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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

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Academic year: 2022

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata

Corso di Laurea Triennale in Scienze della Formazione Professionale

Relazione Finale

INTEGRAZIONE LAVORATIVA DEI SORDI:

utopia o realtà?

Relatrice:

Chiar.ma Prof.ssa Alessandra Cesaro

Laureando:

Emanuele Arzà Matricola n. 575666

Anno Accademico 2013-2014

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Si specifica che tale elaborato deve ritenersi tutelato dall’art. 1 n. 1 L. 633/1941. Si richiede pertanto che l’eventuale utilizzo di tale scritto rechi il nome dell’autore ed ottenga il suo consenso; si rappresenta altresì che lo stesso intende avere diritto di esclusiva in eventuali sfruttamenti dell’elaborato e si oppone fin d’ora ad applicazioni diverse e/o parziarie del medesimo.

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“Che male c’è a parlare con le mani quando molti ragionano con i piedi?”

Pepite - Coop DIRE

A Marianna perché senza te questo ed altri traguardi non sarebbero stati possibili.

A Jm, sangue del mio sangue, vita della mia vita.

Ai miei genitori che mi hanno dato tutto e, a modo loro, mi hanno cresciuto e sostenuto.

A Riccardo: te ne sei andato troppo presto ed ora mi mancano le nostre risate e le nostre riflessioni.

A tutti coloro che hanno creduto in me e mi accompagnano, chi ogni giorno, chi ogni tanto, perché mi danno forza per continuare con convinzione in quello che credo.

A tutti coloro a cui sono antipatico, ho dato fastidio o con cui non ero d’accordo perché è nel dialogare con la diversità e nell’accettare l’altro che si cresce e si impara.

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INDICE

INTRODUZIONE pag. 7

CAPITOLO 1. LA SORDITÀ pag. 9

(a cura di Emanuele Arzà e Marianna Perale)

1.1 Il mondo dei Sordi: questo sconosciuto pag. 11

1.2 Punto di vista antropologico, sociologico e culturale pag. 11

1.2.1 La Lingua dei Segni Italiana pag. 14

1.2.2 L’acquisizione della Lingua dei Segni nel bambino sordo pag. 19

1.3 Punto di vista medico pag. 22

1.4 L’approccio assistenzialistico e il politically correct pag. 25

CAPITOLO 2. LA FORMAZIONE PROFESSIONALE pag. 29

2.1 Nascita della Formazione Professionale pag. 31

2.2 Il Fondo Sociale Europeo pag. 32

2.3 L’evoluzione della Legge 21 dicembre 1975, n. 845 – Legge

Quadro in materia di formazione professionale pag. 34 2.4 “Il Rapporto sul futuro della Formazione in Italia” pag. 35 2.5 “Sistema di Istruzione e Formazione Professionale in Italia” pag. 38

CAPITOLO 3. IL DIRITTO DEL LAVORO pag. 41

3.1 Cenni storici pag. 43

3.2 Il diritto del lavoro sulla disabilità pag. 44

3.3 Legge 2 aprile 1968, n. 482 – Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni

e le aziende private pag. 45

3.4 Legge 15 marzo 1999, n. 68 – Norme per il diritto al lavoro

dei disabili pag. 45

3.5 Articolo 18, Legge 5 febbraio 1992, n. 104 – Legge quadro Per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone

handicappate pag. 47

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3.6 Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone

con disabilità pag. 48

3.7 La situazione italiana pag. 49

CAPITOLO 4. UNA FORMAZIONE ACCESSIBILE pag. 51

4.1 La formazione universitaria pag. 54

4.2 La formazione professionale pag. 58

4.3 Il mondo del lavoro pag. 61

4.4 Comunicazione con le persone sorde pag. 64

CONCLUSIONI pag. 67

BIBLIOGRAFIA pag. 69

SITOGRAFIA pag. 70

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INTRODUZIONE

Sono una persona sorda.

È solo una frase semplice, talmente banale, forse scontata per qualcuno, ma disarmante nella sua semplicità. Essendo persona sorda sono “diverso”, anche se cerco di non farlo pesare agli altri: rappresento quella minoranza linguistica e culturale propria del mondo dei Sordi. Ritengo importante considerare questo aspetto: sono diverso perché in tutte le situazioni di confronto con gli altri mi viene ricordato o sottolineato, certe volte con violenza, ma nonostante ciò non mi sento tale.

Ho una mia lingua, la Lingua dei Segni Italiana (LIS) e anche un’identità molto forte, risultato di un puzzle colorato formato dalle varie esperienze personali, dai comportamenti adottati per “sopravvivere” con il mio handicap, dalle mie facoltà intellettuali, dalle cognizioni acquisite e dagli aspetti caratteriali plasmati dal tempo e dal contatto con altre culture. La descrizione appena presentata è la fotografia di una persona qualunque che si differenzia dagli altri solo per una serie di fattori come le appartenenze sociali, la crescita, l’istruzione scolastica, la “cultura” tramandata.

Perché questa precisazione di partenza?

Oltre a essere persona sorda, ricopro da oltre 10 anni cariche elettive (attualmente sono presidente) all’interno della Sezione Provinciale dell’Ente Nazionale Sordi della mia provincia, La Spezia. In varie attività istituzionali, ho avuto modo di confrontarmi con una società apertamente multietnica (quindi multiculturale? Forse solo sulla parola) ma spesso fortemente monoculturale.

All’interno del curricolo universitario ho avuto modo di frequentare, tra gli altri, il corso di Pedagogia Interculturale del Prof. Milan che mi ha particolarmente affascinato e coinvolto: si è parlato di società interculturale o meglio di interculturalità nell’educazione, nella pedagogia e nella didattica, ma sempre riferito allo “straniero”.

Sono convinto che anche il disabile sia un attore fondamentale nell’interculturalità, in quanto portatore di una cultura diversa.

Proprio per questo motivo, nel corso di questo testo, vorrei riproporre il punto di vista diverso: quello della sordità, analizzando l’integrazione lavorativa e la formazione professionale in un’altra ottica, proponendo una visione interculturale d’insieme.

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Voglio quindi presentare quello che un sordo uscito dalle scuole superiori si aspetta prima di poter accedere al mondo del lavoro, in un viaggio virtuale tra quello che lo Stato concede attraverso le varie leggi, quello che spesso accade in realtà e quelle che invece dovrebbero essere le buone prassi.

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CAPITOLO 1

LA SORDITÀ

(a cura di Emanuele Arzà e Marianna Perale)

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1.1 Il mondo dei Sordi: questo sconosciuto.

Per capire meglio il mondo della sordità non si può fare a meno di approfondire ed analizzare gli approcci ed i punti di vista diversi che influenzano in maniera significativa l’integrazione scolastica, lavorativa e sociale dei sordi.

L’errore più frequente, infatti, è quello di considerare la sordità solo dal punto di vista medico. Il messaggio subliminale passato è: “l’orecchio non funziona, quindi va riparato”.

Albert Einstein diceva: “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. I pregiudizi da sempre associati alla comunità dei sordi sono sostanzialmente due: “i sordi che non sentono non possono parlare” (da qui il termine sordomuto rimasto in voga ancora oggi, nonostante ci sia una legge – la L. 95/2006 che ha “sostituito” d’ufficio quel termine con la parola “sordo”) e “chi usa la lingua dei segni non può parlare e non è in grado di sviluppare un vocabolario ampio per la povertà del lessico della lingua dei segni”. A quest’ultimo pregiudizio se ne accosta un altro, tanto più estremista quanto più errato: “i segni uccidono la parola”. Questa ultima affermazione verrà approfondita in seguito.

Oltre al punto di vista medico e quello antropologico, sociologico e culturale, analizzeremo anche l’approccio assistenzialistico ed il “politically correct”.

1.2 Punto di vista antropologico, sociologico e culturale

La società è definita come «insieme di persone legate da vincoli più o meno complessi soggette da leggi e ordinamenti comuni»1. Può essere multiculturale quando gli appartenenti provengono da culture diverse ma per sua stessa definizione segue un’idea di monocultura in quanto il pensiero dominante decide leggi, ordinamenti e usi comuni. Il professor Giuseppe Milan in una sua lezione afferma che «gli stessi individui sono portatori di una diversità per cui è difficile parlare di un appiattimento culturale totale» e si può aggiungere che il pensiero dominante tende ad eliminare le diversità creando una Cultura, quella pura, quella definitiva.

1 http://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano/parola/S/societa.aspx?query=societ%C3%A0, (ultima consultazione 29/06/2013).

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La cultura nel dizionario online di Hoepli viene definita come «arricchimento delle facoltà intellettuali individuali, perseguito attraverso l'acquisizione critica di cognizioni ricavate dallo studio e dall'esperienza».

La cultura dei Sordi è l’espressione delle modalità relazionali che hanno le persone sorde nello stare insieme, l’insieme dei comportamenti sociali e comunicativi che deriva dal costruire la propria identità individuale in modo positivo, senza necessariamente considerarsi – ed essere considerate - persone deficitarie ed inferiori. La visione culturale della sordità è il modo positivo di affermare il diritto alla comunicazione, all’espressione delle persone sorde: è la percezione della diversità non come menomazione fisica ma come ricchezza.

La cultura sorda vive una situazione di assimilazione e di apartheid culturale.

L’integrazione scolastica di un bambino sordo si basa sul principio che un bambino deve imparare a parlare bene e concentra gli sforzi unicamente sulla logopedia: in questo caso ci troviamo di fronte ad un chiaro processo di assimilazione. Al bambino sordo viene insegnato che “le persone devono parlare, nessuno conosce la lingua dei segni perché è simbolo di cultura primitiva. Tu devi parlare bene perché puoi comunicare e gli altri ti capiscono”. Poco importa se si distrugge una cultura o se il bambino diventa un robot che parla splendidamente ma senza sapere il significato di quello che dice o, peggio ancora, senza essere in grado di costruire autonomamente semplici frasi o di esternare sentimenti o concetti astratti.

Se chi segue il bambino sordo assume un comportamento di stampo assistenzialistico (“è sordo, non ce la può fare, aiutiamolo perché è una causa persa”), si ottengono risultati disastrosi: a scuola viene proposto un Piano Educativo Individualizzato differenziato che di fatto non gli permette di conseguire un titolo di studio, lo si promuove comunque, a prescindere dai risultati. Il bambino sordo si convince che non sia necessario applicarsi tanto: ci pensano altri a farlo per lui. Nella sua psiche rimane un pesante fardello di negatività: egli stesso si vede senza futuro e senza potenzialità.

La cultura sorda ha vissuto anni di ghettizzazione quando l’istruzione obbligatoria imponeva la frequentazione degli istituti speciali: i sordi si incontravano nel cortile o nelle

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aule e si scambiavano nozioni ed informazioni nella loro lingua naturale che rimaneva così chiusa nelle mura degli Istituti.

Chi nasce sordo o perde l’udito nei primi anni di vita non riesce ad imparare il linguaggio allo stesso modo e negli stessi tempi di una persona udente: viene definito

“sordomuto” ma è un termine che non descrive la situazione reale. Tale termine, ancora usato dagli “esperti del settore”, è stato sostituito con “sordo”2 e ha dato origine a molti equivoci perché suggerisce un mancato o un difettoso funzionamento dell’apparato vocale dei sordi. In realtà esso è perfettamente integro, a meno non siano presenti altre specifiche patologie. Il sordo, attraverso un processo di addestramento al linguaggio, può imparare a parlare.

Per l’approccio clinico la persona sorda non educata al linguaggio vocale è muta mentre in una prospettiva socioculturale ogni persona comunica quando si impadronisce degli strumenti per esternare un messaggio, a prescindere dal linguaggio adottato. Non è il modo bensì la facoltà di linguaggio che non dipende dall’apparato fono articolatorio3 e consente ai sordi di costruire la comunicazione e di uscire dal mutismo4.

Ogni bambino grazie alla facoltà di linguaggio impara una lingua a condizione che venga esposto a quella stessa lingua. Però per esserlo bisogna sentire e comunicare con l’ambiente circostante in quella lingua e l’udito è fondamentale per poter imparare a parlare. La sordità impedisce il processo di comprensione e produzione. Non sentendo la lingua parlata, è impossibile imitare i suoni dell’ambiente, non c’è un feedback acustico sulle produzioni e non si può comunicare con gli altri. Per questi motivi la facoltà di linguaggio subisce un arresto o un ritardo forzato.

Grazie ad un ambiente linguistico adeguato la facoltà di linguaggio si può realizzare entro il periodo di età critico (4-5 anni): questo è sostenuto da studi su particolari casi in cui la facoltà di linguaggio non si è sviluppata nei modi e nei tempi corretti. Nel 1797 Jean Marc Itard, un medico dell’Istituto dei Sordomuti di Parigi, ha studiato ed ha tentato di rieducare Victor, conosciuto come il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, un bambino cresciuto nella foresta, lontano da stimoli linguistici umani e

2 Articolo 1 Legge 20 febbraio 2006, n. 95.

3 Saussure F. de, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1990, pp. 19 – 20.

4 Caselli M. C., Maragna S., Volterra V., Linguaggio e sordità. Gesti, segni e parole nello sviluppo e nell’educazione, Bologna, Il Mulino 2006, p. 19.

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privato della capacità di emettere suoni. Da subito Victor fu considerato sordo, visto che all’epoca i sordi erano considerati le sole persone che non riuscivano a parlare. In un secondo momento ci si accorse che il bambino non era sordo e il suo problema era quello di non aver mai sentito nessuno parlare.

Tutto questo evidenzia il fatto che i bambini che non hanno contatti con un ambiente linguistico entro il periodo critico successivamente riescono a sviluppare diverse abilità, ma il loro linguaggio rimane imperfetto e gli aspetti morfosintattici della lingua non vengono usati correttamente.

I sordi non vivono in isolamento come Victor e potrebbero realizzare la loro facoltà di linguaggio utilizzando il canale visivo perfettamente integro; possono comunicare usando i segni in sostituzione dei suoni e delle parole: la modalità visivo- gestuale ha sostituito quella acustico-vocale.

1.2.1 La Lingua dei Segni Italiana

«Nelle mani di chi li usa con maestria, [i segni] costituiscono un linguaggio bellissimo e altamente espressivo, di cui né la natura né l’arte hanno saputo fornire un surrogato soddisfacente per la comunicazione o come mezzo per raggiungere facilmente e rapidamente la mente dei sordi. Chi non comprende tale linguaggio non può rendersi conto delle possibilità che esso offre ai sordi, del suo immenso contributo al benessere sociale e morale di chi è privo dell’udito, del suo meraviglioso potere di trasmettere il pensiero a intelletti che altrimenti resterebbero per sempre nel buio. Chi non lo conosce, non può rendersi conto del fascino che esso ha per i sordi. Finché sulla faccia della terra vi saranno due persone sorde che si incontrano, i segni continueranno a essere usati.»5

Da sempre i sordi hanno comunicato tra di loro usando dei segni e in tutti i posti dove c’è una comunità di persone sorde esiste una comunicazione visivo-gestuale.

Questo tipo di comunicazione è essenziale e vitale per le persone sorde e tutto questo è dimostrato dal fatto che sia stata tramandata di generazione in generazione e che sia ancora in uso nonostante si sia stato tentato per anni di reprimerla.

5 Sacks O., Vedere Voci - Un viaggio nel mondo dei sordi, cit. p. 11.

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A Milano, dal 6 all'11 settembre del 1880, si è tenuto il “Congresso Internazionale per il miglioramento della sorte dei Sordomuti” in cui si doveva decidere il tipo di educazione da impartire agli alunni sordi e la risoluzione finale fu: «Il Congresso, considerando la non dubbia superiorità della parola articolata sui gesti, per restituire il sordomuto alla società, per dargli una perfetta conoscenza della lingua, dichiara che il metodo orale6 debba essere preferito a quello della mimica nell’educazione ed istruzione dei sordomuti».7 Il Congresso si concluse con questa frase “Il gesto uccide la parola”. Le decisioni furono prese da educatori udenti che non fecero intervenire i pochi educatori sordi presenti. Fortunatamente altre nazioni non adottarono un’educazione di tipo oralista e questo, nel tempo, ha portato dei vantaggi: negli Stati Uniti, ad esempio, esistono oggi professionisti sordi che rivestono cariche importanti (avvocati, psicologi, manager, attori, insegnanti, rettori di facoltà solo per citarne alcuni) perfettamente integrati con gli udenti.

In Italia tutto ciò rimane ancora un’utopia: ci sono sordi laureati e, nonostante tale numero sta aumentando, siamo ben lontani dal far ricoprire loro cariche di prestigio a livello professionale.

A partite dal 1960 William Stokoe, linguista statunitense, inizia a studiare questa forma di comunicazione adottando gli stessi criteri linguistici utilizzati per indagare le lingue usate dalle piccole comunità con l’intenzione di capire se si tratti di una lingua a tutti gli effetti o di una specie di pantomima. I suoi studi segnano l’inizio di quella che sarà una vera e propria riflessione linguistica e semiotica contemporanea sulle lingue dei segni.

Stokoe ritrova nell’American Sign Language (ASL, Lingua dei Segni Americana) una struttura molto simile a quella delle lingue vocali: dall’insieme di un numero di fonemi (suoni senza significato) si può creare un ampio numero di parole e quindi di unità dotate di significato, anche dalla combinazione di cheremi (unità minime) si possono produrre tantissimi segni e cioè unità dotate di significato.

6 Questo metodo prevede che lo strumento principale nell’educazione del bambino sordo sia quello verbale e si concentra sull’aspetto tecnico della comunicazione a sfavore, spesso, della comprensione del contenuto: non si ricorre mai all’uso di segni per agevolare la comunicazione perché il sordo si deve concentrare sulla comunicazione orale; in ricezione, il bambino dovrà leggere le labbra o usare il suo residuo uditivo per ascoltare le parole. In produzione, dovrà utilizzare solo il linguaggio parlato.

7 Maragna S., La sordità. Educazione, scuola, lavoro e integrazione sociale, Milano, Hoepli, 2000, cit. p. 23.

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L’analisi proposta da Stokoe dimostra che un segno è composto quindi da cheremi definiti anche parametri formazionali. Da subito ne individua tre:

 il luogo nello spazio dove le mani eseguono il segno;

 la configurazione delle mani nell’eseguire il segno, cioè la forma che esse assumono posizionando le dita;

 il movimento nell’eseguire il segno.

Successivamente rileva un altro parametro importante rispetto alla sua precedente analisi: l’orientamento del palmo delle mani.

Le ricerche di Stokoe hanno fornito una prima descrizione linguistica della ASL ed importanti indicazioni per lo studio di altre lingue dei segni. Con le sue ricerche ha sfatato una serie di pregiudizi sulla comunicazione usata dalle persone sorde, primo tra tutti che si trattasse di una pantomima più che di una vera lingua. Ai quattro parametri si incorporano poi le componenti non manuali (l’espressione facciale, la posizione del busto e delle spalle, lo sguardo e particolari configurazioni della bocca) che aggiungono ulteriore significato al segno.

Un’idea molto diffusa tra le persone udenti è che esista una lingua dei segni universale. Al contrario, come ci sono tante lingue vocali diverse tra loro a livello fonetico, lessicale e grammaticale-sintattico, in ogni comunità di persone sorde che usa i segni per comunicare si è sviluppata una lingua dei segni con caratteristiche legate alla particolare cultura di appartenenza.

All’interno di una stessa nazione normalmente viene condivisa una stessa lingua dei segni, ma possono convivere dialetti o lingue dei segni diverse dovute a vicinanze geografiche con altre nazioni o a influenze storiche. In Italia, ad esempio, alcuni segni si diversificano da una città all’altra e, qualche volta, all’interno della stessa città dei sordi possono usare segni diversi da altri sordi, in base all’istituto scolastico che hanno frequentato o al circolo ricreativo8 che frequentano.

«La proliferazione di varietà e dialetti, anche molto diversi tra loro, all’interno di uno stesso Paese, è in larga misura riconducibile alla mancanza di una diffusione della lingua dei segni all’interno delle scuole e alla quasi totale assenza di questa nei media.

8 Il circolo realizza le finalità culturali e ricreative dell’E.N.S., Ente Nazionale Sordi, nell’ambito della Sezione Provinciale di appartenenza.

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Inoltre l’assenza di una forma di scrittura ha contribuito a determinare una scarsa standardizzazione e a rendere più difficile il naturale processo di omogeneizzazione delle varietà linguistiche utilizzate all’interno di una comunità, e il progressivo affermarsi di una varietà riconosciuta da tutti come la lingua corretta o di norma.

In alcune nazioni, infatti, dove esistono trasmissioni televisive in lingua dei segni, oppure centri culturali dove questa è usata ufficialmente, si riscontra una maggiore standardizzazione. Per es., l’esistenza della Gallaudet University a Washington D.C. negli Stati Uniti, un’università creata appositamente per i sordi che costituisce un centro di istruzione superiore e di cultura anche per i sordi provenienti da altri Paesi, sembra favorire una maggiore omogeneizzazione dell’ASL (American Sign Language)».9

Un pregiudizio molto consolidato ritiene che la lingua dei segni, non essendo una vera e propria lingua, sia solo uno sviluppo della gestualità naturale usata dagli udenti. In realtà entrambe utilizzano una modalità visivo-gestuale ma sono due forme di comunicazione distinte. Nel tempo la comunicazione gestuale usata dai sordi si è evoluta acquisendo caratteristiche e proprietà linguistiche: le recenti ricerche dimostrano infatti con certezza che le lingue dei segni possiedono precise ed evidenti regole grammaticali e sintattiche.

Un ulteriore pregiudizio è che i segni non possano esprimere concetti astratti.

Negli ambiti in cui viene utilizzata la traduzione simultanea in lingua dei segni come convegni, seminari, conferenze, si è dimostrato che si può esprimere qualsiasi concetto;

se alcune lingue dei segni possono essere sembrate povere di segni è avvenuto perché i contesti in cui queste lingue venivano usate erano poveri di contenuti.

«Se per lingua si intende un sistema di simboli arbitrari governato da regole grammaticali che i membri di una stessa comunità condividono e usano per scopi diversi, per interagire tra loro, per conservare e tramandarsi cultura, per esprimere le emozioni del proprio vissuto, allora la LIS è una lingua e possiede tutti i requisiti morfosintattici per essere considerata a pieno titolo una lingua vera e propria: invecchia e alcuni segni escono dall’uso così come nuovi segni entrano nel segnato corrente come neologismi, si standardizza alla ricerca di segni comuni per tutte le regioni del paese e allo stesso tempo

9 http://www.treccani.it/enciclopedia/le-lingue-dei-segni-nel-mondo_(XXI-Secolo)/, (ultima consultazione 16/01/2014).

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si particolarizza nelle zone più provinciali o in ristrette cerchie di segnanti, si specializza in linguaggi tecnici e si confronta con le lingue dei segni di altri paesi. Tutto ciò la rende una lingua viva e in continua evoluzione».10

In Italia la lingua dei segni utilizzata dai sordi è stata oggetto di studi sistematici solo a partire dal 1980 «presso l’Istituto di psicologia del Consiglio nazionale delle ricerche (oggi Istituto di scienze e tecnologie della cognizione), contrariamente in altri paesi come gli USA dove le ricerche sono molto più datate.

La denominazione Lingua dei Segni Italiana è stata introdotta in questo periodo anche per analogia con la terminologia diffusa nei Paesi dove la ricerca era già in atto.

All’epoca la lingua dei segni non aveva neppure un nome. I sordi, che la usavano da tempo immemorabile in circoli chiusi come una sorta di lingua privata, senza rendersi conto del suo status di lingua, la chiamavano mimica; gli udenti, abituati a considerarla con superficiale curiosità come un complesso più o meno disordinato di gesti, le attribuivano talvolta la definizione di linguaggio gestuale o linguaggio mimico-gestuale.

In realtà il termine lingua e il termine segni erano già stati usati in un testo del 1858, scritto da un sordo italiano, Giacomo Carbonieri, contro le affermazioni di un medico che sosteneva come i sordi non dovessero avvalersi dei segni. Negli ultimi venti anni l’interesse nei confronti della Lingua dei Segni Italiana è andato crescendo in maniera esponenziale, non solo tra i sordi ma anche tra gli udenti, nel mondo della ricerca e in ambito educativo e sociale, diffondendosi in tutta Italia. Sono stati indagati nuovi aspetti della LIS e sperimentati nuovi contesti applicativi, sono stati organizzati numerosissimi convegni, incontri, seminari in ambito sia linguistico sia educativo.

L’interesse per la ricerca sulla lingua dei segni ha innescato una serie di importanti cambiamenti anche nella società. L’Ente Nazionale Sordi (ENS) ha attivato corsi di LIS su quasi tutto il territorio nazionale. In diverse parti d’Italia sono nate numerose associazioni e cooperative per la diffusione della LIS. Alcuni telegiornali vengono tradotti in LIS e interpreti LIS sono spesso attivi nel corso di manifestazioni pubbliche. Ma soprattutto la LIS ha cominciato a entrare in alcune scuole e a essere oggetto di corsi di

10 De Santis D., Lo sviluppo del linguaggio nel bambino sordo e udente: due modalità comunicative a confronto, Università degli Studi di Bari - Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, 2010, cit. p. 84.

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insegnamento o di tesi di laurea e/o di dottorato all’interno delle università in varie città italiane».11

In Italia, l’ENS si sta impegnando per far approvare una legge che riconosca la Lingua dei Segni Italiana come lingua utilizzata dai sordi, al pari delle lingue minoritarie, perché i sordi crescano nella propria identità linguistica e culturale, non al di fuori della società di maggioranza acustico/verbale, ma nella comunità di tutti.

1.2.2 L’acquisizione della Lingua dei Segni nel bambino Sordo

In Europa la ricerche sull’acquisizione della lingua dei segni nei bambini sordi non sono esaustive.

In Italia nello specifico le ricerche sull’acquisizione della LIS sono state limitate a causa:

 del tipo di logopedia, per lo più oralista (cioè che concentra l’attenzione sul recupero del linguaggio parlato), che dilaga nelle istituzioni deputate all’educazione al linguaggio;

 dal pregiudizio che se il bambino segna non impara a parlare. Questo ha condizionato e compromette l’integrità della vita quotidiana del bambino;

 dal totale inserimento dei sordi nel mondo degli udenti: a scuola ad esempio troviamo spesso un alunno sordo in una classe di udenti. Questo fa perdere al sordo il confronto con altri bimbi simili a lui.

La precocità della comparsa dei primi segni nella comunicazione dei bambini sordi e i vantaggi che l’esposizione alla lingua dei segni porta nello sviluppo dei processi cognitivi e comunicativi è oggi oggetto di studio.

Tra le varie ipotesi su questi tipi di precocità si fa riferimento alla maggiore iconicità12 dei segni rispetto alle parole. È da sottolineare che i primi segni realizzati dai bambini sordi esprimono le stesse categorie semantiche prodotte verbalmente dai bambini udenti e sono collegate ai fattori che intervengono nel processo evolutivo del linguaggio

11 http://www.treccani.it/enciclopedia/le-lingue-dei-segni-nel-mondo_(XXI-Secolo)/, (ultima consultazione 16/01/2014).

12 Somiglianza visiva tra il segno LIS ed il concetto a cui rimanda.

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infantile: le interazioni comunicative con gli adulti, il vissuto personale, l’ambiente in cui il bambino cresce, lo sviluppo delle capacità cognitive.

Maria Cristina Caselli13 ipotizza l’incidenza della continuità e delle interrelazioni tra sistema motorio e sistema verbale. Questa interpretazione si basa sul presupposto che sia necessario utilizzare gli stessi paramenti per poter confrontare in modo attendibile lo sviluppo del linguaggio dei bambini che acquisiscono una lingua vocale e quello di bambini che acquisiscono una lingua dei segni. La Caselli ha osservato lo sviluppo linguistico e comunicativo di due bambini, un bambino udente esposto all’italiano vocale e una bambina sorda esposta all’ASL14. Questi bambini sono stati seguiti dai 9 ai 20 mesi con cadenza mensile. Nella prima fase i bambini comunicavano intenzionalmente attraverso i gesti che facevano riferimento al contesto. Intorno ai 12 mesi sono comparsi i primi segni della bambina sorda e i primi gesti rappresentativi nel bambino udente. I segni della bambina sorda possono essere assimilati ai gesti rappresentativi del bambino udente, considerati i contesti d’uso e i livelli di decontestualizzazione al momento della produzione di tali segnali. Successivamente questi segnali sono diventati per entrambi dei simboli: segni per la bambina sorda e gesti rappresentativi e parole per il bambino udente.

A circa 18 mesi entrambi i bambini producevano enunciati di due elementi. I risultati della ricerca hanno evidenziato una similitudine nello sviluppo comunicativo e linguistico dei due bambini che seguono uno stesso processo di sviluppo, raggiungono le stesse fasi, ad età confrontabili, indipendentemente dalla modalità in cui si realizza la lingua a cui sono esposti.15

Nei bambini udenti la fase combinatoria, in cui due o più elementi danno origine alle prime frasi segue il periodo olofrastico, composto da un solo elemento. Il processo evolutivo del linguaggio è simile anche per i bambini che imparano una lingua dei segni:

la capacità di produrre frasi è in relazione con l’ampiezza del repertorio lessicale che può

13 Dirigente di ricerca presso l’Istituto di Scienza e di Tecnologie della Cognizione del CNR, Sede di via Nomentana di Roma.

14 È stata osservata una bambina che usa la ASL in quanto i bambini italiani figli di sordi che usavano la LIS ai tempi della ricerca erano pochi. C’era quindi l’impossibilità di seguire le sequenze dello sviluppo comunicativo e linguistico.

15 Caselli M. C., Le prime tappe di acquisizione linguistica nei bambini udenti e nei bambini sordi, in V. Volterra (a cura di), Educazione bilingue e bimodale nel bambino sordo, (Nucleo monotematico), in Età Evolutiva, 20, 1985, Firenze, Giunti, pp. 66-77.

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variare individualmente e non con l’età cronologica. La capacità di padroneggiare delle caratteristiche formazionali dei segni richiede un graduale processo di acquisizione, legato alla maturazione del sistema motorio del bambino, così come avviene nel processo evolutivo del linguaggio nel bambino udente.

Nelle prime fasi di acquisizione della lingua dei segni, si possono notare alcune corrispondenze significative con le fasi dell’acquisizione della lingua vocale:

 il bambino sordo produce una specie di babbling manuale come fanno i bambini udenti sul piano vocale;

 nella produzione dei primi segni, il bambino sordo, esegue delle semplificazioni dal punto di vista motorio paragonabili alle semplificazioni fonologiche dei bambini udenti: sono errori di sostituzione di almeno un parametro formazionale del segno con altri parametri più semplici dal punto di vista motorio. Così il segno “fragola” che, nella forma adulta, viene prodotto con la configurazione F, e con un movimento ripetuto sulla guancia, e orientato verso il viso del segnante, può essere prodotto dai bambini piccoli con la configurazione G che è più semplice. Gli errori nell’esecuzione dei segni diminuiscono progressivamente nel processo evolutivo di acquisizione della lingua.

Segno di FRAGOLA Configurazione a G Segno di FRAGOLA

Configurazione a F

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Si può concludere che i processi di apprendimento di una lingua dei segni dipendono in modo sostanziale da fattori biologici relativi alla maturazione del sistema motorio, dalle abilità cognitive di base e dalle caratteristiche strutturali della lingua a cui il bambino è esposto16.

1.3 Punto di vista medico

Sordità: «Diminuzione o mancanza della capacità mono o bilaterale di percepire i suoni».17

«I suoni vengono trasmessi alla coclea attraverso un piccolo "trasformatore"

meccanico, formato dal timpano e da una catena di tre ossicini (martello, incudine e staffa), il quale provvede a tradurre le vibrazioni sonore raccolte dall'orecchio in variazioni di pressione del fluido cocleare.

Grazie al grande rapporto tra la superficie del timpano e quella della finestrella elastica su cui si appoggia la staffa, all'effetto leva esercitato dal sistema degli ossicini e a un terzo effetto dovuto al rigonfiamento del timpano la pressione applicata alla staffa, in condizioni statiche, risulta circa 185 volte maggiore di quella applicata al timpano.

Le vibrazioni sonore captate dall’orecchio esterno, vengono convogliate attraverso il condotto fino alla membrana timpanica. Le onde sonore causano la vibrazione della membrana timpanica e gli ossicini dell’orecchio medio amplificano e trasmettono le vibrazioni alla finestra ovale dell’orecchio interno. È in quest’area dell’orecchio che avviene generalmente la perdita uditiva di trasmissione. Il fluido dell’orecchio interno stimola le terminazioni nervose chiamate cellule ciliate. Il loro danneggiamento è la principale causa di perdita neurosensoriale dell’udito. Degli impulsi elettrici vengono inviati dalle cellule ciliate mediante il nervo acustico fino alle aree cerebrali deputate alla integrazione. L’incapacità di integrare questi segnali determina le sordità centrali.

Negli adulti l’esposizione a rumori troppo intensi, l’invecchiamento, l’ereditarietà, i disordini vascolari circolatori, i tumori o altre lesioni possono provocare

16 Caselli M. C., Maragna S., Volterra V., Linguaggio e sordità. Gesti, segni e parole nello sviluppo e nell’educazione, pp. 163 – 178.

17 http://www.treccani.it/enciclopedia/sordita, (ultima consultazione 9/06/2014).

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la perdita dell’udito. Nei bambini invece le cause della perdita d’udito possono essere dovute a patologie dell’orecchio medio. In genere prima dei 6 anni il 90% dei bambini soffre di otite media. Inoltre possono perdere l’udito anche a causa di fattori congeniti, anomalie cranio facciali, ereditarietà, infezioni congenite, meningiti, trauma cranico, terapie ototossiche, malattie infettive virali. La correzione dell’ipoacusia, per patologie dell’orecchio esterno e medio, avviene con antibiotici, mucolitici, steroidi e termalismo.

Per patologie dell’orecchio medio si interviene con chirurgia della membrana, della staffa e della catena.

Per le patologie dell’orecchio medio e interno, infine, gli interventi possono essere:

 protesi per via ossea (viene stimolata la coclea attraverso un vibratore posizionato sulla mastoide);

 protesi per via aerea (l’onda sonora viene inviata alla membrana timpanica dopo essere stata incrementata e\o modificata mediante apparecchiatura analogiche, digitaliche o miste);

 protesi impiantabili. Possono essere di tipo BAHA (Bone Anchored Hearing Aid), in cui il suono viene trasmesso per via ossea arrivando direttamente all’orecchio interno e bypassando il medio oppure di tipo Vibrant Soundbridge in cui la protesi non amplifica i suoni ma produce vibrazioni:

viene fissata chirurgicamente all’incudine ed induce sotto stimolo acustico una maggiore vibrazione della catena ossiculare compensando in questo modo la perdita uditiva neurosensoriale del paziente;

 impianto cocleare: è una protesi che trasforma il suono in impulsi elettrici e stimola elettricamente in modo diretto le terminazioni nervose del nervo acustico bypassando l’orecchio interno.

L’ipoacusia nel bambino può essere di tipo:

 preverbale se insorta prima dell’inizio del processo di acquisizione del linguaggio (intorno all’anno di età);

 periverbale se insorta tra il primo ed il terzo anno di età, epoca in cui il bambino dovrebbe aver raggiunto la struttura sintattico-grammaticale minima propria del linguaggio dell’adulto;

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 postverbale se insorta nella prima infanzia (3-7 anni), periodo in cui le abilità comunicativo-linguistiche non sono ancora del tutto consolidate o nella seconda infanzia (7-18 anni), periodo in cui il linguaggio è già consolidato.

Nelle ipoacusie preverbali e periverbali, le conseguenze per il bambino sono molto negative poiché legate alle turbe del linguaggio e dello sviluppo cognitivo, affettivo e relazionale. Molto utile è la diagnosi precoce (entro il 3°-6° mese) e una corretta riabilitazione protesica entro il 6°-12° mese in modo da garantire il prima possibile una stimolazione acustica e da avere il tempo necessario per valutare il reale beneficio protesico. In caso negativo, si può scegliere l’impianto cocleare e l’applicazione ottimale è intorno al 12°-24° mese d’età.

Nell’ipoacusia post-verbale prima infanzia c’è una rapida regressione delle abilità linguistiche mentre in quella seconda infanzia i quadri sono diversi perché legati allo sviluppo psico-intelletivo del soggetto. Nel caso di un risultato insufficiente con la protesi si propone l’impianto cocleare.

L’impianto cocleare viene indicato nel caso di ipoacusia bilaterale (grave) profonda, in assenza di controindicazioni radiologiche e neuropsicologiche ed in assenza di vantaggi dall’utilizzo della protesi acustica tradizionale (testimoniato dall’inefficacia del trattamento riabilitativo logopedico). In questo caso risulta indispensabile la presenza di un supporto familiare adeguato e di un contesto educativo idoneo. L’impianto viene controindicato nel caso siano riscontrati disturbi neuropsichici (autismo, ritardo mentale, ecc), nel caso di sordità centrale, di malformazione cocleare, di obliterazione del canale cocleare, di residui uditivi sfruttabili con protesi, di agenesia del nervo acustico e nel caso in cui la famiglia sia di madre lingua straniera visto che le sedute logopediche vengono svolte in lingua italiana.

Nell’adulto l’impianto viene consigliato ai pazienti riabilitati con protesi acustica che non raggiungono una autonomia comunicativa (o che presentano un deterioramento uditivo), ai pazienti con elevata motivazione, con buona lettura labiale, con sordità insorta da meno di un anno, con un quadro neuro-psicopatologico nella norma».18

18 http://www.audioprotesisti.org/home/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=108, (ultima consultazione 4/02/2014).

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1.4 L’approccio assistenzialistico e il politically correct

Edgar Serrano è assegnista di ricerca nella Prospettiva degli Studi Interculturali presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova in un intervista tenuta dal prof. Milan sostiene che la politica dell’integrazione sociale fallisce perché l’assistenzialismo fornisce quello di cui si ha bisogno senza nessuna fatica, provocando nel beneficiario un atteggiamento “passivo, opportunista, parassitario”. Anche per il disabile è così. Ormai si è inculcata la mentalità: “sono disabile, quindi mi spetta a prescindere!”. Da un’analisi più accorta ci si rende conto che questa politica pesi non solo sull’autonomia, sul senso di indipendenza, sulla responsabilizzazione ma anche sull’autostima della persona “extra-culturale” (perché non appartenente alla cultura dominante). A conti fatti l’assistenzialismo fa sì che il disabile non senta il bisogno di impegnarsi per contribuire alla società ritenendo di dover godere dei privilegi di diritto.

Dovrebbe far riflettere come questa strategia di integrazione sociale dia l’impressione che il Welfare, in quanto appartenente alla cultura ospitante dominante, dimostri un senso di superiorità.

Un esempio potrà esplicitare meglio questo concetto: “io, Stato, ti do lavoro, casa, mediatore culturale, (e nel caso della disabilità, contributi economici per il sostegno) quindi tu sei a posto, non ti devi lamentare.”

Pur offrendo soluzioni di interessante valore economico, sono vere e proprie elemosine, una sorta di obolo in confronto alle reali necessità dello straniero o del disabile. Oltretutto la sua cultura non viene capita, riconosciuta e rispettata subendo pregiudizi e comportamenti discriminatori.

C’è alla base un problema sociale ed etico di fondo: la paura del diverso dettata dalla monoculturalità ma anche dal forte senso di appartenenza da sempre caratterizzante dell’uomo, che non permette di cogliere la diversità dei punti di vista offerti dall’incontro tra culture. La paura dell’altro, del diverso, tanto ben illustrata da Baumann, muove la società che con metodi più o meno impliciti impone il pensiero unico o quanto meno accentua le diversità applicando il criterio del confronto (“noi siamo meglio, noi siamo superiori, voi siete primitivi, voi non capite, ecc”). Assistiamo così al manifestarsi in vari modi di episodi di chiusura. Una vera società interculturale dovrebbe essere in grado di

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evolversi ed arricchirsi a tal punto di modificare le leggi e le norme che la regolamentano nell’ottica di soddisfacimento dei bisogni comuni, nel rispetto delle singole specificità (rispetto concreto e teorico).

Ma dove è la diversità? Il prof. Milan porta come esempio una leggenda dell’origine dei Pellerossa. L’uomo nasce da una figura di terracotta cotta nel forno da Dio: quando è cotta troppo, nasce un nero; quando è cotta poco nasce un bianco. Quando invece è al punto giusto, è un Pellerossa. Ma a parte questo, non c’è nessuna differenza:

parliamo sempre delle stesse persone almeno nell’aspetto fisico. È solo questione di punti di vista.

Il termine “politically correct” (in italiano politicamente corretto) può misurare l’interculturalità, o meglio la visione interculturale della società. Esso «designa un orientamento di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone».19 Nella vita quotidiana troviamo situazioni più eclatanti: ad esempio nella scelta dei nomi per indicare una categoria di persone: le

“etichette”. Oggigiorno apparire conta molto e l’etichetta (nome con la quale si catalogano le persone) ha un peso notevole; il disabile, già dal significato insito nel nome, è diverso.

Dalla mia esperienza personale di disabile, quello che il politically correct vorrebbe evitare, anche se in buona fede, in realtà offende con maggior forza: evidenzia la differenza tra chi applica l’etichetta e la categoria.

Faccio un esempio semplice. Noi Sordi (lettera iniziale volutamente maiuscola, per indicare una cultura di appartenenza) siamo etichettati come non udenti, non normodotati, persone con problemi o problemi di udito o problemi di salute, sordastri, audiolesi Chi appartiene alla cultura dominante è pure soddisfatto perché in questo modo non ha menzionato il deficit della persona e pensa conseguentemente di aver portato rispetto. È veramente così? Ribaltiamo il punto di vista: quello della categoria

“etichettata”. Personalmente trovo fastidioso sentirmi chiamare persona non normodotata o non udente. Innanzitutto la negazione mi pone come un elemento

19 http://www.treccani.it/politically-correct_(Enciclopedia_dell’Italiano)/, (ultima consultazione 13/05/2014).

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negativo. Sembra sottolineare questo messaggio: “io sono normodotato e tu non lo sei”,

“io ci sento e tu no”.

Proviamo a chiedere ad un udente se gli andrebbe bene essere chiamato “non sordo”. Un altro aspetto da non trascurare è che l’etichetta viene stabilita dall’esterno della categoria. Anche la parola “straniero”, nonostante possa essere un dato di fatto (in effetti non è italiano), crea una divisione: straniero, quindi non uno di noi, non ci appartiene. Ricordo il verso finale della “Canzone dell’Appartenenza” di Giorgio Gaber:

“Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi.”

Una società interculturale si arricchisce quando i punti di vista diversi si incontrano. Solo quando noi riusciremo a togliersi i panni osservando “l’altro” in una diversa prospettiva e lo stesso mondo che ci circonda anche attraverso i suoi occhi, saremo in grado di accettare la diversità e di comprenderla.

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CAPITOLO 2

LA FORMAZIONE PROFESSIONALE

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2.1 Nascita della Formazione Professionale

La nascita della formazione professionale in Italia va di pari passo con la storia dei contratti formativi che vengono regolamentati attraverso diversi processi legislativi a partire dal secolo scorso. La prima norma della storia dell’istruzione e formazione professionale risale al 1859, la cosiddetta Legge Casati che di fatto incaricava lo Stato a finanziare iniziative di istruzione professionale. Si tenga conto come la forma di lavoro subordinato che consentiva al prestatore d’opera di svolgere il lavoro di un’azienda per imparare o per far fronte ad eventuali situazioni di contingenza o di emergenza, assumesse nel corso degli anni varie denominazioni: tirocinante garzone, apprendista. Tali figure avevano in comune sia il diritto della retribuzione sia quello della formazione. Non c’era ancora la coscienza dei diritti di base dei lavoratori (si affermeranno molto più tardi in Italia), il Codice Civile del 1865 regolava soltanto quegli aspetti problematici legati all’istituto dell’apprendistato che pure era molto diffuso, per quanto riguardava la gestione degli eventuali danni arrecati dall’apprendista e la risoluzione di controversie che sorgevano all’interno di tale rapporto.

Una regolamentazione più precisa ci sarà nel periodo del ventennio fascista dapprima con il passaggio al Ministero dell’Istruzione delle competenze per i corsi di formazione pratica per i lavoratori e successivamente con i due regi decreti emanati nel 1938 che di fatto hanno creato un unico quadro riformatore di riferimento dell’apprendistato. È con questo processo legislativo che si comincia a prendere coscienza dell’importanza della formazione e dell’istruzione professionale e della sua necessità ad essere strettamente legata alla richiesta di manodopera o di qualifiche specializzate del mondo del lavoro. Infatti, oltre agli obblighi del datore di lavoro, alla quantificazione ed alla regolamentazione della retribuzione, per la prima volta compare la definizione dell’apprendista (identificato nell’art. 1 come colui che lavora “con lo scopo di acquisire la capacità necessaria per divenire lavoratore qualificato mediante addestramento pratico e la frequenza, ove siano istituiti, dei corsi per la formazione professionale dei lavoratori di cui al RDL 21 settembre 1938, n.1380”) ma anche l’istituzione di corsi indirizzati agli apprendisti del settore industriale e commerciale per la formazione ed il perfezionamento come operai specializzati e qualificati. Di fatto tali corsi venivano organizzati dalle confederazioni dei lavoratori, che avevano così modo di far fronte alle richieste del

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proprio mercato. Era quindi una prima istituzione di un rapporto di collaborazione tra mondo della scuola e mondo del lavoro.

Di lì a poco il Codice Civile del 1942 vi dedica alcune norme che stanno all’interno del Libro V dove in 5 articoli vengono inseriti in maniera particolareggiata la durata del tirocinio, la retribuzione, l’istruzione professionale, il diritto dell’attestato al termine del rapporto e l’applicabilità della disciplina relativa ai rapporti di lavoro (dall’art.

2130 all’art. 2134). La grande attenzione delle parti sociali al problema della formazione fa sì che nel periodo tra le corporazioni e confederazioni fasciste e la Costituzione Repubblicana venisse salvaguardato l’impianto legislativo preesistente che ha portato anche alla sua integrazione nei primi contratti settoriali collettivi del lavoro. Il RDL del 1938 viene abrogato dalla L. 25 del 9 gennaio 1955 e successive modificazioni, che rappresentò una riforma organica dell’istituto dell’apprendistato che viene rivisto in tutte le sue parti, aggiungendo l’aspetto incentivante che favorisce l’utilizzo di questa forma di contratto formativo con l’impiego di agevolazioni economiche e normative. Una modifica importante si ha nel 1968 con la L. n. 424 del 2 aprile dove viene dato incarico all’ispettorato del lavoro competente nel territorio di controllare che il rapporto di apprendistato non sia instaurato per meri motivi speculativi o come serbatoio di manodopera qualificata a basso costo.

2.2 Il Fondo Sociale Europeo

Con la nascita della Comunità Economica Europea nel 1957, il trattato di Roma istituisce il Fondo Sociale Europeo (articolo 123) e formula “principi generali per l’attuazione di una politica comune di formazione professionale” finalizzata, tra l’altro, a favorire lo “sviluppo armonioso delle economie nazionali e del mercato comune”. Il Fondo Sociale Europeo, divenuto operativo nel 1960, giocherà un ruolo sempre più rilevante nello sviluppo della formazione professionale in Italia (la sua conclusione era prevista per il 2006 ma è stato rinnovato il suo utilizzo con nuove direttive e nuove concezioni di formazione professionale, come la strategia di Lisbona ad esempio che prevede l’economia europea basata sulla conoscenza più avanzata entro il 2010). Nelle sue prime fasi, l’FSE viene utilizzato come uno strumento per “compensare” la perdita del posto di lavoro. Il Fondo aiuta infatti i lavoratori dei settori oggetto di ristrutturazione,

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fornendo loro assegni di riqualificazione, e agevola il reinserimento dei lavoratori non occupati che sono emigrati dalla regione di appartenenza per cercare lavoro altrove.

L’FSE ha un raggio d’azione molto più ampio rispetto al precedente Fondo CECA20, poiché copre tutti i settori eccetto l’agricoltura. Nei primi anni, in assenza di una strategia europea generale, l’FSE viene impiegato per affrontare problemi a livello nazionale.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’economia europea è fiorente e la disoccupazione viene ritenuta un fatto eccezionale. L’Italia, però, ha quasi 1,7 milioni di persone senza lavoro, che sono circa i due terzi dei disoccupati dell’intera CEE. Tra il 1955 e il 1971, ben 9 milioni di lavoratori lasciano il Sud del paese, emigrando alla ricerca di lavoro nelle regioni industrializzate del Nord e all'estero. Di conseguenza, gli italiani sono i principali beneficiari delle indennità di riqualificazione e reinserimento dell’FSE. I finanziamenti dell’FSE, a cui deve già corrispondere uno stanziamento nazionale di uguale portata, sono convogliati in progetti gestiti dal settore pubblico: le imprese private in questo periodo non prendono dunque parte all’FSE.

Nel 1971 l’FSE è sottoposto a una riforma: il finanziamento viene orientato verso categorie e gruppi specifici di persone e al contempo la sua dotazione viene aumentata.

Gli agricoltori e i braccianti che abbandonano i campi diventano ammissibili nel 1972, mentre nel 1975 è la volta del settore tessile.

Nel 1975 nasce inoltre il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), che dovrà occuparsi dello sviluppo delle infrastrutture nelle regioni più arretrate, per consentire all'FSE di dedicarsi principalmente ad aiutare i cittadini di tutta Europa ad acquisire nuove competenze. Collettivamente, i due fondi sono denominati “Fondi strutturali”. Entro la fine degli anni Settanta aumenta considerevolmente il numero di giovani disoccupati, i quali diventano pertanto una priorità dell’FSE. In risposta al ruolo sempre maggiore assunto dalle donne nel mercato del lavoro, l’FSE aumenta il sostegno nei loro confronti,

20 «Nel 1951 sei paesi (Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) siglano il trattato di Parigi e costituiscono la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per garantire una gestione in comune di queste materie prime, fondamentali dal punto di vista militare. L’obiettivo primario è di impedire nuovi conflitti nel continente. […] Il trattato CECA istituisce un fondo con l’obiettivo di aiutare i lavoratori dell’industria carbosiderurgica ad acquisire una serie di competenze professionali per tenere il passo con l’ammodernamento industriale, con la conversione verso nuovi tipi di produzione o, in mancanza di ciò, per consentire loro di cercare lavoro in altri settori o in altre zone geografiche. Questo fondo, noto come il Fondo CECA per la riqualificazione e il reinserimento dei lavoratori, è stato il precursore del Fondo sociale europeo (FSE)». http://www.sicilia- fse.it/Uploads/StoriaFSE/FondoSocialeEuropeo.pdf; (ultima consultazione 25/07/2014).

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sia che abbiano perso l'impiego sia che intendano inserirsi nel mercato del lavoro per la prima volta o vi ritornino dopo una pausa. L’FSE inizia a occuparsi anche di altri gruppi, quali i disabili e i lavoratori anziani (oltre i 50 anni) e proprio per questo non può continuare a lavorare unicamente con organismi pubblici: vengono pertanto coinvolti le parti sociali quali i sindacati e le singole aziende. Questa esigenza induce un cambiamento fondamentale nel modus operandi del Fondo: in precedenza, infatti, gli Stati membri attuavano i progetti ricevendo il finanziamento soltanto in un secondo momento, mentre ora, grazie a un meccanismo di approvazione preliminare, viene avviato un processo per mezzo del quale la Commissione e gli Stati membri definiscono le priorità comuni in tutta l’Unione Europea e stanziano i fondi necessari a perseguirle.

Questo excursus storico legislativo serve per capire come dall’istituto dell’apprendistato e dalla nascita della CEE si sia arrivati agli anni ’70 ed alla legge 285/1977 che regolamenterà il contratto di formazione lavoro, di fatto un ulteriore riforma dell’istituto che poi diventerà il volano del sistema formativo italiano degli anni ’80. Ci si rese presto conto che il boom tecnologico degli anni ’70 aveva fatto sì che il fenomeno dell’urbanizzazione ed il conseguente passaggio da un sistema economico prevalentemente agricolo ad uno prettamente industriale aveva prodotto molta manodopera senza alcuna preparazione e pertanto mal rispondente alle richieste del mercato di lavoro via via sempre più variabile.

2.3 L’evoluzione dalla Legge 21 dicembre 1975, n. 845 – Legge quadro in materia di formazione professionale

Con il DPR 15 gennaio 1972 n. 10, emanato dopo la formazione delle Regioni italiane, si trasferiscono le competenze ministeriali in materia di istruzione professionale nel settore extra scolastico alle Regioni. Le parti sociali si resero conto della necessità di definire un impianto legislativo ben preciso che istituzionalizzasse l’istruzione professionale giungendo così all’approvazione della L. 845/78 che la riformava e ne definiva in modo più articolato i principi e le linee guida generali sancite precedentemente.

Questa legge riveste una notevole importanza anche nel mondo dei disabili in quanto introduce la necessità di una normativa organica demandata alle regioni in materia

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di disabilità (art. 4 comma 1d: “la qualificazione professionale degli invalidi e dei disabili, nonché gli interventi necessari ad assicurare loro il diritto alla formazione professionale”) ma soprattutto promuove o chiede la promozione di interventi idonei di assistenza psico- pedagogica, tecnica e sanitaria nei loro confronti al fine di assicurare l’inserimento lavorativo e favorirne l’integrazione sociale (art. 3 comma 1k). Particolare attenzione viene rivolta anche a chi è diventato disabile per motivi di lavoro o per malattia promuovendo idonee iniziative a loro mirate. Tra l’altro il diritto alla formazione professionale per i disabili, oltre ad essere riconosciuto dalla Costituzione Italiana (Art.

38), ha il suo caposaldo legislativo nella legge 118/71 dove per la prima volta vengono previste specifiche norme di inserimento lavorativo: in particolare, dopo l’obbligo scolastico, i disabili sono ammessi in forza all’art. 23 della suddetta legge a fruire delle iniziative di orientamento, di addestramento, di qualificazione e riqualificazione professionale a carico del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale. Nell’art. 5 della stessa legge vengono di fatto riconosciuti gli istituti speciali per disabili che tutt’ora funzionano regolarmente (seppure in numero inferiore che accolgono poche migliaia di disabili) nonostante si sia sancita la loro chiusura con la L. 517/77 nel nome dell’integrazione scolastica.

Attualmente la globalizzazione ha comportato un radicale cambiamento dello stile di vita degli individui in tutti gli ambiti: la comunicazione, l’informazione e l’innovazione tecnologica in maniera particolare anche sotto l’aspetto culturale. Si annullano di fatto le distanze sia temporali che spaziali, si abbattono i tradizionali confini fisici della Nazione per vivere in un contesto sovranazionale. Il mondo del lavoro non può che risentirne, vengono create nuove forme di flessibilità, nuovi contratti di inserimento lavorativo, nuove modalità di ingresso nel mondo del lavoro ma anche nuove modalità di apprendimento. Allo stesso tempo si rende necessario l’adeguamento della formazione professionale a tali mutamenti perché chi esce dai corsi di formazione non sia già obsoleto o sorpassato.

2.4 “Il Rapporto sul futuro della Formazione in Italia”

Prima parlavo di mutamenti culturali: la mia impressione è che la globalizzazione insieme alla sua forsennata ricerca del massimo profitto non solo abbia distolto

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l’attenzione alle particolarità e specificità locali dei singoli Paesi ma anche alle fasce deboli ed alla loro formazione.

“Il Rapporto sul futuro della Formazione in Italia” 21 edito dalla Commissione istituita con DM 2 aprile 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali e pubblicato a Roma il 10 novembre 2009, è un interessante documento con buone basi per una riflessione.

Riporto un passo della prefazione del Ministro Sacconi, dove riferisce: «Rispetto a questo scenario ideale sono ben consapevole della persistenza di barriere nell’accesso a un lavoro regolare e di qualità soprattutto per i giovani, le donne, gli anziani, gli immigrati e i disabili. Così come sono consapevole della assenza, nel mondo del lavoro, di condizioni di effettiva parità di opportunità tra gli uomini e le donne e della profonda spaccatura tra il Nord e il Sud del Paese. È mia personale convinzione che il superamento di tutte queste criticità del mercato del lavoro – vere e proprie ingiustizie sociali per il valore che attribuisco al lavoro come sede di sviluppo della persona – non possa più essere affidato a una concezione formalistica e burocratica dei rapporti di lavoro che alimenta un imponente contenzioso e un sistema conflittuale di relazioni industriali che frena lo sviluppo della persona, la crescita economica e la coesione sociale e istituzionale. Un moderno quadro regolatorio delle relazioni di lavoro, attento alla centralità della persona, deve porsi quali obiettivi sostanziali i tre fondamentali diritti che dovranno essere garantiti a ogni persona che lavora, indipendentemente da formalismi e qualificazioni giuridiche.»

I diritti di cui parla sono il diritto alla sicurezza, il diritto all’equa retribuzione ma soprattutto il diritto «all’incremento delle conoscenze e delle competenze lungo tutto l’arco della vita quale vera garanzia di stabilità occupazionale, di espressione delle proprie potenzialità e di elevazione delle proprie condizioni professionali».

Quel lifelong learning, l’apprendimento che dura tutto l’arco della vita, che rappresenta il perno centrale delle riforme europee della formazione professionale, colloca finalmente la persona al centro di tutto il sistema purché tale sistema si adegui in base alle caratteristiche, alle competenze, alle abilità ed alle attitudini della persona stessa.

21 http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/6F0C1B13-DDAF-4FCD-B361-

4DE8613C10A8/0/rapportoformazioneDeRita.pdf, (ultima consultazione 01/07/2014).

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Il protagonismo del discente non è il solo effetto della globalizzazione: come giustamente viene riferito nel Rapporto: «[…] in primo luogo cambia il ruolo dell’istruzione e della formazione formale, che diventa solo una delle modalità del processo di apprendimento. In secondo luogo, viene riconosciuto anche il processo di apprendimento non formale e informale. In terzo luogo, la centratura non è più sul corso, come unità di riferimento della programmazione e della progettazione formativa, ma sulle competenze e quindi sulla loro validazione e sul riconoscimento. Cambia anche il ruolo del formatore, che diventa facilitatore e accompagnatore del processo di apprendimento, cambiano i luoghi e la strumentazione».

Il ruolo dell’istruzione formale viene completamente rivisto in un’ottica diversa:

il mondo della scuola e dell’Università ed il mercato del lavoro sono non più mondi distinti ma “costretti” a marciare su binari paralleli: devono collaborare di pari passo perché gli allievi acquisiscano competenze in uscita tali da essere effettivamente pronti ad affacciarsi al mercato del lavoro.

È sotto gli occhi di tutti come, nonostante le varie riforme di istruzione susseguitisi nel corso degli anni, si continui a sfornare capitale umano senza però alcuna prospettiva nel mercato del lavoro o perché non si spendono adeguatamente risorse legate alla ricerca e alla cultura o perché questo connubio tra istruzione formale e mondo del lavoro non funziona. Il “Rapporto sul futuro dell’Istruzione professionale” analizza le criticità attuali, sottolineando le criticità sia nei giovani sia negli adulti. Per i primi, le criticità provengono da diversi fattori:

 mancanza di coperture finanziarie per i percorsi attivati laddove non rientrino nei requisiti previsti dal Fondo Sociale Europeo;

 qualifiche in uscita difficilmente spendibili oppure fortemente in sovrannumero nel mercato del lavoro italiano;

 fenomeno della dispersione scolastica persistente;

 quadro dell’offerta formativa troppo disomogeneo di regione in regione.

Per gli adulti le criticità sono di altro tipo:

 quadro dell’offerta debole e frastagliato: una causa può derivare dalle diverse fonti di finanziamento (risorse nazionali, regionali, FSE, fondi interprofessionali);

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 discordanze ed asimmetrie di tipo informativo che non rendono chiara la domanda del mercato del lavoro;

 la mancanza di governance ai diversi livelli e la conseguente difficoltà a costruire percorsi collaborativi in equipe22;

 la bassa professionalità di molti con particolare riguardo a giovani, donne ed anziani;

 la difficoltà di identificare modalità e contenuti di formazione che garantiscano efficacemente l’occupabilità nell’incertezza di una concreta prospettiva lavorativa.

2.5 “Sistema di Istruzione e Formazione Professionale in Italia”

Un altro rapporto sulla situazione della formazione professionale in Italia è fornito dall’ISFOL nel 2003 (pur datato presenta una fotografia molto attuale) dal titolo “Sistema di istruzione e formazione professionale in Italia”.23

Il quadro legislativo di riferimento è stato sapientemente riassunto:

«[…] La legge 53/03 ricompone in un'unica realtà i due sistemi, tradizionalmente distinti, dell’istruzione e della formazione professionale, che vengono riconosciuti come rispondenti ai medesimi obiettivi di promozione della crescita e di valorizzazione della persona e del cittadino. Nel nuovo sistema, dopo la scuola secondaria inferiore, i giovani possono proseguire gli studi nei licei o nel sistema dell’istruzione e formazione professionale, considerati percorsi paralleli di pari dignità, aventi ciascuno una propria identità e specifiche finalità. L’obiettivo Ë di assicurare che tutti i giovani conseguano almeno un diploma o una qualifica professionale prima di entrare nel mercato del lavoro.

Le disposizioni adottate con la legge 30/03 riguardano, in particolare: la riforma dei Servizi per l’impiego; la riforma dei contratti di apprendistato; la sostituzione dei contratti di formazione e lavoro con i contratti di inserimento; la riforma del lavoro part-time e

22 A mero titolo di esempio il MIUR gestisce i Centri Territoriali per la formazione permanente mentre il Ministero del Lavoro gestisce gli interventi a sostegno dell’occupazione previsti dalla legge 236/93, come la mobilità ordinaria, e la Presidenza del Consiglio gestisce parte degli interventi previsti per la maternità e la paternità nella legge 53/00, come i congedi parentali. A questo si aggiunga la difficoltà di raccordarei vari Fondi Interprofessionali ed altri Ministeri a livello nazionale ed i vari assessorati che si occupano di formazione continua a vario titolo a livello regionale.

23 http://www.cedefop.europa.eu/EN/Files/5139_it.pdf, (ultima consultazione 01/07/2014).

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