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Il principio di completezza delle indagini preliminari

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza

TESI DI LAUREA

Il principio di completezza delle indagini preliminari

Il Candidato: Il Relatore:

Cesare Ticciati Chiar.mo Prof. Enrico Marzaduri

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INDICE

Capitolo 1

Evoluzione ed affermazione del principio di completezza

delle indagini preliminari

1.1 Dall’istruzione all’indagine completa ... 4 1.2 Il riconoscimento del principio di completezza da parte della Corte costituzionale. ... 11 1.3 Il ruolo del principio di completezza ... 14 1.4 Rapporto tra completezza e ragionevole durata delle indagini

preliminari. ... 19 1.5 La completezza delle indagini nel quadro delle garanzie

fondamentali sancite dalla CEDU. ... 24

Capitolo 2

L’attività del pubblico ministero e il controllo

giurisdizionale

2.1 L’integrazione investigativa su impulso del giudice ... 29 2.2 Avocazione ad opera del Procuratore generale presso la Corte di

Appello. ... 48 2.3 Investigazioni successive all’esercizio dell’azione penale. ... 53 2.4 Indagini difensive ... 58 2.5 L’avviso di conclusione delle indagini a garanzia della

completezza. ... 64

Capitolo 3

Completezza delle indagini preliminari e riti alternativi

3.1 La completezza in funzione della scelta del rito ... 68 3.2 I riti che anticipano il dibattimento ... 71

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3.3 Il decreto penale di condanna. ... 78

3.4 L’applicazione della pena su richiesta delle parti ... 82

3.5 Il giudizio abbreviato ... 89

Capitolo 4

Riforma Orlando e completezza investigativa

4.1 Modifiche alla disciplina delle indagini preliminari. ... 101

4.2 La completezza nel giudizio abbreviato dopo la riforma ... 108

Bibliografia

...117

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Capitolo 1

EVOLUZIONE ED AFFERMAZIONE DEL

PRINCIPIO DI COMPLETEZZA DELLE

INDAGINI PRELIMINARI

S

OMMARIO

:

1.1 – Dall’istruzione all’indagine completa; 1.2 – Il

riconoscimento del principio di completezza da parte della Corte costituzionale; 1.3 – Il ruolo del principio di completezza; 1.4 – Rapporto tra completezza e ragionevole durata delle indagini preliminari; 1.5 – La completezza delle indagini nel quadro delle garanzie fondamentali sancite dalla CEDU.

1.1 Dall’istruzione all’indagine completa

Tra le iniziative derivanti dall’affermazione del movimento fascista nel panorama politico italiano e dalla conseguente volontà di totale fascistizzazione dello Stato, vi fu la realizzazione di una riforma del processo penale tesa al superamento dei principi liberali e caratterizzata da numerose disposizioni di impronta autoritaria e di chiara natura inquisitoria, dalle quali emergeva una notevole compressione dei diritti di difesa e di libertà del cittadino. Tale riforma, con il R.D. 19 ottobre 1930 n. 1399, di iniziativa dell’allora ministro della giustizia Alfredo Rocco, interessò anche il codice di procedura

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penale, dilatando sensibilmente i poteri del pubblico ministero nel processo penale, grazie, soprattutto, al passaggio da un sistema prevalentemente accusatorio ad uno formalmente misto, ma di sostanziale impronta inquisitoria1.

Nonostante conservasse un sistema misto, il codice del 1913, infatti, prevedeva ampi diritti per l’accusato già a partire dalla fase istruttoria e caratteri tipici del sistema accusatorio, a differenza di quello del 1930 che eliminò il diritto di difesa nel corso dell’istruzione, divenuta completamente segreta e attribuì al pubblico ministero l’esercizio di quei poteri coercitivi di cui si avvaleva il giudice istruttore. La distinzione tra le funzioni nel processo veniva quindi messa da parte2. In tale sistema processuale la preparazione del processo ha occupato spazi sempre più ampi, sino a identificarsi con il processo stesso, relegando la fase dibattimentale ad una tendenziale verifica del materiale acquisito nella fase istruttoria. Le indagini del pubblico ministero e dei giudici istruttori, titolari alla pari di funzioni investigative, miravano ad accertare la verità, di cui poi si avvalevano i giudici del dibattimento3. Questo modello processuale era caratterizzato

1 A.Gustapane, Il pubblico ministero nel regime fascista, Filodiritto editore, 2014, p.

15 s.

2P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2015, p. 25-26.

3 D. Siracusano, La “polivalenza” delle indagini preliminari, in D. Siracusano-A.

Galati-G. Tranchina-E. Zappalà, Diritto processuale penale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2004, p. 11.

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da un sistema di sovrapposizione del materiale utilizzabile in dibattimento4.

Il codice del 1930 non si esprimeva in merito al momento dell’esercizio dell’azione penale, ma questo, solitamente, coincideva con l’imputazione che rappresentava sia l’inizio del processo sia il termine per il provvedimento di archiviazione, posto di seguito ad una esigua istruzione preliminare. L’art. 74 c.p.p., nel disciplinare l’archiviazione, non poneva rigorosi requisiti alla base della richiesta del pubblico ministero, prevedendo, nella versione originaria, la manifesta infondatezza della notizia quale presupposto per l’archiviazione, affidando la valutazione e la decisione interamente al pubblico ministero, la cui posizione cambia in seguito al D. Lgs. Lgt. n. 288 del 1944: egli avrebbe dovuto richiedere l’archiviazione al giudice istruttore a cui spettava la pronuncia tra l’acconsentire a tale richiesta, ovvero rifiutarla e dare inizio al processo. È solo da questo momento, dunque, che si può parlare di controllo giurisdizionale5.

In tale sistema processuale si inseriva l’art. 299 c.p.p. che disciplinava l’attività del pubblico ministero allo stesso modo sia nella fase dell’istruzione preliminare che in quella dell’istruzione sommaria, rendendo evidente la commistione tra le 2 fasi6. “La preistruzione, ossia

4 G.D. Pisapia, Il segreto istruttorio nel processo penale, Giuffrè, Milano,1968, p. 28. 5 F. Siracusano, La completezza delle indagini nel processo penale, Giappichelli,

Torino, 2005, p. 6-11.

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l’indagine per l’azione, proseguiva fino a raggiungere “l’evidenza”; da questa piattaforma probatoria poteva prendere ormai le mosse l’istruzione sommaria”7.

Anche la Corte di cassazione si pronunciò in merito, con la sentenza del 5 luglio 1968 n. 86, ritenendo utilizzabili in dibattimento le fonti di prova ottenute durante l’istruzione preliminare. La valutazione dei Giudici costituzionali derivava dall’osservazione che anche le indagini preliminari della polizia giudiziaria, inserite nel rapporto, sarebbero state utilizzabili in giudizio grazie al sistema della lettura dei verbali. In questo modo l’istruzione preliminare poteva divenire il fondamento dell’impianto probatorio. Nel vecchio modello processuale, quindi, i momenti della preistruzione e della istruzione sommaria si univano, non esistendo una netta distinzione tra le due fasi8.

Nell’evoluzione del sistema processuale penale si inserisce la Costituzione repubblicana del 1948 nella quale vengono sanciti principi generali che, direttamente o indirettamente, condizionano il processo penale. La Carta contiene disposizioni che fissano la separazione delle funzioni come il diritto di difesa (art. 24), l’obbligo dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero (art. 112) e il

7 D. Siracusano, la “polivalenza” delle indagini preliminari, in D. Siracusano-A.

Galati-G. Tranchina-E. Zappalà, Diritto processuale penale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2004.

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principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25), e disposizioni che riconoscono i diritti inviolabili della persona umana.

Notevoli modifiche al codice del 1930 sono poi da imputarsi, oltre che alla legge n. 517 del 1955 e a numerose altre come la n. 287 del 1951 e la n. 504 del 1960, soprattutto alle sentenze di illegittimità della Corte costituzionale in riferimento alle molte disposizioni che rappresentavano principi base del sistema misto di impronta inquisitoria.

La struttura del processo penale venne profondamente riformata nel 1988, anno in cui fu approvato il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989. Il nuovo processo fu caratterizzato dai principi di separazione delle funzioni, di ripartizione delle fasi processuali e di semplificazione del procedimento, smantellando così l’impianto della procedura inquisitoria.

Al posto dell’istruzione, il nuovo sistema processuale prevede la fase delle indagini preliminari come attività antecedente all’esercizio dell’azione penale, in cui il pubblico ministero svolge funzioni investigative. In questa fase le funzioni di controllo giurisdizionale sono svolte dal “giudice per le indagini preliminari” che, a differenza del giudice istruttore del 1930, non ha alcun potere di iniziativa probatoria. Una netta rottura con il vecchio sistema processuale è rappresentata dalla diversa collocazione temporale dell’obbligo di esercizio dell’azione penale, posto alla conclusione delle indagini preliminari. Tra l’acquisizione della notitia criminis e la conclusione

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della fase procedimentale, segnata dalle iniziative del pubblico ministero in merito all’esercizio dell’azione penale, si svolge una fase durante la quale il pubblico ministero compie una serie di attività che diventano vincolanti solamente nel momento della loro conclusione. Dall’acquisizione di una notizia di reato, infatti, deriva per il pubblico ministero un obbligo di attivarsi fino alla conclusione delle indagini9.

Il suo obiettivo deve essere quello di acquisire tutti gli elementi necessari per valutare l’attendibilità della notizia di reato, poiché dal risultato di questa attività deriva la scelta relativa all’esercizio dell’azione penale. Il principio di obbligatorietà dell’azione deve perciò essere rispettato anche nel corso delle indagini preliminari e per fare ciò occorre che le indagini siano complete, scongiurando al massimo il pericolo di inerzia o di attività investigative manchevoli. Il principio di completezza, quindi, permette che l’art. 112 estenda la sua portata alla fase delle indagini, in questo modo la scelta del pubblico ministero relativa all’esercizio dell’azione potrà considerarsi effettiva.

Qualora, al termine delle indagini preliminari, il pubblico ministero non ritenga infondata la notizia di reato, dovrà necessariamente formulare l’imputazione ed esercitare l’azione penale, così come sancito dall’ art 112 Cost. “La collocazione dell’esercizio dell’azione penale all’esito delle indagini, e non nella fase iniziale

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dell’istruttoria, spiega la proposizione di una richiesta di archiviazione, non più agganciata al parametro estremamente limitativo della “manifesta infondatezza”: un parametro assai rigido perché teso ad evitare la stessa instaurazione della fase istruttoria”10.

Alla luce dell’art. 358 c.p.p. e del n. 37 della Legge delega del 1987, il pubblico ministero ha l’obbligo di svolgere anche tutti gli accertamenti in ordine agli elementi a favore dell’imputato, rispettando in tal modo il principio di neutralità relativo alla ricostruzione del fatto; un obbligo derivante dalla “natura di parte pubblica dell’accusa” e che mira ad “un corretto e razionale esercizio dell’azione penale”11.

10 Così, F. Siracusano, La completezza delle indagini nel processo penale, cit., p. 25. 11 Corte cost., 11 aprile 1997, n. 96, in Cass. Pen., 1997, p. 2403.

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1.2 Il riconoscimento del principio di completezza da

parte della Corte costituzionale.

La Corte costituzionale ha espresso per la prima volta il principio di completezza delle indagini preliminari nella sentenza n. 445 del 1990, approfondendolo ulteriormente nella sentenza n. 88 del 1991. Quest’ultima risulta importante per una serie di considerazioni in ordine all’attuale sistema processuale. “La corte era stata chiamata a pronunciarsi (con ordinanza di rimessione emessa dal giudice per le indagini preliminari di Macerata, in data 9 agosto1990) sulla conformità della direttiva n. 50 della legge delega, che prevede l’archiviazione solo in caso di manifesta infondatezza della notizia di reato, con l’art. 125 disp. att. c.p.p., che correla, invece, l’archiviazione alla inidoneità degli elementi di prova raccolti a sostenere l’accusa in giudizio. I giudici della Consulta, nel dichiarare l’infondatezza dell’eccezione sollevata, hanno ricondotto la questione nell’ambito dei principi più generali che informano il processo accusatorio e, in primo luogo, di quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”12.

Con questa sentenza la Corte ha cercato di dare un’interpretazione definitiva alla “superfluità” del processo penale, asserendo che “limite implicito dell’obbligatorietà, razionalmente intesa, è che il processo non

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debba essere instaurato quando si appalesa oggettivamente superfluo”13, ma può essere definito tale solamente all’esito di indagini complete.

Per questa ragione la Corte individua il principio di completezza delle indagini preliminari come principio cardine per un corretto svolgimento del processo penale e ne specifica due fondamentali funzioni: “la completa individuazione dei mezzi di prova è necessaria, da un lato, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra cui la richiesta di giudizio immediato, saltando l’udienza preliminare) e per indurre l’imputato ad accettare i riti alternativi; ciò è essenziale ai fini della complessiva funzionalità del sistema, ma presuppone, appunto, una qualche solidità del quadro probatorio. Dall’altro lato il dovere di completezza funge da argine contro eventuali prassi di esercizio apparente dell’azione penale, che, avviando la verifica giurisdizionale sulla base di indagini troppo superficiali, lacunose o monche, si risolverebbero in un ingiustificato aggravio del carico dibattimentale”14.

Dunque, il pubblico ministero può ritenere infondata una notizia di reato solo all’esito delle indagini preliminari svolte in ossequio al principio di completezza, dal quale emerge la non sostenibilità dell’accusa.

13 Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, in Cass. pen., 1991, II. 14 Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, in Cass. pen., 1991, II, p. 207.

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Con la sentenza della Corte costituzionale n. 115 del 2001 “l’esigenza di completezza delle indagini preliminari risulta rafforzata dal riconoscimento del diritto dell’imputato ad essere giudicato, ove ne faccia richiesta, con il rito abbreviato”15. La Corte continua sostenendo che “il pubblico ministero dovrà tener conto, nello svolgere le indagini preliminari, che sulla base degli elementi raccolti l’imputato potrà chiedere ed ottenere di essere giudicato con tale rito, e non potrà quindi esimersi dal predisporre un esaustivo quadro probatorio in vista dell’esercizio dell’azione penale”16.

In quest’ottica il principio di completezza non è soltanto funzionale a soddisfare le esigenze delle indagini in ordine all’esercizio dell’azione, ma risponde anche alle ulteriori necessità di economia processuale e deflazione che culminano con l’anticipazione del giudizio.

Il principio di completezza, quindi, presiede all’esercizio delle attività di tutti i soggetti del processo penale: consente al pubblico ministero di decidere in modo adeguato in merito all’esercizio dell’azione penale, permette all’indagato di non subire processi infondati e di poter optare per un rito alternativo, sostiene, infine, il giudice nella decisione in ordine alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero.

15 Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, in Giur. cost., 2001, p. 917. 16 Così, ancora, Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, cit.

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1.3 Il ruolo del principio di completezza

Il materiale acquisito nel corso delle indagini preliminari, nell’impianto procedurale disciplinato dal codice del 1988, nello specifico dagli artt. 326 e 358, avrebbe dovuto essere funzionale alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, senza spingersi oltre. Ma tale impostazione fu presto modificata da una serie di sentenze della Consulta17. “Tuttavia, prima che la Corte costituzionale avviasse l’opera demolitoria del sistema, già erano manifesti i sintomi della crisi di identità che avrebbe da lì a poco segnato la fase preliminare; e non nella prospettiva dei rapporti con il dibattimento, ma secondo dinamiche interne alle indagini stesse”18. I dubbi sulla rilevanza dell’art. 112 Cost. nella fase anteriore all’esercizio dell’azione penale, all’esito delle indagini, riguardavano il pericolo di legittimità dell’inerzia del pubblico ministero. Un’altra criticità concerneva il procedimento di accesso al giudizio abbreviato, per l’avvio del quale era necessario il consenso da parte sia del pubblico ministero che del giudice. Questo sistema si dimostrava incompatibile con la discrezionalità di cui il pubblico ministero beneficiava nel corso delle indagini: la scelta del giudizio

17 Corte cost., sent. 22 gennaio 1992, n.1992; sent. 18 maggio 1992, n. 254, sent. 18

maggio 1992, n. 255.

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abbreviato era condizionato soprattutto dal tenore di completezza delle indagini19.

Individuando il principio di completezza, nel tentativo di risolvere tali problemi, la corte costituzionale non aveva inteso modificare la funzione delle indagini preliminari.

La legge del 16 dicembre 1999, n. 479 ha riformato la disciplina del giudizio abbreviato, divenuto un diritto dell’imputato in seguito all’eliminazione del consenso del pubblico ministero e della valutazione del giudice sulla decidibilità allo stato degli atti. Questa struttura si apre a nuovi risvolti pratici: nel corso delle indagini il pubblico ministero non si deve più limitare solamente alla raccolta del materiale necessario per le determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale, ma deve “svolgere indagini tali da consentire un’eventuale condanna in sede abbreviata”20.

Una delle finalità principali di un simile assetto è sicuramente quella di deflazione dibattimentale che consiste nel definire anticipatamente il processo, nella fase antecedente al dibattimento. Da questa prospettiva, in caso di giudizio abbreviato, una maggiore completezza significa una più ampia tutela sia per l’imputato, in ordine ad una eventuale integrazione investigativa, sia per il pubblico

19 D. Vicoli, La “ragionevole durata delle indagini”, cit., p.13.

20 G. Illuminati, Il giudizio senza oralità, in AA.VV., Verso la riscoperta di un modello processuale (Atti del Convegno di Caserta, 12-14 ottobre 2001), Giuffrè, Milano,

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ministero, relativamente alla solidità dell’impianto accusatorio21. “A sostegno di simile mutazione del canone di completezza sono valorizzati, poi, ulteriori argomenti, che nascono su di un versante parallelo alle dinamiche appena esaminate: quello della regola di giudizio stabilita per la sentenza di non luogo a procedere”22. La legge n. 479 del 1999, modificando l’art 425 comma 3 c.p.p., ha impedito che gli elementi raccolti siano valutati dal giudice in prospettiva di un eventuale dibattimento. “Questa logica troverebbe conferma, infine, nella stessa struttura dell’udienza preliminare: gli artt. 421-bis e 422 c.p.p., nel permettere di acquisire ulteriori elementi, rifletterebbero la necessità di adeguare il grado di completezza delle indagini al vaglio del giudice”23.

Bisogna però sottolineare che la tesi appena esposta è stata criticata sotto molteplici aspetti. Prima di tutto è stato sostenuto che la funzione delle indagini preliminari, nonostante le modifiche apportate al rito abbreviato, dovrebbe rimanere quella disciplinata dall’art. 326 c.p.p. Esso, infatti, si riferisce allo svolgimento di attività investigative finalizzate alle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale e non a quella di predisporre il materiale sulla base del quale potrebbe, eventualmente, definirsi il processo in una fase anteriore al

21 F. Siracusano, La completezza delle indagini nel processo penale, cit., p. 189. 22 D. Vicoli, La “ragionevole durata delle indagini”, cit., p. 207.

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dibattimento. “Non va dimenticato, infatti, che, nella dinamica del procedimento, l’opzione per questo modulo alternativo rimane, pur sempre, una mera eventualità”24.

A sostegno di questa interpretazione viene considerata anche la sentenza di illegittimità dell’art. 405 comma 1-bis c.p.p. da parte della Corte costituzionale25, dalla quale deriva, tra l’altro, che l’unico parametro per l’esercizio dell’azione penale è quello della idoneità a sostenere l’accusa in giudizio.

Una tale impostazione, sempre in riferimento al giudizio abbreviato, inoltre, evidenzia l’esistenza di meccanismi posti a rimedio dell’eventuale insufficienza degli elementi raccolti nel corso delle indagini. L’art. 441 comma 5 c.p.p. consente, infatti, un’integrazione probatoria di iniziativa del giudice. Un’integrazione che deve, tuttavia, essere confinata entro gli argini dell’impianto accusatorio del pubblico ministero, posto a fondamento dell’esercizio dell’azione penale26. A spingere la completezza oltre le finalità indicate dall’art. 326 c.p.p., in seguito alla rinuncia al dibattimento, potrebbe essere anche la necessità di tutela dell’imputato, visto il pericolo che, “dopo l’intervento del giudice ex art. 441 comma 5 c.p.p., il materiale probatorio risulti in

24 D. Vicoli, La “ragionevole durata delle indagini”, cit., p. 208. 25 Corte cost. sent. 20 aprile 2009, n. 121.

26 G. Garuti, La corte costituzionale promuove la struttura del “nuovo” rito abbreviato, in Giur. cost., 2001, p. 945.

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modo sensibile alterato”27. Ma, da un diverso punto di vista, tale soluzione sembrerebbe avere come conseguenza non solo il soddisfacimento delle esigenze evidenziate, ma, soprattutto, quella di rendere instabile il sistema28.

Tutte queste argomentazioni portano a ritenere che “in definitiva, sebbene ne sia mutata la struttura, l’udienza preliminare non ha assunto una diversa dimensione selettiva; continua, infatti, a fungere quale filtro imperniato sull’utilità o meno del passaggio alla fase dibattimentale”29.

27 D. Vicoli, La “ragionevole durata delle indagini”, cit., p. 211.

28 V. G. Giostra, Indagine e prova: dalla non dispersione ai nuovi scenari cognitivi, in

AA. VV., Verso la riscoperta di un modello processuale (Atti del Convegno di

Caserta,12-14 ottobre 2002), Giuffrè, Milano, 2003, p. 46 s. 29 D. Vicoli, La “ragionevole durata delle indagini”, cit., p. 213.

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1.4 Rapporto tra completezza e ragionevole durata delle

indagini preliminari.

L’art 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce che: “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale (…)”. Il principio di ragionevole durata del processo, nel nostro ordinamento, dunque, viene affermato per la prima volta a seguito della ratifica della CEDU e successivamente disciplinato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, la quale lo ha introdotto al secondo comma dell’art. 111 della Costituzione.

A ben vedere, però, l’unico strumento a disposizione della vittima di un processo spintosi oltre i limiti della ragionevole durata, utilizzabile ai fini del risarcimento per il danno subito, era quello di ricorrere direttamente alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Dunque, l’ordinamento italiano si dimostrava del tutto inefficiente sotto questo punto di vista, considerato anche l’elevato numero di ricorsi presentati che sottolineavano la mancanza di uno strumento interno al nostro sistema processuale.

Per risolvere tale questione fu introdotta la legge n. 89 del 2001, detta anche Legge Pinto, che prevedeva un procedimento finalizzato ad ottenere un’equa riparazione per coloro che avessero sostenuto un processo di irragionevole durata, successivamente modificata dalla legge n. 134 del 2012. In riferimento al computo della durata del

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processo penale, l’art. 2, comma 2-bis, della Legge Pinto, faceva riferimento al momento dell’assunzione della qualifica di imputato o quello in cui l’indagato veniva a legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari. Una simile impostazione, non prendendo in considerazione la fase anteriore, ossia le indagini preliminari, si poneva in contrasto con l’art. 6 della CEDU, che, infatti, prevede di inserire nel computo della ragionevole durata del processo anche la fase investigativa.

La Corte costituzionale, dunque, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’art. 375 del codice di procedura civile) nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito ad un atto dell’autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico”30.

ulteriori modifiche alla durata del processo, in riferimento soprattutto alla fase investigativa, si devono alla legge 23 giugno 2017, n. 103, anche nota come riforma Orlando. Suddetta legge, inserendo il

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nuovo art. 407, comma 3-bis c.p.p., prevede che il pubblico ministero, scaduto il termine di durata massima delle indagini preliminari, debba chiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale entro “tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 415-bis”.

Inoltre, sono previsti ulteriori tre mesi di proroga, che il pubblico ministero può ottenere dal Procuratore generale presso la Corte d’appello nei casi previsti dal comma 2, lett. b e fino a quindici mesi in presenza di gravi reati di cui al comma 2, lett. a, nn. 1, 2, 3 e 4 dell’art. 407 c.p.p.

Il risultato che il legislatore ha voluto ottenere con suddette novità è quello di porre rimedio ai casi di inerzia del pubblico ministero, arginandola entro limiti precisi, quando, appunto, scaduti i termini delle indagini preliminari, egli non prenda alcuna decisione in merito all’esercizio o meno dell’azione penale.

Nel caso in cui il pubblico ministero non abbia acquisito il materiale sufficiente a decidere in merito alla fondatezza della notizia di reato, entro il termine indicato dall’art 405, comma 2 c.p.p., l’art. 406 c.p.p. mette a sua disposizione l’istituto della proroga. Il pubblico ministero ottiene in tal modo un ampliamento della fase investigativa la cui durata massima è, in questo caso, stabilita dall’art. 407 c.p.p.

Un simile meccanismo, che trova spazio nel sistema procedurale penale ai fini della tutela della completezza investigativa, deve essere necessariamente bilanciato con l’art. 111 comma 2 Cost., che, infatti,

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prevedendo il principio del giusto processo, disciplina anche la ragionevole durata dei tempi processuali. Tale bilanciamento è rappresentato da un modello che vede il giudice per le indagini preliminari chiamato a decidere sulla proroga, a seguito della richiesta del pubblico ministero. L’intervento di un soggetto terzo rispetto a quest’ultimo è pensato per garantire la massima tutela all’indagato31.

La procedura per ottenere la proroga, disciplinata dall’art. 406 c.p.p., viene quindi attivata dalla richiesta del pubblico ministero. Per quanto riguarda quella ordinaria, questa è notificata, a cura del giudice, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato, avvisati della facoltà di presentare memorie entro cinque giorni. Il giudice, se lo ritiene necessario, autorizza la proroga con ordinanza, se invece reputa che allo stato degli atti questa non debba essere concessa fissa l’udienza in camera di consiglio e ne fa notificare avviso al pubblico ministero, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato. In questo ultimo caso, laddove siano scaduti i termini per le indagini, il giudice stabilisce un termine non superiore a dieci giorni entro il quale il pubblico ministero deve formulare le richieste ai sensi dell’art 405 c.p.p.

Il comma 5-bis dell’art 406 disciplina la procedura semplificata, applicabile in presenza di determinati reati indicati dagli artt. 51 comma

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3-bis e 407 comma 2 lett. a n. 4 e 7-bis c.p.p. In questi casi non si applicano le disposizioni dei commi 3, 4 e 5 dell’art 406.

La ragione posta a fondamento dell’istituto della proroga va ricercata nell’obbligo per il pubblico ministero di svolgere indagini complete. Proprio dal principio di completezza delle indagini preliminari, dunque, deriva “la possibilità di spostare in avanti il dies a

quo delle indagini, così mitigando gli effetti preclusivi legati al termine

iniziale”32.

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1.5 La completezza delle indagini nel quadro delle

garanzie fondamentali sancite dalla CEDU.

Alla luce dei principi stabiliti dalla CEDU, l’attività di indagine del processo penale rappresenta un punto di incontro tra diverse esigenze che necessitano di un complesso bilanciamento: da una parte l’effettività delle indagini, dall’altra l’equità processuale, principali paradigmi di tale fase del processo.

In proposito, un primo punto da analizzare è l’obbligo previsto dalla CEDU per gli Stati di svolgere indagini adeguate ed efficaci, un obbligo che si connette sia al diritto sostanziale che a quello processuale33. “La tutela dei beni giuridici particolarmente delicati, elevabili ai diritti dell’uomo, presuppone infatti la presenza nel sistema interno non solo di idonee norme incriminatrici, ma anche di appropriati ed efficaci meccanismi di accertamento dei reati. La concreta impossibilità di perseguire e punire il “reo” può altrimenti determinare una lesione dei diritti umani della vittima del reato. Più precisamente, tale lesione ricorre ogni qualvolta le autorità investigative non provvedono diligentemente a svolgere indagini celeri, effettive e

33 E. Nicosia, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale, Giappichelli,

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imparziali in relazione a fatti criminosi che abbiano comportato il pregiudizio di diritti essenziali”34.

Tale obbligo rientra tra quelli non espressi dalla CEDU, ma che possono essere ricavati implicitamente e che, sempre più spesso, vengono riconosciuti nella giurisprudenza della Corte europea. Esso si protrae per l’intera durata della fase investigativa e vi si ricorre non per imporre agli Stati di infliggere una pena a coloro che sono responsabili, ma per far si che le indagini siano svolte nel modo più adeguato possibile. L’inazione o l’apertura del processo penale, dunque, devono essere precedute da una fase investigativa completa, in caso contrario non saranno stati osservati gli obblighi procedurali derivanti dalla CEDU35.

Tra questi obblighi vi sono quelli che derivano dall’art. 2 CEDU in ordine alla tutela della vita umana. In proposito, infatti, non basta che l’ordinamento interno dello Stato preveda opportune norme incriminatrici, ma è necessario anche un apparato investigativo che consenta l’accertamento delle circostanze del reato. Lo svolgimento di indagini incomplete può, dunque, comportare violazione dell’art. 2 CEDU36.

34 L. Parlato, Effettività delle indagini ed “equità processuale”. Il punto su investigazioni scientifiche sulla persona e operazioni sotto copertura, in A. Gaito e D.

Chinnici (a cura di), Regole europee e processo penale, Cedam, 2016, p. 70.

35 Corte e.d.u., 11.06.2015, Mashenko c. Ucraina; Corte e.d.u., 20.12.2012, Masneva

c. Ucraina.

36 A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il diritto alla vita (art 2 CEDU), in Dir. pen. contemp., 2011, p. 215 s.

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In base a questi obblighi procedurali, “la Corte europea è chiamata a sindacare l’operato dell’autorità giudiziaria nel corso delle indagini, per censurarne eventuali lacune e omissioni. In caso di pronunce di archiviazione o di proscioglimento da parte dei giudici interni, il vaglio della Corte si incentra sugli elementi istruttori posti alla base della decisione, per verificarne l’adeguatezza”37. La Corte di Strasburgo, dunque, opera anche una valutazione circa il grado di approfondimento dell’attività investigativa.

Come per l’art. 2 CEDU, anche in riferimento all’art. 3 CEDU, in materia di torture o trattamenti inumani o degradanti, la Corte di Strasburgo prevede l’obbligo di svolgere indagini effettive. Anche in questo caso, la Corte può censurare le valutazioni del giudice interno quando risultino manifestatamente contraddittorie, superficiali o basate su elementi inattendibili38.

Circa gli obblighi procedurali derivanti dall’art. 3 CEDU, alcuni importanti casi hanno riguardano anche l’Italia. Particolarmente noto è il “caso Labita” in cui il ricorrente lamentava di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione in regime ex 41-bis ord. pen. La Corte europea riconoscendo l’assenza di indagini approfondite ed effettive, ha ritenuto che vi sia stata una violazione procedurale dell’art.

37 L. Parlato, Effettività delle indagini ed “equità processuale”. Il punto su investigazioni scientifiche sulla persona e operazioni sotto copertura, in A. Gaito e D.

Chinnici (a cura di), Regole europee e processo penale, cit., p. 76.

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3 CEDU39. La Corte ha ravvisato la medesima violazione anche nel “caso Indelicato”, constatando un quadro investigativo carente, derivante da un’attività di indagini incompleta40.

Le tematiche relative all’effettività e adeguatezza delle indagini, si ricollegano, nell’ordinamento interno, al principio di completezza delle indagini preliminari individuato dalla pronuncia della Consulta n. 88 del 1991. “La proiezione soggettiva resa più evidente dal nostro ordinamento è rivolta alla persona sottoposta alle indagini. Come sottolineato dalla Corte costituzionale, d’altronde, il sistema vigente, che tende a imprimere celerità alle investigazioni, mira a contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di chi è ad esse assoggettato. È fisiologica la tensione tra i due valori della completezza delle indagini e della loro “ragionevole durata”, ma è innegabile che entrambi i profili concorrono nel perseguire l’idea di un’efficienza investigativa che si approssima a quella di matrice convenzionale”41.

In linea con l’orientamento della Corte europea, gli strumenti posti a garanzia del principio di completezza delle indagini non sono in possesso soltanto della persona sottoposta alle indagini, ma anche della persona offesa dal reato e dell’autorità giudiziaria. In tale sistema

39 Corte e.d.u., 6.04.2000, Labita c. Italia. 40 Corte e.d.u., 18.10.2001, Indelicato c. Italia.

41 L. Parlato, Effettività delle indagini ed “equità processuale”. Il punto su investigazioni scientifiche sulla persona e operazioni sotto copertura, in A. Gaito e D.

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troviamo, infatti, le iniziative conseguenti all’avviso ex art. 415-bis c.p.p., le investigazioni difensive, l’opposizione alla richiesta di archiviazione da parte dell’offeso dal reato, le ulteriori indagini su impulso del giudice ex art. 409 comma 4 c.p.p. e, infine, l’avocazione da parte del procuratore generale presso la Corte di appello.

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Capitolo 2

L’ATTIVITÀ DEL PUBBLICO MINISTERO

E IL CONTROLLO GIURISDIZIONALE

S

OMMARIO: 2.1 – L’integrazione investigativa su impulso del giudice;

2.2 – Avocazione ad opera del procuratore generale preso la Corte

d’Appello; 2.3 – Investigazioni successive all’esercizio dell’azione penale; 2.4 – Indagini difensive; 2.5 – L’avviso di conclusioni delle indagini a garanzia della completezza.

2.1 L’integrazione investigativa su impulso del giudice

L’art 112 Cost. disciplina l’obbligo di esercitare l’azione penale per il pubblico ministero. Un’obbligatorietà che non significa un esercizio automatico dell’azione penale senza un’attenta “verifica dell’insussistenza dei presupposti che rendono, invece, doverosa ad opera dello stesso organo la richiesta di archiviazione”42, ma un “esercizio doveroso dell’azione penale ogniqualvolta risultino soddisfatti in concreto i parametri ex lege prospettati”43.

42 V. Grevi, Archiviazione per “inidoneità probatoria” ed obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen, 1990, p. 1281.

43 S. Lorusso, Provvedimenti “allo stato degli atti” e processo penale di parti, Giuffrè,

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Considerando che la scelta sull’esercizio dell’azione penale è posta all’esito delle indagini preliminari, possibilmente complete, l’archiviazione risulta finalizzata ad evitare rinvii a giudizio inutili. La richiesta di archiviazione, come alternativa all’esercizio dell’azione penale, è presentata allorché il pubblico ministero abbia svolto tutte le necessarie indagini che attestano la mancanza delle condizioni per l’esercizio dell’azione.

È importante, però, sottolineare che l’istituto dell’archiviazione non può essere finalizzato in alcun modo alla deflazione processuale, “il legislatore delegante non ha considerato l’archiviazione in funzione deflattiva, tant’è che nei lavori parlamentari non esiste traccia di indicazioni tendenti a perseguire, con la sua configurazione, obiettivi di economia processuale. A tal fine sono stati previsti altri strumenti, quali i riti alternativi ed un largo impiego del procedimento pretorile”.44

L’archiviazione, ai sensi dell’art. 408 c.p.p., è strettamente connessa all’infondatezza della notizia di reato, concetto espresso dall’art.125 disp. att. c.p.p., che sembra riferirsi alla sostenibilità dell’accusa in giudizio legando, così, il provvedimento di archiviazione alla superfluità del dibattimento, a cui, in passato, sono state date interpretazioni diverse.

Un primo filone considerava superfluo il processo che, non affermando la responsabilità dell’imputato, non avvalorava l’impianto

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accusatorio del pubblico ministero. Secondo questa impostazione la celebrazione del processo doveva derivare da una valutazione di probabilità della condanna. Una diversa risposta veniva data da coloro che ritenevano il dibattimento inutile soltanto se instaurato nonostante l’evidente innocenza dell’imputato o comunque basato su elementi non idonei a sostenere l’accusa in giudizio45.

Con la sentenza n. 88 del 1991, la Corte costituzionale ha indicato che il significato della superfluità del processo deve essere il frutto di una “valutazione degli elementi acquisiti non nella chiave dell’esito finale del processo, bensì nella chiave della loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio”46. Secondo la Corte, quindi, il giudizio di superfluità deve riferirsi all’ accertamento giudiziale. Una simile interpretazione evidenzia uno stretto legame tra il materiale raccolto nel corso della fase investigativa e l’utilità della fase dibattimentale. Da ciò deriva che l’archiviazione dovrà essere richiesta “tutte le volte in cui i risultati delle indagini, a causa della loro contraddittorietà, non consentirebbero al pubblico ministero di assolvere con ragionevoli probabilità di successo l’onere dell’accusa in dibattimento”47.

A fronte dell’incertezza in merito alla superfluità del dibattimento occorre, senza dubbio, muoversi nel solco del principio di completezza

45 F. Siracusano, La completezza delle indagini nel processo penale, cit., p. 204. 46 Corte cost., 15 febbraio 1991, n.88, cit., p. 586.

47 P.P. Rivello, Archiviazione, in M. Chiavario (coordinato da), Commento al codice di procedura penale, I Agg., Utet, Torino, 1993, p. 667.

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delle indagini. Qualora, infatti, il quadro investigativo risulti talmente solido da far si che il pubblico ministero chieda l’instaurazione del dibattimento, non si presenterà alcun dubbio. Diverso, invece, è il caso in cui, giunto il momento della scelta circa l’esercizio dell’azione penale, le indagini risultino insufficienti o contraddittorie. Il pubblico ministero che, nella fattispecie in esame, eserciti l’azione penale nonostante l’incompletezza delle indagini, non è giustificato da eventuali integrazioni investigative disciplinate dagli artt. 419 comma 3, 421-bis e 430 c.p.p.

Se fosse ammesso il contrario si favorirebbe esageratamente l’azione penale. L’incertezza sull’esercizio o meno dell’azione penale, quindi, non può derivare da un’indagine incompleta. Il pubblico ministero, infatti, non può confidare “sulla più o meno labile speranza di acquisire – nel prosieguo degli sviluppi processuali – gli elementi necessari a dare positiva consistenza dibattimentale alla “pretesa punitiva” così manifestata”48.

Una simile impostazione permette, perciò, di limitare l’instaurazione di dibattimenti inutili che, a seguito di indagini preliminari caratterizzate da incompletezza investigativa, portano a provvedimenti ben più preclusivi rispetto a quello di archiviazione.

A tutela dei principi di obbligatorietà e completezza investigativa vengono posti due strumenti utilizzabili l’uno nel caso di richiesta di

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archiviazione e l’altro in caso di esercizio dell’azione penale. Mediante tali strumenti, infatti, “viene affidato ad un organo della giurisdizione il controllo circa la reale fondatezza dell’azione penale esercitata, e in ordine alla legittimità dell’inazione del pubblico ministero”49.

Ai sensi dell’artt. 409 comma 4 e 421-bis c.p.p. il giudice, se le ritiene necessarie, indica al pubblico ministero nuove indagini, fissando anche il termine per il loro compimento, con lo scopo di evitare l’inosservanza dell’obbligo di esercizio dell’azione penale.

Nella eventualità che la decisione relativa all’esercizio o meno dell’azione penale sia frutto di un’indagine preliminare caratterizzata da un quadro investigativo carente o contraddittorio, la Suprema Corte afferma che “a custodia del principio di obbligatorietà dell’azione penale è posto il giudice per le indagini preliminari, chiamato ad evitare ingiustificate inazioni del pubblico ministero, totali o parziali, nonché azioni apparenti o fittizie”50. È il giudice, dunque, che dà avvio alle procedure in analisi e per fare ciò egli deve necessariamente effettuare una valutazione circa il tenore di completezza dell’indagine, che, se insufficiente, permetterebbe un’elusione del principio di obbligatorietà qualunque sia la scelta del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale.

49 F. Siracusano, La completezza delle indagini nel processo penale, cit., p. 209. 50 Cass., 8 febbraio 1996, A., in Giust. Pen., 1997, III, c. 167.

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La questione del controllo giurisdizionale sulla richiesta di archiviazione è stata valutata a fondo dal giudice costituzionale, da un lato per il rilievo dell’istituto, dall’altro per una specifica problematica che avrebbe potuto generare. L’affidamento del controllo ad un organo giurisdizionale, infatti, con l’entrata in vigore del codice del 1988 caratterizzato da un sistema accusatorio, generava il timore di un ritorno di quello che in passato era il giudice istruttore, non rispettando, così, quella netta distinzione tra pubblico ministero e giudice. Ma tale eventualità non avrebbe dovuto preoccupare poiché il controllo del giudice, relativo all’infondatezza della notizia di reato a seguito della richiesta di archiviazione, non riguarda in alcun modo l’imputazione, ma la valutazione della necessità del dibattimento51.

D’altronde, gli sviluppi costituzionali e il puntuale riconoscimento dei limiti e dei poteri del pubblico ministero hanno eliminato ogni perplessità in merito. Un sistema processuale che non preveda affatto un controllo giurisdizionale sulla richiesta di archiviazione sarebbe costituzionalmente illegittimo. Se così non fosse ci troveremmo di fronte ad una irragionevole situazione in cui il potere di valutare l’adempimento dell’obbligo di agire sarebbe affidato al medesimo soggetto gravato da tale obbligo. Numerose pronunce della Corte costituzionale hanno poi scongiurato definitivamente la possibilità che

51 G. Giostra, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, II ed.,

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il giudice che ha valutato la richiesta di archiviazione possa occuparsi anche dell’udienza preliminare.

La Corte costituzionale afferma che il controllo del giudice concerne due diversi aspetti riguardando “da un lato, quello dell’adeguatezza (…) della regola di giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione e azione; dall’altro, quello del controllo del giudice sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le inerzie e lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale”52. Un meccanismo che non prevedesse strumenti idonei a far fronte alla infondata inerzia del pubblico ministero risulterebbe incompleto, fermandosi, infatti, ad una mera valutazione sul suo modo di agire.

Il giudice, dunque, interviene in due modi: attraverso l’imputazione coatta, per far fronte alla decisione del pubblico ministero di non esercitare l’azione penale, quando la valutazione del materiale probatorio raccolto nel corso della fase investigativa non risulta corretta; Mediante l’indicazione di effettuare nuove indagini a seguito di un’attività investigativa insufficiente o inadeguata.

Il compimento di indagini complete, quindi, è il naturale presupposto per l’adempimento dell’obbligo di agire e di conseguenza il principio espresso dall’art. 112 Cost. è strettamente e inscindibilmente

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connesso alla completezza investigativa. Questo legame è rappresentato dal fatto che il giudice, ai sensi dell’art. 409 comma 4 c.p.p., può disporre l’integrazione probatoria laddove ritenga che la richiesta di archiviazione sia il frutto di un’indagine non completa.

La completezza delle indagini, da un altro punto di vista, rappresenta anche un necessario presupposto per un’idonea valutazione ad opera del giudice53. Infatti, la mancanza di assoluta diligenza da parte dell’organo requirente, “senza il ricorso al meccanismo dell’investigazione “coatta”, senza l’osservanza di questa regola, condurrebbe ad un’archiviazione motivata dall’impossibilità, per il giudice, di esplicare la sua funzione di controllo”54.

Il comma 4 dell’art. 409 c.p.p., rispondendo in primis alla necessità di evitare l’elusione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, produce anche altri effetti. Il pubblico ministero, grazie alla possibilità datagli dal giudice di svolgere ulteriori indagini, può rimediare all’incompletezza investigativa derivante dalla sua stessa inerzia o dallo scadere del termine per le indagini preliminari, configurandosi, in tal modo, una proroga alla fase investigativa.

Il giudice può disporre il compimento di ulteriori indagini soltanto in riferimento alla fattispecie di reato oggetto della richiesta di

53 F. Ruggieri, La giurisdizione di garanzia nelle indagini preliminari, Giuffre,

Milano, 1996.

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archiviazione promossa dal pubblico ministero. Tuttavia, egli può senza dubbio segnalare la necessità dello svolgimento di nuova attività investigativa, individuata la presenza di una ulteriore fattispecie criminosa non indicata nella richiesta del pubblico ministero.

In proposito esistono due diversi orientamenti. Una prima impostazione considera legittima l’indicazione, rivolta al pubblico ministero, di compiere ulteriori indagini, qualora il giudice individui l’esistenza di una fattispecie di reato nuova o diversa rispetto a quello contenuta nella richiesta di archiviazione. In tal caso non si configurerebbe un’errata applicazione della regola contenuta nell’art. 409 c.p.p., dato che il controllo sull’operato del pubblico ministero deve poter permettere al giudice di far fronte all’incompletezza delle indagini allorché egli rilevi l’esistenza di una nuova o diversa fattispecie di reato non contemplata dal pubblico ministero nella richiesta di archiviazione. A sostegno di questa impostazione anche la Corte costituzionale ritiene che la funzione di controllo del giudice non deve essere limitata alla pronuncia circa la fattispecie di reato indicata nella richiesta del pubblico ministero, ma deve riguardare tutto il materiale emerso dalle indagini preliminare così operare una valutazione di legittimità in ordine alla scelta del pubblico ministero di non esercitare l’azione penale. Con questa sentenza, infatti, la Corte afferma che il controllo del giudice deve interessare “la integralità dei risultati dell’indagine, restando dunque esclusa qualsiasi possibilità di ritenere che un simile

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apprezzamento debba invece circoscriversi all’interno dei soli confini tracciati dalla notitia criminis, delibata dal pubblico ministero”55.

Seguendo questa impostazione, quindi, il giudice deve valutare il grado di completezza delle indagini prendendo in considerazione non solo la regiudicanda indicata nella richiesta del pubblico ministero, ma anche tutte quelle che emergono dal materiale raccolto fino a quel momento; egli, perciò, può disporre il compimento di ulteriori indagini nei confronti di persone o per reati non ancora iscritti nel registro degli indagati.

Secondo un diverso orientamento il giudice, nel valutare la richiesta di archiviazione, non può indicare il compimento di ulteriori indagini in ordine ad un reato diverso da quello preso in considerazione dall’organo requirente. Se si affermasse il contrario, il giudice, nel disporre nuove investigazioni a garanzia della completezza, si sostituirebbe “al titolare dell’azione penale nell’individuazione dei temi di indagine che devono essere approfonditi, giungendo financo a suggerire le fonti di prova da compulsare”56.

Un sistema che prevede la possibilità per il giudice di rivolgere al pubblico ministero un ordine di compiere ulteriori indagini, indubbiamente potrebbe richiamare aspetti tipici del modello inquisitorio. In questo caso, però, la direzione della fase investigativa

55 Corte cost., 30 dicembre 1993, n. 478, in Giur. cost., 1993, p. 3920.

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rimane saldamente nelle mani dell’organo requirente e il giudice può solamente disporre il completamento delle indagini già svolte. Questo potere, infatti, dovrebbe far fronte a due esigenze: “da un lato, l’esigenza di evitare che il giudice interferisca in un’attività di ricerca della prova, che è attività squisitamente di parte; dall’altro, l’esigenza di sottrarre al magistrato del pubblico ministero ogni possibilità di eludere l’obbligo di agire. Il problema non è altro, per così dire, che una “faglia” che attraversa ed incrina l’intero sistema, lungo la linea di incontro tra principi del processo accusatorio e quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”57.

Le ulteriori indagini indicate dal giudice ai sensi del comma 4 dell’art. 409 c.p.p. possono quindi riferirsi unicamente alla fattispecie di reato individuata dal pubblico ministero nella richiesta di archiviazione. Qualora dagli atti emerga una nuova ipotesi di reato, il giudice ne segnala l’esistenza disponendo le ulteriori indagini che hanno inizio con l’iscrizione nel registro della nuova notitia criminis, come indicato dall’art. 335 c.p.p., così che “saranno linearmente conferite al pubblico ministero per questo nuovo (o diverso) reato sia le indagini preliminari, sia l’eventuale richiesta di archiviazione, sia una autonoma formulazione dell’imputazione”58.

57 G. Giostra, L’archiviazione, cit., p. 68.

58 G. Spangher, L’imputazione coatta: controllo o esercizio dell’azione penale?, in

AA.VV., Le riforme complementari. Il nuovo processo minorile e l’adeguamento

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Un sistema di questo tipo comporta sicuramente dei vantaggi. In

primis le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale

rimangono una prerogativa del pubblico ministero, in secondo luogo verrebbero evitate iniziative derivanti da un contraddittorio incompleto. Il giudice, infatti, ordina nuove indagini o l’imputazione soltanto in seguito ad un contraddittorio a cui, necessariamente, ha preso parte colui a cui si riferisce l’imputazione o nei cui confronti si devono svolgere le ulteriori indagini.

Quando il giudice per le indagini preliminari ordina l’imputazione al pubblico ministero “il principio di completezza delle indagini è già di per sé soddisfatto” poiché “sul piano della tutela del diritto di difesa, il meccanismo dell’art. 409 comma 5 c.p.p. si presenta logicamente successivo, e comunque più “garantito”, rispetto a quello dell’art.

415-bis c.p.p., in quanto prevede, non solo una forma di confronto tra accusa

e difesa, ma un compiuto contraddittorio (per di più, in un contesto come quello dell’udienza camerale, arricchito dalla presenza del giudice e dalla possibilità di esercitare, seppur nel termine più ristretto di dieci giorni, facoltà difensive analoghe a quelle conseguenti all’avviso di conclusione delle indagini)”59.

Nonostante sia determinato dalla decisione del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, opposta rispetto a quella contemplata

59 P. De Pascalis, La disciplina dell’art 415-bis c.p.p. tra diritto di difesa, completezza delle indagini e ragionevole durata del procedimento, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004,

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dall’art. 409 comma 4 c.p.p., anche il meccanismo disciplinato dall’art. 421-bis è posto dal legislatore a garanzia della completezza investigativa.

In questo caso il giudice, qualora rilevi che le indagini preliminari sono incomplete e ritenga, quindi, di non poter decidere allo stato degli atti, indica un termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare. Comunica, inoltre, il provvedimento al Procuratore generale presso la Corte d’Appello affinché, se lo ritiene necessario, disponga l’avocazione delle indagini.

La disposizione delle ulteriori indagini da parte del giudice ai sensi dell’art. 421-bis indica soltanto l’ambito investigativo connotato da incompletezza lasciando ampia autonomia al pubblico ministero.

È possibile anche che l’evidenza dell’incompletezza investigativa derivi dall’opposizione all’archiviazione da parte della persona offesa. L’art. 410 c.p.p., disciplina che, attraverso tale meccanismo, “la persona offesa dal reato chiede la prosecuzione delle indagini preliminari indicando, a pena di inammissibilità, l’oggetto dell’investigazione suppletiva, e i relativi elementi di prova”. Ai fini della legittimazione a proporre opposizione è sufficiente che la persona offesa sia venuta a conoscenza della richiesta di archiviazione. A questo proposito anche la Corte di Cassazione ha affermato che “la mancanza o la tardività della dichiarazione di voler essere informato della richiesta di archiviazione non esclude la facoltà della persona offesa di proporre, con gli effetti previsti dall’art. 410 c.p.p., opposizione dopo la trasmissione della

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richiesta del pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari e fino a quando questi non abbia provveduto”60.

L’opposizione ha lo scopo di esortare il controllo del giudice circa la completezza delle indagini preliminari attraverso l’indicazione degli elementi e delle modalità di approfondimento dell’indagine. Infatti, “proprio al fine di evitare strumentali ed ostruzionistici appesantimenti del procedimento archiviativo da parte della persona offesa, il legislatore impone che questa non si limiti a mere enunciazioni o apodittiche quanto inutili critiche circa l’operato del p.m., ma proponga, nella prospettiva di un approfondimento investigativo il thema

decidendum ed i dati fattuali che ne rendono necessario il vaglio”61. L’investigazione suppletiva, di impulso della persona offesa dal reato, può riguardare la solita materia delle indagini già svolte, completandole o integrandole, oppure una nuova questione non ancora affrontata dal pubblico ministero.

L’opposizione è ammissibile soltanto se rispetta i requisiti espressamente indicati dall’art. 410 c.p.p. comma 1. Una volta dichiarata l’ammissibilità si apre una fase camerale caratterizzata dal contraddittorio che mira a risolvere il contrasto tra il pubblico ministero

60 Cass., Sez. Un., 30 giugno 2004, Apruzzese, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p.

1246.

61 P. Di Nicola, L’opposizione della persona offesa all’archiviazione, in Cass. pen.,

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e l’offeso dal reato62. “Il thema decidendum è fissato dalla tensione dialettica, argomentata nel contesto del contraddittorio che si instaura in camera di consiglio, tra chi ritiene le risultanze delle indagini complete e pur tuttavia inidonee a sostenere l’accusa in giudizio e chi, al contrario, denuncia le carenze nell’attività investigativa, tracciando in chiave ipotetica ulteriori “piste” da percorrere onde pervenire ad un panorama esauriente per le determinazioni che riguardano l’esercizio dell’azione penale”63.

Le determinazioni assunte dal giudice all’esito del procedimento camerale possono, tuttavia, discostarsi dalle risultanze del contraddittorio tra la persona offesa dal reato e il pubblico ministero, operando una valutazione sotto un diverso angolo visuale. Ciò permetterà, così, di passare “dall’investigazione suppletiva richiesta dalla persona offesa, all’ “ulteriore indagine” ordinata dal giudice: che non deve essere necessariamente la medesima di quella sollecitata dall’opponente”64.

Il grado di specificazione del provvedimento mediante il quale il giudice dispone le ulteriori indagini dipende dal grado di completezza della fase investigativa. Se questa è assai carente l’indicazione del

62 F. Siracusano, La completezza delle indagini nel processo penale, cit., p. 241. 63 Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Giuffrè, Milano, 1994.

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giudice è più generica, se, invece, l’incompletezza dell’indagine è circoscritta l’ordine è più dettagliato.

In merito a tale argomento vengono mosse alcune critiche. Si ritiene che “il giudice non può limitarsi ad ordinare genericamente ulteriori indagini”65 senza dare specifiche indicazioni. La richiesta di archiviazione, infatti, è posta all’esito di indagini ritenute complete dal pubblico ministero. Dunque, lasciare che sia lo stesso organo inquirente ad individuare la lacuna da colmare significherebbe non ottenere il risultato a cui l’ordine è finalizzato.

Il giudice, allora, dovrebbe indicare dettagliatamente il compimento delle ulteriori indagini, soprattutto nel caso in cui queste siano necessarie a seguito dell’opposizione della persona offesa, un istituto che prevede una rigorosa specificazione dell’investigazione suppletiva. Anche tale impostazione, però, ha suscitato qualche preoccupazione. La Corte costituzionale, infatti, intervenuta in merito, ha specificato che “è un errore il ritenere che il giudice, allorché indica al pubblico ministero ulteriori indagini, "le dispone e le commissiona", procedendo a formulare una tassativa elencazione di specifici atti rispetto ai quali si prefigura una sorta di "delega" al pubblico ministero circa il relativo espletamento; giacché, per questa via, risulterebbe svilito il potere-dovere del pubblico ministero di gestire e dirigere

65 G. Giostra, L’archiviazione, cit., p. 73.

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l'attività di indagine che, al contrario, deve permanere inalterato anche quando l'attività stessa sia svolta su "indicazione" del giudice”66.

Il compromesso tra questi due filoni interpretativi sembra essere la scelta più opportuna. L’indicazione del giudice circa lo svolgimento di ulteriori indagini deve mettere il pubblico ministero in condizione di individuare in modo corretto gli atti di indagine necessari al raggiungimento della completezza investigativa.

Tuttavia, la discrezionalità del pubblico ministero non è priva di limiti. La sua attività, infatti, deve svolgersi entro gli argini dell’indicazione dal giudice, altrimenti, l’investigazione svincolata dall’ordine giurisdizionale configurerebbe una vera e propria proroga della fase investigativa, non ammessa in questo caso.

Qualora l’ulteriore indagine venga effettuata non rispettando le indicazioni del giudice si aprono due diversi scenari. Un primo caso vede il pubblico ministero richiedere nuovamente l’archiviazione nonostante abbia svolto indagini suppletive. Il giudice, non essendo stato risolto l’evidenziato problema di incompletezza, rigetta nuovamente la richiesta ordinando, eventualmente, di effettuare specificatamente quell’atto di indagine che non è stato preso in considerazione dal pubblico ministero.

In una seconda circostanza, invece, se il pubblico ministero decide di esercitare l’azione penale, a seguito delle ulteriori investigazioni

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svolte, si apre la fase dell’udienza preliminare. L’incompletezza delle indagini, non sanata dal supplemento investigativo, viene fissata dall’imputazione, così che spetterà al giudice dell’udienza preliminare colmare il vuoto investigativo affinché possa effettuare un controllo effettivo sull’azione.

In ogni caso il pubblico ministero ha l’obbligo di effettuare le ulteriori indagini seguendo l’indicazione del giudice. Solamente dopo aver adempiuto a tale obbligo potrà di nuovo avanzare richiesta di archiviazione. Qualora, però, non rispetti tale vincolo, l’unico strumento utilizzabile ai fini del completamento delle indagini è l’avocazione disciplinata dall’art. 412 c.p.p.67

Alle ulteriori indagini disposte dal giudice non può essere riferita l’inutilizzabilità che l’art. 407 comma 3 c.p.p. prevede per gli atti tardivi. Scaduto il temine iniziale o quello disposto con la proroga, tale articolo, infatti, dispone che il pubblico ministero non ha più poteri investigativi. Egli, tuttavia, richiesta l’archiviazione, è reinvestito di tali poteri dall’ordine del giudice di compiere ulteriori indagini. Una volta spirato anche il nuovo termine non è più possibile compiere atti di indagine che risulterebbero invalidi qualora fossero tardivi.

Diverso il discorso nel caso dell’art. 421 c.p.p. Con la richiesta di rinvio a giudizio, infatti, si presentano nuove possibilità di investigazione disposte dagli art. 419 comma 3 c.p.p. e 430 c.p.p., che

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non necessitano dell’impulso del giudice. “Con il decorso del termine

ex art. 421 c.p.p., il pubblico ministero non decade dal potere di

effettuare indagini: quest’ultimo permane intatto grazie alla copertura offerta dall’art. 419 comma 3 c.p.p. Di conseguenza, i risultati acquisiti restano, in ogni caso, validi”68.

Il giudice, con il meccanismo previsto dall’art. 409 comma 4 c.p.p. modula la durata delle ulteriori indagini in funzione delle investigazioni che devono essere svolte. Questo sistema, dunque, si differenzia nettamente da quello indicato dagli artt. 405-407 c.p.p. Cambia la natura dei termini che non sono rigidi, ma caratterizzati da flessibilità, permettendo, comunque, un giusto bilanciamento tra tutela della persona e completezza investigativa.

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2.2 Avocazione ad opera del Procuratore generale

presso la Corte di Appello.

La riforma Orlando, introducendo il nuovo comma 3-bis all’art. 407 c.p.p., ha apportato modifiche anche all’art. 412 c.p.p. Per quanto riguarda il termine massimo di durata delle indagini preliminari, essa prevede l’obbligo per il pubblico ministero, in ogni caso, di richiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale entro tre mesi dallo scadere del termine massimo di durata delle indagini preliminari, prorogabili di ulteriori tre mesi nel caso di “notizie di reato che rendano particolarmente complesse le investigazioni per la molteplicità di fatti tra loro collegati ovvero per l’elevato numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese”.

Circa l’avocazione obbligatoria, dunque, il Procuratore generale della Corte d’Appello, perché possa agire, dovrà attendere lo spirare di questo ulteriore termine. Il nuovo art. 412 c.p.p., infatti, prevede che “il Procuratore generale presso la Corte di Appello, se il p.m. non esercita l'azione penale o non richiede l'archiviazione nel termine previsto dall'articolo 407, comma 3-bis, dispone, con decreto motivato, l'avocazione delle indagini preliminari”.

Questo meccanismo non appare però sostanzialmente cambiato rispetto a quello delineato dal previgente art. 412 c.p.p. La modifica infatti è stata resa necessaria dall’esigenza di considerare il termine

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