LA FORMAZIONE PROFESSIONALE
2.2 Il Fondo Sociale Europeo
Con la nascita della Comunità Economica Europea nel 1957, il trattato di Roma istituisce il Fondo Sociale Europeo (articolo 123) e formula “principi generali per l’attuazione di una politica comune di formazione professionale” finalizzata, tra l’altro, a favorire lo “sviluppo armonioso delle economie nazionali e del mercato comune”. Il Fondo Sociale Europeo, divenuto operativo nel 1960, giocherà un ruolo sempre più rilevante nello sviluppo della formazione professionale in Italia (la sua conclusione era prevista per il 2006 ma è stato rinnovato il suo utilizzo con nuove direttive e nuove concezioni di formazione professionale, come la strategia di Lisbona ad esempio che prevede l’economia europea basata sulla conoscenza più avanzata entro il 2010). Nelle sue prime fasi, l’FSE viene utilizzato come uno strumento per “compensare” la perdita del posto di lavoro. Il Fondo aiuta infatti i lavoratori dei settori oggetto di ristrutturazione,
fornendo loro assegni di riqualificazione, e agevola il reinserimento dei lavoratori non occupati che sono emigrati dalla regione di appartenenza per cercare lavoro altrove.
L’FSE ha un raggio d’azione molto più ampio rispetto al precedente Fondo CECA20, poiché copre tutti i settori eccetto l’agricoltura. Nei primi anni, in assenza di una strategia europea generale, l’FSE viene impiegato per affrontare problemi a livello nazionale.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’economia europea è fiorente e la disoccupazione viene ritenuta un fatto eccezionale. L’Italia, però, ha quasi 1,7 milioni di persone senza lavoro, che sono circa i due terzi dei disoccupati dell’intera CEE. Tra il 1955 e il 1971, ben 9 milioni di lavoratori lasciano il Sud del paese, emigrando alla ricerca di lavoro nelle regioni industrializzate del Nord e all'estero. Di conseguenza, gli italiani sono i principali beneficiari delle indennità di riqualificazione e reinserimento dell’FSE. I finanziamenti dell’FSE, a cui deve già corrispondere uno stanziamento nazionale di uguale portata, sono convogliati in progetti gestiti dal settore pubblico: le imprese private in questo periodo non prendono dunque parte all’FSE.
Nel 1971 l’FSE è sottoposto a una riforma: il finanziamento viene orientato verso categorie e gruppi specifici di persone e al contempo la sua dotazione viene aumentata.
Gli agricoltori e i braccianti che abbandonano i campi diventano ammissibili nel 1972, mentre nel 1975 è la volta del settore tessile.
Nel 1975 nasce inoltre il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), che dovrà occuparsi dello sviluppo delle infrastrutture nelle regioni più arretrate, per consentire all'FSE di dedicarsi principalmente ad aiutare i cittadini di tutta Europa ad acquisire nuove competenze. Collettivamente, i due fondi sono denominati “Fondi strutturali”. Entro la fine degli anni Settanta aumenta considerevolmente il numero di giovani disoccupati, i quali diventano pertanto una priorità dell’FSE. In risposta al ruolo sempre maggiore assunto dalle donne nel mercato del lavoro, l’FSE aumenta il sostegno nei loro confronti,
20 «Nel 1951 sei paesi (Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) siglano il trattato di Parigi e costituiscono la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per garantire una gestione in comune di queste materie prime, fondamentali dal punto di vista militare. L’obiettivo primario è di impedire nuovi conflitti nel continente. […] Il trattato CECA istituisce un fondo con l’obiettivo di aiutare i lavoratori dell’industria carbosiderurgica ad acquisire una serie di competenze professionali per tenere il passo con l’ammodernamento industriale, con la conversione verso nuovi tipi di produzione o, in mancanza di ciò, per consentire loro di cercare lavoro in altri settori o in altre zone geografiche. Questo fondo, noto come il Fondo CECA per la riqualificazione e il reinserimento dei lavoratori, è stato il precursore del Fondo sociale europeo (FSE)». http://www.sicilia-fse.it/Uploads/StoriaFSE/FondoSocialeEuropeo.pdf; (ultima consultazione 25/07/2014).
sia che abbiano perso l'impiego sia che intendano inserirsi nel mercato del lavoro per la prima volta o vi ritornino dopo una pausa. L’FSE inizia a occuparsi anche di altri gruppi, quali i disabili e i lavoratori anziani (oltre i 50 anni) e proprio per questo non può continuare a lavorare unicamente con organismi pubblici: vengono pertanto coinvolti le parti sociali quali i sindacati e le singole aziende. Questa esigenza induce un cambiamento fondamentale nel modus operandi del Fondo: in precedenza, infatti, gli Stati membri attuavano i progetti ricevendo il finanziamento soltanto in un secondo momento, mentre ora, grazie a un meccanismo di approvazione preliminare, viene avviato un processo per mezzo del quale la Commissione e gli Stati membri definiscono le priorità comuni in tutta l’Unione Europea e stanziano i fondi necessari a perseguirle.
Questo excursus storico legislativo serve per capire come dall’istituto dell’apprendistato e dalla nascita della CEE si sia arrivati agli anni ’70 ed alla legge 285/1977 che regolamenterà il contratto di formazione lavoro, di fatto un ulteriore riforma dell’istituto che poi diventerà il volano del sistema formativo italiano degli anni ’80. Ci si rese presto conto che il boom tecnologico degli anni ’70 aveva fatto sì che il fenomeno dell’urbanizzazione ed il conseguente passaggio da un sistema economico prevalentemente agricolo ad uno prettamente industriale aveva prodotto molta manodopera senza alcuna preparazione e pertanto mal rispondente alle richieste del mercato di lavoro via via sempre più variabile.
2.3 L’evoluzione dalla Legge 21 dicembre 1975, n. 845 – Legge quadro in materia di formazione professionale
Con il DPR 15 gennaio 1972 n. 10, emanato dopo la formazione delle Regioni italiane, si trasferiscono le competenze ministeriali in materia di istruzione professionale nel settore extra scolastico alle Regioni. Le parti sociali si resero conto della necessità di definire un impianto legislativo ben preciso che istituzionalizzasse l’istruzione professionale giungendo così all’approvazione della L. 845/78 che la riformava e ne definiva in modo più articolato i principi e le linee guida generali sancite precedentemente.
Questa legge riveste una notevole importanza anche nel mondo dei disabili in quanto introduce la necessità di una normativa organica demandata alle regioni in materia
di disabilità (art. 4 comma 1d: “la qualificazione professionale degli invalidi e dei disabili, nonché gli interventi necessari ad assicurare loro il diritto alla formazione professionale”) ma soprattutto promuove o chiede la promozione di interventi idonei di assistenza psico-pedagogica, tecnica e sanitaria nei loro confronti al fine di assicurare l’inserimento lavorativo e favorirne l’integrazione sociale (art. 3 comma 1k). Particolare attenzione viene rivolta anche a chi è diventato disabile per motivi di lavoro o per malattia promuovendo idonee iniziative a loro mirate. Tra l’altro il diritto alla formazione professionale per i disabili, oltre ad essere riconosciuto dalla Costituzione Italiana (Art.
38), ha il suo caposaldo legislativo nella legge 118/71 dove per la prima volta vengono previste specifiche norme di inserimento lavorativo: in particolare, dopo l’obbligo scolastico, i disabili sono ammessi in forza all’art. 23 della suddetta legge a fruire delle iniziative di orientamento, di addestramento, di qualificazione e riqualificazione professionale a carico del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale. Nell’art. 5 della stessa legge vengono di fatto riconosciuti gli istituti speciali per disabili che tutt’ora funzionano regolarmente (seppure in numero inferiore che accolgono poche migliaia di disabili) nonostante si sia sancita la loro chiusura con la L. 517/77 nel nome dell’integrazione scolastica.
Attualmente la globalizzazione ha comportato un radicale cambiamento dello stile di vita degli individui in tutti gli ambiti: la comunicazione, l’informazione e l’innovazione tecnologica in maniera particolare anche sotto l’aspetto culturale. Si annullano di fatto le distanze sia temporali che spaziali, si abbattono i tradizionali confini fisici della Nazione per vivere in un contesto sovranazionale. Il mondo del lavoro non può che risentirne, vengono create nuove forme di flessibilità, nuovi contratti di inserimento lavorativo, nuove modalità di ingresso nel mondo del lavoro ma anche nuove modalità di apprendimento. Allo stesso tempo si rende necessario l’adeguamento della formazione professionale a tali mutamenti perché chi esce dai corsi di formazione non sia già obsoleto o sorpassato.
2.4 “Il Rapporto sul futuro della Formazione in Italia”
Prima parlavo di mutamenti culturali: la mia impressione è che la globalizzazione insieme alla sua forsennata ricerca del massimo profitto non solo abbia distolto
l’attenzione alle particolarità e specificità locali dei singoli Paesi ma anche alle fasce deboli ed alla loro formazione.
“Il Rapporto sul futuro della Formazione in Italia” 21 edito dalla Commissione istituita con DM 2 aprile 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali e pubblicato a Roma il 10 novembre 2009, è un interessante documento con buone basi per una riflessione.
Riporto un passo della prefazione del Ministro Sacconi, dove riferisce: «Rispetto a questo scenario ideale sono ben consapevole della persistenza di barriere nell’accesso a un lavoro regolare e di qualità soprattutto per i giovani, le donne, gli anziani, gli immigrati e i disabili. Così come sono consapevole della assenza, nel mondo del lavoro, di condizioni di effettiva parità di opportunità tra gli uomini e le donne e della profonda spaccatura tra il Nord e il Sud del Paese. È mia personale convinzione che il superamento di tutte queste criticità del mercato del lavoro – vere e proprie ingiustizie sociali per il valore che attribuisco al lavoro come sede di sviluppo della persona – non possa più essere affidato a una concezione formalistica e burocratica dei rapporti di lavoro che alimenta un imponente contenzioso e un sistema conflittuale di relazioni industriali che frena lo sviluppo della persona, la crescita economica e la coesione sociale e istituzionale. Un moderno quadro regolatorio delle relazioni di lavoro, attento alla centralità della persona, deve porsi quali obiettivi sostanziali i tre fondamentali diritti che dovranno essere garantiti a ogni persona che lavora, indipendentemente da formalismi e qualificazioni giuridiche.»
I diritti di cui parla sono il diritto alla sicurezza, il diritto all’equa retribuzione ma soprattutto il diritto «all’incremento delle conoscenze e delle competenze lungo tutto l’arco della vita quale vera garanzia di stabilità occupazionale, di espressione delle proprie potenzialità e di elevazione delle proprie condizioni professionali».
Quel lifelong learning, l’apprendimento che dura tutto l’arco della vita, che rappresenta il perno centrale delle riforme europee della formazione professionale, colloca finalmente la persona al centro di tutto il sistema purché tale sistema si adegui in base alle caratteristiche, alle competenze, alle abilità ed alle attitudini della persona stessa.
21
http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/6F0C1B13-DDAF-4FCD-B361-4DE8613C10A8/0/rapportoformazioneDeRita.pdf, (ultima consultazione 01/07/2014).
Il protagonismo del discente non è il solo effetto della globalizzazione: come giustamente viene riferito nel Rapporto: «[…] in primo luogo cambia il ruolo dell’istruzione e della formazione formale, che diventa solo una delle modalità del processo di apprendimento. In secondo luogo, viene riconosciuto anche il processo di apprendimento non formale e informale. In terzo luogo, la centratura non è più sul corso, come unità di riferimento della programmazione e della progettazione formativa, ma sulle competenze e quindi sulla loro validazione e sul riconoscimento. Cambia anche il ruolo del formatore, che diventa facilitatore e accompagnatore del processo di apprendimento, cambiano i luoghi e la strumentazione».
Il ruolo dell’istruzione formale viene completamente rivisto in un’ottica diversa:
il mondo della scuola e dell’Università ed il mercato del lavoro sono non più mondi distinti ma “costretti” a marciare su binari paralleli: devono collaborare di pari passo perché gli allievi acquisiscano competenze in uscita tali da essere effettivamente pronti ad affacciarsi al mercato del lavoro.
È sotto gli occhi di tutti come, nonostante le varie riforme di istruzione susseguitisi nel corso degli anni, si continui a sfornare capitale umano senza però alcuna prospettiva nel mercato del lavoro o perché non si spendono adeguatamente risorse legate alla ricerca e alla cultura o perché questo connubio tra istruzione formale e mondo del lavoro non funziona. Il “Rapporto sul futuro dell’Istruzione professionale” analizza le criticità attuali, sottolineando le criticità sia nei giovani sia negli adulti. Per i primi, le criticità provengono da diversi fattori:
mancanza di coperture finanziarie per i percorsi attivati laddove non rientrino nei requisiti previsti dal Fondo Sociale Europeo;
qualifiche in uscita difficilmente spendibili oppure fortemente in sovrannumero nel mercato del lavoro italiano;
fenomeno della dispersione scolastica persistente;
quadro dell’offerta formativa troppo disomogeneo di regione in regione.
Per gli adulti le criticità sono di altro tipo:
quadro dell’offerta debole e frastagliato: una causa può derivare dalle diverse fonti di finanziamento (risorse nazionali, regionali, FSE, fondi interprofessionali);
discordanze ed asimmetrie di tipo informativo che non rendono chiara la domanda del mercato del lavoro;
la mancanza di governance ai diversi livelli e la conseguente difficoltà a costruire percorsi collaborativi in equipe22;
la bassa professionalità di molti con particolare riguardo a giovani, donne ed anziani;
la difficoltà di identificare modalità e contenuti di formazione che garantiscano efficacemente l’occupabilità nell’incertezza di una concreta prospettiva lavorativa.
2.5 “Sistema di Istruzione e Formazione Professionale in Italia”
Un altro rapporto sulla situazione della formazione professionale in Italia è fornito dall’ISFOL nel 2003 (pur datato presenta una fotografia molto attuale) dal titolo “Sistema di istruzione e formazione professionale in Italia”.23
Il quadro legislativo di riferimento è stato sapientemente riassunto:
«[…] La legge 53/03 ricompone in un'unica realtà i due sistemi, tradizionalmente distinti, dell’istruzione e della formazione professionale, che vengono riconosciuti come rispondenti ai medesimi obiettivi di promozione della crescita e di valorizzazione della persona e del cittadino. Nel nuovo sistema, dopo la scuola secondaria inferiore, i giovani possono proseguire gli studi nei licei o nel sistema dell’istruzione e formazione professionale, considerati percorsi paralleli di pari dignità, aventi ciascuno una propria identità e specifiche finalità. L’obiettivo Ë di assicurare che tutti i giovani conseguano almeno un diploma o una qualifica professionale prima di entrare nel mercato del lavoro.
Le disposizioni adottate con la legge 30/03 riguardano, in particolare: la riforma dei Servizi per l’impiego; la riforma dei contratti di apprendistato; la sostituzione dei contratti di formazione e lavoro con i contratti di inserimento; la riforma del lavoro part-time e
22 A mero titolo di esempio il MIUR gestisce i Centri Territoriali per la formazione permanente mentre il Ministero del Lavoro gestisce gli interventi a sostegno dell’occupazione previsti dalla legge 236/93, come la mobilità ordinaria, e la Presidenza del Consiglio gestisce parte degli interventi previsti per la maternità e la paternità nella legge 53/00, come i congedi parentali. A questo si aggiunga la difficoltà di raccordarei vari Fondi Interprofessionali ed altri Ministeri a livello nazionale ed i vari assessorati che si occupano di formazione continua a vario titolo a livello regionale.
23 http://www.cedefop.europa.eu/EN/Files/5139_it.pdf, (ultima consultazione 01/07/2014).
l’introduzione di tipologie contrattuali innovative [ad es. lavoro a chiamata, contratto di somministrazione di lavoro (staff leasing).
In precedenza dispositivi importanti sono stati:
(a) la legge 388/00 (rivista dalla legge 289/02), che ha portato alla costituzione dei Fondi interprofessionali per la formazione continua;
(b) la legge 53/00, che ha introdotto il diritto del lavoratore ad usufruire di congedi formativi per la partecipazione a progetti di formazione presentati dal lavoratore stesso o a titolo individuale oppure facendo riferimento ad accordi contrattuali; in questo ultimo caso Ë prevista anche una riduzione dell'orario di lavoro;
(c) la legge 144/99 in materia di formazione iniziale, che ha introdotto l’obbligo formativo, ossia l’obbligo di partecipare ad uno dei tre canali del sistema formativo (sistema d'istruzione, formazione professionale e apprendistato) fino al 18° anno di età. Da tale provvedimento ha preso il via un processo di riforma della filiera della formazione iniziale. La stessa legge, inoltre, ha introdotto il nuovo canale dell’istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS);
(d) la legge 196/97, che ha individuato i requisiti per ´accreditare le strutture di formazione cui affidare la gestione delle attività, ha rilanciato la formazione in apprendistato, ha introdotto il tirocinio formativo e di orientamento, ha promosso la definizione di un sistema per la certificazione delle competenze e per il riconoscimento dei crediti;
(e) la legge 236/93 sulla formazione continua;».
A mio avviso è evidente come manchi una profonda convinzione da parte di tutti gli attori ad accogliere la prospettiva del lifelong learning: a fronte di un impianto legislativo molto ricco e variegato, bisognerebbe chiedersi come mai disattendiamo completamente la Strategia di Lisbona. Tra le sue finalità a livello comunitario, essa prevede «il conseguimento di un tasso di occupazione complessiva del 70%, di un tasso di occupazione femminile superiore al 60% e l’obiettivo, aggiunto successivamente, dell’aumento del tasso di occupazione dei lavoratori anziani al 50% entro il 2010».24
Se però puntiamo la lente sul mondo della disabilità, i problemi aumentano.
24 http://ec.europa.eu/employment_social/esf/discover/esf_it.htm, (ultima consultazione 13/07/2014).
Sul Corriere della Sera è stato pubblicato un articolo-inchiesta dal titolo: “Scuole speciali: a volte ritornano”25: la giornalista Maria Giovanna Faiella analizza la situazione dell’integrazione scolastica a quasi 35 anni dall’entrata in vigore della legge 517/77.
Come mai ancora oggi si fa fatica a trovare risultati concreti sull’integrazione scolastica dei disabili? Il sogno del legislatore che mirava ad educare in un ambiente “normale” i disabili si è infranto soprattutto perché con la chiusura degli istituti speciali si sono disperse quelle professionalità e quelle competenze che erano all’interno degli ambienti protetti. Tuttora i disabili negli ambienti “normali” non trovano punti di riferimento validi, figure professionali capaci in grado di seguirli. La docenza di sostegno è da sempre numericamente inadeguata, talvolta incompetente su certe disabilità (soprattutto per le disabilità sensoriali: sordi e ciechi) non per loro colpa o scelta ma perché il loro percorso formativo universitario non è completo. Viene da pensare che, solo per mero ritorno economico (una voce di spesa che incideva pesantemente sulle casse pubbliche veniva così tagliata se non azzerata), il legislatore della legge 517/77 abbia cavalcato la demagogia della chiusura dei “ghetti”, chiudendo anche gli istituti speciali per sordi e per ciechi che in realtà funzionavano bene: i disabili sensoriali infatti uscivano comunque formati e preparati per il mondo del lavoro. Il mio sospetto è confermato anche all’interno dell’articolo del Corriere della Sera.
Questo articolo è utile per riflettere su come il sistema dell’istruzione formale e della formazione professionale abbia poca attenzione nei confronti delle fasce deboli in quanto non sono risorse immediatamente spendibili sul mercato ma soprattutto perché vige un’errata concezione di fondo: i disabili, che già nel nome-etichetta presentano una negatività (dis-abili), non sono risorse ma sono spese. In un mondo globalizzato che sembra condannato ad accelerare i tempi nell’ennesima corsa al profitto, i numeri contano: i disabili in misura percentuale sono troppo pochi e nonostante questo incidono pesantemente nei bilanci sociali sotto la voce di spesa welfare. Guarda caso, i primi tagli che si prospettano in periodi di vacche magre come quello che stiamo vivendo, vanno tutti a danno delle categorie disagiate e delle fasce deboli, quasi additati come la vera causa della crisi.
25 http://www.corriere.it/salute/disabilita/10_aprile_15/scuole-speciali-ritornano_6742dd98-3b28-11df-80d0-00144f02aabe.shtml, (ultima consultazione 15/07/2014).
CAPITOLO 3