significato di una vera e propria conquista democratica, dal momento che la critica letteraria era stata manipolata per un decennio dal regime nazista.
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aveva ormai superato la finzione stessa4; per esempio, era impossibile rappresentare la vita nei campi di concentramento nazisti.
All’inizio degli anni Ottanta, egli mise fine del tutto all’attività letteraria, per dedicarsi completamente alle arti visive, alla pittura e, in particolare, ai collages, riscuotendo tra l’altro un successo internazionale. Wolfgang Hildesheimer si impegnò anche attivamente a favore dell’organizzazione non governativa, ambientalista e pacifista, Greenpeace.
A Poschiavo richiamò numerose personalità, creando attorno a sé un gruppo di contatti importanti per l’ambiente culturale del tempo. In questo borgo del Cantone dei Grigioni, Hildesheimer si spense il 21 agosto del 1991.
1.2.HILDESHEIMER E L’EBRAISMO
«Wenn ich mich frage, worin mein Judentum besteht, so finde ich keine wirklich befriedigende Antwort. Ich weiß nur, daß es besteht. Ich bin in ihm nicht verwurzelt, von ihm nicht beherrscht, aber ich fühle mich als Jude»5. Inizia con
queste parole il saggio autobiografico6 Mein Judentum (1978) di Wolfgang Hildesheimer, un testo importante, in cui l’autore riflette sulla sua identità ebraica e ripercorre alcune fasi centrali della sua vita: l’infanzia, la migrazione in Palestina, il Processo di Norimberga, la sua esperienza nella Germania del dopoguerra.
Lo scrittore dichiara di non essersi mai sentito un ebreo per tutto il periodo della sua infanzia e della sua adolescenza, anche perché era troppo presto per averne consapevolezza; inoltre, la stessa parola Jude veniva pronunciata raramente nelle conversazioni familiari, nonostante i suoi genitori fossero impegnati politicamente
4 Wolfgang Hildesheimer, The End of Fiction, in Das Ende der Fiktionen, Reden aus fünfundzwanzig Jahren, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1984, «All he [the writer] can do is to construct a subjective fictitious model of a singular case which he may regard as typical of our condition. But this case, being invented and therefore artificial, will never even reflect that part of reality it is meant to represent, and to those who have actually experienced it, the suffers, it must appear as a terrible simplification of a terrible subject.», pag. 110.
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Wolfgang Hildesheimer, Mein Judentum, herausgegeben von Hans Jürgen Schultz, Kreuz Verlag, Stuttgart, 1991, pag. 264.
6 In realtà si tratta di un discorso che Hildesheimer fece il 16 aprile 1978, all’interno di una trasmissione radiofonica per il Süddeutscher Rundfunk.
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e socialmente nel movimento sionista e stessero preparando la loro partenza per la Palestina.
Anche la religione ebraica non aveva avuto alcun significato particolare per lo scrittore, come del resto anche per i suoi genitori: suo padre Arnold andava in sinagoga solo nei giorni di festa, come per adempiere a un obbligo, e per questo motivo la nonna paterna di Hildesheimer lo considerava a malapena un ebreo. Per quanto riguarda la madre, si sentiva vagamente ebrea e non partecipava mai alle funzioni religiose. Infatti, era cresciuta in un ambiente in cui veniva dato più peso alla cultura e alla letteratura tedesca (soprattutto a Friedrich Schiller) che alla religione. Comunque sia, i genitori del giovane Hildesheimer fecero del sionismo il proprio credo, senza cercare mai di condizionare il figlio a fare lo stesso.
La situazione rimase tranquilla fino alla metà degli anni Venti, cioè fino a che la parola Jude non cominciò ad acquisire un significato negativo in Germania; lo stesso Wolfgang iniziò ad accorgersi del fatto che l’antisemitismo si stava diffondendo sempre più velocemente tra la popolazione tedesca. Suo padre lo sperimentò personalmente, circondato sul posto di lavoro da tedeschi che nutrivano odio nei confronti degli ebrei7.
Hildesheimer racconta anche di un’importante passeggiata con sua madre, avvenuta proprio durante lo scoppio del nazismo. In questa occasione lei cercò di fargli capire l’importanza della partenza per la Palestina, il significato che essa avrebbe avuto per la loro famiglia e per il loro popolo, e gli citò una famosa frase di Moritz Goldstein8: «Wir Juden verwalten das Kulturgut einer Nation, die uns nicht dazu aufgefordert hat»9. Gli antisemiti rimproveravano agli ebrei di essersi impossessati di tutti i campi che costituivano l’essenza della nazione tedesca, dall’economia alla cultura. In quest’ottica la madre di Hildesheimer preferì lasciare con la famiglia la Germania, che non apprezzava più l’impegno del
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Wolfgang Hildesheimer, Ich werde nun schweigen. Gespräch mit Hans Helmut Hillrichs in der Reihe “Zeugen des Jahrhunderts”, Göttingen 1993: «[...] mein Vater ja Fabrikdirektor war und unter seinen Arbeitern eine erhebliche Anzahl von Nazis hatte», pag. 19.
8 Goldstein Moritz (1880-1977) era un giornalista e scrittore tedesco americano. 9
Wolfgang Hildesheimer, Mein Judentum, op. cit., pag. 266. Mia traduzione: «Noi ebrei amministriamo i beni culturali di un popolo che non ci ha chiesto di farlo». La citazione di Goldstein è rimasta impressa nella mente di Hildesheimer, che la ritenne valida anche dopo la fine del nazionalsocialismo.
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popolo ebraico per il benessere del paese, e contribuire quindi alla nascita della terra promessa in Palestina.
Prima che la situazione degenerasse completamente, la famiglia Hildesheimer emigrò in Palestina, perché non c’era altra scelta. Quando Wolfgang lasciò la Germania, aveva sedici anni. La famiglia dello scrittore incominciò a costruirsi una nuova vita a Rechavia, un quartiere di Gerusalemme. Qui Hildesheimer imparò a parlare la lingua ebraica e a vivere in un ambiente misto, sia dal punto di vista etnico che culturale, formato da inglesi, arabi ed ebrei. Molti degli ebrei che trovarono rifugio in Palestina durante la Seconda Guerra Mondiale dovettero imparare a vivere in un posto in cui non erano venuti volontariamente, a integrarsi nella società ebraica, e a comprendere il sionismo, movimento fino ad allora sconosciuto per loro.
Nonostante gli anni di permanenza in Palestina e la nascita dello stato di Israele, dopo la guerra Wolfgang Hildesheimer tornò in Europa, «wohin ich gehörte und gehöre»10. In particolare, tornò proprio nella terra in cui era nato, la terra della sua lingua madre, perché era stato chiamato a lavorare come interprete simultaneo e traduttore nei processi del tribunale di Norimberga. I racconti dei sopravvissuti allo sterminio nazista portarono alla luce i più terribili crimini commessi dal nazionalsocialismo, crimini che per anni erano stati nascosti e di cui si ignorava persino l’esistenza. Hildesheimer affrontò questi temi soprattutto nella sua ultima produzione letteraria. (cfr. § 1.3.1.).
Quando, qualche anno più tardi, gli venne posta la domanda su quali sentimenti avesse provato nel tornare in Germania, Hildesheimer rispose schiettamente di aver sentito solo indifferenza11. Ciononostante, l’attività svolta dallo scrittore a Norimberga aveva sicuramente influito notevolmente sulla sua vita e sulla sua produzione letteraria, perché si era trovato ad avere per la prima volta uno scontro diretto con il passato, proprio nella terra dei carnefici. Anche se per ironia della sorte era riuscito a evitare la persecuzione e il periodo più buio dei massacri da parte dei nazisti nella sua patria, non era tuttavia rimasto indifferente all’ascolto delle terribili testimonianze dei pochi che erano riusciti a salvarsi. In una lettera
10 Ibidem, pag. 265.
11 Wolfgang Hildesheimer, Ich werde nun schweigen, op. cit., 1993: «Mit gar keinen eigentlich», pag. 25.
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Hildesheimer ha chiarito i motivi che lo hanno spinto a svolgere questo incarico di traduttore: «Ich nahm dieses Angebot an, da ich mich von der damals vielzitierten Kollektivschuld überzeugen wollte, nicht aber, um endgültig nach Deutschland zurückzukehren»12.
Il suo compito era sicuramente non solo difficile, ma anche stressante: da una parte c’era il lavoro del traduttore che si doveva occupare solo del testo in quanto tale, dall’altra parte, però, c’era il contenuto, ovvero i fatti atroci di cui il testo trattava. A questo proposito Henry A. Lea13, un collega e amico di Hildesheimer durante il processo di Norimberga, ha scritto: «Viel später erst taucht die Erfahrung der Prozesse in Hildesheimers Werk auf, was vielleicht u.a. auf die extreme Intensität der Dolmetscherarbeit zurückzuführen ist, die den Übersetzer zwingt, sich auf Kosten des Inhalts lediglich mit dem Wortlaut zu befassen. […] Erst nach Jahren wird man sich des Inhalts bewusst»14. Come suggerisce quindi Henry A. Lea, il traduttore era impegnato all’inizio a tradurre dal tedesco all’inglese e si concentrava solo sulle parole e le strutture grammaticali, tralasciando il contenuto, che non era ben comprensibile in tutta la sua portata a una prima e superficiale lettura. Evidentemente era necessario che trascorresse del tempo per riflettere sul contenuto del testo tradotto simultaneamente.
Questa esperienza ha lasciato tracce anche nelle ultime opere dello scrittore,
Tynset e Masante. Infatti, Hildesheimer, scosso nel profondo, ha mutato il
rapporto con l’ebraismo e ha riconsiderato la sua identità ebraica: «Mit Judentum in seiner grausamen Bedeutung, mit Rassenzugehörigkeit, Artfremdheit und all den Worten dieses Vokabulars, wurde ich erst konfrontiert, als ich Simultandolmetscher bei den Nürnberger Prozessen wurde; als sich hier, systematisch und schematisch, eine Geschichte aufrollte, die ich in den Jahren des Geschehens nur aus Berichten und Gerüchten gekannt hatte»15.
12 A Heinrich Böll, 7 settembre 1953, in Briefe, pag. 39.
13 A. Lea Henry, professore emerito di tedesco, nato a Berlino, emigrò a Philadelphia nel 1934, dopo che i nazisti presero il potere. Tra il 1947 e il 1948 lavorò, insieme a Hildesheimer, come traduttore e interprete simultaneo nei processi del tribunale contro i crimini di guerra di Norimberga.
14 Andreas Girbig, Von der Unzugehörigkeit. Peter Weiss und Wolfgang Hildesheimer. [De la Non-appartenance]. In: Die horen. Zeitschrift für Literatur, Kunst und Kritik, Hg. Von Jürgen Krätzer, vol. 262, 61. Jahrgang, 2016, pag. 165.
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La memoria dell’Olocausto assunse quindi rilevanza per Hildesheimer, e per la comunità internazionale, grazie alla conoscenza tardiva dei crimini di guerra commessi dal regime nazista, in seguito ai vari processi, tra i quali il già citato processo di Norimberga (1946-1949), e il processo di Auschwitz tenutosi nelle aule del tribunale di Francoforte (1963-1965). In generale, anche sulla base degli studi del neurologo e psicoanalista Sigmund Freud, si può dire che la memoria della Shoah è caratterizzata dal concetto di Nachträglichkeit16, un aspetto centrale per la comprensione psicoanalitica del trauma. Secondo Freud, infatti, il trauma nasce da una memoria repressa nella coscienza, che però alla fine riemerge in superficie, seppur dopo molto tempo («a memory is repressed which has only become a trauma by deferred action»17); verosimilmente, solo dopo il processo di Norimberga, Hildesheimer ha preso pienamente coscienza dell’orrore generato dal nazismo.
Egli è stato uno dei pochi scrittori della Germania dell’Ovest del dopoguerra a qualificarsi come ebreo ed è stato anche uno dei pochissimi ad andare in esilio per due volte, ad aver cioè lasciato la Germania per ben due volte (la seconda volta volontariamente): dapprima per andare in Inghilterra e in Palestina, successivamente per trasferirsi in Svizzera.
La seconda partenza dalla Germania (nel 1957) ha avuto però un peso più rilevante rispetto alla prima, perché è stata la conseguenza del trauma represso e poi venuto alla luce tardivamente, molto più in là rispetto agli anni in cui Hildesheimer lavorò a Norimberga. All’inizio, appena ritornato in Germania, lo scrittore sentiva sensazioni contraddittorie: da un lato, disse di non essersi mai considerato un esule, dall’altra parlò di un’atmosfera immutata nella Germania dell’Ovest del dopoguerra, impregnata ancora di un’alta percentuale di antisemitismo, chiusura e intolleranza, la ragione principale per cui lasciò la Germania una seconda volta.
In Die vier Hauptgründe, weshalb ich nicht in der Bundesrepublik lebe, un documento non pubblicato del 1963, Hildesheimer elencò i motivi per cui aveva deciso di emigrare all’estero. Nel 1947 nutriva ancora speranze di un reale
16 Questo termine si può rendere in italiano con “posteriorità”.
17 Gregory Bistoen, Nachträglichkeit: A Freudian perspective on delayed traumatic reactions, Ghent University, H. Dunantlaan 2, B-9000 Ghent, Belgium, 2014, pag. 673.
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miglioramento della popolazione tedesca: «The possibility existed that there would be a turn for the better and the feeling that Germany would improve morally was not unreasonable… I felt comfortable in Germany because I believed that the guilty were in the minority”»18. Ciononostante, nel 1963, si è dovuto correggere: «[…] that they were the majority, not as active murderers but as corroborators or willing fellow-travelers, as opportunists and beneficiaries of a system in which the murderers had an important function. […] I do not belong to the majority, which is anti-Semitic, and I do not want to belong to the minority, which puts up with such a majority»19.
Hildesheimer conclude il discorso affermando di distinguersi dalla massa dei tedeschi che erano antisemiti o che comunque lasciavano proliferare l’antisemitismo in modo indisturbato: la maggior parte dei tedeschi per lui erano antisemiti e lo sarebbero rimasti per sempre. Inoltre, erano visibili diversi gradi di antisemitismo: per esempio, c’erano tedeschi che mostravano un «offenen, unverhohlenen Haß»20, altri che erano nemici degli ebrei «wider Willen»21, altri ancora che, in modo sprezzante, sostenevano di avere amici ebrei, senza che fosse stato chiesto loro qualcosa a riguardo. Infine, in Mein Judentum, Hildesheimer non ha nascosto la sua paura della nascita di un “nuovo antisemitismo”, in un futuro prossimo: «Und nicht zulezt erwacht in mir die Angst vor neuem Antisemitismus, wohl auch nicht ganz zu Unrecht»22.
1.3. PREMI
In un’intervista rilasciata durante gli anni Settanta, quindi nel pieno successo della sua carriera, Hildesheimer ha detto: «Ich habe kein Schriftsteller werden wollen
18
Katja Garloff, Expanding the Canon of Holocaust Literature: Traumatic Address in Hubert Fichte and Wolfgang Hildesheimer, New German Critique, No.96, Memory and the Holocaust, 2005, nota n° 35, pag. 64.
19 Ibidem, pag. 64. 20
Wolfgang Hildesheimer, Mein Judentum, op. cit., pag. 269. Hildesheimer non spende nemmeno una parola su questo tipo di antisemitismo.
21 Ibidem, pag. 269. 22 Ibidem, pag. 264.
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und betrachte mich auch heute noch nicht als Schrifsteller»23. In realtà, egli fu molto più di questo: fu saggista, narratore, autore teatrale e radiofonico, e anche traduttore dall’inglese di James Joyce, George Bernard Shaw, Samuel Beckett e Julian Barnes.
Nel corso della sua carriera letteraria ha ricevuto numerosi premi: il premio del Gruppo 47 nel 1952; quello per drammi radiofonici dei ciechi di guerra nel 1955 (Hörspielpreis der Kriegsblinden) con Prinzessin Turandot; il premio letterario
Freie Hansestadt Bremen (per Tynset) e il prestigiosissimo premio Georg Büchner (entrambi nel 1966); il premio Verinna Lorenzon nel 1980 (per Mozart);
il premio letterario dell’Accademia Bavarese di Belle Arti nel 1982; e, infine, il premio di Weilheim nel 1991. Nel 1982 fu anche insignito del dottorato honoris
causa dall’Università di Gießen.
1.3.1. OPERE E TEMI
I primi lavori di Hildesheimer che risalgono agli anni Cinquanta, pubblicati con il titolo Lieblose Legenden, sono racconti caratterizzati dalla comicità in tutte le sue forme: essa va dalla satira al grottesco, dalla parodia alla caricatura, e a volte sfocia persino nell’assurdo e nell’incomprensibile. La critica di quel tempo, dopo un lungo periodo in cui aveva dominato solo la censura, esultò, affermando: «Die Satire kehrt in die deutsche Literatur zurück»24. A provocare l’effetto comico, oltre alle situazioni, agli equivoci e ai malintesi, sono anche gli espedienti linguistici, come i giochi di parole e l’ambiguità dei termini. Tutti questi accorgimenti causano nel lettore molte reazioni: la risata, lo stupore e il sorriso; quest’ultimo può essere talvolta un sorriso amaro, quando sotto l’effetto comico si nasconde in realtà un larvato pessimismo. Inoltre, un elemento che i racconti hanno in comune è la satira culturale. Le Lieblose Legenden, insieme a molti radiodrammi e drammi teatrali, sono un esempio della poetica dell’assurdo di
23 W.H. im Gespräch mit Dierk Rodewald. In Über W.H., pag. 142. 24 Adriaan Morriёn, zit. Nach: Über W.H., 83.
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Hildesheimer, che attraversa tutta la sua opera25. Negli anni Cinquanta, Hildesheimer compose radiodrammi, tra i quali: Das Ende kommt nie (1952);
Begegnung im Balkan-Expreß (1953); An den Ufern der Plotinitza (1954);
Prinzessin Turandot (1954) e Das Opfer Helena (1955)26. In questi radiodrammi sono presenti la satira e lo scherno, diretti in particolar
modo contro l’abuso di potere. Prendendo le mosse da storie conosciute di eroi e miti del passato, Hildesheimer li modifica per far vedere come i rapporti sociali tra gli uomini sono condizionati dal terrore e dalla violenza.
Nel radiodramma intitolato Prinzessin Turandot27 si affronta, con un tono leggero e pieno di Witz, proprio il tema dell’abuso di potere. In questa opera, che è una libera interpretazione della leggenda della principessa cinese Turandot, la bellissima donna impone ai suoi pretendenti una sfida: chi riuscirà a batterla in una gara di conversazione, avrà la sua mano. Fino a quel momento nessuno dei diciannove pretendenti era riuscito a superare la prova e per questo erano stati mandati al patibolo dalla crudele principessa. In realtà, il corteggiamento dei pretendenti e il loro omicidio sono il pretesto con cui Turandot cerca di accrescere il suo smisurato potere, annettendo i loro territori al suo regno. Ma arriva a corte un personaggio che metterà fine a tutto ciò. È il falso principe di Astrachan, un avventuriero che agisce con l’inganno, quindi un impostore che riesce a sconfiggere l’orgogliosa principessa. Tuttavia, alla fine, egli rifiuta di sposarla, perché per lui l’amore e il potere sono incompatibili28
. Alla principessa non
25 La critica tende a dividere la produzione letteraria di Hildesheimer in tre fasi: quella della satira, quella dell’assurdo e quella della prosa monologica. Un esempio di questa suddivisione è in Heinz Puknus, Wolfgang Hildesheimer, Verlang C. H. Beck, München, 1978, «Der Autor Hildesheimer begann im Zeichen der Satire, des geistreich parodierenden oder karikierenden Spottes.», pag. 14; «Bis hin zu den letzten Ergebnissen der “absurdistischen Phase”», pag. 64; «in die siebziger Jahre […] treten monologische Strukturen. […] Die Tendenz ist eindeutig: radikale Introversion, Kreisen des – “melancholischen” – Ich um sich selbst.», pagg. 64, 65.
26 I radiodrammi vennero trasmessi dalla Nordwestdeutscher Rundfunk (NWDR) che era un’emittente radiotelevisiva con sede ad Amburgo, e dalla Bayerischer Rundfunk (BR), un’emittente radiotelevisiva ancora attiva e con sede a Monaco di Baviera.
27 Per la versione da palcoscenico, Hildesheimer cambia il titolo dell’opera con Der Drachenthron, che è stato tradotto in italiano con Il trono dei draghi. Purtroppo, con questa traduzione si perde il gioco di parole tra Drache (drago) e Drachen (strega, megera), che chiaramente allude a Turandot. 28
Wolfgang Hildesheimer, Die Theaterstücke, Herausgegeben und mit einem Nachwort versehen von Volker Jehle, Suhrkamp Taschenbuch, 1989, pag. 61: «FALSCHER PRINZ: […] wird man immer noch an allen Herrscherhöfen den Abenteurer wesentlich lieber aufnehmen als den Kaiser von China an der Spitze seiner mordenden und verheerenden Armee.»
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rimane nient’altro che rassegnarsi: è diventata vittima della sua stessa arroganza e dei suoi giochi di potere.
Il successivo radiodramma Das Opfer Helena ha alcuni tratti in comune con
Prinzessin Turandot: la protagonista è una donna, ha una trentina d’anni, ed è
bellissima; inoltre, anche qui è molto forte il tema del potere. Se Turandot lo gestisce in prima persona, Elena è, invece, succube del marito e in più generale degli uomini che pensano solo alla guerra e ad arricchirsi con essa. Sia Turandot che Elena sono colpevoli e vittime allo stesso tempo: la principessa cinese è colpevole di aver fatto giustiziare i suoi pretendenti per la sua brama di potere, ma è anche vittima del sistema che lei stessa ha creato; la regina spartana, invece, è colpevole di aver contribuito allo scoppio della guerra tra greci e troiani ed è vittima dei piani di uomini malvagi. Inoltre, Das Opfer Helena, come Prinzessin
Turandot, è permeata dal Witz, anche se dietro a un’apparente allegria si nasconde
la rassegnazione melanconica.
Dopo aver pubblicato prosa e radiodrammi, Hildesheimer si avvicinò alla scrittura teatrale. Nel suo discorso Über das Absurde Theater (1960), l’autore concepisce il teatro (chiamato Theater des Absurden) come una parabola della vita, che si identifica pienamente con la dimensione assurda dell’esistenza. I suoi protagonisti provano una vera e propria Entfremdung nei confronti di un mondo che non risponde ai loro dubbi e si chiudono in se stessi. I personaggi teatrali di Hildesheimer in effetti sono statici, più inclini ai monologhi e alla riflessione che ai dialoghi, a dispetto del significato che gli antichi greci davano alla parola dramma, cioè “azione”. L’assenza di logica, di dialogo, e in ultima analisi di risposte che caratterizzavano l’esistenza sono riassunte in queste parole di Hildesheimer:
So wird das Theater des Absurden quasi zur Stätte eines symbolischen Zeremoniells, bei dem der Zuschauer die Rolle des Menschen übernimmt, der fragt, und das Stück die Welt darstellt, die vernunftwirdig schweigt, […]: absurde Ersatzantworten gibt, die nichts anderes zu besagen haben als die schmerzliche Tatsache, daß es keine wirkliche verbindliche Antowrt gibt. Wer auf eine Deutung wartet, wartet vergebens. […] Das absurde Stück stellt also einen Zustand dar, der, wie immer er auf der Bühne endet, in der Frage verharrt.29
29 Wolfgang Hildesheimer, Über das absurde Theater, in Das Ende der Fiktionen, Reden aus fünfundzwanzig Jahren, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1984, pag. 15.
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Questa percezione di vuoto riflette molto bene la condizione della Germania del dopoguerra, sommersa dalle macerie e svuotata di prospettive.
Allo stesso modo, i tre Spiele, in denen es dunkel wird (1958) trattano l’alienazione degli uomini nel vuoto della quotidianità e la loro rassegnazione di fronte al destino che è immutabile e ripetitivo; nel futuro si ripete il passato e perciò non serve a nulla agire: l’uomo tenta di aggrapparsi a speranze e fantasie, per cercare di superare la cupa e ostile realtà, ma invano.
Progressivamente, negli anni Sessanta, dalla satira ironica, la scrittura di Hildesheimer si spostò sempre di più verso la malinconia: ciò, però, non significa, come detto precedentemente, che la “fase dell’assurdo” si sia esaurita del tutto. I protagonisti dei drammi di questo periodo si isolano e conducono un’esistenza monologica: «An die Stelle personifizierender Objektivierungen des Ich treten monologische Strukturen, in denen umgekehrt die “Welt” ihrerseits nur noch partikelhaft, in unterschiedlichen Spiegelungen und Brechungen “subjektiviert” erscheint. […] Die Tendenz ist eindeutig: radikale Introversion, Kreisen des – “melancholischen” – Ich um sich selbst»30
.
Esempio emblematico di questo periodo monologico è l’opera Nachtstück del 1963, costituita da un unico atto in cui emerge tutta la dialettica autodistruttiva dell’Ich. Il protagonista non riesce a dormire ed è tormentato da visioni della realtà che gli provocano disgusto e orrore, e per questo tende evita il contatto con il mondo esterno. Non ha nessun’altra alternativa se non piegarsi a questa forma di esistenza riduttiva. Il giorno della prima teatrale di Nachtstück, Hildesheimer dichiarò: «Ich lese die Zeitung, und nichts erstaunt mich mehr… Ich kann mich nicht in einen Menschen hineinversetzen, der nicht ungeheuer viel Widersinniges in der Welt sieht»31.
La convinzione emersa dai drammi dello scrittore che la solitudine fosse l’elemento costitutivo dell’esistenza umana si rafforzò nelle scelte artistiche successive, quelle della cosiddetta “prosa monologica”.
L’opera che per lungo tempo è stata considerata la più importante di Wolfgang Hildesheimer e che più di ogni altra gli ha assicurato il consenso della critica è
30 Heinz Puknus, Wolfgang Hildesheimer, Verlang C.H. Beck, München, 1978, pagg. 64-65. 31 Henning Rischbieter, Der Schlaflose/Gespräch mit W.H. In: Theater heute 4/1963, pag. 15.
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Tynset, pubblicata nel 196532. L’autore non ha mai voluto definire Tynset un
romanzo, perché questa opera appare piuttosto come un unico monologo interiore, dove il protagonista-narratore, un ebreo benestante che ha lasciato la Germania del dopoguerra per la Svizzera, esprime il suo profondo turbamento per la violenza e la menzogna che dominano il mondo. Lo scritto prende le mosse dal monologo del personaggio principale, anch’egli insonne e che si muove all’interno di una casa ereditata da un suo zio; ogni oggetto che incontra, ogni stanza in cui va, ogni rumore che sente, è il pretesto per ricordare e raccontare una memoria. Tynset è quindi la cronaca di una notte insonne dove sono riportati, scanditi dalle ore, i pensieri, i ricordi e le paure del protagonista. Il suo racconto viene spesso interrotto, intervallato da un nuovo evento, poi ripreso e così via, secondo l’associazione di idee. Il ritmo della narrazione cambia velocemente: a volte è tranquillo, altre volte diventa incalzante: ma ogni volta che la narrazione tratta troppo da vicino l’orrore (Schrecken), ecco che viene cambiato subito argomento.
Ci sono inoltre nell’opera anche aspetti storici e politici, che fanno riferimento al passato nazista e alla sua brutalità, e che inducono il protagonista a pensare a una fuga, sia dalla vita attuale, così ripetitiva, sia dalle paure remote: suo padre è stato una vittima del regime di Hitler, mentre i persecutori l’hanno fatta franca (tutto ciò rievoca la scelta di Hildesheimer di lasciare la Germania del dopoguerra, la sua ossessione per gli aguzzini tedeschi e il desiderio di ritirarsi in Svizzera)33. Il titolo dell’opera fa riferimento a una località sperduta in Norvegia chiamata Tynset, che il protagonista legge sull’orario ferroviario. Questo nome lo attrae sia per il suono, sia per come è scritto e diventa per lui un’ossessione, la meta fantasmagorica di un nuovo inizio, alla quale, al sopraggiungere del nuovo giorno, egli rinuncerà del tutto. Una particolarità di Tynset è la sua struttura34, che ricorda
32 Con Tynset Hildesheimer ha infatti vinto sia il Georg Büchner Preis che il Bremer Literaturpreis.
33
Italo Alighiero Chiusano, Intervista a Wolfgang Hildesheimer, in Wolfgang Hildesheimer, Tynset, Traduzione di Italo Alighiero Chiusano, Edizioni del Mosaico, Tirano, 2016: «Ci ho messo tutto, là dentro: la mia patologica insonnia, la mia ossessione che alle spalle di noi tutti camminino gli aguzzini, la mia desolata concezione della storia […], la mia angoscia del labirinto, […], il mio insanabile ateismo […]», pag. 137.
34 Per la struttura di Tynset si veda il saggio The Structure of Wolfgang Hildesheimer’s “Tynset” di Patricia Haas Stanley, Monatshefte, Vol. 71, No.1, University of Wisconsin Press, 1979, pagg. 29-40.
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un rondò. Hildesheimer ha detto a questo proposito: «Für mein Buch hatte ich mir die Rondo-Form vorgenommen. Allerdings ist meine Abwandlung sehr frei»35; del resto, l’autore amava molto la musica.
L’altra opera che ha ricevuto una grande attenzione da parte del pubblico internazionale è Masante (1973). Anche qui il protagonista passa una notte insonne e parla in prima persona delle sue memorie, mostrando rassegnazione di fronte all’insensatezza del genere umano.
Si potrebbe affermare che Tynset e Masante siano due libri che sono l’uno il complemento dell’altro: entrambi i titoli indicano due luoghi, sia di rifugio che di fuga, dal passato, dal presente e da se stessi. Da un punto di vista geografico, essi sono anche agli antipodi: Tynset è una località norvegese, mentre Masante si trova in Italia (è significativo che la Germania sia nel mezzo).
Il protagonista di Masante, poiché soffre di Fernweh, lascia la sua casa presso Urbino e si rifugia a Meona, un luogo al margine del deserto36, esponendosi in tal modo al pericolo di rimanere deluso dallo scontro con la realtà. Qui affitta una stanza presso una locanda La dernière chance, gestita dalla coppia Maxine e Alain, e trascorre il tempo spostandosi tra la sua camera, il bar, e il deserto. Questo luogo al confine del nulla, anche se si rivela vuoto di ogni significato reale, stimola la fantasia e il racconto del protagonista. Mentre il narratore di
Tynset è circondato da oggetti di un ambiente a lui familiare, il protagonista di
quest’opera si confronta con luoghi e temi a lui sconosciuti, e con il suo passato. Anche in questa opera, come in Tynset, ci sono riferimenti storici alla realtà tedesca: per esempio, i nomi delle aziende e dei personaggi, come Uwe (che suona misterioso e oscuro al protagonista37) o Adolf 38, che richiama il nazionalsocialismo.
Nel periodo che intercorre tra Tynset e Masante viene pubblicata l’ultima opera teatrale di Hildesheimer, ovvero Mary Stuart, (1970), frutto di un lavoro durato anni. Come suggerisce anche il sottotitolo “Eine historische Szene”, questa volta
35 Wolfgang Hildesheimer, Antworten über Tynset, Dichten und Trachten, 25, 1965, pag. 12. 36 Wolfgang Hildesheimer, Masante, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1973: «Am Rand einer Wüste, einem Punkt des Zufalls, fern von Masante», pag. 7.
37 Ibidem, «aus einem finsteren Ursprung, […], man vergiß ihn ncht […] der Schreck bleibt.», pag. 29.
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l’argomento non prende le mosse da un mito o da una leggenda, ma riguarda un fatto storico: la decapitazione della regina scozzese. Lo scrittore non vuole presentare l’evento come autentico, ma cerca di ricostruire i possibili momenti che hanno preceduto la morte di Maria Stuarda. In particolare, Hildesheimer si addentra nella psicologia e nel modo di sentire della protagonista, che prende congedo dalla vita e affronta la morte in modo esemplare in presenza del pubblico convenuto per lo spettacolo della decapitazione39. A differenza di Elena che è una “vittima colpevole”, stavolta l’autore ha messo in scena una donna che muore senza colpe e ne è consapevole: «Ich sterbe uschuldig… […] Ich sterbe als eine rechtmäßige Königin, und wenn Gott will, als eine zukünfige Heilige!»40.
La storia recente e del passato non è presente solo nella prosa e nella drammaturgia di Hildesheimer, ma anche nei suoi scritti biografici: Mozart e
Marbot. L’autore si mantenne però coerente con le proprie convinzioni a
proposito dell’assurdità, della falsità della storia e della nostra interpretazione di essa, specificando che queste biografie erano inattendibili.
Il suo libro Mozart (1977) ottenne un grande successo, soprattutto per i toni spesso ironici e per i chiari segni di rottura con la tradizione a cui avevano fatto riferimento per un lungo tempo i biografi ufficiali del musicista di Salisburgo.
Marbot (1981), l’ultima opera di Hildesheimer, è la finta biografia di un giovane
aristocratico inglese dell’Ottocento, che cerca di sottrarsi a un rapporto incestuoso con la madre rifugiandosi nella pittura. Tuttavia, deluso per la scoperta di essere un artista dilettante si suicida. Questo libro è costituito anche da un insieme di ritratti (es. di Goethe, Leopardi, Schopenhauer) e di saggi di critica d’arte (su opere di artisti come Giotto, Mantegna e Rembrandt).
Da sottolineare che, proprio nel periodo in cui si dedicava alla scrittura biografica, Hildesheimer tenne in Irlanda la già citata conferenza dal titolo “The End of
39
Wolfgang Hildesheimer, Die Theaterstücke, op. cit., 1989: «MARY […] sind diese Leute, die da stehen, […] gekommen […] um mich die Königin von Scottland, sterben zu sehen. Sie sollen ihr Schauspiel haben.», pag. 615.
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fiction” (1975) e, nello stesso anno, confessò alla sorella di non riuscire più a concentrarsi sulla scrittura, per la quale aveva perso interesse41.
Negli anni Ottanta, si rafforzò in lui il dubbio che il linguaggio, e gli altri mezzi a disposizione del narratore contemporaneo, fossero insufficienti a dare l’immagine adeguata della realtà. Sommerso da dubbi e incertezze, Hildesheimer annunciò nel 1983 il suo ritiro definitivo dal mondo letterario.
Con la rinuncia alla scrittura, l’autore impiegò gli ultimi anni della sua vita esclusivamente nelle arti figurative.
41
Stephan Braese, Jenseits der Pässe: Wolfgang Hildesheimer Eine Biographie, Wallstein Verlang, Göttingen, 2016: «Ich kann mich nicht mehr auf Literatur konzentrieren, sie interessiert mich nicht mehr», pag. 411.
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2. IL MITO DI ELENA
Nel corso dei secoli, Elena è stata oggetto di grande interesse per numerosi poeti e scrittori, tanto che l’attenzione sulla sua figura è rimasta viva fino ai giorni nostri. Si può quindi affermare che il personaggio di Elena sia molto lungimirante quando, in un passo dell’Iliade, pronuncia a Ettore le seguenti parole: «E anche in futuro noi saremo cantati fra gli uomini che verranno…»42.
Bisogna però precisare che non esiste un’unica versione del mito originario di Elena, bensì esistono racconti diversi, che hanno dato luogo a una molteplicità di “Elene”.43
L’immagine più familiare che abbiamo di Elena è quella che conosciamo dalla poesia omerica. È infatti Omero44 la prima testimonianza scritta a cui fare riferimento. Nonostante compaia pochissime volte nell’Iliade, Elena rappresenta uno dei personaggi di maggior rilievo. Appare per la prima volta nel III canto del poema: è intenta a tessere e ricamare sul tessuto le dure prove cui greci e troiani erano costretti a causa sua45, quando, su consiglio della dea Iride, si reca sui bastioni di Troia per assistere al duello ormai prossimo tra Menelao e Paride. Elena viene inserita nel poema in medias res senza una particolare presentazione; questo è possibile perché veniva dato per scontato che il pubblico di allora conosceva già molto bene non solo il personaggio, ma anche gli antefatti e le conseguenze della guerra di Troia. Del resto, il poema omerico non racconta tutta la guerra decennale, ma all’incirca una cinquantina di giorni dell’ultimo anno del conflitto.
42 Hom., Iliade, prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa Calzecchi Onesti, testo a fronte, Einaudi, Torino, 2006, libro VI, vv. 357-58. In questi versi Elena sta facendo riferimento al suo destino e, più in generale, a quello dei combattenti greci e troiani.
43 Cfr. Bettany Hughes, Helen of Troy: Goddess, Princess, Whore, Pimlico, London, 2013, pag. XXXV.
44
Luigi Enrico Rossi – Roberto Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, L’età arcaica 1, Le Monnier, Firenze, 2002: «La letteratura greca documentata comincia con due poemi epici, l’Iliade e l’Odissea, che sono il primo prodotto letterario della cultura europea […]. Per noi può non essere importante stabilire se un aedo (ἀοιδός, “cantore”, da ἀοιδή) di nome Omero sia esistito o no.», pag. 35.
45 Hom., Iliade, op. cit., libro III, vv. 125-128: «tesseva una tela grande,/ doppia, di porpora, e ricamava le molte prove/ che Teucri domatori di cavalli e Achei chitoni di bronzo/ subivan per lei, sotto la forza d’Ares».
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Infatti, la produzione scritta relativa alle vicende dell’intero ciclo troiano, escluse l’Iliade e l’Odissea, era molto vasta e ne facevano parte i seguenti poemi: i
Cypria, l’Etiopide, la Piccola Iliade, l’Iliou persis, i Nostoi e la Telegonia.
Tuttavia, di essi sono rimasti solo dei frammenti.
In particolare, sono importanti i Cypria o Canti Ciprii, in cui vengono narrati gli episodi che precedono la guerra di Troia, la preparazione militare degli achei contro la città avversaria, e, infine, l’inizio della guerra. È proprio in questo poema che si trova descritto l’episodio che viene considerato dalla mitologia greca come la principale causa della guerra: il giudizio di Paride46 e il successivo ratto di Elena. Viene raccontato che Zeus fece allestire un banchetto per celebrare il matrimonio di Peleo e Teti, ma non venne invitata Eris, la dea della discordia, che, indignata, gettò sul tavolo del banchetto nunziale una mela d’oro con scritto sopra “alla più bella”. Il racconto prosegue con la furiosa lite tra le dee Era, Atena e Afrodite. A giudicare chi fosse la più bella tra loro, venne chiamato da Zeus il più bello dei mortali, il principe troiano Paride. A quel tempo, Paride, ignaro di essere un principe, viveva sul monte Ida, vicino a Troia (dove era stato mandato in esilio dal re Priamo, suo padre, perché gli era stato predetto che suo figlio avrebbe causato la distruzione di Troia), e conduceva le pecore al pascolo. Ogni dea gli promise una ricompensa: Era ricchezza e potere; Atena la forza necessaria in battaglia per sconfiggere ogni nemico; Afrodite l’amore e il possesso della donna più bella del mondo. Paride favorì la dea dell’amore, che lo aiutò quindi a rapire Elena, allora moglie del re di Sparta Menelao, e a portarla a Troia.
2.1. LA NASCITA DI ELENA
La nascita di un personaggio mitologico è un evento importante perché ne definisce l’identità e indica le caratteristiche che prefigurano il suo futuro. Anche se esistono più versioni riguardo alla nascita di Elena, in ciascuna di esse troviamo
46 L’Iliade accenna vagamente a questo episodio, considerandolo come un evento di secondaria importanza: «A tutti gli altri piaceva questo, ma non certo a Era,/ a Poseidone e alla vergine dagli occhi azzurri;/ sempre avevano in odio, come prima, Ilio sacra/ e Priamo e il suo popolo, per colpa di Paride,/ che aveva offeso le dee quando nella capanna gli vennero,/ e lui lodò quella che gli offrì l’affannosa lussuria», ibidem, libro XXIV, vv. 25-30.
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elementi che preannunciano un destino caratterizzato da pulsione erotica, brutalità e violenza, duplicità.
Nel già menzionato III canto dell’Iliade, Elena si reca sulle mura di Troia per assistere al combattimento tra Menelao e Paride e si meraviglia di non scorgere tra i combattenti achei i suoi fratelli, Castore e Polluce, detti i Dioscuri. Proprio in questa occasione, Elena afferma di essere nata dalla stessa madre che generò i Dioscuri: «ma non riesco a vedere i due ordinatori d’eserciti,/ Càstore domator di cavalli e Polluce pugno forte/, fratelli miei di sangue, che una stessa madre partorì con me»47.
Nell’Odissea viene detto che i due fratelli sono figli di Leda; quindi, seguendo la versione dei poemi omerici48, la madre di Elena dovrebbe essere stata Leda, regina di Sparta, famosa per la sua bellezza e moglie del re Tindaro49. Tuttavia, questa genealogia ricorre in forma esplicita solo nell’Elena di Euripide50
, quindi più tardi rispetto a Omero.
Dalla tradizione omerica in poi, Elena è nata dall’amore di Zeus e la mortale Leda, il che determina la sua doppia natura: umana e divina. Secondo il mito, il concepimento fu violento: un giorno, il re dell’Olimpo Zeus vide la regina Leda fare il bagno nelle acque dell’Eurota (il fiume che attraversava le pianure di Sparta), e, invaghitosene, si trasformò in un cigno e la rapì per unirsi a lei.
In altre versioni viene menzionato il re di Sparta Tindaro come padre di Elena; tuttavia egli può essere considerato soltanto come il padre adottivo e mortale di Elena, perché accolse e allevò la neonata nella sua casa. Comunque Tindaro è un personaggio importante perché stipulò un accordo con i pretendenti della “figlia”,
47 Ibidem, libro III, vv. 236-238. 48
Bisogna precisare che nei poemi omerici non si fa nessuna menzione riguardo alla nascita di Elena.
49 Hom., Odissea, prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa Calzecchi Onesti, testo a fronte originale, Einaudi, Torino, 2006: «E Leda vidi, la sposa di Tìndaro/ che a Tìndaro diede due figli dall’animo saldo,/ Càstore domatore di cavalli e Polluce pugno forte;/ l’uno e l’alto vivi nasconde la terra generatrice», libro Xi, vv. 298-301.
50 Eur., Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, Euripidis Tragoediae, August Nauck, Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri, Ἑλένη, 1913, vv. 16-21, trad.: «Quanto a me, la mia patria non è/ senza gloria: è Sparta, e mio padre/ è Tindaro. Ma narrano che Zeus,/ presa forma di alato, di un cigno/ che fuggiva da un’aquila, volò/ nel seno di mia madre Leda, e l’ebbe/ con l’inganno al suo amore» in Il teatro greco tutte le tragedie, a cura di Carlo Diano, Sansoni Editore, Firenze, 1970.
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che prevedeva il loro impegno ad aiutare il futuro sposo, qualora gli fosse stata recata offesa. Questo patto pose le basi della guerra di Troia.
Alcune versioni del mito si spingono oltre nel delineare la già citata relazione di fratellanza tra Elena e i Dioscuri, associando le tre figure fin dal momento della nascita: nella stessa notte dell’insolito accoppiamento tra Leda e il divino Zeus, la donna si sarebbe unita anche al mortale Tindaro; dopodiché Leda avrebbe generato due uova. Da Zeus sarebbero nati Elena e Polluce, entrambi dotati di natura immortale, mentre da Tindaro sarebbe stato generato il mortale Castore. Secondo altre versioni (quella spartana e quella del poema epico dei Cypria) i Dioscuri sono i fratelli maggiori di Elena, che accorrono in suo aiuto ogni volta che lei si trova in pericolo (per esempio, quando Teseo la rapisce; cfr. § 2.2.). Quindi, Leda ha partorito prima la coppia gemellare composta dai Dioscuri, dotato l’uno di natura divina e l’altro di natura mortale, e solo successivamente, la regina avrebbe partorito l’uovo da cui nacque Elena. Sia il colore latteo del piumaggio del cigno-Zeus che il bianco di questo uovo51 avrebbero determinato la caratteristica principale della donna più bella tra le mortali: la sua pelle divina, candida e pallida. Il fatto che Elena (emblema della seduzione e della sessualità) sia nata da un uovo non dovrebbe stupire, in quanto l’uovo era considerato dagli antichi greci un simbolo di fertilità, potenza sessuale e vita52.
Ritornando alla versione delle due uova, la tradizione antica è discordante sulla coppia di gemelli nata da ciascun uovo: infatti, si trovano varie possibilità di combinazione, a seconda del fatto che venga privilegiato il genere e/o la natura (mortale o immortale) dei membri della coppia. Per esempio, troviamo Polluce e Castore, oppure Elena e Clitennestra53; o ancora Polluce e Elena, nati da Zeus, a cui si contrappongono Castore e Clitennestra, nati da Tindaro.
Infine, secondo l’autore anonimo dei Canti Ciprii Elena non sarebbe figlia di Leda, bensì della dea Nemesi. Quest’ultima, inseguita da Zeus, fu costretta con
51
Secondo l’autore greco Pausania (autore vissuto intorno al II sec. d.C.) i frammenti di questo uovo erano conservati nel santuario delle Leucippidi, a Sparta, avvolti in bende che pendevano dal soffitto. Cfr. Hughes, op. cit., pag. 27.
52 Cfr. Hughes, Helen of Troy: Goddess, Princess, Whore, op. cit., pag. 27.
53 Elena e Clitennestra sono accomunate da un destino tragico di distruzione e morte. Diventeranno spose di due fratelli – rispettivamente di Menelao e di Agamennone, figli del re Atreo – e saranno mogli infedeli. In particolare, Clitennestra ordì una congiura contro il marito di ritorno da Troia, insieme a Egisto, cugino di Agamennone. La morte di quest’ultimo venne poi vendicata dai suoi figli, Elettra e Oreste, che uccisero la madre. Cfr. Omero, Odissea e Eschilo, Agamennone.
27
l’inganno54
ad accoppiarsi con lui e a nulla valsero i suoi tentativi di sfuggirgli. Quindi, in questo caso, i genitori di Elena sarebbero entrambi di natura divina e ciò sottolineerebbe il suo distacco dai comuni mortali. In base a questa versione, la violenza e la frode segnano subito il destino di Elena. Comunque, l’uovo deposto da Nemesi sarebbe stato successivamente consegnato a Leda, che lo costudì fino alla schiusa, e in questo modo Elena sarebbe cresciuta nel palazzo di Tindaro.
2.2. IL CULTO DI ELENA NELLA GRECIA ARCAICA: LA RAGAZZA DI SPARTA
Al nome Elena viene affiancato spesso l’epiteto “di Troia”, ma gli antichi greci la designavano semplicemente come Elena di Sparta, dal nome della città del Peloponneso in cui era nata. La sua origine spartana era già nota a Omero, che però nei suoi due poemi non fa mai cenno agli anni giovanili della donna e al culto di cui ella era oggetto nella sua città natale. A Sparta, infatti, Elena era venerata come una divinità dalle giovani vergini e c’erano diversi luoghi di culto; uno di questi si trovava vicino al santuario di Artemide ed era un bosco di platani (Platanistás55) sulle rive del fiume Eurota, vicino al Dromos56. In questo luogo veniva celebrata la giovane Elena, che era solita allenarsi nella corsa, fare esercizi fisici e danzare insieme alle compagne.
Un altro luogo di culto era il Menélaion di Terapne57, una località su un’altura di Sparta, sulla sponda sinistra dell’Eurota, dove Elena veniva ricordata come una donna matura e come la sposa di Menelao58.
Elena, sia come adolescente, che come sposa, rappresentava quindi un modello e una sorta di protettrice per le ragazze spartane in due momenti importanti della vita: l’ingresso nella vita sociale e il matrimonio. Allo stesso modo, sul versante
54
Zeus chiese aiuto ad Afrodite, che trasformatasi in aquila avrebbe finto di inseguire il cigno-Zeus. Allora Nemesi avrebbe accolto nel suo grembo il cigno per proteggerlo dal terribile predatore e si sarebbe poi addormentata tenendolo tra le sue cosce. In quell’occasione il re dell’Olimpo avrebbe approfittato di lei.
55 Paus., Guida della Grecia, III 15,3. 56
Il campo sportivo dove si allenavano i giovani spartani. 57 Paus., op. cit., III 19,9.
58 Maurizio Bettini, Carlo Brillante, Il mito di Elena: racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino, 2014: «Qui si trovava la tomba comune della coppia», pag. 44.
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maschile, i Dioscuri rappresentavano un punto di riferimento per gli Spartiati59, in quanto erano due giovani dediti alla ginnastica e alla preparazione della guerra. Se per la città di Sparta Elena era la sposa fedele di Menelao, secondo altre versioni quest’ultimo non fu il suo primo uomo. Nella versione del mito proposta da Pausania, infatti, fu l’ateniese Teseo il primo ad aver posseduto Elena, quando era ancora una bambina60. L’eroe giunse a Sparta con il fedele amico Piritoo per rapirla, perché attratto dalle voci che circolavano in tutta la Grecia sulla sua straordinaria bellezza61; nonostante Teseo fosse un re potente e avesse un grande regno, proclamò che non sarebbe stato del tutto felice, senza aver goduto della bellezza della principessa spartana62. Così Elena venne condotta nel villaggio di Aphidna, in Attica, da Teseo, che l’affidò a sua madre, in attesa delle nozze. Allora i Dioscuri, infuriati per il rapimento della sorella, la cercarono per tutta l’Attica, e, una volta trovatala, la riportarono a Sparta. Questa vicenda ricorda molto l’episodio che conosciamo dalla poesia omerica e che è alla base della guerra di Troia: il ratto di Elena da parte del barbaro Paride.
Oltre a questa versione del mito, nella Grecia arcaica, la figura dell’eroina assumeva tratti diversi a seconda delle póleis. Pausania attesta che, nella versione della città di Argo, Elena era una ragazza matura ed era quindi pronta per sposarsi e avere figli; anche Teseo non doveva avere un’età troppo avanzata. Inoltre, il ratto non era stato violento, ma si era trattato di un vero e proprio matrimonio: per Argo, Elena e Teseo dovevano rappresentare la coppia modello dei giovani sposi, così come lo erano Elena e Menelao per Sparta. Quindi, la tradizione argiva, per creare un legame tra il proprio eroe e l’eroina spartana, giustificava e legittimava il ratto con questo matrimonio. Elena sarebbe poi stata riportata a casa da Polluce e Castore e durante il viaggio di ritorno avrebbe partorito Ifigenia, nata dalla sua unione con Teseo, ma successivamente affidata alla sorella Clitennestra, allora già sposa del re Agamennone.
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Gli Spartiati erano i maschi della società spartana che fin da giovani venivano addestrati alla battaglia.
60 Le fonti sono discordi riguardo all’età di Elena quando venne rapita da Teseo: secondo alcune aveva dodici anni, per altre addirittura sette, ma, qualsiasi fosse l’età precisa, una cosa era certa: Elena superava già tutte in bellezza. Teseo, invece, doveva avere una cinquantina d’anni, cfr. Bettany Hughes, Helen of Troy: Goddess, Princess, Whore, op. cit., pag. 49.
61 Paus., op. cit., III 18, 10. Questo episodio del ratto di Elena si trova anche in Plutarco (Vita di Teseo) e probabilmente era noto anche all’autore dei Cypria.
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Ad Atene, invece, i Dioscuri non erano visti come i nemici di Teseo e i vendicatori del rapimento della sorella, ma sarebbero stati addirittura invitati al matrimonio. Probabilmente, questa riconciliazione tra il re ateniese e i fratelli di Elena serviva per giustificare il culto dei Dioscuri ad Atene, dove sorgeva un tempio a loro dedicato63.
Come si può notare, in tutte queste versioni del mito, la figura di Elena è comunque sempre positiva, in quanto legata ai riti di iniziazione femminile e alla sfera matrimoniale.
2.3.ELENA DI TROIA: MOGLIE INFEDELE E EIDOLON
L’immagine di Elena a noi più familiare è certamente quella tramandata dalla poesia omerica, che si basava largamente sul patrimonio mitico tradizionale, ma che aveva anche sviluppato una propria versione della leggenda troiana; fu proprio questa rielaborazione del mito che si è affermata e ha prevalso su tutte le altre storie che circolavano in Grecia, sminuendone la fama.
LA SPOSA INFEDELE
Elena è vista nell’Iliade e nell’Odissea come una sposa infedele, che ha condotto nella sua stanza privata l’ospite troiano Paride, approfittando dell’assenza del marito Menelao che si trovava in viaggio; non solo Elena ha disonorato il talamo, ma ha anche abbandonato la figlia Ermione. Da questo episodio, secondo la versione omerica, ha avuto origine la guerra di Troia: greci e troiani hanno combattuto per dieci anni unicamente per una donna, che è stata causa di infiniti lutti e sciagure. Quindi, Elena è entrata nella storia come emblema della donna adultera, la cui bellezza, simile a quella delle dee immortali, è sinonimo di fatale seduzione.
Il fascino della donna, considerata allora la più bella del mondo, gioca un ruolo importante nella storia, tuttavia l’aspetto fisico non è mai descritto in modo
63 Maurizio Bettini e Carlo Brillante, Il mito di Elena: racconti dalla Grecia a oggi, op. cit., pag. 51.