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"La povertà educativa minorile: un nuovo concetto alla prova delle politiche e degli interventi sociali".

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea in

Sociologia e Management dei Servizi Sociali

Tesi di Laurea Magistrale

Povertà educativa minorile: un nuovo concetto alla

prova delle politiche e degli interventi sociali.

Relatore:

Prof. Gabriele Tomei

Candidata:

Monica Calì

n. matricola 484787

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INDICE

Introduzione pag.5

CAPITOLO PRIMO Lo studio della Povertà: concetti e dinamiche sociali. 1.Definire la povertà. 8

1.1 Disuguaglianza e povertà. 17

1.2 Il rapporto tra Disuguaglianza ed Equità. 18 2. Le dicotomie della povertà. 20

3. L’impoverimento come processo relazionale: uno sguardo d’insieme. 24 3.1 L’Esclusione sociale. 26

3.2 Vulnerabilità e la Società del Rischio. 30 4. La chiave di lettura della povertà proposta da Amartya Sen del “ Capability

Approach”. 33

5. Misurare la povertà. 35

5.1 Le principali misure di povertà utilizzate nel panorama Europeo e Nazionale. 39 5.2 Ulteriori indagini sulla povertà nel contesto territoriale Italiano. 43

6. Il processo di impoverimento: la povertà come fenomeno Multidimensionale. 43 6.1 Povertà e tempo. 48

6.2 I nuovi poveri Oggi . 50

7. La povertà educativa minorile. 55

7.1 Povertà educativa e la condizione socio-economica della famiglia. 58 7.2 Povertà educativa e provenienza territoriale. 60

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3 Capitolo secondo

Le Politiche e gli Interventi di contrasto alla povertà: dalla nascita del Welfare State alle principali novità delle politiche pubbliche per il contrasto alla povertà

educativa minorile. 1. Evoluzione storica delle politiche di contrasto alla povertà. 63

1.1.Le trasformazioni che incidono nei Sistemi di Welfare. 68 2. Gli interventi di contrasto alla povertà: politiche passive e attive. 69 3. Gli strumenti di policy. 72

4. Le politiche pubbliche nel contesto europeo per contrastare la povertà. 74 5. Politiche per contrastare la Povertà educativa minorile. 77

5.1 Le recenti novità in Italia: dal Sia al Rei. 80 6. Il contributo degli attori del Secondo Welfare. 87 6.1 L’Alleanza contro la povertà in Italia. 89

7. Strategie di protezione sociale e contrasto della povertà. 90 7.1 I programmi di trasferimento monetario “condizionato”. 91

8. Efficacia degli schemi di trasferimento monetario con condizionalità. 95

8.1 Le condizionalità inerenti l’occupazione degli adulti e delle ricadute sul reddito ed il benessere dei minori. 95

8.2 Effetti della condizionalità nel settore dell’istruzione dei minori. 97

CAPITOLO TERZO

“ Con i Bambini” un nuovo modello di sperimentazione per il contrasto alla povertà educativa.

1.La Povertà Educativa Minorile: una dimensione da approfondire. 99 1.1 La povertà educativa in Italia. 99

1.2 La povertà educativa nel quadro Europeo. 104

1.3 La povertà educativa nelle diverse ragioni d’Italia. 106 1.4 Oltre la povertà educativa, la “Resilienza” dei minori. 108

1.5 Save the Children in campo per combattere la povertà educativa. 111 2. Verso un Welfare Generativo. 114

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4 2.2 L’importanza della Comunità Educante. 119 2.2.1 Lavoro di comunità. 122

2.2.2 Concetti chiave ed i soggetti nel lavoro di comunità. 124

2.2.3 La questione del coordinamento e la corresponsabilità tra istituzione e cittadini. 125 2.3 Il contributo di alcuni esperti sul campo. 126

3.Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile. Uno sguardo alla normativa: “Legge di Stabilità 2016”. 129

3.1 Funzionamento del Fondo: il protocollo d’intesa. 131 3.2 Obiettivi strategici e dotazione finanziaria. 133 3.3 Fondazioni di origine bancaria e Acri. 134 4.L’impresa sociale “Con i Bambini”. 135 4.1 Attività Istituzionali di “Con i Bambini”. 136 4.1.1 Il primo bando: “Prima Infanzia” (0-6). 137 4.1.2 Il secondo bando: “Adolescenza” (11-17). 141 4.1.3 Il terzo bando: “Nuove Generazioni” (5-14). 145 4.2 Iniziative per le aree terremotate. 149 5. Primo Report Febbraio 2018 di “Con i Bambini”. 150 5.1 Iniziative di comunicazione. 152

5.2 Pubblico, Privato e Terzo settore. 153 5.3 Il valore della Comunità Educante. 154

Conclusioni pag.156

Riferimenti bibliografici e sito grafici pag.161

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INTRODUZIONE

Il fenomeno della povertà è un concetto che è sempre stato oggetto di studio, fin dai

tempi più antichi. Nel tempo questo filone di studi si è arricchito maggiormente,

consentendo di superare alcuni limiti che avevano caratterizzato in passato le riflessioni sulla povertà. In primis la definizione di natura strettamente economicistica e materiale di molte analisi, la quale veniva a sottovalutare la rilevanza delle relazioni sociali e di tutte le altre dimensioni che nel tempo sono state considerate di notevole importanza nel determinare tale fenomeno.

Oggi si guarda alla natura multidimensionale della povertà, la quale deve essere analizzata sotto diverse sfaccettature.

Il problema della povertà non è mai scomparso definitivamente, anzi ha ripreso a manifestarsi con un’intensità sempre più crescente, soprattutto in seguito alla crisi economica- finanziaria degli ultimi anni.

La povertà viene ad incidere non soltanto nella vita delle persone adulte ma in particolar modo coinvolge molti bambini e ragazzi. Questa è certamente la forma di povertà più ingiusta: perché è evidente che “non è colpa loro”. In Italia più di un milione di minori vive in condizioni di povertà assoluta. Analizzata nel complesso, la povertà minorile può essere paragonata a una “faglia” [Save the Children,Treccani, 2016]. “Il termine faglia, infatti, non rappresenta una semplice fessura netta che taglia in due una

superficie ma è un sistema complesso di spaccature che possono procedere indipendenti tra loro e, in certi punti parallele, su alcune porzioni tridimensionali della crosta

terrestre”.

In modo analogo, l’infanzia è colpita da un insieme di fratture di carattere economico, sociale, generazionale, educativo, geografico, etico, politico, etc.

Il presente lavoro di tesi affronta lo studio di una delle dimensioni che caratterizzano il fenomeno della povertà,ovvero: la Povertà Educativa Minorile. Il legame tra la povertà intesa quale deprivazione materiale e la povertà educativa è un circolo vizioso che si alimenta in ambedue i sensi. I bambini che vivono in contesti svantaggiati (in primis familiari e territoriali), hanno meno opportunità di crescita e di poter soddisfare le proprie aspettative di vita, di diventare componenti attivi della società, di realizzare il proprio potenziale. Una condizione sfavorevole di partenza può avere effetti di lungo

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periodo, in quanto i bambini che nascono in condizioni di pregiudizio ed ai quali vengono negate le opportunità di apprendere e condurre una vita autonoma ed attiva, rischiano di diventare gli esclusi di domani. Il pericolo è dunque il perpetuarsi dello svantaggio di generazione in generazione; uno svantaggio ingiusto e soprattutto costoso per gli individui e per la società nel suo complesso. È nel porre l’attenzione su questa particolare tematica analizzata in tutti i suoi aspetti che, si passerà nel far luce sulle attuali politiche di contrato alla povertà, cercando nello specifico di mettere in evidenza le possibili strategie ed azioni concrete da intraprendere insieme ad alcune iniziative progettuali che si stanno sviluppando via via nel nostro Paese per fronteggiare questa problematica.

Il primo capitolo del presente lavoro tratta lo studio del fenomeno della povertà considerato nella sua complessità concettuale e definitoria, ponendo attenzione al suo evolversi nel contesto spazio-temporale sia sotto il profilo delle manifestazioni concrete che, dei processi sociali che influiscono sulle condizioni di vita di tutti gli individui. Attingendoinoltre ai contributi di alcuni principali studiosi che si sono occupati di questa tematica. Si passerà poi ad introdurre dei concetti strettamente correlati al tema della povertà, quali la disuguaglianza, l’esclusione e la vulnerabilità. Verranno elencati i diversi indici nati per calcolare la sua incidenza, per poi mettere in risalto tutti quegli aspetti che determinano il carattere multidimensionale della povertà. Infine si introdurrà l’argomento centrale di questo elaborato che è la povertà educativa minorile, dandone la definizione e prestando particolare attenzione alle dimensioni ad essa collegate, ai contesti in cui si sviluppa e, alle pericolose conseguenze che vi può determinare. Nel secondo capitolo, l’obiettivo è quello di tracciare un quadro generale delle politiche pubbliche e degli interventi attuate negli anni per contrastare il rischio di povertà. Partendo dalla nascita del Welfare State lungo un excursus storico, si arriverà all’approfondimento dei principi generali, degli obiettivi assunti e degli strumenti utilizzati a livello Comunitario. Da qui si scenderà più nel dettaglio per una ricognizione di azioni ed indirizzi normativi a livello nazionale. Accanto alle principali novità sul fronte del primo welfare, si propone di esaminare anche quanto sta avvenendo sul fronte del secondo welfare, guardando al contributo offerto dagli attori non pubblici ed al loro approccio integrato con il sistema pubblico.

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Nel terzo ed ultimo capitolo, si approfondirà ulteriormente il tema della povertà educativa. Sottolineando quali sono i dati attuali dell’Italia in riferimento a questa specifica problematica, non tralasciando inoltre le differenze che sussistono a livello regionale con particolare riferimento alle regioni del Mezzogiorno.

Un attenta analisi verrà rivolta al “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile” (uno strumento finanziario istituito dalla legge di Stabilità 2016), descrivendone gli obiettivi strategici e le linee d’attuazione. A questo punto verrà presentata l’impresa sociale “Con i bambini”, una società senza scopo di lucro, interamente partecipata dalla Fondazione CON IL SUD, che ha lo scopo di attuare i programmi del Fondo.

“Con i bambini” è la prima sperimentazione di stampo italiano che attraverso le sue attività progettuali ed iniziative, apporta un sostegno all’infanzia, all’educazione e alla formazione, lavorando nel rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Quindi, in questo lavoro di tesi si vuole offrire un’ulteriore opportunità di riflessione sulle azioni da intraprendere affinché sia possibile una reale “rigenerazione sociale e formativa” dei nostri territori, avendo la piena convinzione che questa sia l’unica strada per alimentare concreti processi di sviluppo sociale. Una sfida, questa, che deve essere sostenuta da azioni sinergiche tra il settore pubblico e quello privato e che coinvolga la cittadinanza in uno sforzo comune e condiviso. Solo rimettendo in funzione

“l’ascensore sociale” che ha nella formazione il suo tassello fondamentale è possibile porre le basi per ristabilire un percorso di sviluppo sociale ed economico per il nostro Mezzogiorno, per il nostro Paese e per tutta l’Europa.

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Capitolo primo

Lo Studio della Povertà’: concetti e dinamiche sociali.

1.Definire la povertà

La povertà è sempre esistita e da sempre al centro di narrazioni. Definire la povertà non è compito facile. Lo studio della povertà ha da sempre incontrato difficoltà sia nella definizione del concetto sia nella scelta dei criteri da impiegare nella sua rilevazione. Passando dalle prime valutazioni che consideravano come unico parametro di

riferimento quello della dimensione economica[Carbonaro, 2002]: in cui l’accento veniva posto “sull’insufficiente dotazione di quei beni e risorse di tipo economico e materiali necessari per poter vivere una vita sufficientemente dignitosa”[Mendola, 2002:11]; si è passati nel tempo alla considerazione di molti altri aspetti – quantitativi e qualitativi1 - della vita degli individui connessi al fenomeno in questione. Dunque vari tentativi di chiarimento concettuale e individuazione di indicatori empirici adeguati, hanno sollevato nel corso del tempo nuove problematiche. Per questo motivo è importante guardare all’evoluzione del fenomeno della povertà nel lungo periodo, cercando di comprendere i rapporti che legano i cambiamenti nelle forme della produzione economica e nelle relazioni sociali della vita quotidiana alle

rappresentazioni della povertà e ai modi di trattarla [Mingione e Pugliese 2002:19]. Dando uno sguardo alla storia passata si evidenzia che fino al XVIII secolo, larga parte della popolazione europea viveva costantemente sotto la minaccia di un improvviso crollo delle condizioni di vita a causa di epidemie, carestie, eventi naturali e guerre. Tuttavia lo stato di povertà era considerato una condizione naturale per gran parte della popolazione mondiale. La persistente presenza dei poveri veniva associata a quella frangia della popolazione che rappresentava l’espressione diretta dell’ozio, della

1I suddetti aspetti possono consistere, ad esempio, nel disagio economico, nella marginalità sociale,nella preclusione all’accesso di

beni e servizi, nell’inappagamento per la propria posizione nella società, in un’abitazione inadeguata, in un livello di istruzione scarso, e via dicendo (G.Mendola, “Studi sulla povertà. Problemi di misura ed analisi comparative”, FrancoAngeli,Milano 2002 p.15)

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mancanza di un lavoro, dell’ignoranza, dell’irresponsabilità, e, tuttavia con uno statuto inevitabilmente svalutato [Morlicchio, 2012].

Nella società medievale, si faceva discendere le diversità sociali da una decisione divina,non si nutriva timore nei confronti dei poveri, anzi la loro presenza era

necessaria affinché si potesse esercitare la carità2.Inoltre la concezione medievale della povertà distingueva tra povertà involontaria( bambini, anziani e invalidi) e quindi meritevoli di beneficenza; dalla povertà volontaria (vagabondi, criminali, mendicanti) percepita come una minaccia e oggetto di repressione. I poveri, però, non erano completamente dipendenti dalla carità, essi appartenevano alle classi lavoratrici, sia rurali che urbane, ancora legate ai mezzi di produzione ma soprattutto alla loro

sussistenza che era il prodotto del proprio lavoro, anche, se, sotto la costante minaccia della fame e dell’indigenza. Come afferma Polanyi [1944; trad.it.1974, 101] il termine “povero” «indicava quasi tutta la gente bisognosa e che si trovava in stato di

necessità[…] era quindi praticamente sinonimo di “gente comune”».

All’alba della modernità3, si sottolineava una distinzione importante che, era già stata anticipata nel periodo medievale : quella tra labouring poor – il povero ancora in grado di mantenersi con il proprio lavoro anche se va incontro a periodi in cui il suo reddito non garantisce la stessa sopravvivenza – e il pauper , il povero che per la totale insufficienza dei propri guadagni o per una condizione di inabilità fisica è costretto a dipendere stabilmente dalla carità, dall’assistenza pubblica , o da un’alternanza di entrambe[Morlicchio, 2012:13]. Ma date le condizioni di generalizzata insicurezza economica di quegli anni, la condizione del poor e quella del pauper non erano così distanti e nel corso di una stessa esistenza, o di uno stesso anno, poteva capitare di sperimentarle entrambe [Englander, 1998 in Morlicchio, 2012: 21].

Lo sviluppo concettuale relativo al fenomeno della povertà, delle metodologie di indagine ad esso riferite e, dei criteri di misurazione impiegati, sembrano trovare il momento di maggiore sviluppo a partire dalla Rivoluzione Industriale, in particolare tra il XVIII e il XIX secolo. In tale fase storica, infatti, cominciava a diventare evidente quanto fossero profondi gli effetti sociali della trasformazione del sistema produttivo, soprattutto in relazione al sistema delle disuguaglianze sociali e della povertà diffusa

2Sotto questo aspetto era del tutto privo di rilievo che la carità si indirizzasse verso <<falsi>> o <<veri>> poveri dal momento che

il fine ultimo era di guadagnare meriti nella vita ultraterrena e non di spingere i poveri neghittosi al lavoro. [Cfr.E.Morlicchio,2012]

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[Geremek, 1992]. La povertà ed il suo studio diventano una <<Questione sociale>> e quindi oggetto di indagine sociologica e preoccupazioni politiche.

L’Inghilterra rappresentava un osservatorio privilegiato per la radicalità del processo di trasformazione industriale e delle conseguenze sociali4, in quanto “al centro della rivoluzione industriale del diciottesimo secolo ci fu un miglioramento quasi miracoloso degli strumenti di produzione che fu accompagnato da un catastrofico sconvolgimento delle vite della gente comune” [Polanyi, 1944:45].

Considerando come punto di riferimento l’Inghilterra, in questo paese, (ed in seguito anche nel resto d’Europa) - a seguito delle <<recinzioni>> (enclosures) delle terre comuni – la disgregazione sociale delle campagne, con lo spostamento di masse di popolazione verso i centri urbani, assunse un carattere particolarmente violento che portò alla distruzione della classe contadina e ad un processo di proletarizzazione precoce, con importanti conseguenze sul piano della povertà. Diviene dunque sempre più forte la consapevolezza che le degradate condizioni di vita, e per estensione la povertà, in cui versavano gli strati sociali più bassi, non potevano essere più spiegate ricorrendo a comportamenti individuali oziosi o devianti. Piuttosto come fossero la conseguenza diretta dei modi in cui si andava strutturando il capitalismo stesso, e in particolare il funzionamento del mercato del lavoro [Morlicchio, 2012: 47]. In questo senso, “nello sviluppo” della povertà nelle società industriali è chiaro un sostanziale cambiamento nei riferimenti sociali. L’oggetto non è più la condizione dei singoli e delle famiglie prive di mezzi di sostentamento, ma la situazione di gruppo, di ambienti e di classi, la cui partecipazione alla divisione di redditi è caratterizzata da inferiorità, e le cui condizioni di vita sono al di sotto di un “minimo” universalmente accettato

[Geremek, 1995: 251]. L’immagine è quella di una “povertà laboriosa” [Mollat, 1978: 186], concentrata in particolare nelle città, costituita da persone per i quali il reddito da lavoro non era sufficiente per assicurare il completo sostentamento di sé e della propria famiglia.

Karl Marx traccia qui un’importante distinzione tra, il processo di <<pauperizzazione e degradazione sociale>> di contadini e artigiani da un lato, che, privati della proprietà e del controllo delle tradizionali fonti di reddito, sono costretti a ricorrere all’assistenza,

4Si prende come punto di riferimento l’Inghilterra , non per essere assunto come paradigmatico o ad scopi comparativi con gli altri

paesi del globo, ma semplicemente perché , riprendendo l’espressione che Braudel usa per l’Europa, in questo Paese: <<le cose si vedono meglio che altrove>> , in virtù del carattere anticipatorio e radicale del processo di proletarizzazione che porta a identificare più chiaramente lo strato pauperizzato. [Braudel 1979; trad.it.1982: 471, in Morlicchio 2012:19]

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alla carità o ad espedienti vari, compreso il piccolo furto; e dall’altro, alla

<<proletarizzazione>> che precede la trasformazione della gran massa di questi individui in lavoratori salariati dell’industria e dell’agricoltura [Rhanema e Robert, 2008]. A partire da questo contesto storico e sociale, prendono avvio le analisi più importanti e influenti della povertà come fenomeno sociale di massa,ed assunte come punti di riferimento per le successive analisi sulla povertà.

La prima ricerca sociologica “scientifica” sulla povertà è stata condotta dal sociologo britannico Charles Booth (1889) verso la fine del XIX secolo. Il suo obiettivo era incentrato sull’analisi delle condizioni di vita e di lavoro della popolazione londinese, con intenti descrittivi e quantificatori. Per riuscire a portare a termine il suo lavoro, assunse un team di ricercatori. I dati, riguardanti la città nel suo complesso erano stati espressi in termini quantitativi ed erano stati raccolti attraverso interviste dirette con i cittadini e informazioni derivanti dagli School Board Visitors, cioè registri istituiti per raccogliere indicazioni dettagliate sulle famiglie in cui vivevano i bambini poveri, al fine di assicurare loro un’adeguata istruzione. Nell’analisi di Booth le condizioni di vita della popolazione erano state studiate attraverso due indicatori: uno di tipo qualitativo definito come “disagio da condizioni di occupazione” e l’altro di tipo quantitativo, ossia il “disagio da reddito”. Una peculiarità della ricerca di Booth fu la rappresentazione territoriale delle condizioni sociali della popolazione attraverso una mappa della città di Londra, “Descriptive Map of London Poverty”, suddivisa secondo i livelli di ricchezza e di povertà. Così scrive Booth:

Con la parola povertà intendo descrivere quelli che hanno un’entrata evidente anche se bassa, da 18 a 21 scellini alla settimana per una famiglia modesta, e, i molto poveri, sono quelli che per qualunque motivo sono al di sotto di questo standard, sia per irregolarità cronica dal lavoro, che per malattia o per un alto numero di figli; quando non è possibile accertare il livello

dell’entrata, la classificazione si basa anche sul livello dell’abitazione. [Booth, 1889 in Pagani, 1960:175].

Impiegando questa definizione, Booth era riuscito a dividere la popolazione londinese in otto classi5, ed a stimare che il 30% degli abitanti di Londra erano poveri.

5 L’analisi di Booth provvede ad elaborare una stratificazione completa della popolazione, includendo dunque anche le classi più

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In Italia invece la prima rilevazione sulla povertà è stata effettuata nel 1952 quando venne istituita una “Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla”6. Il compito affidato a questa commissione era quello di condurre un’indagine sullo stato della miseria in cui versava la popolazione in quel periodo, con lo scopo di accertare le condizioni di vita delle classi povere e il

funzionamento delle istituzioni di assistenza sociale. L’inchiesta che la commissione venne a effettuare, si concentrerò su alcune parti geografiche del paese e su alcuni specifici aspetti della vita della popolazione.7 In quell’anno (1952) la commissione, attraverso l’indagine sui bilanci di famiglie povere, aveva rivelato che l’11,8% delle famiglie viveva in condizioni di miseria8.

Tuttavia l’illusione della fine della povertà negli anni ricordati come i «Trent’anni gloriosi»9 , aveva solo disabituato la gente a vedere intorno a sé la povertà. Essa, infatti, non faceva altro che cambiare forma. Continuando a evolversi nel tempo arrivando ad essere presente fino ai giorni nostri.

Il fenomeno della povertà non può essere considerata semplicemente una forma estrema di disuguaglianza economica, determinata da uno scarto di reddito o associata ad una necessità materiale e di sofferenza fisica, bensì essa si configura come un’esperienza “qualitativamente” diversa. La povertà invade e si evidenzia in più aspetti della vita umana, come il creare una condizione sociale e psicologica inadeguata generando stati di angoscia, sofferenza e vergogna. Si parla anche della povertà generata da differenza

soglia erano individuate la classe A, costituita da lavoratori occasionali, vagabondi, semi-criminali; la classe B, costituita dai lavoratori saltuari, cha a causa dei difetti fisici, mentali o morali non riuscivano a trovare un’occupazione migliore, e definiti “molto poveri”; la classe C, che includeva i lavoratori intermittenti, le “vittime della competizione” sul mercato del lavoro; infine la classe D, in cui rientravano le persone con bassi guadagni ma regolari. Nelle prime due classi venivano fatti rientrare gli indigenti, mentre nelle classi C e D erano rappresentati i poveri. Si collocavano invece sopra la linea di povertà la classe E, ovvero i lavoratori con guadagni regolari più alti, la classe F, le classi lavoratrici con paghe più alte, in particolare gli artigiani, la classe G, che identificava la classe media più bassa, infine la classe H, la classe media più elevata [Booth, pp. 33-62]

6http://archivio.camera.it/patrimonio/archivi_del_periodo_repubblicano_1948_2008/guida.it

7 Indagini svolte in alcune zone depresse del Paese con lo scopo di studiare il fenomeno della miseria dove si presentava in

condizioni maggiormente “penose”; - indagini di carattere statistico: venne effettuata un’indagine generale sulle condizioni di vita della popolazione ed una sui bilanci di

famiglie povere; - studi su aspetti particolari della miseria, effettuati sia dal punto di vista giuridico che economico; - un’indagine condotta nel borgo di Grassano, in provincia di Matera, con lo scopo di ottenere una valutazione approfondita della

situazione di una comunità rurale considerata nella sua struttura economica e sociale.

8 Nel complesso, oltre un quarto delle famiglie italiane soffriva la fame. I dati sulla casa e l’alimentazione, uniti a quelli sulle

calzature, portarono a stimare che 11,8%delle famiglie erano “misere” e un ulteriore 11,6% “disagiate”:dunque complessivamente il 23,4% delle famiglie italiane viveva in condizioni di povertà. L’indagine mise in evidenza l’elevata concentrazione territoriale nel Mezzogiorno: l’85% delle famiglie classificate misere e il 70% delle famiglie disagiate risiedevano infatti nelle regioni meridionali e nelle isole.

9Si fa riferimento al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, in cui la povertà scompare dall’attenzione pubblica:

l’impetuoso sviluppo economico e sociale promette di risolvere una volta per tutte la questione : con piena occupazione, male breadwinner regime, sistemi pensionistici, sistemi sanitari (Keynesian Welfare State).

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di destino, di opportunità, differenze territoriali, di genere e generazioni. Aspetti tali per cui è divenuta nel tempo un campo di indagine anche nell’ambito delle scienze sociali. Waxman è stato uno dei primi autori a definire la povertà come un tipo particolare di stigma, che attribuisce a coloro i quali vivono una situazione del genere una condizione tutt’altro che umana:

<<vorremmo suggerire che lo stigma della povertà è uno stigma speciale che attribuisce ai poveri uno status “less than human” (meno che umano): poveri sono coloro a cui è assegnata una umanità inferiore>>. [Waxman, 1976:69].

Differente, ma di altrettanta notevole importanza è il contributo offerto dal filosofo e sociologo tedesco George Simmel, il quale fu tra i primi studiosi a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento ad occuparsi della figura sociale e complessa del povero. Egli pone l’attenzione sulla realtà della vita quotidiana all’interno della quale gli individui sono legati da stretti rapporti di reciprocità, e per cui l’interazione rappresenta il fulcro della formazione dell’individuo in quanto essere sociale. Il concetto di relazione costituisce l’elemento saliente nell’esistenza sia dell’individuo sia della società in generale. Simmel nel suo saggio IL POVERO affronta direttamente il tema della povertà, affermando che : <<il povero è si posto in certa misura al di fuori del gruppo, ma questo fuori è soltanto una forma particolare dell’azione reciproca con esso[…] La povertà è determinabile soltanto in base alla relazione sociale che interviene dinanzi a un certo stato>>[Simmel, 1908]. Dunque secondo l’autore lo status di povero non è una collocazione data come fatto di per sé, tuttavia si verifica solo nel momento in cui egli, in quanto fruitore di assistenza pubblica, dichiara alla collettività la propria condizione di indigenza. In questo senso la povertà non esiste come fatto in sé, ma solo come esito di una costruzione sociale, che vede nel povero l’oggetto (e non il fine) dell’intervento, in un processo di contemporanea oggettivazione e stigmatizzazione dell’altro. L’autore definisce così il particolare rapporto tra povertà ed esclusione:

[…] in una dialettica tra il dentro /fuori, non risolvibile in una completa esclusione dell’individuo, ma al contempo difficilmente superabile perché causata da una sbilanciata relazione tra il soggetto e il gruppo. Il povero che per la sua incapacità-impossibilità di partecipare pienamente alla vita della collettività, viene collocato in una posizione di parziale esclusione ed esternalità al gruppo. [Simmel,1908 in Cavalli, 1998:402]

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Un contributo importante sul fenomeno della povertà proviene anche dal filone antropologico. Oscar Lewis, antropologo statunitense alla fine degli anni Cinquanta elaborò il concetto di “cultura della povertà”10. Con questa espressione l’autore indica un modello concettuale specifico per descrivere in termini positivi una sub-cultura che ha una propria struttura e una propria ragion d’essere, un modo di vivere che si

trasmette di generazione in generazione attraverso la famiglia.Non si riferisce

semplicemente a un fatto di privazione o di disorganizzazione, tutti termini che indicano la carenza di qualcosa. È una cultura nel vero senso antropologico tradizionale della parola, in quanto offre ai soggetti un modello di vita, un insieme di soluzioni pre-costituite ai problemi umani, ed ha quindi una funzione significativa di adattamento11 Da una parte la cultura della povertà tende a riprodurre le situazioni di deprivazione all’interno delle quali si sviluppa, dall’altra esprime una funzione di adattamento, un’autonomia e capacità di organizzazione “alternativa” dei soggetti coinvolti. La stessa funzione di adattamento non ha un valore reattivo rispetto al sistema sociale all’interno del quale la povertà viene a collocarsi. Ad esempio i fanciulli dei quartieri poveri, una volta giunti all’età di sei o sette anni, hanno già assorbito, di solito, i valori

fondamentali e atteggiamenti della loro sotto-cultura[Lewis, 1966 in Bergamaschi, 2007:37]. Secondo Lewis:

I poveri formano un gruppo sociale omogeneo, un mondo a parte che si auto genera, e si trasmette attraverso i processi di socializzazione primaria: indipendentemente dall’ambiente: i tratti distintivi della cultura della povertà, non costituiscono, soluzioni di tipo adattivo, ma un complesso organico e autonomo di norme e di comportamenti che viene trasmesso.

[Lewis,1966:36]

10Il suo studio si basa su delle sue ricerche etnografiche condotte in Sud America e in Messico.

11La cultura della povertà è una configurazione culturale che si riproduce indipendentemente dalle condizioni materiali di vita dei

poveri, tanto che il loro miglioramento non determina la dissoluzione della configurazione. Scrive Chiara Saraceno:” La semplice imputazione socioeconomica del modo di vita dei poveri è troppo semplicistica, in quanto trascura i processi di interiorizzazione delle condizioni materiali(…). Tuttavia concepire tale interiorizzazione, e la sotto cultura di specifici gruppi di poveri come tout court la causa della trasmissione intergenerazionale della povertà significa trascurare(…) non solo le condizioni oggettive dell’infanzia, ma anche il perpetuasi, lungo tutta la vita individuale(…) , delle condizioni di povertà. [C.Saraceno in “Quaderni di sociologia”n.1, 1986, p.96].

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Differentemente, ritornando al campo della sociologia, invece è il pensiero del sociologo francese Serge Paugam12. L’autore in un suo studio e titolo del libro: “ Le forme elementari

della povertà”, pone l’attenzione alla relazione di interdipendenza fra la parte di popolazione designata come socialmente povera e il resto della società a cui essa vi fa parte. Dunque la tesi sostenuta dall’autore è che da questa particolare interdipendenza che varia nella storia e secondo le tradizioni socioculturali, si possono distinguere tre forme elementari della povertà : integrata, marginale, squalificante.

-La povertà integrata , rinvia alla condizione sociale di una grande parte della popolazione, sono in numerosi e poco distinti da altre fasce sociali. Il tenore di vita è basso, però restano fortemente inseriti nelle reti sociali. Il problema ruota attorno allo sviluppo economico, sociale e culturale e riguarda soprattutto le disuguaglianze sociali legate al territorio.

-La povertà marginale ,in questo caso, coloro che sono definiti poveri formano una piccola frangia della popolazione e sono altresì fortemente stigmatizzati. Nella coscienza collettiva rappresentano i disadattati della civiltà moderna, coloro che non

sono riusciti a seguire il ritmo della crescita e a conformarsi alla sviluppo industriale . La -povertà squalificante, infine, non si tratta di uno stato di miseria stabilizzato, bensì è

dovuto alle improvvise variazioni nell’organizzazione della vita quotidiana. Vi è il timore collettivo per il rischio all’esclusione, tipico delle società postindustriali e particolarmente soggette a un forte aumento della disoccupazione e precarietà sul mondo del lavoro[Paugam, 2013].Secondo l’autore, il percorso degli esclusi sarebbe, quindi, influenzato da una combinazione di fattori, non solo economici, anche sociali, ponendo attenzione alla condizione di disoccupazione che rappresenterebbe un episodio sfavorevole importante.

Con questo breve excursus storico insieme al contributo dato da alcuni dei massimi studiosi sopracitati che hanno contribuito nell’analisi del fenomeno della povertà si vuole innanzitutto evidenziare che: “la povertà è una condizione che cambia nel tempo e nello spazio”[F.Biolcati Rinaldi, 2011:55]. I bisogni, infatti, non possono essere

12Studioso noto per aver sviluppato il concetto di squalifica sociale e per aver condotto diversi programmi di ricerca comparativa,

sia quantitativa che qualitativa, sulle forme di base della povertà nelle società moderne. Il suo attuale programma di ricerca riguarda l'analisi della riproduzione e del rinnovamento delle disuguaglianze , ma anche lo studio delle basi dei legami sociali da cui è possibile definire e concettualizzare diversi tipi di disgregazione sociale. La tipologia dei legami sociali che ha sviluppato ci permette di studiare cosa lega gli individui l'uno all'altro e alla società nel suo complesso

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solamentecircoscritti al sostentamento fisico, essi inoltre sono determinati socialmente e culturalmente13.

Considerare la povertà come un fenomeno sociale, comporta il superamento di quella concezione individualistica, per lungo tempo dominante, che riconduceva la condizione di povertà a sfortune, deficienze o incapacità personali dei poveri, da tamponare o riparare con interventi assistenziali diretti ai singoli. Perciò le definizioni esistenti sembrano ormai convergere sull’assunzione che il termine povertà denoti un concetto complesso, che connette il disagio economico ad un insieme assai ampio di situazioni riguardanti molteplici aspetti della vita sociale [Ranci, 2002] che intrecciano, in modi diversi, varie forme di esclusione a partire da quelli che Sen (1993) chiama

<<funzionamenti>>, ovvero determinati stati di <<essere>> e di <<fare>> che rendono la vita degna di essere vissuta, come nutrirsi, lavorare, essere rispettati, saper leggere e scrivere e così via.

“ La povertà si qualifica come l’esito di un processo strutturale che chiama in causa i meccanismi generativi della diseguaglianza nelle dinamiche di produzione e

redistribuzione tipiche delle società industriali avanzate”[Tomei, 2011].Soprattutto in relazione ai cambiamenti che hanno investito il mondo dell’economia a partire dalla crisi economico-finanziaria mondiale cominciata nel 2007, si registrano a sua volta delle profonde trasformazioni nei profili e nelle condizioni della povertà, la quale

quest’ultima si presenta come un fenomeno dinamico. Essere in povertà non

rappresenta né uno stato definitivo, né un carattere ascrittivo, esso è piuttosto il risultato variabile di un processo: questo è connotato da più cause, differenti fra loro ma legate reciprocamente in modi più o meno impegnativi [Ruggeri, 2011]. Tale risultato è variabile, perché suscettibile di modifiche, ma anche, conseguentemente, di potersi ripresentare. Alla luce dei cambiamenti della società si tratta di indagare più in dettaglio, per capire le singole manifestazioni e le relative trasformazioni, per

individuare quella che oggi è la <<Multidimensionalità>> del fenomeno. Per tale diversi

saranno i modi ed i punti di vista per approfondire la povertà che dal singolo stato di

13 Ciò che è accettabile in una società con un livello di vita mediamente basso può non esserlo in un’altra dove le condizioni di vita

sono mediamente superiori. Vale a dire, la povertà va valutata in relazione alle condizioni di vita medie che caratterizzano uno specifico contesto . [G. SARPELLON (a cura di) “La povertà in Italia”, Milano, Franco Angeli, 1982].

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deprivazione14, si passa piuttosto a osservare i processi e le dinamiche che,

sovrintendono l’incontro/scontro tra percorsi di vita individuali e struttura sociale in cui si è inseriti, che sempre più favoriscono lo scivolamento di strati crescenti della

popolazione , finora considerati al riparo dal rischio di impoverimento, verso condizioni di vita difficilmente sostenibili.

1.1 Disuguaglianza e Povertà

Il tema della povertà, viene collocato a pieno titolo nell’ambito delle dinamiche di formazione e riproduzione delle Disuguaglianze sociali. Entrambi si caratterizzano per essere dei concetti complessi, distinti e al tempo stesso fortemente integrati. Possiamo vedere la povertà e la disuguaglianza come fenomeni interconnessi, nonché l’esito di una pluralità di fattori economici, sociali e politici oltre che individuali. Pertanto bisogna cogliere le principali dimensioni del fenomeno.

In termini generici, la disuguaglianza consiste in un accesso differenziato alle risorse naturali, sociali, ma soprattutto economiche. Puòriguardare intere collettività in cui tutti, o la maggior parte delle persone, si trovano in queste condizioni a fronte di altre collettività in cui invece ciò non avviene, e anzi detengono un tenore di vita medio e relativamente alto. O può riguardare individui e gruppi all’interno di una collettività [Saraceno, 2015: 30]. Per cui di fronte alla domanda su chi siano i poveri e come si individua la povertà, si rimanda ad una condizione di disparità che riguardano i rapporti tra sistemi sociali, economici, politici e chiamano in causa i rapporti di potere, ma ciò ha anche a che fare con disuguaglianze tra persone e gruppi che condividono lo stesso spazio geografico – politico – sociale[Vecchi, 2014 in Fondazione Ermanno Gorrieri, 2016:15]. In questo senso la diversa distribuzione dei beni, che oltre, alle condizioni materiali di vita – come reddito, possibilità di accedere ai consumi - fa riferimento ad altre, importanti carenze e disuguaglianze, altrettanto gravi, quali per esempio: la mancanza di istruzione, di un lavoro, la mancanza di diritti civili o politici, o la

discriminazione subita per ragioni etniche, razziali, religiose, di appartenenza di sesso o orientamento sessuale, e per cui concorrono a determinare la qualità della vita. Tutti

14Per deprivazione materiale si fa riferimento: “a situazioni di vita caratterizzate dall’assenza di beni o opportunità considerate

ormai acquisizioni standard nelle società odierne, quindi il possesso di beni e reddito come per esempio avere un televisore a colore”. [C. Ranci, E.Pavolini, “Le politiche di welfare”, il Mulino, Bologna, 2015, p.118].

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quegli aspetti che determinano la vasta scala sociale, costituita da molti gradini e nella quale la povertà in tutte le sue sfaccettature viene a definirla[Paci, 1993 in Saraceno, 2015:37]. Tali osservazioni evidenziano inoltre che la povertà e la disuguaglianza in generale vengono definiti tali in seguito a delle valutazioni comparative che da sempre tutte le società ed in epoche diverse hanno fatto fra loro e rispetto al livello di benessere della società in cui si vive. A tal proposito Chiara Saraceno afferma che:

<< […] la povertà è sempre stato un atto di valutazione. Comporta infatti una valutazione su

quale sia il livello di disuguaglianza economica e mancanza di risorse materiali insostenibile non solo per chi la sperimenta sulla propria pelle, ma per la società nel suo complesso. Le controversie sulla diffusione e gravità della povertà non sono quindi soltanto controversie tecniche […], sono innanzi tutto controversie culturali e politiche, che a loro volta rimandano a visioni del mondo, a modelli di giustizia, e anche a “spazi valutativi”diversi allorché si ragioni sul benessere o malessere delle persone [Dovis-Saraceno, 2011:41].

A tale riguardo viene riportato in un noto testo di Wilkinson e Pickett (2009): «La nostra felicità si percepisce nel confronto con la condizione di benessere degli altri. Le disuguaglianze generano un forte disagio sociale».

1.2 Il rapporto tra Disuguaglianza ed Equità

Il concetto di disuguaglianza come suddetto, si compone al suo interno di più aspetti. In prima battuta rimanda alla diversa distribuzione delle risorse tra gli individui, all’interno di un contesto sociale di riferimento, sottolineando la distanza tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri[Cowell-Atkinson, 2000 in Benedetti 2011:25]. Tuttavia, non si tratta solamente della diseguaglianza che richiama spesse volte la dimensione economica. Il riferimento teorico a cui si vuole fare riferimento è all’ideale dell’uguaglianza di condizioni, ossia l’idea che ogni essere umano abbia diritto a godere dei livelli essenziali di un insieme di beni primari necessari al suo sviluppo personale e alla sua inclusione sociale. Proprio facendo riferimento al focus principale di questo lavoro di tesi quale che è, la povertà educativa minorile, si sottolinea come la disuguaglianza si ritrova in altri spazi della vita, come quello delle opportunità o dei risultati, della felicità e della vulnerabilità, che agiscono con modalità non sempre semplici e prevedibili come si potrebbe pensare[Becchetti, Mingiardi, Saraceno,

2016:33]. Allora si farà riferimento al criterio <<dell’uguaglianza di opportunità>> : se infatti si riuscisse a garantire a tutti pari opportunità, le diseguaglianze emergenti

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sarebbero più accettabili in quanto frutto del merito o dell’impegno di ciascuno

[Haller,1993 in Saraceno,2009: 35]. Su questo tema un primo e importante contributo è stato sviluppato dall’opera del filosofo statunitense John Rawls15,sulla teoria della giustizia (1971). Come elemento centrale della riflessione, l’autore pone il ruolo e i bisogni delle minoranze della società. Rawls ipotizza la necessità di una distribuzione egualitaria di alcuni beni che, definisce “beni sociali primari”. Il presupposto etico alla base di tale scelta è, però, più articolato rispetto alla mera ripartizione delle risorse in parti uguali. Esso consiste nell’affermare che la distribuzione deve essere egualitaria solo nella misura in cui questa apporti benefici ai più svantaggiati. Allo stesso modo, una giustizia redistributiva equa deve abbattere le disuguaglianze immeritate; da questo deriva che la disuguaglianza è accettata solo nella misura in cui permette, ai membri più svantaggiati della società, di accrescere nel lungo periodo le proprie opportunità.

Particolarmente significativo è il ruolo che Rawls attribuisce al concetto di libertà; in base alla quale si teorizza “a ciascuno il massimo sistema delle libertà compatibile con il massimo sistema delle libertà di ciascun altro”. La libertà non si trova in conflitto con l’uguaglianza ma, al contrario, “l’equità distributiva svolge una funzione fondamentale nel rendere eguale il diseguale valore delle uguali libertà”[Mattutini, 2013:34]. In altre parole, due persone che dispongono delle medesime libertà possono trovarsi in

condizioni molto disuguali e il principio di uguaglianza permette di riequilibrare tale situazione.

Uno stretto collegamento a riguardo si ritrova con la teoria sostenuta dal filosofo politico Richard Arneson, (1989) e, successivamente ripresa e formalizzata da Roemer (1998). Secondo lo studioso l‘idea di eguaglianza di opportunità nell‘acquisizione del benessere si fonda sul principio che il successo nella vita dovrebbe dipendere dalle scelte, dall‘impegno, dal talento delle persone, non dalle circostanze di nascita. Queste circostanze comprendono aspetti quali il genere, la razza, il luogo di nascita o il background familiare, sono predeterminate e al di fuori delle possibilità di controllo delle responsabilità dei soggetti e possono essere compensate dalla società. Nella determinazione dei risultati (o dei vantaggi, come li definisce Roemer) entra in gioco però anche l‘impegno che le persone ripongono nelle azioni che compiono e rispetto alle quali sono responsabili. Una società che garantisce eguali opportunità è una società

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in cui i risultati importanti sono distribuiti in maniera indipendente dalle circostanze [Chiappero Martinetti, 2010:14]. L’idea che si possa arrivare ad avere un modello di benessere uguale per tutti costituisce una chimera irraggiungibile e, per taluni aspetti, non opportuna. Lo stato può invece cimentarsi con successo nella garanzia di uguali risorse e opportunità, a condizione che permanga il rispetto dei diritti legittimi degli altri individui. Naturalmente , lo “zoccolo” dei valori da garantire a tutti in modo uguale varia storicamente, potendo il concetto di bisogni umani fondamentali o di

sopravvivenza, dilatarsi o restringersi da una società all’altra [Paci, 1993].

2. Le Dicotomie della povertà

La povertà è un fenomeno complesso, che si presenta con molte facce: cosicché, forse, è più corretto parlare di povertà al plurale. Il termine povertà viene usato per riferirsi a fenomeni diversi, anche se i loro confini non sono sempre nettamente definibili. Si possono individuare una serie di tentativi definitori volti a cogliere, adottando prospettive diverse, il fenomeno nella sua entità e nella sua espressione sociale, che risulta difficile ricondurre ad una definizione comune e universale, evidenziando l’ampiezza di tale questione. Pertanto possono essere lette sotto questa luce differenti definizioni di povertà che si ritrovano nella letteratura.

A partire dalla più tradizionale dicotomia che distingue:

Povertà Assoluta vs Povertà Relativa

Il primo concetto rinvia ad una condizione di deprivazione ‘radicale’, nella quale non risultano soddisfatti i bisogni più elementari necessari per la sopravvivenza - come la possibilità di nutrirsi, vestirsi, trovare rifugio-. Da un punto di vista applicativo, si procede a individuare una soglia o linea di povertà16 , data dalla stima di un ammontare di risorse, considerate come quantità minima indispensabile per soddisfare i bisogni primari necessari ad assicurare un tenore di vita minimo. Si deve alla prima indagine realizzata a fine Ottocento, da Charles Booth, il primo impiego della << linea di

povertà>> come spartiacque tra poveri e non poveri. Ponendo l’attenzione sul tenore di

16In economia si parla di “paniere di beni o ammontare di reddito” che include generi alimentari, vestiario ed avere

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vita delle famiglie operaie di Londra afflitte dalla miseria, imputando il problema della povertà non esclusivamente al lavoratore, bensìandava analizzata anche la struttura ed il funzionamento del mercato del lavoro. Successivamente il medesimo concetto venne ripreso dal sociologo inglese Seebohm Rowntree, il quale giunse a prevedere anche l’utilizzo di ulteriori ‘sotto-soglie’in grado di dare una misura della condizione di povertà estrema, segnalando così per primo la necessità di andare oltre la nozione dicotomica di (povero/non povero). Dedicarsi, invece, ad analizzare la composizione interna della povertà, le analogie e le differenze che possono esistere tra i diversi gruppi di poveri, effettuando una riflessione più approfondita all’interno di alcune dinamiche che caratterizzano il fenomeno dell’impoverimento. Tale definizione è stata oggetto di molte critiche in quanto il concetto di povertà assoluta sarebbe orientato a richiamare, per definizione, una condizione vicina all’indigenza[Mattutini, 2013]. Sarebbe

irrealistico sganciare totalmente la composizione del paniere di beni e servizi

“essenziali” dal tempo e dalle caratteristiche della società oggetto di studio.Se agli inizi del XX secolo si definiva povero colui a cui mancavano le risorse per affrontare le spese essenziali per nutrirsi, vestirsi e per l’alloggio, le medesime considerazioni possono valere anche ai tempi odierni nelle economie in via di sviluppo. In una società come quella in cui viviamo le persone devono essere in grado di soddisfare anche molte altre esigenze – sorte anche in seguito ai benefici apportati dai progressi tecnologici e dai miglioramenti generalizzati delle condizioni di vita - affinché si possa affermare che esse godono di un tenore di vita decoroso [Saraceno, 2015].

Pertanto oggi da parte degli studiosi vi è il delicato onere di selezionare i bisogni di base (e le rispettive “quantità e/o qualità minime”) nel contesto temporale e sociale che si osserva. Tale compito non solo richiede molta attenzione, affinché si eviti che il concetto di povertà assoluta degeneri verso quello di povertà relativa, ma deve anche essere riaffrontato nel contesto sociale e temporale[Baldini e Toso 2004:95]. Infatti in Italia oggi l’Istat afferma che occorre ricordare che il paniere di povertà assoluta non risponde a un concetto di sopravvivenza, ma a quello di minimo accettabile ovvero di una disponibilità di beni e servizi che permettono di evitare gravi forme di esclusione sociale (alimentazione adeguata, abitazione di ampiezza consona alla dimensione familiare, riscaldata e dotata dei principali servizi, beni durevoli e accessori,

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territorio, istruirsi e mantenersi in buona salute.17 Dal concetto di povertà assoluta si viene a distinguere il concetto di Povertà Relativa.

La quale rinvia ad una definizione storicamente e socialmente determinata delle condizioni di vita e ad una comparazione con riferimento ai gruppi considerati rappresentativi della media della popolazione. Fu la formulazione di Peter Townsend (1979), a cui si deve la prima è più impegnativa definizione di povertà relativa: “quando le loro risorse sono così al di sotto di quelle disponibili alla media degli individui o delle famiglie da escludere di fatto dai modi di vita, abitudini e attività comuni” [Baldini e Toso, 2009:53]. Il sociologo inglese mise in discussione il concetto fino ad allora usato di standard di vita <<minimo>> e propose di adottare un concetto di povertà basato sull’incapacità di raggiungere lo standard di vita <<medio>> del paese in cui si vive . Pertanto sarà considerato “povero” colui che dispone di mezzi in quantità

significativamente inferiore rispetto ad una qualche proporzione delle risorse possedute dagli individui della società in cui vive[Townsend, 1970 in Morlicchio 2012: 103].La definizione operativa più nota nell’ambito degli studi in tema di povertà e aderente al concetto di povertà relativa è l’ISPL, o (International Standard Poverty Line), secondo la quale è ritenuta “povera” una famiglia di due persone la cui spesa per consumi (od il cui reddito) non supera il valore del consumo (o del reddito) medio nazionale pro capite. Anche la povertà intesa in senso relativo non manca di punti deboli, come ad esempio: ponendo caso che tutti i redditi delle persone venissero ad aumentare o diminuire e quindi seguire la stessa direzione, la povertà relativa rimarrebbe invariata. Altro aspetto evidenziato è che la povertà relativa tende ad aumentare nei periodi migliori del ciclo economico, e all’opposto a diminuire in caso di stagnazione economica. Infine, l’ultima riflessione che si vuole riportare in tema di povertà relativa consiste nella tendenza di quest’ultima a confondersi con il concetto di diseguaglianza: non è impossibile che si venga identificati come “poveri” anche quando le risorse, in realtà, non sono poi così carenti. Si riporta un paragone al riguardo : “se tutti viaggiassero su una Ferrari, chi possiede un’Alfa Romeo dovrebbe essere considerato povero (in senso relativo)” [Mendola 2002, Baldini e Toso 2004]. In questi termini, si potrebbe pensare che la povertà esisterà sempre, a meno di non eliminare le diseguaglianze.

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PovertàUnidimensionale vs Povertà Multidimensionale Qui la distinzione fondamentale tra i due concetti è legata alla rilevanza delle variabili

che sono ritenute significative per l’interpretazione del fenomeno. Analizzare la povertà attraverso una sola dimensione non è sufficiente per spiegare l’eterogeneità delle reali condizioni di vita degli individui. Pertanto nel corso del tempo è stato preferibile usare un approccio multidimensionale che studi la povertà basandosi sull’informazione proveniente da molteplici variabili. In una situazione multidimensionale, infatti, si suppone che non sia solo la povertà economica in grado di discriminare una singola persona o famiglia povera da una non povera ma, che la povertà si manifesti come la mancanza di una pluralità di beni, servizi, stili di vita e sensazioni considerate essenziali in una determinata società.

Povertà Oggettiva vs Povertà Soggettiva A porre l’accento tra le due nozioni è stato il sociologo Peter Townsend, il quale

confronta la nozione di absolute poverty da quella di overally poverty. Pertanto la povertà di tipo oggettivo è individuata sulla base di uno o più indicatori “oggettivi” di condizioni materiali, senza ricorrere al giudizio che ne danno i soggetti che la

sperimentano. Nel secondo caso, invece, si è espressamente interessati alle percezioni e giudizi che vengono dati dai soggetti coinvolti nell’indagine[Mattutini, 2013:60].

Povertà Quantitativa vs Povertà Qualitativa

Da una prima analisi si potrebbe pensare che le due nozioni si differenzino in quanto si riferiscono a dati di diversa natura: variabili in forma numerica nel primo caso, ed indicatori espressi in forma categoriale nel secondo. In realtà nella prospettiva

quantitativa la povertà viene considerata come parte della realtà che si trova al di fuori del ricercatore e che egli deve studiare in maniera oggettiva attraverso l’utilizzo di strumenti come il campionamento, questionario ecc.. Mentre nella prospettiva qualitativa, invece, si parte dal presupposto che non si possa escludere il ricercatore dall’analisi e ottenere risultati obiettivi. L’attività veramente utile in questo caso è quello di far emergere le differenti visioni e i diversi concetti di povertà.

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Povertà Statica vs Povertà Dinamica

Un approccio statico allo studio della povertà concentra l’attenzione su un istante spazio-temporale ben preciso, producendo una sorta di istantanea del fenomeno. Al contrario l’approccio dinamico si basa su spazi temporali ampi e si propone di andare a osservare forme di povertà occasionali, transitorie o oscillanti[Alcock, Siza, 2006 in Mattutini 2013:69]. Queste sono le principali descrizioni dicotomiche della povertà che maggiormente si riscontrano nella letteratura evidenziano che, “la povertà, comunque la si definisca è un fenomeno socialmente condizionato”[ibidem].

3. L’impoverimento come processo relazionale: uno sguardo d’insieme.

Le problematiche relative all’analisi della povertà come fenomeno complesso non si esauriscono con la considerazione della carenza di risorse materiali ed economiche. Definire chi e quanti sono i poveri in una data popolazione, riconoscerne gli aspetti di deprivazione e il grado di scarto del tenore di vita medio non sembra arrivare a toccare la complessa articolazione del fenomeno, soprattutto in una società come quella contemporanea, caratterizzata da mutamenti veloci e radicali nelle diverse dimensioni che la compongono. Con l’avvento della modernità, lo statuto dell’individuo cambia radicalmente. L’individuo viene riconosciuto indipendentemente dalla sua inscrizione in ambiti collettivi. Ma non per questo, egli è totalmente protetto nella sua indipendenza. Ciononostante la povertà non è mai stata debellata del tutto [Saraceno, 2013]. Lo stesso sviluppo non ha mantenuto le sue promesse in un’economia di mercato sempre più esposta alla competizione internazionale, in un mondo in cui cambiavano gli squilibri geopolitici. Già nel 1995 lo studioso francese Robert Castel parlava di “crisi della società salariale”. Proprio quel lavoro salariato che era stato speranza di riscatto di masse della popolazione, garantendo l’accesso a un reddito e a forme di protezione sociale, appariva sempre meno sicuro, oltre che meno capace di fornire forme di identificazione individuali e collettive ad ampie porzioni dei lavoratori manuali e

impiegati a bassa qualifica. Così scriveva Robert Castel in una sua nota opera : «L’impasse della società liberale sono state disastrose . Ciò aumenta sempre di più la miseria degli

operai e delle loro famiglie , ma più in generale il perpetuarsi di uno stato di insicurezza sociale permanente che intacca la maggior parte delle categorie popolari. Stavo per dire che “infetta”,

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l’insicurezza sociale , infatti non solo nutre la povertà. Essa agisce come un principio di

demoralizzazione , di dissociazione sociale, alla stregua di un virus che impregna la vita quotidiana, dissolve i legami sociali e mira le strutture psichiche degli individui. Questa condizione trasforma questa stessa esistenza in una lotta per la sopravvivenza, portata avanti giorno per giorno e il cui esito è ogni volta incerto. Si potrebbe parlare di “dissociazione sociale”… il contrario della coesione sociale (…)»

[Castel, 1995:27]. Tutti quei fattori economico-sociali che avevano ridotto l’esposizione dei lavoratori e

delle loro famiglie al rischio della povertà , ora riaffiorano dando vita ad una società <<frammentata>> tra i “vincenti”, in grado di assumere su di sé i rischi di una società sempre più priva di ancoraggi, e i “perdenti”, che la mancanza di protezioni lascia sempre più in balia dell’incertezza [ Mingione, 1991 in Morlicchio 2012: 68]. E’ il concetto stesso di bisogno che viene progressivamente allargato per valicare la stringente connotazione economica e giungere, in alcuni casi attraverso di essa o in modo, a volte del tutto indipendente , a rilevare altre necessità considerate come fondamentali. Consultando anche la letteratura più recente è possibile individuare tre grandi aree che, evidenziano dove vi risiedono le radici dei cambiamenti a cui è sottoposta la società di oggi. In primo luogo si nota nell’ambito della famiglia e dei legami comunitari : dove la crescente instabilità coniugale, è l’esito a sua volta di una mutata concezione del matrimonio e della famiglia [Saraceno, 2015]. Per cui da una lato ha reso sempre più visibili i costi ed i rischi asimmetrici della tradizionale divisione del lavoro tra uomini e donne, secondo cui a partire dagli anni settanta del Novecento donne e bambini sono diventati le figure tipiche della povertà in molti Paesi sviluppati;

dall’altro lato, invece, viene evidenziata la diffusione di nuove forme di convivenza non sempre riconosciute come “ famiglia tradizionale” sul piano dell’accesso alle

prestazioni di welfare e dei diritti civili. Secondo elemento da considerare è il mercato del lavoro : sottoposto a maggiori

tensioni in seguito ai processi di riorganizzazione del lavoro e della crescente

internazionalizzazione della produzione, che rendono maggiormente instabili le carriere

lavorative anche ai livelli più alti della gerarchia occupazionale. Terzo elemento da non dimenticare è il sistema di protezione sociale (il Welfare State):

tali sistemi oggi devono fare i conti con una crisi fiscale che impone politiche di riduzione della spesa sociale e di contenimento dei costi. Effetto alquanto paradossale ma veritiero, proprio mentre emergono nuovi rischi determinati dal passaggio verso una

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nuova forma di organizzazione sociale e produttiva, causata dai fallimenti del mercato e

dalle modifiche degli assetti- demografici e regolativi - della famiglia. I cambiamenti che oggi attraversano questi tre ambiti, considerati rilevanti nella lettura

del fenomeno della povertà che si sta seguendo, evidenziano, il fatto che stanno cedendo i pilastri su cui si è retta la capacità di “produrre ricchezza diffusa” e la

“liberazione dell’uomo dal bisogno”. Oggi entrambi vengono negati[Mingione, 2000]. Al tal riguardo il sociologo Massimo Paci, suggerisce di individuare i momenti di discontinuità o di forte rottura con riferimento non solo ai mutamenti economici e tecnologici, ma guardando anche alla «spinta sociale e culturale proveniente dal processo storico di individualizzazione e di “de-istituzionalizzazione” della società europea, come processo di emancipazione dell’individuo dalle istituzioni tradizionali e precostituite di appartenenza» [Paci, 2009:27]. Accogliendo il suggerimento di questo studioso, è possibile riconoscere un processo di individualizzazione e

deistituzionalizzazione che è stato il frutto della transizione dalla società tradizionale a quella industriale. L’insieme di questi mutamenti hanno ridotto le protezioni collettive e modificato i termini del patto implicito su cui si fondava la società tradizionale e quindi il mondo del lavoro e la divisione dei ruoli nella famiglia generando «Nuovi rischi sociali» [Bonoli 2007,Saraceno 2010 in Morlicchio, 2014: 81]. Si parla di nuovi rischi sociali semplicemente perché in alcuni casi hanno acquisito una maggiore visibilità, inoltre non riguardano più soltanto individui marginali o dotati di particolari caratteristiche personali ma interi gruppi della popolazione. Nuovi rischi anche perché, alcuni di essi, non sono più legati alle singole biografie individuali ed ai limitati gruppi marginali della popolazione ma fanno riferimento anche alle forme di organizzazione dell’economia nella società in cui si vive e di regolazione dei corsi di vita. [Saraceno, 2010:33].

3.1 L’Esclusione sociale.

Sebbene complesso e non sempre chiaro, il dibattito intorno al concetto e alle forme dell’esclusione sociale è risultato particolarmente fecondo per l’analisi della povertà. Il merito principale sta nell’aver colto come uno stato di deprivazione non sia solo una caratteristica dipendente dal disagio economico individuale o di famiglie singolarmente

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considerate, ma piuttosto l’esito di un percorso, che interroga il modo in cui la società stessa si organizza e si struttura[Dovis-Saraceno, 2011]. Il concetto di esclusione sociale emerge negli anni ’80, benché la paternità del termine viene attribuita a Renè Lenoir, Segretario di Stato francese per l’Azione sociale, il quale nel testo Les Excluses del 1974, analizzava tutte quelle figure sociali che erano state lasciate ai margini del progresso economico e della distribuzione dei benefici conseguenti, come: i disabili mentali e fisici, le persone suicide, gli anziani invalidi, i bambini vittime di abusi, i tossicodipendenti, i delinquenti, i genitori soli, le famiglie multiproblematiche, i soggetti asociali e marginali [Paugam, 2013]. In questa definizione embrionale di esclusione sociale, veniva quindi denunciata la persistenza di uno zoccolo duro di povertà, che continuava a persistere a causa di sistematici meccanismi di segregazione sociale, senza tuttavia ampliare l’analisi alle dinamiche strutturali insite nella

riproduzione delle disuguaglianze. La condizione di parziale esclusione si gioca sul fronte dentro/fuori del singolo soggetto o nucleo familiare dal gruppo. Tale dialettica tra il “dentro e il fuori” viene anticipata già nel saggio del Povero di Simmel (1906), il quale mette in luce come la povertà e il povero siano oggetti costruiti socialmente dal rapporto con la collettività a cui appartiene. La relazione che la società sviluppa con i suoi poveri, determina la posizione che assumono questi ultimi all’interno della prima, ponendoli quindi “al di fuori del gruppo, nella misura in cui egli è un puro oggetto di provvedimento da parte della collettività, ma questo “al di fuori” è solo una forma particolare dell’“al di dentro”. Tuttavia , oggi ancor più di prima, la costruzione sociale della povertà e lo stato di parziale messa ai margini dell’individuo, rappresentano un aspetto essenziale da indagare e descrivere, per capire le dinamiche e i meccanismi che frequentemente sopratutto nella realtà sociale contemporanea , caratterizzano i percorsi di impoverimento e le (più o meno adeguate) risposte istituzionali. Da un lato, infatti, il fenomeno di etichettamento del povero in quanto destinatario di assistenza

(riprendendo il discorso di Simmel), riporta alla questione del “non take up”, vale a dire della quota di potenziali beneficiari di servizi e interventi di sostegno che non ne

usufruiscono per la vergogna di essere stigmatizzati come “Poveri” ; un problema questo che rimanda alla frequente equiparazione del povero come individuo fallito, incapace, inadeguato etc… Pertanto si crea un duplice processo: di negazione dell’identità da un lato e di etichettamento dall’altro. Questo fa incorrere il povero,

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allora come oggi, in un ulteriore processo di indebolimento della propria individualità sociale; in quanto il povero non verrà più visto come individuo, ma soltanto come povero, cioè definito e definibile in rapporto alla manifestazione della sua condizione di disagio nei confronti della collettività[Goffman, 2003 in Benedetti ,2011:31]. Negli anni più recenti è prevalso l’utilizzo del termine di “Underclass”= “Escluso” 18 concetto opposto a “Middleclass = Inclusi”,queste due condizioni opposte cambiano significato da contesto a contesto [Kronauer, 2002]. Questo elemento di dipendenza dai regimi di assistenza sociale viene oggi maggiormente preso in considerazione, ed alcuni autori come Paugam lo definiscono come elemento determinante nel processo di

«disqualificazione sociale» del povero, e delle carriere discendenti di percettori di assistenza economica [Cervia, 2015:27]. Bisogna così partire dalle raccomandazioni fatte da parte dell’Unione Europea in cui il concetto di esclusione sociale è andato, progressivamente a sostituire quello di povertà, ritenuto ormai inadeguato19.Tale inadeguatezza non è solo riconducibile al fatto che, tradizionalmente, per rilevare la povertà venivano presi in considerazione variabili di tipo solo economico, ma anche perché l’espressione “povertà” tende ad essere riferita ad uno stato, senza dare rilievo alla dimensione processuale che, invece, caratterizza il percorso di vita delle persone [Negri, Saraceno, 2006]. L’innovazione apportata dal paradigma dell’esclusione sociale ha dunque arricchito il quadro concettuale relativo alla rappresentazione della povertà, in molteplici direzioni. Gli “esclusi” perciò sarebbero dunque coloro che rimangono coinvolti durante il proprio percorso di vita all’interno di specifici processi sociali che conducono più frequentemente che in passato a situazione di disagio estremo come: le rotture familiari e con le reti di sostegno, la perdita del posto di lavoro, il mancato accesso alle provvidenze pubbliche, l’isolamento sociale, la perdita dell’abitazione, lo smarrimento di un identità sociale riconosciuta [Ranci, 2002 :21].Tuttavia i rischi di esclusione, inoltre, si associano anche al mancato riconoscimento di diritti sociali di

18 Termine utilizzato per designare uno strato pauperizzato di soggetti spinti sempre più ai margini del mercato del lavoro, ai quali

sono stati attribuiti comportamenti devianti e una prolungata e strumentale dipendenza dai sistemi di welfare.

19 La Commissione d’indagine sulla povertà ha cambiato denominazione nel corso della sua attività: in un primo tempo ha

giustamente esteso la sua analisi all’emarginazione sociale; recentemente si è definita <<Commissione d’indagine sull’esclusione sociale>>. La Commissione di Indagine sull'Esclusione Sociale (CIES) - istituita dall'articolo 27 della Legge 328 del 2000 - ha il compito di effettuare, anche in collegamento con analoghe iniziative nell'ambito dell'Unione europea, ricerche, rilevazioni e indagini sulla povertà e sull'emarginazione in Italia, di promuoverne la conoscenza nelle istituzioni e nell'opinione pubblica, di esprimere valutazioni sull'effetto dei fenomeni di esclusione sociale e di formulare proposte per rimuoverne cause e conseguenze. A tal fine, la Commissione predispone per il Governo rapporti e relazione e, annualmente, una relazione nella quale illustra le indagini svolte, le conclusioni raggiunte e le proposte formulate.

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