contrasto alla povertà educativa minorile.
2. Le Misure di contrasto alla povertà: politiche passive e attive.
Il carattere multidimensionale della povertà richiede un’ampia articolazione delle possibili politiche di contrasto, dirette a intervenire sia sui fattori che ne determinano la comparsa che sugli effetti con una pluralità di strumenti che vanno dalla leva fiscale ai trasferimenti monetari, dalle politiche pensionistiche e di sicurezza sociale all’offerta di servizi, senza contare gli interventi sulle condizioni strutturali che generano povertà ed esclusione o gli investimenti sul terreno dello sviluppo economico[Lumino, 2013]. Una nota distinzione nel panorama di interventi pubblici, rinvia all’esistenza di un continuum ai cui estremi è possibile collocare: da un lato “politiche attive”che mirano a
62 La critica principale che si è si è delineata negli anni ’90 è stata quella di Pierson (2001). Studiando i trend di spesa sociale dei
governi britannico e statunitense, Pierson riscontrò che nel corso dei decenni più recenti tale spesa non solo non era diminuita, ma addirittura era aumentata a tassi più sostenuti della crescita economica complessiva. Sulla base di questo riscontro, la tesi principale dello studioso fu che i sistemi di welfare sono dotati di una capacità di resistenza “Resilience” al cambiamento e ai tagli, grazie a una serie dei meccanismi e processi politico-istituzionali.
63 Rappresenta un cambiamento istituzionale i cui tratti principali sono: -Presenza di vincoli (endogeni ed esogeni) che condizionano
le scelte dei decisori politici. -Interdipendenza tra scelte espansive o migliorative e scelte restrittive o sottrattive (cambiamenti “a somma zero”: se si aggiunge da una parte, si toglie da un’altra). -Spostamento dell’enfasi posta sui diversi strumenti e obiettivi delle politiche sociali sia all’interno di ciascuna politica sia fra diverse politiche (ridefinizione dei rischi, della loro gravità, delle protezioni esigibili).
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rimuovere le cause della povertà e dell’esclusione attraverso la fornitura di servizi o interventi di tipo regolativo, dall’altro “politiche passive” tese a curarne i sintomi e alleviarne le conseguenze [Martini ,1997]. Quest’ultime hanno rappresentato per molto tempo lo strumento prioritario di lotta alla povertà, soprattutto nel campo dell’assistenza sociale, concepita a lungo come il <<settore dei poveri>>[Fargion,1997 in Lumino 2013:27].
Negli ultimi decenni , i cambiamenti hanno spostato la priorità dell’intervento pubblico dalle politiche passive di mantenimento del reddito, all’attivazione e alla reintegrazione dei gruppi a rischio di esclusione. Accanto ai trasferimenti monetari tesi a garantire un minimo di risorse per la sopravvivenza, hanno acquisito un’importanza crescente gli interventi tesi a promuovere l’attivazione del destinatario, al fine di favorire il superamento delle condizioni di disagio e rendere meno probabile la dipendenza dall’assistenza[Ferrera, 2006]. La svolta risiede nel significato del concetto stesso di attivazione, attraverso il quale si enfatizza la necessità di promuovere un’assunzione di responsabilità nei destinatari delle politiche nella ricerca di soluzioni autonome e
indipendenti sul mercato del lavoro e/o in altri ambiti della vita sociale ed economica, in risposta alle difficoltà di sussistenza e integrazione sociale [Lumino, Gambardella, 2013]. Si osserva così un incremento della pressione, dai caratteri più o meno colpevolizzanti, ad uscire dalla condizione di “assistiti” e ad attivarsi nelle ricerca di un’occupazione e/o di un attività sociale. Di qui l’adozione di misure finalizzate allo sviluppo delle competenze professionali e all’inserimento lavorativo, spesso basate su un qualche tipo di contratto che impegni i destinatari ad una disponibilità al lavoro in cambio della concessione di un sostegno al reddito. Si tratta di politiche che di fatto mirano a ridurre il numero di individui in carico al welfare utilizzando la leva
dell’inserimento lavorativo [Agodi, 2009], riassunte sotto l’etichetta di welfare to work o workfare64.
L’attivazione è diventata così la chiave di volta delle politiche sociali in tutta Europa, anche se con profonde differenze nelle pratiche così come negli obiettivi. Alla base delle politiche di attivazione è possibile rintracciare, dunque, scelte culturali, politiche e finanziarie diverse. In generale è possibile distinguere almeno due tipi ideali di
64 Ad oggi non esiste una definizione univoca del termine workfare, che assume accezioni diverse nel tempo e nello spazio (Peck
1998). In questa sede, si fa riferimento a schemi o programmi che richiedono alle persone di lavorare per accedere a, o mantenere i, benefit dell’assistenza sociale, basandosi su diversi mix di obbligatorietà al lavoro e riduzione di disincentivi al lavoro.
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attivazione. Il primo: tipico del modello anglosassone, pone l’accento sul ruolo di incentivi e sanzioni da imporre ai beneficiari di misure di sostegno al reddito. La disponibilità obbligatoria al lavoro nei percettori di sussidi assume i caratteri di una contropartita degli obblighi che la società ha verso di loro e dell’indennità loro erogata [Barbier, 2003] e richiede la sottoscrizione di un vero e proprio ‘contratto’ che
subordina la prestazione alla condotta dei beneficiari. Il lavoro o l’attivazione assumono così i caratteri di una proposta che non è possibile rifiutare, pena la perdita di ogni beneficio, con l’effetto paradossale di trasformare l’autonomia , da obiettivo da perseguire a precondizione per la fruizione di diritti.
Il secondo: tipo ideale è quello universalistico, che prevede un sostegno al reddito, relativamente generoso e incondizionato. Essa mira a produrre integrazione, aumentare le competenze individuali, favorire l’empowerment, in breve aumentare le opportunità di inserimento occupazionale anche attraverso programmi personalizzati. È quello che Torfing (1999) chiama offensive workfare . In realtà come sottolinea Castel (2003; 2004), indipendentemente dagli obiettivi perseguiti, l’attivazione non è sempre possibile, o non è possibile per tutti. L’enfasi crescente posta sulla necessità di interventi di contrasto alla povertà che non si limitino al sostegno economico ma che favoriscono l’integrazione attraverso le nozioni di “progetto” o “contratto”, rischia di produrre richieste sproporzionate in rapporto alle possibilità degli individui65. Occorre poi ricordare che l’introduzione di politiche di attivazione richiede non solo la
collaborazione dei destinatari, ma anche un processo più ampio di “attivazione
istituzionale”[Van Berkel et al. 2002], ovvero un incremento delle capacità del sistema pubblico di costruire politiche volte alla partecipazione più che alla protezione dei cittadini, utilizzando a tal fine strumenti e competenze trasversali a diversi ambiti di policy. L’attivazione dei cittadini e quella istituzionale sono strettamente connesse: l’attivazione istituzionale ha specifiche influenze sul modo in cui è intesa, promossa o forzata l’attivazione delle persone che accedono ai servizi e viceversa. In altre parole, il modo delle istituzioni di governare le politiche di attivazione, e il contenuto delle medesime, si influenzano reciprocamente, con diverse conseguenze in termini di efficacia. Al di là della disponibilità dell’individuo e delle risorse che lo Stato riesce a
65Le misure di attivazione, rischiano di far leva su un “eccesso di responsabilizzazione” richiesto a soggetti in difficoltà privi delle
risorse e delle basi necessarie per poter pensare e progettare la propria esistenza in modo autonomo, con il duplice effetto di stigmatizzare i destinatari di tali politiche e di deresponsabilizzare il settore dell’assistenza.
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garantire, l’occupabilità dipende anche dalle reali possibilità offerte dal mercato del lavoro [Gazier ,2003]. Il rischio è che, in assenza di un’adeguata attivazione
istituzionale, quella dei cittadini si traduca in attività e lavori dequalificanti, mal pagati e svolti in cattive condizioni, che diminuiscono il rispetto e la fiducia in se stessi e
scoraggiano ulteriori sforzi per cercare lavoro. Solo dai poveri, infatti, ci si aspetta che siano disponibili a fare qualsiasi lavoro, indipendentemente dalle loro competenze [Saraceno, 2011:40]. L’inserimento lavorativo rischia così di trasformarsi in una partecipazione comunque marginale, precaria e inadeguata a superare la condizione di bisogno. Tra l’altro in molti casi il desiderio di autosufficienza e il bisogno di
riacquistare il rispetto di sé inducono i poveri ad accettare lavori dequalificati a qualunque condizione, con una conseguente perdita della libertà di scelta del proprio modo di vita [Morlicchio, 2012].