E. MADRUSSAN (a cura di)
Crisi della cultura e coscienza pedagogica.
Per Antonio Erbetta
Como-Pavia, Ibis, 2019, 590 p.
ISBN 9788871646121
Elsa M. BRUNI
L’Ibis è notoriamente una casa editrice italiana fra le più attente ai temi che ruotano intorno al nesso formazione/cultura. In tal senso ha dato un’ulteriore prova, dando da poco alle stampe il volume curato da Elena Madrussan. Il testo Crisi della cultura e
coscienza pedagogica. Per Antonio Erbetta
suscita più di un motivo di interesse e di meraviglia. Partiamo dal primo, la corposità delle 590 pagine che lo compongono: un atto di coraggio editoriale, che vale nel contempo come prova di resistenza, quasi di “controcultura”, nei tempi dei manuali che, fedeli alle mode e ai dogmatismi del presente, devono essere snelli, veloci, devono “arrivare subito” a informare su qualcosa!
Il libro Per Antonio Erbetta, invece, pare voler dire altro, pare già dalla sua forma esteriore avere intenzioni e consapevolezze diverse rispetto ai sentieri e ai gusti ordinariamente battuti nell’attuale panorama culturale, scientifico, accademico e persino editoriale. Si offre, infatti, come dono al lettore, invitandolo a ragionare con gli autori su argomenti che in fondo lo riguardano nella pratica quotidiana come educatore di sé, come persona che sperimenta l’esperienza di formarsi e di cambiare, di dover esserci, in questo mondo, e di farlo come soggetto di cultura. Di qui discende un secondo motivo di qualità, il suo offrire a chi lo legge un raro strumento di approfondimento, sigillo di perizia della curatrice, che non ha solo raccolto contributi vari e di autori diversi,
bensì ha composto una tessitura critica, organizzata secondo una architettura logica chiara, a garanzia di una identità sicura, di una struttura narrativa che ha senso e che dà senso al grande protagonista dell’esposizione, il soggetto vivente, osservato nella maturazione della propria esperienza formativa fra il dinamismo desiderativo di esistere e la pressione dei condizionamenti negativi. E nella volontà implicita di offrire una enciclopedia che riflette sui processi di formazione e cultura, E. Madrussan, cosa assai rara da realizzare, ha coinvolto ben quarantacinque studiosi, fra teorici dell’educazione, storici, letterati, linguisti, critici del cinema e filosofi, tutti protagonisti dell’ultimo cinquantennio della storia culturale che, legati all’intellettuale e accademico ligure scomparso prematu-ramente, realmente e idealmente, da un fil
rouge, pare qui abbiano trovato occasione per
“mettere a punto”, presentandoli, l’impronta e lo stile delle proprie personali ricerche. Ne è derivata una sorta di laboratorio formativo, di cui il lettore scorge lo spirito del pensiero in esercizio come in un climax ascendente e, per magia, si sente immerso in una circolarità narrativa che lega l’ultima parte alla prima e questa alle altre, in un gioco di rimandi e di continui ritorni, di nostalgia finale che esorta il lettore a riprendere l’odissea della lettura.
La conversazione con Miguel Bena-sayag, a cura di E. Madrussan e G. Giachery, dà avvio e prepara la trama delle sette sezioni
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o parti del volume e dei quarantatré saggi che sono per Antonio Erbetta, ossia attraversano Antonio Erbetta, la sua storia, la vasta produzione e i temi che da essa derivano e ad essa ritornano in forma aperta, sempre pronta a completarsi e rischiarirsi di riflessioni nuove e originali. Questo a mio avviso è il vero punto di forza del libro, iscritto in quel Per del titolo, che a prima vista emerge come una dedica che poi però, nel farsi delle pagine, si trasforma in qualcosa di più, in un viaggio, perché no esistenziale, in una sorta di escursione continuata nel tempo attraverso gli spazi della cultura e della formazione dell’uomo. Gli studiosi alle pagine, così, affidano il proprio pensiero in dialogo, senza mai sovrapporsi, con il lascito intellettuale di Antonio Erbetta in un filo tenuto insieme dall’intenzionalità pedagogica di E. Madrussan. E nel dialogo i nuclei tematici, che hanno caratterizzato gli anni di studio di un intellettuale di straordinaria sensibilità e ricchezza, si rinnovano e trovano nuova linfa nell’originalità dei punti di vista degli autori che ragionano con formazioni e provenienze scientifiche anche diverse. Sempre attenti a cogliere il nesso con il presente e con gli interrogativi suscitati dagli spifferi di una “crisi di cultura, molto profonda, per la quale tutto ciò che fino a qui sistematizzava le nostre vite e dava loro un senso è in crisi profonda” (p. 25). A mantenere le fila del discorso, quasi a far da prospetto delle narrazioni, gioca un ruolo-chiave la cronologia delle pubblicazioni di A. Erbetta, dal 1976 al 2010, ad introduzione generale dello scritto.
Ai giovani, alla giovinezza e ai contorni della crisi giovanile in termini pedagogici come crisi di formazione e di realizzazione umana sono dedicati i saggi della prima parte del volume, che tracciano i contorni storici e culturali dei fenomeni che fra ‘800 e pieno ‘900 hanno determinato in un crescendo inevitabilmente segnato da eventi tragici (i nazionalismi e le due guerre in primis) e da un rinnovamento di coscienze, l’affermazione di nuovi paradigmi interpretativi per comprendere la reale realtà umana,
interpretandone i bisogni e ripensando nel contempo l’operari educativo.
Dai Tempi difficili e dal ritratto della
Birkbeck Schools specchio di una essenziale
pedagogia utilitaristica, P. Bertinetti dona un’analisi della visione educativa di Dickens, il quale “aveva affidato allo humor, all’ironia, allo sberleffo elegante” (p. 38) la critica alla pedagogia dei Fatti che non lascia “Spazio alla fantasia”. Da qui, in un crescendo storico-culturale e cronologico, passando per i vari giovanilismi del XIX secolo e le trasformazione del XX secolo, vagliati dalle scienze sociali e codificati in un rigido repertorio di stili educativi, A. Cagnolati prende in esame il decennio 1960-1969 e ne ricostruisce “sotto il profilo educativo e storiografico la portata e la dimensione dell’immaginario collettivo formatosi intorno all’ondata di proteste e ribellione globale per mano dei giovani negli anni Sessanta” (p. 41), mentre S. Calvetto, confrontandosi con le fonti dell’epoca, evidenzia l’immagine del giovane restituito per un verso dalle scienze sociali e per un altro verso dalla tradizione letteraria, soffermandosi sul significato in termini di costruzione identitaria che “tra conformismo e conflittualità, l’essere giovani rappresenta lungo il XX secolo” (p. 50). Sul tema dei condizionamenti e più in generale della “radicalità della condizione umana nel dipanarsi della sua esistenza”, M. Contini rilegge le categorie della “scelta” e del “progetto”, analizzati in riferimento al tempo delle “passioni tiepide” (p. 63). E in riferimento a quei cambiamenti generati, come scrive M. Fiorucci, “dall’accelerazione dei processi migratori nel corso degli ultimi anni” (p. 75).
Nella seconda parte, che reca come titolo “Etiche dell’impegno e critica della cultura”, al centro matura l’uomo con la sua scommessa esistenziale, con quella chiamata educativa che seppur ancorata al singolo, è così inevitabilmente legata alla società. Questo processo di formazione e di maturazione compiuto banfianamente nella relazione tra l’individuo, il mondo dell’espe-rienza e della cultura, viene sottoposto a
sguardi poliedrici da otto diverse, ma intrecciate, angolazioni. L. Caronia, inseren-dosi a pieno titolo nel paradigma della ricerca fenomenologica, pone l’accento proprio sulle “radici mondane delle nostre pratiche scientifiche” (p. 92), introducendo i conse-guenti rischi di scienze, e di quelle dell’educazione in particolare, dipendenti dall’ideologia. Altro ammonimento viene da E. Colicchi che, apertis verbis, denuncia un vuoto crescente di considerazione scientifica e di studio teorico circa l’azione educativa, così che “la ricerca pedagogica rinuncia sempre più al compito –che la tradizione le consegna– di apprestare indicazioni e strumenti relativi alla direzione razionale del fare-educazione” (p. 103). Seguendo il medesimo tragitto tematico ma con approdi e con intenti - mi pare - diversi, M. Conte, forte del richiamo ad alcuni grandi classici del pensiero (da Horkheimer ad Adorno, da Benjamin a Lyotard, e a Gramsci) individua una “esperienza del negativo” che ha “offeso” l’educazione riferendola all’“efficacia immediata” e all’“apparenza assoluta” e propone di partire da questa obbligata storia di negazioni per “scorgere per attrito il compito dell’educazione, che forse è quello di mostrare ai neoliberali di oggi il significato della libertà, o meglio del liberare” (p. 122). Una pratica che M. Fabbri, nella lucida ricostruzione della storia delle idee che fu del Novecento, da Kierkegaard a Nietzsche fino a Heidegger, a Rilke, a Sartre, a Foucault e al più vicino Vattimo, lega alla filosofia, all’esercizio del nuovo pensiero, che rilegge alla luce dei tratti tipici del “tempo di crisi della Crisi” e del nichilismo imperante (p. 134). Così, “la méthode sévère” dell’intel-lettuale educatore Émile-Auguste Chartier, detto Alain, viene presentata da E. Madrussan come l’ingrediente concreto di una “filosofia della libertà” che infarcisce il compito educativo dell’insegnante e il percorso formativo nella convinzione che “imparare a pensare significava imparare ad esercitare la propria intelligenza razionale” (146) e che “lo sforzo implicito –stare in piedi– nella forma-zione della personalità non sarà, quindi, così
diverso dallo sforzo necessario ad imparare a gestire la propria presenza mondana” (p. 149). Nella crucialità del rapporto fra insegnante e allievo, al di là dell’effettiva asimmetria e resistendo ai “volti dei nuovi nemici” che “spogliano l’insegnare della sua carnalità costitutiva, degli odori e dei sudori, dei contatti epidermici e delle risonanze uditive”, in nome di quel “di più”, insegnare –ricorda R. Mantegazza– “significa anzitutto cercare di far stare bene l’altro non tanto condividendo una propria esperienza, ma permettendo all’altro di fare esperienza” (p. 159). Dalla disperazione dettata dall’attuale situazione umana, gettata in una sorta di “campo di concentramento” (immagine che P. Mottana riprende da Badouin de Bodinat), nasce la responsabilità di “pensare un nuovo impegno pedagogico e un’etica all’altezza della contingenza”. Sulla scia di una tradizione filosofica che si rifà a Nietzsche, Bergson e Deleuze e ispirato da pensatori come Sade, Fourier, Schérer, nonché dalle figure di Apollinaire fino a Onfray e Le Brun, Mottana propone un’originale e al tempo stesso sentita pedagogia vitalistica, una “pedagogia della vita intensa”, che ispiri una “gaia educazione” “con l’obiettivo di scarcerare le giovani generazioni dal contesto scolastico, di restituirle a luoghi di incontro a loro misura e realizzati con la loro partecipazione attiva” (p. 176). Al centro c’è la passione per la vita e con essa si impone la prospettiva dell’uma-nesimo planetario. C. Simonigh ci introduce nel mondo degli sguardi e delle immagini, quelli rintracciabili nel tempo e nelle forme del “secolo degli spettatori” (p. 187), per i quali “la formazione svolge un ruolo cruciale per l’acquisizione di consapevolezza circa le funzioni di medium primario che l’immagine globale svolge nella determinazione della conoscenza e della coscienza del mondo” (p. 191).
Nella costante che fa da sfondo alle riflessioni del volume, ossia in quel prezioso lavoro di ricerca che mira a comprendere l’umano in formazione nella sua pluridi-mensionalità, si presenta come illuminante il contributo di E. Bonfanti che, tra riferimenti
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autobiografici e ragioni filosofico-educative, apre la via del ripensamento di quelle zone d’ombra così razionalizzate, e mortificate, dal
logos occidentale “interrogando” il pensiero
taoista grazie al quale dimensioni, luoghi/non luoghi, come ad esempio il corpo, possono ritrovarsi nella prospettiva di recuperare o affermare nuovamente una reale unità fra l’essere umano e l’universo che lo circonda. La pratica del Tai Chi nel saggio diventa metafora di uno stile di pensiero favorevole all’ascolto di sé, alla trasformazione umana che vede il corpo in dialogo stretto con le “zone” interiori (p. 205). In questa analisi intorno alla soggettività, il caso del romanzo francese e della scrittura di Flaubert con la sua Madame Bovary costituisce una pagina riflettuta da G. Bosco per presentare l’elemento nuovo (il nouveau), rispetto al modello balzacchiano, introdotto dal romanziere francese nella storia del romanzo per cui “Madame Bovary ce n’est pas moi” (p. 209). A proporci un punto di vista antropologico tutto centrato sull’idea e sulla pratica di soggettività “che praticano l’autonomia costruttiva del proprio sé (autonomia dalla quale era stato escluso in quanto schiacciato in una presunta subalternità)” (p. 223) è M. Canevacci con le sue sfide all’antropologia contemporanea “attraverso tensioni polifoniche, dialogiche, sincretiche e conflitti comunicazionali tra
etero e auto-rappresentazione” (p. 222).
Questa stessa soggettività, fertile campo di costruzione di conoscenza e di aisthesis, riscoperta pedagogicamente grazie all’este-tica, rompe con M. Dallari, ispirato da Baumgarten e Goleman, ogni rigida normatività e ogni sterile meccanicismo per intrecciarsi nella relazione “sensibile” col mondo e farsi viatico di autoriconoscimento. Ed è questa stessa soggettività, colta insieme nella sua effettualità e dinamicità (p. 256), che affiora nella riflessione di G. Giachery “a partire dal presupposto di una ontologia insiemistico-unitaria […], che solo può realizzarsi nello spazio della polis” (p. 252), secondo la lezione di Castoriadis e di Merleau-Ponty. Lo stesso Merleau-Ponty cui
si rifà M. Tarozzi nella sua analisi intorno alla soggettività incarnata, alla riscoperta della potenza formativa del corpo come Leib e con l’auspicio dell’accoglimento della Embodied
Theory nelle pratiche educative anche formali
(p. 267). Come ad anticipare il tema della quarta parte del volume, tutta dedicata alla politica e alla cultura, meglio al loro ordito emerso in quel Novecento che, nella lucida ricostruzione storica e intensa riflessione educativa di G. Bonetta, “è stato aperto con un’utopia futurista ed è stato chiuso da una forte e contagiosa nostalgia, ovvero con una retrotopia” (p. 281). In questo tempo di nostalgie “la scuola e la pedagogia rimettono in vita una scolarità che non risponde ai fabbisogni di tutti ma a quelli di pochi” (p. 284) sui quali ricadono gli effetti negativi del “gattopardismo educativo” funzionale a “blan-dire il nuovo e promuovere il persistere del presente, meglio il tempo passato innervato nella contemporaneità” (pp. 285-286), a riproporre logiche vetero-strutturali, a depotenziare il processo formativo in una sorta di “idolatria pedagogica del talento” rispetto alla quale l’unica difesa vitalistica resta “l’auto-formazione, oggettivamente descolarizzata” (p. 296). Alla reale realtà umana, al suo esplicitarsi nella esperienza e nella relazione educativa, guarda R. Farné attraverso i Colloqui con Franco di Piero Calamandrei, che si presentano come occa-sione di scavo di una pedagogia viva innervata da istanze che vengono approfondite proprio partendo dalla consapevolezza politica dell’esperienza educativa riferita nelle pagine di una concreta, fattuale, pedagogia familiare del giurista fiorentino nella veste di papà di Franco. Sempre mossi dalla speranza di recupero della dignità, della creatività, della libertà, di ricerca di spazi per “lavorare di ‘straforo’“ (p. 314), A. Ranieri riflette sulla figura dell’intellettuale, ripercorrendo momenti della nostra storia politica e culturale, per soffermarsi sui contorni e sul ruolo dell’intellettuale oggi di fronte alle distorsioni prodotte dalla dominante glorificazione dello specialismo, del professionismo, delle discipline anche nelle
stesse realtà universitaria e scolastiche. La denuncia su una scuola che non crea uguaglianza ritorna nel saggio di L. Saragnese, che muove da Marx, dalla categoria di praxis, dalla coincidenza fra rapporti pedagogici e rapporti di egemonia, per ritrovare Gramsci e la sua idea di scuola, “nella quale la formazione dovrebbe essere pensata e realizzata secondo un principio educativo unitario, in grado di rendere l’uomo “onnilaterale” e di trasformare la “soggettività subalterna in soggettività dirigente” (p. 332).
E nell’epoca dei riduzionismi post-moderni, come scrive G. Tognon, nella logica della polarizzazione contemporanea e nel riemergere del populismo in un orizzonte deprivato spiritualmente, “la fusione tra principio borghese dell’uguaglianza e il processo accumulatore del capitalismo industriale […] introdusse nella coscienza moderna l’idea che il valore della competizione e del merito non stesse nell’impegno e nello spirito che animava i soggetti imprenditoriali, nelle intenzioni, ma nel risultato del loro sforzo, vale a dire nel valore del prodotto e soprattutto nella convertibilità dello sforzo in riconoscimento immediato” (p. 345). Contro il principio di una pedagogia emanazione della politica, contro l’idea che la riforma della società debba passare unicamente dalla riforma della scuola, contro la scuola che funzioni come una fabbrica e che pensi a selezionare i singoli “nella prospettiva della loro utilizzazione in base a una logica che è la stessa delle manifatture e delle fabbriche […] in cui c’è un controllo qualitativo che serve a distinguere i prodotti mal riusciti da quelli ben riusciti” si leva il discorso di Herbart del 1810 a Königsberg, commentato da I. Volpicelli.
Sul secondo Novecento, sul recupero-risveglio postbellico, riflettono i saggi della quinta parte, inserendosi in quella cornice di crisi del paradigma neoidealistico che inaugurò la stagione delle nuove indagini del fatto educativo che hanno inciso non poco nell’affermazione di un’attenzione tutta nuova al problema pedagogico della natura dell’esistenza. Nel solco di una inedita storia
dell’educazione, liberata dal vincolo di sola storia delle idee e attenta invece, oltre al formale, ai contesti e alle istanze etico-politiche, la sezione si apre con C. Betti e la sua personale ricostruzione storiografica e si chiude con G. Spadafora che, con una riflessione ricca di novità, non solo ripercorre la questione epistemologica della pedagogia attraverso le categorie di espropriazione e di applicazione ma soprattutto ci offre una chiave futura, l’ipotesi “di costruire un orizzonte di senso più ampio dello sviluppo formativo della persona collegando la dimensione pedagogica a quella didattica e valutativa”. A colorare lo spazio del capitolo intervengono “Testimoni e memorie” di vita e di pensiero di Antonio Erbetta: H.A. Cavallera con la brillante rilettura critica della testimonianza di Erbetta nella storia della pedagogia; B. Loré con la presentazione del
Tractatus di Wittgenstein ripensato negli anni
‘50 e ‘60 da Hadot come riacceso interesse per l’uomo e per le sue straordinarie capacità espressive; F. Panero con l’analisi sulla storia della libertà e della non libertà medievale a partire dagli studi di Marc Bloch; F. Papi con una fotografia così tanto viva da farsi ascolto di Erbetta e della sua critica alla pedagogia normativa. Un sentire, che si sposta e ci sposta altrove, “verso un’altra realtà, quella dell’immaginario nebulizzata in una dolcezza obliqua, quasi sognante” (p. 439). Così scrive G. Depretis nel primo saggio della sesta sezione, facendo da viatico a quelle inter-sezioni, innesti e relazionalità, fra le espe-rienze soggettive e le espeespe-rienze altrui, col richiamo di E. Lisciani-Petrini a Merleau-Ponty, al nuovo statuto del soggetto fino a quella, pedagogicamente ricca di suggestioni, “ontologia della carne [secondo la quale] Ogni ente è il prodotto dell’incessante interagire fra loro di tutte le relazioni nelle quali è preso e dalle quali è letteralmente ‘fatto’“ (p. 453). Segue come “méditation dans le souvenir” (p. 459) il saggio di M. Margarito sulle relazioni fra etica e linguaggio, che trovano in uno dei temi costanti, come presagio e come coscienza, dell’Inatteso scovato tanto nel “fascino dell’ignoto nel trattatello De le
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meravillie del mondo” (p. 471), presentato da
M. Milani, quanto nell’Attesa del futuro, nella Sorpresa, nell’Inatteso indagato da G. Pinciroli, fra rimandi e superamenti, da Agostino al decostruzionismo di Jean-Luc Nancy passando per Jankélévitch (p. 492).
Così F. Cambi, ragionando sull’itinerario intellettuale e sugli sviluppi del pensiero (coincidente con il piano della vita autenticamente trascorsa) dell’Amico Erbetta, rilegge magistralmente la “crisi” come possibilità, l’“ironia” come fondamento della
Bildung del neo-anthropos inquieto, il
“nihilismo” come apertura alla libertà e all’impegno (p. 508). Come la colta riflessione di R. Fadda che del tragico, essenza più profonda dell’esistenza, mette in evidenza i punti di contatto con l’azione educativa, dalla scelta al conflitto, dalla responsabilità alla libertà, dall’impegno al coraggio, dalla problematicità alla libertà, dalla morte alla vita (p. 524).
Si apre così l’ultima parte del libro: con un appello universale, un messaggio di vita, sofferto come sempre in bilico, “tragico” come una scelta dilaniante, ma comunque necessario percorso alla presa di coscienza di esserci, di volere liberamente la vita che realizza. Proprio nella libertà, come parola-chiave di una tradizione che in Erbetta trova la certezza di un protagonista fedele, si racchiude tutta la forza, oserei dire la speranza, dell’orizzonte significativo (e di senso) tracciato dai saggi di questa sezione ove, al di là di tutto, la tensione alla forma come esistere possibile (ed esser-ci) non perisce e ove scorre un’esistenza che, tra bene e male, deve essere vissuta. Come? Ironicamente! Vissuta cioè come soggetti desideranti, consapevoli del plurale, come soggetti che pensano, conoscono, sperano, criticano, costruiscono l’alternativa.
Sulla scia delle Anmerkungen zur
“Romantischen Ironie” presentate da G.
Friedrich ripercorrendo Schlegel e Adorno (p. 527); o come la cicala, quella riabilitata dal mito platonico, che, non più allegoria della pigrizia da punire come l’allievo dell’oraziano
maestro Orbilius plagosus, la sapienza di M. Gennari prende a prestito per ribadire l’innesto della conoscenza nel piacere (p. 538); o come le parodie del poliziesco mendoziano, qui presentate da M. I. Mininni, con la voce dei marginali della società che, nella lotta per la sopravvivenza, alla stessa società si rivolgono con ironia e “umorismo dissacrante” (p. 541) e per un briciolo di riconoscimento sociale indossano la “maschera del disincanto” (p. 548); o come il Bernardon della commedia viennese del Settecento di Kurz (e più tardi dei protagonisti della satira ottocentesca di J.N. Nestroy e di F. Grillparzer fino ai contemporanei Qualtinger, Bernhard e Jelinek), che sovverte l’ordine e le forme della tradizione dando libero sfogo a uno humor che, nella mescolanza comico-tragico, “mette in discussione la struttura gerarchica dell’anciem régime e ridicolizza parodiandola la tradizionale poetica del dramma di corte” (p. 553). Nel gioco fra l’ironia, che apre al tragico, e il tragico, che reclama ironia, compare il terrore ma affiora anche l’utopia: quella che G. Scaramuzza nel suo saggio riconosce in Strum, protagonista di
Vita e destino di Grossman e insieme
controfigura dell’autore che sperimenta l’orrore del male assoluto negli anni di Stalin e che vive in positivo l’essere testimone e interprete di un ideale etico-politico che, pur nella consapevolezza che mai potrà nella presente concretezza storica esplicitarsi, farà sentire la sua forza salvifica nella denuncia della realtà vissuta, con quella potenza utopica cui contribuisce fra l’altro la scelta letteraria della conclusione sospesa del romanzo. Quella parola ancora da scrivere, quel linguaggio che, lungi dal definirsi nei termini negativi del primo ‘900 con J. Conrad e Hofmannsthal, viene recuperato nel saggio di Enrico Testa nelle potenzialità proprie del dinamismo relazionale che lo sostanzia, con Lévinas ad esempio fino a Benveniste, nella inter-locuzione, nell’io-tu, nel dia-logo via via più vicino a considerare tutta la complessità della pragmaticità storica (p. 585).