• Non ci sono risultati.

1. LA LETTERATURA FRANCO-ITALIANA

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "1. LA LETTERATURA FRANCO-ITALIANA"

Copied!
27
0
0

Testo completo

(1)

1

1. LA LETTERATURA FRANCO-ITALIANA

La Geste Francor appartiene a una letteratura detta italiana o franco-veneta a causa della sua collocazione geografica: si sviluppa infatti, fra il XIII e l’inizio del XV secolo, nelle regioni del Nord-est italiano; una zona che all’epoca veniva chiamata Lombardia, dai confini molto più ampi di quella odierna, da cui la definizione meno utilizzata di franco-lombardo di Contini. Ciò che la caratterizza è una lingua le cui peculiarità possono essere racchiuse in estrema sintesi dal quel prefisso franco- che si mantiene costante in tutte le sue definizioni: una formazione di compromesso con il francese che la rende unica nel panorama letterario, una mescolanza tanto più inusuale poiché assimila sistemi linguistici sincronici e diacronici, ovvero lingue parlate e scritte a quel tempo con altre della tradizione letteraria antecedente, passata ma ancora prestigiosa. Tale ibridismo adempie, «in sede storico-letteraria, a una precisa

funzione d’intermediazione culturale»1: la letteratura franco-italiana si situa

infatti temporalmente fra il Duecento e il Quattrocento, secoli di trasformazione e forte evoluzione per l’Italia e l’Europa, e geograficamente in una zona di frontiera poiché nasce in una terra di mezzo fra gli Imperi romani d’Oriente e d’Occidente, che ha a sud-ovest gli Stati italiani centrali e a nord-est i regni germanici e francesi; un luogo di passaggio per commerci e pellegrinaggi, in cui si mescolano idiomi, popoli, religioni e culture.

Tre elementi emergono come coordinate fondamentali: la tipologia delle opere franco-italiane, la lingua in cui esse sono scritte e il loro rapporto con il pubblico, che rimandano alle funzionalità di contenuto e comunicative individuate da

1

(2)

2

Wunderli e Holtus2. Come sottolineò Rajna3, le opere che compongono questa

letteratura sono esemplari difficilmente inseribili in un genere o una tradizione, ognuno a sé stante e scritto in una variante idiomatica sua propria; vi si possono ad ogni modo riconoscere basi comuni e finalità simili. Benché essi si affianchino a quelli della tradizione francese e toscana, e fungano da tramite fra l’una e l’altra, la loro lingua non ha acquisito la stabilità grammaticale, né tantomeno un prestigio pari a quello della lingua d’oïl o del dialetto toscano. E proprio la lingua si conferma criterio determinante per lo studio e il giudizio su questa produzione letteraria, in cui forma e contenuto si dimostrano profondamente correlati, produzione che non può prescindere dal suo contesto geografico, sociale, storico e culturale, alla quale è legato un dibattito tuttora aperto. A causa del suo ibridismo linguistico e delle sue opere spesso ritenute di scarso valore questa letteratura rimase inizialmente circoscritta ad un ambito specialistico, fino alla

rivalutazione iniziata negli anni ’504. Tuttavia, come scrive Roncaglia, «nel quadro

fenomenologico della tradizione medievale una simile iniziativa di travestimento linguistico risulta in fondo meno sorprendente di quanto sulle prime possa apparire, e nel quadro storico – dell’epoca e dell’ambiente – la disinvoltura dell’empirico ibridismo dovette sentirsi incoraggiata dalla consuetudine al quotidiano contatto, alle innumerevoli occasioni di viva mescolanza tra francese e veneto nell’impero latino d’Oriente. L’importante è che qualcosa abbia dato l’esempio, e che altri lo abbia raccolto e seguito; che l’ibridismo – rivelatosi strumento efficacissimo a diffondere e popolarizzare le canzoni di gesta francesi

2

HOLTUS – WUNDERLI 2005, pp. 33-34.

3

Scrive lo studioso: «il problema a me sembra assai complesso, e capace di tante soluzioni diverse, quanti sono i casi particolari, ossia quanti sono i documenti di questa rozza letteratura», RAJNA 1956, p. 180.

4

Nonostante Bertoni affermasse fin da inizio ‘900 che «essa è costituita da un non breve periodo, che nella storia delle nostre lettere sarebbe gravissimo errore considerare, come qualche cosa a sé, indipendentemente dallo svolgimento della nostra letteratura italiana, come si trattasse di un fenomeno sporadico determinato esclusivamente da gusti e preferenze effimere del tempo»; BERTONI 1907, p. XIX.

(3)

3 nell’Italia settentrionale – si sia consolidato così da costituirsi in tradizione, sia

pure non ben definita e fluttuante nel dosaggio dei suoi ingredienti»5. La capacità

di questa letteratura di partire da una forte e consolidata tradizione letteraria per adattarla, trasformarla, ricomporla e farne di volta in volta qualcosa di nuovo, ha fatto individuare proprio nella loro «reinvenzione reiterata il vero

tratto caratteristico per eccellenza del franco-italiano»6.

1.1 LA PRODUZIONE EPICA E LA SUA DIFFUSIONE IN ITALIA

La poesia trobadorica e l’epica oitanica sono nel secolo XI le letterature più prestigiose ed influenti a livello europeo; non stupisce dunque che esse siano prese a modello e riferimento da tutti gli autori europei. La loro diffusione segue tempi e rotte diverse, e nell’area del Nordest italiano è soprattutto l’epica cavalleresca in lingua d’oïl a trovare un terreno particolarmente ricettivo7. La poesia trobadorica rimane prerogativa delle corti signorili dove, apprezzata ma non interiorizzata dove mantiene una veste linguistica corretta quanto una discreta lontananza dai temi politici, senza dare origine a fenomeni di creativa produzione autoctona. L’epopea carolingia predilige invece gli ambienti più marcatamente cittadini e borghesi, quali le città di Treviso, Verona, Padova, e poi Mantova e Ferrara e diventa un patrimonio accessibile a trascrittori, compilatori e autori più e meno abili. Sebbene la letteratura franco-italiana comprenda vari

5 RONCAGLIA 1965, p. 744. 6 HOLTUS-WUNDERLI 2005, p. 158. 7

Sulla diffusione delle chansons de geste in Italia varie supposizioni che non si escludono l’un l’altra: al seguito dei conquistatori Normanni o ad opera di giullari emigrati dalla Francia, che seguono le vie dei pellegrinaggi verso Roma e la Terra Santa, per la quale ci si imbarcava a Venezia o Brindisi, e contemporaneamente le vie mercantili verso l’Europa e l’Oriente; il Veneto e la Toscana, regioni dove la letteratura epica si deposita e dà origine ai fenomeni letterari più importanti, sono terre di mercanti e si collocano ai lati della via Francigena. Cfr. RONCAGLIA-BEGGIATO1987, pp. XIX-XXV.

(4)

4 generi, le chansons de geste costituiscono la parte maggiore del corpus dei manoscritti, e la percentuale dei testi scritti in questa lingua e di argomento epico aumenta con il passare del tempo, creando così una particolare

compenetrazione fra lingua e contenuto8. Si è anticipato nell’introduzione come

nel Medioevo il distinguere nettamente fra opere originali e traduzioni non sia possibile, poiché vi intercorrono numerose situazioni intermedie. Un saggio di Folena riguardante la traduzione dal latino alle lingue romanze nelle sue varie accezioni, permette di riconoscere alcune similitudini con quanto deve essere avvenuto a quel tempo tra il francese e l’italiano - o meglio, fra la lingua d’oïl e i dialetti italiani settentrionali- come ad esempio la distinzione fra traduzioni di tipo verticale od orizzontale: nel primo caso il passaggio avviene a partire dalla lingua più prestigiosa, nel secondo fra lingue considerate di pari livello. Tradizionalmente è il latino in posizione di predominio, dal quale si traduce verticalmente nei volgari romanzi; questi ultimi sono parificati dalla condizione di lingua derivata e non ancora codificata. Tuttavia, per quanto detto, se il francese non può essere elevato fino al livello di massima cultura del latino, si pone allo stesso tempo in una condizione di maggior prestigio, e non di equivalenza, rispetto al volgare autoctono.

Il rapporto ambivalente fra italiano e francese e i generi trattati nelle opere prodotte in quest’area emerge nelle classificazioni che sono state effettuate nel corso del tempo da vari studiosi. La prima venne realizzata a inizio ‘900 da Bertoni e ripresa più tardi da Viscardi, e quest’ultima in particolare è alla base di tutti gli studi che riguardano la letteratura franco-italiana. Entrambe le classificazioni non distinguono fra i due livelli linguistico e contenutistico, sebbene sia soprattutto il primo l’oggetto del loro interesse, ma si basano invece

8

Secondo Segre proprio alla diffusione dell’epica sarebbe da imputare la causa della nascita del franco-italiano. Cfr. SEGRE 1995/b. Si veda in proposito anche CAPUSSO 1992, pp. 217-8. Sul corpus dei manoscritti si veda il sito in elaborazione RialFrI.

(5)

5 sulla distinzione fra opere copiate, derivate, rimaneggiate o create originalmente da autori italiani e scritte in francese. Bertoni individua quattro gruppi:

I. Poemi derivati da originali francesi, per via di trasformazioni più o men gravi, di aggiunte o anche invenzioni;

II. Poemi francesi copiati in Italia;

III. Poemi pensati e scritti in francese da autori italiani;

IV. Poemi perduti, la cui esistenza è provata da fatti di diversa indole (dai quali deriverebbero le corrispondenti versioni toscane)9.

La classificazione di Viscardi li riduce a tre:

I. Testi che sono copie, più o meno inquinate di italianismi, di originali francesi, nei quali si sono introdotte, talvolta, alcune modificazioni o ai quali si son fatte delle aggiunte;

II. Poemi che sono rimaneggiamenti spesso assai liberi di testi francesi, in cui si introducono anche invenzioni nuove e originali;

III. Opere che sono creazioni originali di autori italiani che scrivono in francese e si ispirano alla tradizione dell’epopea francese10.

Alla classificazione di Viscardi è stato recentemente aggiunto da Infurna un altro gruppo: i poemi francesi che arrivarono e circolarono in Italia; spesso tralasciati benché abbiano fornito gli effettivi modelli a tutta la produzione successiva. Segre ricalca Viscardi e suddivide la diffusione del genere epico in Nord Italia in tre fasi temporali, di cui la prima vede l’alterazione della veste linguistica dei poemi francesi da parte del dialetto locale tipica della semplice trascrizione; la

9

BERTONI 1907, pp.IX-XI. L’ultimo punto prevedrebbe la consequenzialità diretta dalle opere franco-italiane alle toscane, argomento complesso che non è possibile trattare in questa sede. Cfr. anche EVERSON 2005.

10

VISCARDI 1941, pp.37-38. Da notare le scelte degli aggettivi gravi ed inquinate, utilizzati rispettivamente da Bertoni e Viscardi, a proposito delle trasformazioni e copie di originali francesi. Da tutti il Marciano XIII viene considerato come la derivazione da un’opera francese soggetta a interventi italiani, linguistici soprattutto, ma anche contenutistici di tipo aggiuntivo.

(6)

6 seconda corrisponde al fenomeno dei rimaneggiamenti che, «su temi ancora

d’Oltralpe, trasformano i poemi secondo il gusto del tempo e del luogo»11 e dove

dunque non ci sarebbe più solo un passaggio di tipo linguistico, ma si adatterebbero temi nati in un determinato ambiente alla diversa situazione di ricezione. E infine l’ultima riguarda la produzione autoctona in franco-veneto.

Altre classificazioni sono state proposte nel corso degli studi: basate su differenti criteri e finalità, esse si allargano, come nel caso di Wunderli e Holtus, a considerazioni sociali e sociologiche in cui è l’autore, o redattore o copista, ad essere al centro dell’attenzione; le competenze individuali di quest’ultimo infatti dipenderebbero da molteplici fattori quali la ricezione e il grado di comprensione del pubblico italiano, oltre a più generali fattori storici, politici e sociali. diversamente dalle classificazioni italiane viste finora, quest’ultima non formula giudizi di valore sulla lingua, ma si focalizza piuttosto sul grado di intenzionalità e sulla formazione più o meno libresca degli autori, supponendo per alcuni casi una precisa scelta linguistica da collegare al pubblico ricevente. Essa prevede quattro gruppi:

1. les textes français copiés ou créés en Haute-Italie, peu italianisés, qui reposent sur une tradition plutôt écrite et sur une connaissance livresque du français,

2. les textes français sensiblement italianisés créés en Haute-Italie dont la base est un texte français acquis oralement et mis par écrit par la suite, 3. les textes franco-italiens au sens strict, qui peuvent être considérés comme le produit littéraire artificiel d’auteurs jouant consciemment avec la langue pour en faire une langue stylisée,

4. les textes franco-italiens (souvent sans modèle ou pendant en ancien français) dont l’auteur ne cherchait pas consciemment à produire un mélange linguistique, c'est-à-dire dans lesquels l’auteur introduisit

11

(7)

7 inconsciemment des éléments italianisants dans les textes sans avoir pour but de créer une nouvelle langue qui soit un mélange du gallo-roman et de l’italien12.

In ambito non epico il prestigio letterario della lingua d’oltralpe viene confermato dalle opere Deuisament du monde, Li livres dou Tresor e Les estoires de Venise scritte rispettivamente dagli italiani Marco Polo, Brunetto Latini e Martin da Canal in corretto francese, una scelta linguistica e un atteggiamento

verso «modelli culturali e testuali di riferimento»13 ben motivati: il francese viene

visto infatti come la lingua più dilettevole e comune dell’epoca14. I due aggettivi

si rifanno alle due principali funzioni della letteratura: la capacità di intrattenimento, ovvero di essere piacevole per chi ascolta, e quella comunicativa, possibilità di intrattenimento che richiede un pubblico il più ampio possibile e che necessita di un idioma comune. Ma si è detto come la letteratura franco-italiana, in cui queste opere non rientrano, instauri un rapporto privilegiato, seppur non esclusivo, con l’epica carolingia, un genere evidentemente meno elitario rispetto a quello a cui si rivolgono i suddetti autori veneti, e per il quale il francese corretto non sembra essere ritenuto la giusta scelta linguistica. Come individuato da Wunderli ed Holtur, l’inusuale sviluppo del franco-italiano è dunque da cercare nel pubblico eterogeneo che determina la concezione e la ricezione delle opere: esso «s’incarne de tant de façons différentes – comme début de développement d’une langue littéraire dans l’élite

12

HOLTUS – WUNDERLI 2005, p.24.

13

CAPUSSO 2007, p.166. Per le opere si rimanda alle edizioni: Brunetto Latini, Tresor, a cura di P. G. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri e S. Vatteroni, Torino, Einaudi, 2007; Marco Polo, Il Milione, introduzione e note di Ettore Mazzali, Garzanti, Milano 2009; Martin da Canal, Les Estoires de Venise, a cura di Alberto Limentani, Olschki, Firenze 1973.

14

Brunetto Latini annuncia nel prologo che utilizzerà la lingua d’oil perché è «la parleure est plus delitable et plus comune a touz languaiges» (è la parlata più dilettevole e più comune tra tutte le lingue); Tresor, op.

(8)

8 culturelle d’un côté et parmi les cantambanchi sur les places publiques des petites et grandes villes de l’autre, présente à la fois dans les cercles universitaires et dans les troupes de théâtre des jongleurs et autres gens de voyage allant de ville en ville»15.

1.2 CORTI, PIAZZE E GIULLARI

Occupandosi di testi di origine, o almeno ispirazione, francese, ma che trovano il loro terreno di attuazione in Italia, è inevitabile fare una premessa non così banale come potrebbe sembrare: il pubblico a cui si rivolgono gli autori che operano alle corti signorili italiane o nelle città comunali del Trecento non è più quello delle corti feudali francesi dell’XI-XII secolo. E a loro volta gli ascoltatori italiani si succedono di generazione in generazione, di evento in evento, durante gli anni che passano fra una copia ed un’altra dei manoscritti. Cercare allora di capire quale fosse il pubblico del nord Italia del XIV secolo è utile per comprendere l’ambiente in cui i testi arrivano, si impiantano e diventano altro. Le chansons de geste nascono durante il feudalesimo francese come esaltazione dei valori della monarchia carolingia, e si presentano come presunte cronache storiche di fatti memorabili realmente avvenuti. La denominazione, parafrasabile con «racconto di un insieme di fatti realizzati da un lignaggio illustre»16 indica

15

HOLTUS-WUNDERLI 2005, p.55.

16

Il termine geste originariamente indicava infatti le azioni notevoli compiute da personaggi importanti, stabilendo una relazione fra la canzone e la storia; col tempo estende il proprio significato fino ad includere quello di famiglia e lignaggio, poiché i personaggi vengono raggruppati in un numero ridotto di genealogie. MUSSONS 1990/b, p.50 e precedenti. Si veda anche Roncaglia quando afferma che il nascere, e il diffondersi, dell’epica medievale è stato fondamentale nella formazione della coscienza europea a tutti i livelli sociali, sebbene «costituito, per la parte più cospicua, da una fantasiosa trama di leggende, dove gli spunti romanzeschi soverchiano di gran lunga gli appigli storici,ma dove pur si traduce, epicamente atteggiato entro le forme delle’ethos cavalleresco, un basilare fatto storico: la travagliata riscossa della cristianità occidentale», RONCAGLIA-BEGGIATO 1967, p.X. Sulla formazione delle chansons de geste inevitabili i rimandi ai classici GAUTIER 1866, BÉDIER 1908, MONTEVERDI 1986.

(9)

9 originariamente l’espressione collettiva di una società in cui l’individuo condivide le caratteristiche con l’intera propria famiglia e assume un significato solo all’interno di un gruppo17. La fede, l’audacia in guerra e la fedeltà al proprio sovrano sono le caratteristiche degli eroi che popolano le prime epopee come la Chanson de Roland18, paradigma epico per eccellenza. I loro rapporti sono regolati da una rigida gerarchia, fondata sulla fiducia e il reciproco aiuto fra il signore e i suoi vassalli. La società in cui si rispecchia in un primo tempo il pubblico francese ruota intorno alle figure di sovrani forti, vicari terreni di Dio, unificatori di un impero e difensori della religione cattolica. Ben diversa è la situazione italiana, frazionata in piccoli Stati e in cui le singole città rivendicano l’autonomia da imperatori stranieri, dando il via al fenomeno dei Comuni. Grazie ai fitti scambi commerciali con i Paesi del Mediterraneo e del Nord e l’Oriente, il precoce sviluppo della borghesia italiana o meglio delle strutture economiche protoborghesi19, anticipa un fenomeno che coinvolgerà tutta l’Europa; quest’ultima va mescolandosi con l’aristocrazia terriera, minoritaria nella società del Nord Italia. Fra la nascita delle opere originali francesi e la (tra)scrittura delle franco-italiane si susseguono o si sovrappongono dunque l’organizzazione di tipo feudale che nel XIII ancora prevale in Francia, un generale avvento europeo della borghesia e i fenomeni specificatamente italiani delle del Comune, della Signoria e delle prime università. A causa del differente contesto, la letteratura subisce delle notevoli modifiche e dei sostanziali adattamenti per risultare comprensibile al suo nuovo pubblico.

17

Questa concezione si evolverà e verrà meno anche in Francia, nel momento in cui acquisterà sempre maggior peso l’importanza del singolo, individualismo di cui l’Italia sembra essere per molti aspetti un precursore. Le differenze dai primi testi diventeranno tali con il passare dei secoli da far coniare ai filologi moderni il termine di chanson d’aventure, utilizzato anche per il Macaire, sottolinea il passaggio di genere avvenuto. Cfr. KIBLER 1984 e il capitolo 5.

18

Si utilizza l’edizione con testo a fronte a cura di Mario Bensi, La Canzone di Orlando, trad. di Renzo Lo Cascio, introduzione di Cesare Segre, BUR 1985.

19

(10)

10 Fra il testo e il pubblico che ne fruisce esiste un legame reciproco ed indissolubile che diventa tanto più rilevante in un contesto quale poteva essere quello medievale, dove inizialmente i testi venivano perlopiù recitati al pubblico eterogeneo di una corte o di una piazza. Se quest’ultima ha carattere più popolare, la prima può contare su una cultura generalizzata, ma entrambe vedono l’adunarsi di persone diverse accomunate da un tempo e da un luogo. La varietà di una piazza si può facilmente immaginare, per quella dell’ambiente delle corti signorili si prende ad esempio ancora una volta la signoria feudale dei Da Romano all’inizio del XIII secolo e la loro amministrazione: al loro servizio, come personale con mansioni di diritto pubblico, c’erano vicedomini, visconti, gastaldi, villici, capitani; e ancora giudici, assessori e banditori. Persone dunque con ruoli, competenze e gradi di cultura molto diversi.

Oggi è impossibile sapere con certezza assoluta quale fosse il pubblico intenzionale della maggior parte dei testi franco-italiani, poiché mancano dichiarazioni in questo senso dei loro trascrittori-copisti-autori; quello che a distanza di sei, sette secoli, continua a leggere tali opere è sicuramente un pubblico effettuale che porta con sé il proprio bagaglio culturale, che interpreta con sguardi nuovi e spesso anacronistici, e vi trova nuove esperienze legate a

tempi diversi20. Se i lettori di oggi possono interpretare ma non più modificare il

testo, ben diversa è l’interferenza che può aver invece avuto il pubblico anteriore o contemporaneo alla stesura delle opere franco-italiane, effettivamente in grado di condizionarle fortemente. Scrive Vàrvaro: «quello che viene da noi considerato, con indubbia sottovalutazione, leggendario, finiva allora per avere

20

I termini di intenzionale ed effettuale sono utilizzati da Krauss per distinguere rispettivamente il pubblico previsto dal progetto dell’autore e quello che effettivamente ascolta o legge l’opera, che non corrispondono necessariamente, anzi«il rapporto tra pubblico intenzionale e pubblico effettuale può addirittura subire notevoli sfasature: il pubblico intenzionale originario può perdere il contatto con un certo genere a lui destinato e una frazione del pubblico effettuale può arrivare a costituirsi come un nuovo pubblico intenzionale, piegando gradualmente il genere alle sue esigenze», KRAUSS 1980, p. 5.

(11)

11 conseguenze sensibili sui comportamenti reali, ne determinava la stessa possibilità e li dotava di senso e di valore. [La letteratura] diventa un fattore da tenere nel dovuto conto nel comportamento politico concreto dei gruppi e delle collettività. […]il discorso letterario ha una propria intrinseca evidenza che si

riproduce nel comportamento dei lettori: lo determina e lo produce»21. Una

letteratura che influenza la storia, o viceversa, in un rapporto reciproco di cui è difficile determinare la causa e l’effetto, una storia che crea letteratura e vi si trasforma: citando Calvino, nell’introduzione al suo Orlando Furioso, «nell’immaginazione dei poeti – e prima ancora nell’immaginazione popolare – i fatti si dispongono in una prospettiva diversa da quella della storia: la prospettiva del mito»22. Una compresenza fra passato23, presente e futuro che travalica i limiti cronologici della storia si attua così grazie alla letteratura. In cui i suoi fruitori sono liberi di vedervi quel che sono stati, ciò che ora sono e quanto potrebbero ancora essere.

Un’autocoscienza letteraria richiede un livello di cultura che nell’alto Medioevo si

indirizzava quasi esclusivamente ai religiosi24. Tra la fine dell’XI e il XIII secolo, la

classe dirigente è bisognosa di nozioni di diritto, retorica e grammatica25,

21

VARVARO 2004, p.262. Si veda anche Roncaglia quando scrive: «Non si tratta di creazione collettiva; ma di consenso e di confronto collettivo all’iniziativa individuale, e in tal senso appunto, per gli sviluppi ciclici dell’invenzione creatrice, il peso della collettività è determinante, il pubblico non conta meno dell’autore», RONCAGLIA-BEGGIATO 1967, p. XII.

22

Italo CALVINO, Introduzione a Orlando furioso di Ludovico Ariosto, Mondadori, Milano 1995.

23

Nel caso della situazione medievale non si deve dimenticare il livellamento totale a cui andava incontro la tradizione letteraria del passato, in cui ogni distanza temporale viene addirittura annullata e un testo del secolo precedente e l’Eneide di Virgilio vengono a trovarsi sullo stesso piano.

24

Il periodo dopo il crollo dell’Impero Romano aveva visto il declino delle scuole laiche e lo svilupparsi di quelle ecclesiastiche, grazie alle quali l’istruzione era diventata accessibile alle persone più umili mentre ne rimaneva invece esclusa gran parte della classe più ricca, creando così rispetto all’antichità un inedito divario fra ricchezza e cultura e creando viceversa una corrispondenza fra cultura e appartenenza ad un ordine religioso. Cfr. AUERBACH 1960.

25

Vàrvaro, occupandosi del passaggio dal latino alle lingue romanze, e del pubblico dei testi di questo periodo di transizione, mette in guardia da una rigida schematizzazione che non corrisponde alla realtà

(12)

12 richiede dunque un’istruzione che risponda ad esigenze di carattere giuridico-pratico. Nascono pertanto i primi insegnamenti di diritto, offerti per primi in Europa dall’Università di Bologna, fondata nel 1088. Il raggiungere il livello universitario implica inoltre anche tutti i gradi d’istruzione precedenti, per frequentare i quali è richiesta una buona disponibilità economica, salvo casi

speciali;26 dunque la cultura diventa laica e più diffusa, ma la ricchezza costituisce

ancora un’importante selezione fra le classi che possono accedervi. Una conseguenza della creazione di un polo universitario è la grande mobilità studentesca, che portò a vere e proprie migrazioni dalle città della Marca Trevigiana verso Bologna, e viceversa da Bologna verso Vicenza nel 1204 e verso Padova nel 1222, dove diede origine alla fondazione di un’altra prestigiosa

università. Per quanto differenziato27 il ceto notarile costituisce un nucleo

abbastanza omogeneo: diventa il nuovo pubblico laico ed è finalmente in grado

medievale: «Abbiamo dato per scontato che il pubblico sia un fattore stabile, che i litterati in quanto tali siano predestinati ad essere il pubblico della letteratura latina, del passato o del presente, e che gli illitterati siano passivamente il pubblico di forme tradizionali, volgari e comunque valutate da loro stessi come di minor valore. La grande novità del XII secolo, in momenti diversi nei diversi paesi, è però la formazione di un pubblico letterario nuovo, ignaro di latino ma non privo di coscienza di sé. I litterati non erano una classe. Se nella tarda antichità essi in parte coincidevano con la classe alta, questo non era stato più vero già nei regni germanici del tardo antico. Chi studia nel nostro periodo non è più chi dispone delle risorse per assumere un grammatico ma chi viene destinato alla carriera ecclesiastica, quale che sia la sua origine. Spesso si tratta di persone di livello sociale alquanto umile, dei poveri che trovano la via di un riscatto sociale. Il potente laico in genere non studia, non sa leggere, non conosce il latino: dal punto di vista culturale è allo stesso livello del suo contadino» VARVARO 2010, p. 247.

26

Una scuola di grammatica laica a Treviso è accertata da fogli in cui sono annotati gli studenti in regola o meno con il pagamento delle rette, e a Bassano sono conservati statuti che regolavano l’istruzione elementare gestita dal comune intorno alla metà del Duecento. Arnaldi sottolinea inoltre il fatto per il quale «se impartito da un maestro fuori dell’ordinario, un insegnamento di grammatica o un qualsiasi altro insegnamento di livello elementare – non importa se laico od ecclesiastico, pubblico o privato – poteva allora travalicare i propri limiti originari e venire a costituire un elemento di attrazione per una scolaresca molto più ampia e diversificata di quella, esclusivamente locale, cui era dapprima rivolto»; ARNALDI 1976, pp. 360-2.

27

Come scrive ancora Arnaldi: «la formazione letteraria di un notaio della Marca Trevigiana nel XIII secolo poteva oscillare fra i due estremi di una solida preparazione di tipo preumanistico-retorico27 conseguibile in una buona scuola, e di un imparaticcio mal digerito, a disposizione di ciascuno sulla porta di casa, come la bottiglia del latte»; ARNALDI 1976, pp. 367-368.

(13)

13 di partecipare alla vita pubblica della propria città. Al governo cittadino in cui avanzano i nuovi professionisti si affiancano le gestioni di potere ancora in mano alle potenti famiglie aristocratiche, non necessariamente in netto contrasto come spesso si ipotizza: è probabile che autonomia comunale e giurisdizione

signorile si sovrapponessero senza escludersi reciprocamente28. Gina Fasoli

prende ad esempio per l’atteggiamento dei nobili della zona la famiglia dei Da Romano, la più rilevante in questo periodo tanto sotto il profilo storico quanto quello letterario: essi mantengono giullari e trovatori, che vengono ben accolti come ambasciatori di cultura nei castelli del contado e nei palazzi signorili delle città della Marca, «graditi alle dame, protetti e ben ricompensati dai signori, che acquistavano gloria alla loro casata con il loro mecenatismo e trovavano spesso nei trovatori dei preziosi difensori della loro politica e delle loro azioni o dei divulgatori delle loro idee, e bene accetti a tutti gli ambienti di corte per l’interesse che suscitavano coi loro canti e per le notizie che portavano dai castelli e dai territori che avevano visitato»29.

28

Un legame quello fra i Signori e i cittadini ambiguo e contradditorio, spesso intrecciato e scambievole. Risulta semplicistica infatti una contrapposizione di classi che nella realtà spesso si mescolarono o assunsero mille sfumature diverse secondo i luoghi. Una logica d’interesse locale può aver portato i Signori ad assecondare il movimento comunale, viceversa la cittadinanza dotata di potere venne a intrecciarsi ai nobili attraverso concessioni, rapporti di varia natura e politiche matrimoniali. La logica mercantile e di scambio economico caratterizza la borghesia e non resta estranea all’aristocrazia, che ne vede i risultati. Alcuni nobili saranno stati ancorati ai propri privilegi, vestigia di un passato prestigioso, «ma altri – e forse erano i più – erano consapevoli del mutare dei tempi e dell’ambiente» che li circondava. Fasoli conclude affermando che la signoria feudale non era quella cappa oppressiva che si tende spesso a vedere in un’ottica di valorizzazione delle forze popolari che la avversarono, ma che spesso nella realtà effettiva e non ideologica, trovavano proprio nelle signorie una possibilità di sviluppo. FASOLI 1963.

29

BONI 1963, p. 164. I Da Romano ebbero presso la loro corte trovieri e trovatori francesi e italiani, fra cui il famoso Sordello da Goito. D’altra parte le vicende politiche di questa famiglia nella prima metà del XIII secolo accentuarono il ruolo in letteratura non solo come promotori, ma anche come oggetto di critica nelle opere dei loro oppositori: Ezzelino III e suo fratello Alberico governano per vent’anni proprio nella Marca Trevigiana, sottoponendola a un regime di terrore e repressione; così verranno raffigurati in molte cronache dell’epoca e si vedrà nel capitolo successivo come essi compaiano probabilmente anche nel Marciano XIII.

(14)

14 Chi si rivolge a una piazza o ad una corte del Nord-est italiano può allora trovarsi davanti aristocratici proprietari terrieri, ereditari di una tradizione cavalleresca e di privilegi nobili, i borghesi, nuovi ricchi e nuovi colti, notai, giudici, mercanti, banchieri ed artigiani nonché un popolo minuto – quest’ultimo ancora escluso da cambiamenti rilevanti e relegato a una condizione di inferiorità sotto tutti gli aspetti. Essi non sono necessariamente francofoni anche qualora abbiano un discreto livello di istruzione. Sebbene il nuovo ceto della borghesia possa essere all’origine di evoluzioni di contenuti e stili già delle opere francesi, le cui prime

erano invece nate in un ambiente «socialmente e culturalmente elevatissimo»30,

la sua formazione in Italia è precoce, la sua partecipazione politica inusitatamente rilevante: la classe intermedia chiede di essere protagonista della sua epoca e crea un proprio governo in alternativa a quello legittimato dall’imperatore, rispetto al quale si pone in contrapposizione. Si creano delle leghe a protezione dei propri interessi, aristocratici o popolari, che fuoriescono dai confini cittadini e portano, utilizzando anacronisticamente un termine moderno, ai partiti di guelfi e ghibellini, cause di rapidi ribaltamenti di governo e sanguinose guerre civili. Può risultare indebito considerare tutto ciò retroscena storico di testi di cui l’origine rimane nebulosa, ma costituisce sicuramente il contesto di ricezione di tali componimenti, poiché ne hanno fatto esperienza i loro ascoltatori. I richiami dell’autore della GF al suo pubblico per ricordargli periodicamente che cose incredibili a dirsi son sul punto di accadere, sono numerosi e potrebbero essere l’indizio di una produzione giullaresca:

Da qui avanti se renova la cançon: Mais non fo tel oldua par nesun hon31

30

Cfr. RONCAGLIA-BEGGIATO 1987, p. XV.

31

ROSELLINI 1986, vv.13431-2: «Da qui in avanti in rinnova la canzone:/ mai non ne fu udita una tale da nessun uomo». Si vedano anche le ricorrenze dei versi entender e oldir che letteralmente fanno riferimento a qualcosa che dev’essere ascoltato: basti qualche esempio «Or entenderés la fin des roman» (v.13476,

(15)

15 Perché quest’ultimo resti ad ascoltare, e lasci soddisfatto del denaro al termine della rappresentazione, l’intera opera è riadattata ogni volta secondo le esigenze e si lega a una pratica orale ripetuta e mai identica. Tuttavia tali appelli ad “ascoltare” entrano presto nella consuetudine letteraria e vengono utilizzati anche in testi concepiti fin dall’inizio per la sola lettura. Pertanto anche le formule del Marciano XIII potrebbero essere un semplice residuo delle opere che vi vengono riunite e trascritte e non indicare necessariamente una sua recita, che si dovrebbe in ogni caso immaginare suddivisa in più momenti data l’ampiezza del ciclo. È probabile che il codice veneziano nasca piuttosto come antologia da cui trarre delle parti da leggere, o a cui eventualmente ispirarsi per nuove composizioni. Anche l’utilizzo delle lasse rimate e delle formule stereotipate sono trucchi ideati per una memorizzazione facilitata indispensabile per una

recita orale32; ma come nel caso delle formule succitate, essi vengono trasposti

nella produzione scritta e non sono indizio certo dell’origine orale o scritta della GF. Renzi cataloga i testi franco-italiani come opere da attribuire certamente ai giullari e che solo in un secondo momento sarebbero state trascritte nei codici signorili in cui si può leggerle oggi. Secondo lo studioso, i testi, pur mantenendo un valore artistico non potrebbero però essere inseriti in una più prestigiosa tradizione scritta di destinazione elitaria; se questa fosse stata la loro

destinazione infatti sarebbero stati in corretto francese33. Ne trae la conclusione

«Ora ascolterete la fine del romanzo»), «Segnur, or entendés e siés certan» (v. 13646: «Signori, ora ascoltate e siate certi»), «Cun vos oldirés, se serés atendan» (v. 13677: «Come voi udirete, se sarete attenti»).

32

Sull’origine orale e scritta delle chansons de geste è stato detto molto nel corso degli studi passati, senza giungere a una conclusione definitiva. Fra la vasta bibliografia inerente a questo argomento ci si limita qui a rimandare ai già citati lavori di MONTEVERDI 1986, RYCHNER 1986 e BÉDIER 1908. Gli stratagemmi stilistici dell’epica medievale sono stati visti da alcuni, sulla base dell’analogia con un’epica ancora trasmessa oralmente nei Paesi Balcanici, come la dimostrazione che questa letteratura nasce nelle piazze ad opera ad opera di novelli aedi in grado di ricordare o all’occorrenza improvvisare dei testi su argomenti topici.

33

È il caso per esempio di Les Estoires de Venise di Martin da Canal, del Milione o Devisement dou monde di Marco Polo e Rustichello da Pisa33, e del Tresor di Brunetto Latini, opere che non rientrano nel genere epico e per le quasi si è parlato di un francese abbastanza corretto.

(16)

16

che il «franco-lombardo concerneva l’epica, genere dei giullari per eccellenza»34,

dai quali la lingua era manipolata in funzione di una maggior comprensione da parte del pubblico. L’apertura a un uditorio più variegato è la causa più comunemente accettata dai filologi moderni per giustificare questa strana miscela; ci si sente qui di escludere l’ipotesi di una grande ignoranza del copista perché contraddetta dalla cultura delle opere francesi, da un’abilità scrittoria di un certo livello e da un accoppiamento sinonimico di termini francesi ed italiani che rivela la conoscenza della forma e del significato di entrambi. La trascrizione in codici ne prova ad ogni modo un’uscita dai confini della recita giullaresca, anche qualora ipotizzandovi l’origine, e una loro accoglienza da parte dell’élite delle corti settentrionali italiane, il cui gusto eclettico spaziava fra i generi più disparati; le versioni franco-italiane delle geste erano effettivamente popolareggianti, ma ciò che conta che a popolarle siano gli eroi carolingi, veri e propri mediatori culturali fra i vari strati sociali, riconosciuti e amati da tutti. La prima testimonianza sui giullari che cantano di gesta francesi risale al 1288 ed è riportata da Lovato Lovati, il quale rimase colpito a Treviso da un cantastorie che raccontava delle gesta dei paladini in un francese storpiato, cosa di cui il popolo che pendeva dalle sue labbra non sembrava preoccuparsi. Dello stesso anno è un bando di Bologna contro i cantori di gesta francigene che intralciavano la circolazione creando degli assembramenti di persone. Fatti che confermano

34

RENZI 1986, p. 583 e ss., quando scrive: «testi del tipo V4 e V13 siano legati alla trasmissione giullaresca, anche se i codici sono da lettura e signorili, è provato con evidenza». Anche Roncaglia, a proposito di V4, conferma che esso «non ha di certo la veste di un modesto codicetto giullaresco». I codici V4 e V13 corrispondono rispettivamente alla Chanson de Roland e alla Geste Francor. I due codici sono spesso accomunati perché visti come tra i pochi del gruppo dei manoscritti marciani effettivamente scritti in lingua franco-italiana ed appartenuti alla biblioteca ducale di Mantova. Si veda ancora Renzi, con le debite riserve, quando afferma che «quanto è stato scritto in franco-lombardo doveva essere dedicato alla massa cittadina: era letteratura per tutti. il suo accoglimento in bei codici, come quelli dei Gonzaga di cui si è detto, si deve ritenere posteriore; e mostra comunque una convergenza di due strati culturali che, per la mediazione di Carlo magno e di Rolando, personaggi universalmente amati, non ci meraviglia. La cultura cortese delle corti settentrionali si segnalava per la larghezza dei gusti, per la mancanza di ogni purismo linguistico, per l’entusiasmo un po’indiscriminato della lettura»; RENZI 1986, p. 570.

(17)

17 con certezza la diffusione a livello popolare delle storie dei paladini di Francia, e ne tramandano l’immagine di una trasmissione orale legata alla recita, in una lingua che non è riconosciuta come corretto francese da chi ha un livello superiore di cultura. Eppure, o forse proprio per questo, la narrazione viene compresa da chi la ascolta. I filologi che imputano queste deformazioni non tanto a una comune cultura, quanto piuttosto a un’ignoranza condivisa, affermano infatti che l’autore non si preoccupa dei propri errori, sicuro del fatto che non

saranno oggetto di biasimo e disprezzo da parte del suo pubblico35 che non è in

grado di riconoscerli. Il mestiere di giullare presupporrebbe allora una cultura limitata, a cui contrapporre quella latina dei chierici; in realtà questa figura non corrisponde a una precisa classe sociale e a una determinata educazione, ed è difficile dire cosa egli conosca oppure no. Non ci sono prove certe che l’autore del Marciano XIII conoscesse i classici latini, come invece è stato appurato per alcuni dei suoi colleghi grazie a precisi rimandi letterari; sicuramente conosce le opere francesi a cui si ispira per comporre i suoi rimaneggiamenti e dimostra una certa abilità nel raggrupparle omogeneamente. Al di là di come venisse effettivamente utilizzato il testo pervenuto al giorno d’oggi, la letteratura epica in generale, e quella franco-italiana in particolare, grazie alla struttura in lasse monorime, all’uso di personaggi fissi e di topoi letterari da rendere di volta in volta attuali, si presta alla ripresa e alla modifica: la «narrativa versificata epico-romanzesca era per così dire geneticamente predisposta ad un continuo rifacimento, come già dimostra la tradizione manoscritta dell’area originaria, piattaforma di lancio per la profonda dinamica innovativa che caratterizzerà

molte opere franco-italiane del Trecento»36.

35

MONTEVERDI 1961, p. 27. Nel sostenere questa ipotesi Monteverdi si affianca a Rajna nel delineare ancora una volta il ritratto di autori che vorrebbero scrivere nella lingua originaria delle chansons, ma ne sono più o meno in grado e che sono più o meno consapevoli di quanto stanno realizzando.

36

(18)

18 Ma «gli autori delle canzoni di gesta avevano non soltanto una personalità poetico-letteraria, ma anche una personalità politica propagandistica: la chanson de geste était poésie militante; e tale qualità li ha guidati, non meno della fantasia, nei loro interventi a modificare i ricordi del passato per adattarli ai

sentimenti del presente»37. Come si è detto infatti la chanson de geste nasce con

il preciso intento di esaltare i sovrani carolingi che hanno da poco spodestato la

dinastia merovingia38. È dunque un genere fortemente connotato politicamente

al momento della sua nascita, un aspetto che in parte si mantiene anche nelle chansons francesi tardive e le opere trasposte in altri Paesi europei. Krauss, parlando della letteratura franco-italiana, afferma che essa è il suo adattamento non riguarda solo la lingua e le modalità di comunicazione, «ma anche e

soprattutto il contenuto e l’ideologia che in esso si manifesta»39: secondo lo

studioso tedesco infatti nel riscatto di personaggi popolari bisogna leggere il riflesso del pubblico borghese italiano. È una teoria che non si può condividere pienamente perché la borghesia trecentesca non comprende quei ceti popolari

37

RONCAGLIA 1970, p. 297.

38

La carriera politica dei Carolingi ha inizio con Pipino il Vecchio, maestro di palazzo del re merovingio Clotario II e incaricato di tutta l’organizzazione della corte franca, e Arnolfo, vescovo di Metz e precettore del figlio di Clotario. Sono i personaggi più influenti della corte franca del VII secolo e il matrimonio fra i figli di Pipino e Arnolfo segna l’inizio dell’ascesa di questo lignaggio, il cui primo passo è di rendere la carica di maestro ereditaria, così da disporre del patrimonio fondiario reale a fini privati. Figura fondamentale è Carlo Martello, che nel 732 guida l’esercito franco nella decisiva battaglia di Poitiers, la cui vittoria segnò il termine dell’espansione islamica in Europa. Ormai dimostrato il ruolo predominante del maestro di palazzo rispetto al sovrano, il passaggio di potere viene ufficializzato nel 751 dalla deposizione del merovingio Childerico III ad opera del figlio di Carlo, Pipino il Breve. Per legittimare la presa del potere la dinastia carolingia ricorre all’autorità del Papa, da cui viene consacrata in cambio di un’alleanza a difesa degli interessi della Chiesa, minacciati soprattutto dai Longobardi. I nuovi sovrani si preoccupano da subito di dare una forte impronta cristiana al proprio governo che li distingua dai pagani predecessori merovingi, i quali furono condannati a una vera e propria damnatio memoriae, operata dagli storiografi che operano alla corte carolingia all’inizio del IX secolo e che li presentano come re imbelli e incapaci di guidare il proprio popolo. Viceversa, i nuovi re vengono esaltati per la loro moralità religiosa e il grande valore militare, nella fortissima campagna di espansione svoltasi durante l’VIII secolo sotto la guida prima di Pipino, quindi di suo figlio Carlo Magno. Cfr. MONTANARI 2002, pp. 57-65.

39

(19)

19 che effettivamente si vedono emergere nel corso della GF, e il cui apice è rappresentato dal boscaiolo del Macaire. Un’opera che voglia raggiungere il maggior numero possibile di persone, eventualmente per veicolare un messaggio più o meno politico, deve saper rivolgersi anche a chi conosce solo le lingue volgari, una cultura che sottintende una differente visione del mondo, e tener conto della forte componente femminile emergente, già segnalata nell’accoglienza riservata ai trovatori; proprio loro, prive di studi latini,

adotteranno il francese come loro lingua d’élite40. Una consapevolezza del

proprio pubblico intenzionale si esprime invece chiaramente nella dichiarazione di intenti dell’ultimo autore franco-italiano, Raffaele da Verona: il suo Aquilon de Bavière è in gradi di annullare le differenze fra gli ascoltatori proprio grazie all’utilizzo della lingua ibrida

e pour caver melanconie e doner dellit e giogie a ceus che unt giantil coragie, l’ai redute in lingue che pora esre intandue da homes e da dames literés e non literés41.

1.3 UNA LINGUA LETTERARIA

Si è visto come nel XII secolo il francese, grazie alla sua letteratura, goda di un prestigio indiscusso in tutta Europa: anche chi non è Francese lo considera superiore. Le sue opere hanno superato ampiamente i confini “nazionali”,

40

Si rivolge a queste categorie già Dante nel Convivio, nel tentativo di coinvolgere «principi, baroni, e cavalieri, e molta altra nobile gente, non solamente maschi; ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua (l’italiano), volgari e non letterati»; cfr. Dante Alighieri, Convivio, in Le opere di Dante. Testo critico

della Società dantesca italiana, a cura di M. Barbi, E.G. Parodi, F. Pellegrini, E. Pistelli, P.Rajna, E. Rostagno,

G. Vandelli, Firenze 1960, I-IX, p. 158.

41

Trad.: «e per togliere la malinconia e donare diletto e gioia a coloro che hanno animo gentile, io l’ho ridotta in una lingua che potrà essere intesa da uomini e donne letterati e non letterati», Raffaele da Verona, Aquilon de Bavière, roman franco-italien en prose (1379–1407). Introduction, édition et

(20)

20 raggiungendo l’area iberica, l’Italia, i regni germanici e il nord Europa, dove fungono da modelli imprescindibili per chi voglia cimentarsi nel campo letterario. Tuttavia nel Nord Italia (e per motivi diversi in Inghilterra) non è solo la letteratura ad essere presa in prestito, ma la stessa lingua: in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna essa infatti non entra in competizione con idiomi locali, bensì viene a colmare un vuoto. A differenza di quanto avviene nelle altre zone di influenza infatti, il francese qui si presenta come l’unica possibile lingua letteraria e la dimostrazione più evidente è nella creazione di opere originali scritte in francese da autori italiani. Gli autori come i suddetti Marco Polo, Martin da Canal e Brunetto Latini che scelgono di usare il francese dimostrano di esserne perfettamente in grado. Si ripresenta allora il problema di quale sia la cultura degli scrittori in franco-italiano: sono più ignoranti dei primi o perseguono finalità diverse? Il franco-italiano infatti sembra instaurare con il francese un contatto intimo e agonistico42, in cui la lingua originaria dei modelli è quella in cui si sono conosciuti e per la quale si prova un qualche rispetto letterario. Di più, introdurre termini francesi nella narrazione, sembra garantirle un’attestazione autoriale, un aspetto fondamentale in quest’epoca, nonché un tocco di esoticità. Al tempo stesso però, per tutte le ragioni elencate finora, e per un pizzico di orgoglio di chi vuole creare qualcosa che sia suo, può farsi strada il dialetto locale da affiancare o mescolare al punto da creare neologismi morfologici. Dunque «la libertà, come talora la letteralità, della traduzione, può essere oppostamente motivata: per ragioni intrinseche di trasmissione e attualizzazione del significato contro gli impacci e i tranelli del significante, in base al principio che non si traducono parole ma frasi e contesti; oppure per un interesse formale, che punta sulla emulazione o sulla trasposizione analogica del significante. A queste opposizioni si aggiunge nel Medioevo, con un peso determinante, quella del livello di

42

(21)

21 prestigio e di dignità grammaticale e retorica del vario rapporto fra le lingue e le culture, verticale e orizzontale»43.

Ma il francese corretto richiede una buona conoscenza della lingua e un livello di cultura abbastanza elevato. Difficilmente la lingua letteraria corrisponde alla lingua parlata utilizzata quotidianamente, a meno che non si ricerchi espressamente tale effetto, una distanza che era tanto più ampia nella situazione medievale di gerarchia linguistica stratificata. Per far sì che queste storie si rivolgano effettivamente a una porzione più ampia di popolazione si sceglie allora di utilizzare il franco-italiano, una koiné creata allo scopo di raccontare delle storie per le quali il dialetto dell’uso comune non risultava consono, e che più in generale faticava a ottenere un qualsiasi riconoscimento scritto44. Essa tenta di affiancare e sostituire il latino, il francese parlato e il francese antico letterario, nonché il toscano e i vari dialetti settentrionali, divenendo secondo Segre la sola lingua letteraria di questa area. Si vedano i cinque punti che egli porta a sostegno della sua teoria:

1) esiste un gruppo piuttosto ampio di tratti fonetici che si riscontrano in tutti o nella maggioranza dei testi franco-veneti; essi sono spesso il risultato di fenomeni di “interferenza”, cioè di adattamento e combinazione di sistemi fonomorfologici; 2) il tipo di dialetto veneto è solo di rado localizzabile, e anzi sembra di riscontrare un afflusso di elementi dialettali non omogenei, pur se di area veneta; i non rari friulanismi rientrano nella situazione linguistica del tempo, specialmente nella zona trevisana;

3) nel franco-veneto sono frequenti i tratti toscani (italiani), spesso fonomorfologici, talora anche lessicali; e non mancano latinismi: sono indizi di uno sforzo di letterarizzazione, agli antipodi di una mescolanza casuale;

43

RUGGIERI 1966, pp. 79-82.

44

A questo proposito si legga quanto scrivono Stussi e Pellegrini parlando dei dialetti settentrionali, per i quali «la ricostruzione della situazione linguistica del Veneto e regioni finitime all’epoca di Dante, qualora debba essere presentata con ricchezza di particolari e precisione di aree, incontra varie difficoltà se s’intenda cogliere soprattutto le caratteristiche del linguaggio popolare, cioè della lingua d’uso che sovente contrasta, o non coincide interamente, con la scripta», PELLEGRINI – STUSSI 1986, p. 428.

(22)

22

4) anche in testi composti o diffusi fuori dei confini del Veneto, la mescolanza di francese e veneto (non, poniamo, lombardo o emiliano, salvo tracce labilissime) viene mantenuta, come se ormai questo linguaggio fosse accettato “ufficialmente”; 5) lo stesso linguaggio di koinè viene impiegato dagli autori di opere originali; essi talora, ma non sempre, si accostano maggiormente al francese letterario, ma in complesso si mantengono, con la coerenza e il gusto assenti nei copisti più rozzi, sulla linea della koinè franco-veneta.

Attraverso l’esclusione di tratti spiccatamente municipali e con la latinizzazione di alcuni fenomeni, essa tenterebbe di risolvere la diatopia linguistica, offrendosi come lingua interregionale di comunicazione fra persone provenienti da luoghi diversi. Tuttavia, essa rimarrebbe limitata all’ambito letterario, lasciando dunque insoluta la diastratia, poiché rivolta esclusivamente a gente di cultura. Poiché il dialetto per tutti e il latino e il francese per i più colti soddisfano già pienamente le esigenze comunicative, la koinè viene ristretta al campo letterario e in particolare a quello dell’epica che voleva rivolgersi a tutti. Da una ricezione uditiva passa successivamente alla sola lettura silenziosa, modalità secondo la quale verrebbero concepite le opere franco-italiane più tarde, la cui prova si avrebbe nella «ricerca di rime perfette anche a scapito di qualunque “grammaticalità”, francese, veneta, franco-veneta o italiana», per le quali lo

studioso arriva a usare la definizione di «rime per l’occhio»45.

Se è stato possibile creare una tale lingua, è dovuto al fatto che in queste regioni il francese non risultasse del tutto incomprensibile, anzi, è probabile che

apparisse come una variante prestigiosa del proprio dialetto46, dal momento che

la morfologia del veneto si avvicina molto a quella dei dialetti galloromanzi. È il fenomeno definito da Vàrvaro come commutazione e che si distingue sia dalla traduzione che dalla trascrizione: una infatti prevede un passaggio fra due sistemi linguistici avvertiti come molto distanti fra loro, l’altra è spesso corrotta

45

SEGRE 1995/b, pp. 644-5.

46

(23)

23 da occasionali e involontarie della lingua madre del copista; la commutazione invece, che si applica all’opera intera, dimostra una volontà cosciente pari a quella della traduzione, ma avviene quando nella traslazione linguistica si avverte istintivamente una forte prossimità fra lingua d’origine e lingua di destinazione. Quando Vàrvaro rileva che «in Francia si commuta tra tutte le varietà d’oïl ma assai raramente con quelle d’oc e non, credo, mai con l’italiano, tranne che in un caso speciale, come il franco-italiano»47, sta sottolineando la vicinanza fra la lingua oitanica e i dialetti dell’Italia settentrionale, che doveva essere percepita istintivamente tanto dagli autori quanto da tutti gli strati della popolazione. Questo spiegherebbe come il franco-italiano possa realmente rivolgersi a un pubblico anche popolare: se il francese infatti risultasse del tutto estraneo alle orecchie degli ascoltatori meno colti, tale apertura risulterebbe inefficace. Come osserva giustamente Roncaglia un’incomprensione sarebbe ancora concepibile nel caso di brevi canzonette per le quali, come avviene oggi con la musica inglese, «quando si canta, la melodia importa più che il senso delle parole; e nelle parole per musica, tanto più se fornite di quel prestigio snobistico che viene

dal suono della lingua straniera, l’intelligibilità non è requisito indispensabile»48.

Ma qui ci si trova davanti a poemi di lunghezza considerevole, dove il seguire la narrazione è indispensabile e il cui piacere è nel comprendere le nuove meravigliose prodezze dei paladini di Francia, il poterne riconoscere tratti e gesti. Dunque, anche se non completa, una comprensione per lo meno parziale è da supporre senza ombra di dubbio.

Nonostante le varie teorie divergano sotto molti aspetti, e non manchi chi creda che questa lingua sia nata per esigenze comunicative legate a necessità più concrete, il franco-italiano viene considerato dalla maggior parte degli studiosi

47

VARVARO 2004, p. 242.

48

(24)

24 una lingua destinata alla narrazione, limitata alla recitazione orale o alla scrittura, ma non alla comunicazione pratica. Quanto la caratterizza e la differenzia da altri fenomeni linguistici dell’epoca è il suo essere una lingua ibrida che alterna parole francesi ad altre italiane, contamina le une e le altre, inventa termini che si ispirano a esse senza appartenere realmente a nessuna; una contaminazione che non riguarda però solo determinate parti, come spesso avveniva nel corso di trascrizioni e traduzioni medievali, bensì l’opera intera - spesso un ciclo di notevole lunghezza come la Geste Francor. Si è già detto come non ne sia mai esistita una grammatica, e non sarebbe possibile compilarla nemmeno oggi, poiché per la sua origine il franco-italiano ha una variabilità troppo alta, essendo la sua formazione soggetta alle volontà del singolo autore. Secondo Rajna anche parlare di lingua franco-italiana è quasi impossibile, poiché le sue varianti sono tante quanti i testi che vengono a formarla. Un fattore che ha spesso destituito agli occhi degli studiosi il franco-italiano dallo status di lingua vera e propria, sia pure artificiale, relegandolo a una condizione di miscuglio casuale dovuto ad ignoranza.

I pionieri degli studi franco-italiani videro tale lingua come il risultato dell’ignoranza dei copisti e/o scrittori: per G. Paris esso non è che un francese deformato per italianizzarsi, e ci fu chi come Guessard, nella sua edizione del Macaire, ne tentò addirittura una restituzione alla sua ipotizzata veste originale; Rajna suppose un rimatore che «volle ma non seppe scrivere in lingua d’oïl»49, Mussafia arrivò a dire che il franco-italiano era una mostruosità deforme patologica. Anche Viscardi condivide l’idea che ogni opera di questa letteratura vada vista come un caso a sé stante, realizzata da autori che «in generale, intendevano scrivere in francese: anche se l’intenzione resta, in molti casi,

49

PARIS 1905, GUESSARD 1866, e l’edizione di Adolfo Mussafia, Macaire. Ein altfranzösisches Gedicht.

Altfranzösische Gedichte aus venezianischen Handschriften, 2, Gerold’s Sohn, Vienna 1864; RAJNA 1998, p.

(25)

25

puramente intenzione»50 e recupera i termini mostruoso e deforme per definire

in particolare proprio il Marciano XIII. Il fatto che gli scrittori italiani padroneggiassero perfettamente il provenzale in ambito lirico, non suscita perplessità su questa presunta difficoltà nell’utilizzo della lingua d’oïl: viene attribuita al diverso grado di cultura di chi scrive poesia e di chi compone poemi cavallereschi, due generi che si formano entro e sono destinati a due ambienti molto diversi. L’autore della Geste Francor è rappresentato come un

«cantambanco rozzo che si rivolge al pubblico delle piazze e dei trivi»51 e che usa

il francese perché sta trattando di materia cavalleresca, ma ricorrendo alla lingua natia ogni qualvolta non conosca il termine francese corrispondente. Anche Meyer finisce con l’attribuire il franco-italiano a uno scarso grado d’istruzione e a una scarsa abilità artistica: «les trouveurs de ces pays, qui imitèrent de plus ou moins loin nos chansons de geste, avaient, pour la plupart, peu de talent, et ne possédaient du français qu’une connaissance bien superficielle», ipotizzando che «après tout leur langue fortement imprégnée d’italien devait être plus intelligibile à leurs compatriotes que le pur français; il se peut même que ce

jargon hybride ait contribué au succès de ces médiocres compositions»52.

Questa è la teoria che prevale fino agli inizi degli anni ’60, quando Ruggieri si pone in netta opposizione, premettendo innanzitutto alcune considerazioni generali di carattere filologico, per le quali gli errori presenti nei manoscritti devono essere innanzitutto ripartiti fra quelli causati dalle condizioni degli eventuali testi originali francesi e archetipi francoveneti, e quelli dovuti all’effettivo intervento del copista del manoscritto in esame. Procede quindi paragonando il franco-italiano alle lingue volgari viste da alcuni fino all’XI secolo 50 VISCARDI 1941, p. 46. 51 Ivi, p. 49. 52 MEYER 1904, p. 89.

(26)

26 come un latino scritto da ignoranti. E arriva alla conclusione che rifacitori franco-italiani «non intesero senza dubbio né tradurre le chansons in italiano e tantomeno riscriverle in francese. Ebbero, invece, l’intenzione di volgarizzarle per il loro pubblico: volgarizzarle anche nel senso moderno del termine, ma soprattutto in modo che esse conservassero una chiara impronta della loro veste idiomatica originaria […] i nostri autori vollero e seppero scrivere la Mischsprache

che effettivamente scrissero»53. Inoltre Ruggieri crede nel «carattere

aristocratico dei testi francoveneti»54 poiché se viene alterato il francese viene altresì mantenuta una distanza dal dialetto vero e proprio, avvertito, quello sì, come risorsa per un pubblico popolare. Secondo la sua teoria, il franco-italiano è dunque un ibridismo linguistico realizzato volontariamente che garantisce un attraversamento trasversale delle classi sociali. È tale perché risulti comprensibile ad un pubblico italiano più ampio, pur tuttavia sempre entro certi limiti. Concorde almeno in parte anche Cremonesi che, pur rilevando, in linea con Mussafia, Rajna, Monteverdi e gli altri, la parziale ignoranza dello scrittore franco-italiano, vede un intento parodico dell’autore, dunque assolutamente volontario, dal momento che «nella deprecata e discussa mostruosità del linguaggio c’è, accanto ad una malsicura e cattiva conoscenza del francese, proprio l’intenzione di deformare allo scopo probabilmente, ripeto, di divertire, quasi di raggiungere un effetto coloristico»55. Si oppone invece Infurna, per il quale il franco-italiano resta limitato a un ambito strettamente aristocratico, poiché il suo ibridismo non lo renderebbe maggiormente comprensibile, ma

viceversa ancor più complesso56.

53 RUGGIERI 1962, pp. 162-3. 54 RUGGIERI 1966, p. 153. 55 CREMONESI 1983, p. 12. 56 Cfr. INFURNA 1991 e CAPUSSO 1992, p. 233.

(27)

27 Diversamente dagli altri studiosi che riportano le loro considerazioni sempre all’interno dell’ambito linguistico e filologico, Sunderland trae ispirazione da un testo di Deleuze e Guattari riguardante Kafka e la letteratura cosiddetta minore57, alla quale i testi franco-italiani e la Geste Francor in particolare apparterebbero per diversi motivi, fra cui proprio l’ibridismo linguistico. La sua analisi parte da una ripartizione delle tre lingue - dialetti italiani, francesi e latino – per ricoprire quattro funzioni associate a quattro spazi: il qui per la lingua vernacolare, il laggiù per la lingua mitica, il dappertutto per la lingua veicolare e l’oltre per la referenziale. Il dialetto, o dialetti, corrisponderebbe alla prima funzione poiché è la lingua che l’autore sente come a lui più familiare; il latino è la lingua delle origini, quella che ha formato l’orizzonte culturale comune ed è dunque mitica; il francese assolve ad entrambe le ultime due funzioni perché in grado di veicolare la comunicazione oltre i propri confini, e, ormai adottata dall’aristocrazia di tutta Europa, ha soppiantato il latino diventando il simbolo della cultura universale. Il franco-italiano risulta allora la manifestazione di una logica più profonda che non si basa sull’alternativa, o francese o italiano, ma sulla compresenza che crea opportunità per duplicare i significati. Per lo studioso dunque questa lingua, con la sua letteratura e soprattutto con la Geste Francor, tenterebbe sotto tutti i punti di vista di rimanere nel solco della tradizione e

contemporaneamente aprire spiragli di fuga dalle logiche di potere tradizionali58.

57

G. Deleuze e F. Guattari, Kafka: Pour une littérature mineure, Éditions de Minuit, Parigi 1975.

58

Riferimenti

Documenti correlati

Amore e natura nella letteratura del Trecento; l’Amore come sentimento nel Canzoniere di Petrarca, identificazione tra la natura e Laura, il paesaggio e l’interiorità del

Il docente di “Lingua e letteratura italiana” concorre a far conseguire allo studente, al termine del percorso quinquennale, i seguenti risultati di apprendimento relativi al

1.1 LA PRODUZIONE EPICA E LA SUA DIFFUSIONE

TERRITORIO DELLE REGIONI CALABRIA, EMILIA ROMAGNA, FRIULI- VENEZIA GIULIA, LAZIO, LIGURIA, LOMBARDIA, TOSCANA, SARDEGNA, SICILIA, VENETO E DELLE PROVINCE AUTONOME DI TRENTO E

PIEMONTE, LOMBARDIA, TRENTINO ALTO ADIGE, VENETO, FRIULI VENEZIA GIULIA, ISTRIA, LIGURIA, EMILIA ROMAGNA, TOSCANA, MARCHE, UMBRIA, ABRUZZO, MOLISE, LAZIO, CAMPANIA,

Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono anche le regioni ove la proporzione di minori sul totale della popolazione straniera residente è più elevata: qui, al 1° gennaio 2009,

- capacità di usare la lingua in maniera sufficientemente articolata in relazione agli scopi e alle situazioni comunicative. - Saper realizzare forme di scrittura diverse in

ABRUZZO BASILICATA CALABRIA CAMPANIA EMILIA ROMAGNA FRIULI VENEZIA GIULIA LAZIO LIGURIA LOMBARDIA MARCHE MOLISE PIEMONTE PUGLIA SARDEGNA TOSCANA UMBRIA PROVINCIA TRENTO VENETO