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La formazione professionale

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA (pagine 58-61)

UNA FORMAZIONE ACCESSIBILE

4.2 La formazione professionale

Per il collocamento di un disabile sono molti gli strumenti adottati dalle strutture di collocamento. Innanzitutto il colloquio di orientamento che permetterebbe al disabile di «prendere maggiore consapevolezza in merito alle proprie competenze, potenzialità e limiti e di definire un Obiettivo Professionale, confrontandosi con un professionista competente in orientamento del lavoro ed esperto conoscitore del mercato del lavoro locale».32 Spesso però si seguono schemi pre-confezionati e per il sordo sorge immediatamente la difficoltà di comunicazione. Seppur maggiorenne, viene spesso accompagnato da un famigliare che risponde per lui. L’orientatore non conosce gli aspetti culturali delle persone sorde e quindi ragiona secondo i suoi schemi mentali, propri della sua cultura. A questi colloqui le aspettative sono contrastanti:

 la famiglia spesso punta al meglio, al lavoro sicuro e pone aspettative alte e irraggiungibili per il figlio e non solo talvolta per l’istruzione scolastica deficitaria;

 la persona sorda punta ad avere qualunque tipo di lavoro per “accontentare”

la famiglia e mostrarsi autonoma e capace, visto che è cresciuta con l’idea di essere limitata e di non poter ambire a prospettive di carriera;

 l’orientatore spesso vede l’interlocutore sordo come un disabile mentale: il lessico limitato e talvolta la voce roca, i segni visti come gesti o mimo di stampo primitivo fanno sì che si cerchi per lui lavori di manovalanza oppure di tipo meccanico, imitativo e ripetitivo, senza prospettive di carriera o miglioramenti professionali;

32 http://www.lavoro.laspezia.it/servizio-collocamento-mirato, (ultima consultazione 20/07/2014).

 l’azienda pensa che la persona sorda non comunichi e quindi sia difficile stabilire una relazione: per questo scarta a priori la possibilità di assumerla;

 i candidati sordi, a causa del percorso scolastico deficitario, non hanno titoli di studio adeguati e quindi non possono accedere al mercato del lavoro.

Le borse-lavoro sono uno strumento molto utilizzato e spesso i risultati sono fallimentari. Dovrebbero permettere alla persona sorda di imparare un nuovo lavoro, inserirsi in un contesto lavorativo ed al termine del periodo di prova, se valutato positivamente, essere assunto se non in quell’azienda, in un contesto simile. Spesso la borsa lavoro si rivela però come un “posteggio” temporaneo: la persona sorda, oltre a non imparare molto, ha l’illusione di un’assunzione che poi non arriva. Il problema di tutto questo sta nel fatto che spesso le aziende non sono attrezzate per accogliere lavoratori sordi e che i servizi per l’inserimento lavorativo non si appoggino a persone qualificate come l’assistente alla comunicazione o l’interprete LIS.

Il voucher formativo individuale è un’azione prevista dalle Regioni nell’ambito delle programmazioni per l’utilizzo delle risorse dell’F.S.E. È uno strumento disponibile che permette di individuare percorsi di formazione, diversi dai corsi di formazione professionale normalmente programmati, che vengono finanziati dalla Provincia di residenza che ne cura l’erogazione e il monitoraggio. C’è un’ampia offerta formativa disponibile ma il problema per l’utente sordo è che tutti i corsi finanziabili non sono accessibili. Il costo dell’accessibilità non è previsto e comunque chi se ne deve far carico?

E come?

Per chiarire quanto scritto sopra, voglio portare l’esempio di P., una ragazza di oltre 20 anni, impiantata, che ha iniziato da poco a comunicare con la lingua dei segni e che è stata seguita dai servizi sociali del suo paese di residenza. Purtroppo P. non ha ottenuto il diploma di maturità ma solo un attestato di frequenza per aver frequentato la scuola seguendo un PEI differenziato. P. ha grossi problemi di comunicazione, una scarsissima competenza in lingua italiana e ha un livello di maturità pari a quello di una ragazzina di 12 anni. La sua diagnosi è solo di sordità: probabilmente se fosse stata seguita fin dall’infanzia da persone qualificate, ora non sarebbe in queste condizioni. Per lei era stato chiesto alla Provincia un corso di formazione professionale che seguisse le sue passioni per darle una maggior motivazione. Durante questo corso, P. doveva essere

affiancata da un’assistente alla comunicazione che avrebbe adattato il materiale e le lezioni alle sue competenze. Dopo un primo colloquio, è stato proposto a P. un corso di circa venti ore, quindi non professionalizzante, finanziato attraverso i voucher formativi.

Sono fermamente convinto che i corsi per l’inserimento lavorativo debbano essere più efficaci; il tempo, i fondi economici e le risorse umane devono convergere subito sull’obiettivo finale: l’acquisizione di competenze tali da poter essere spendibili nel mondo del lavoro. Se il corso non è professionalizzante le risorse sono buttate vie ed il tempo è perso.

L’azienda contattata per progettare il percorso formativo da finanziare con i voucher voleva offrire un corso diverso da quello inizialmente concordato, che a P. non interessava: questo perché, secondo loro, non era necessaria l’assistente alla comunicazione. Si è facilmente capito che la proposta era stata avanzata solo per non dover dividere la già risibile somma dei voucher con altri. Fortunatamente la famiglia e la Provincia hanno capito l’inutilità di questo percorso ed hanno deciso di annullare tutto.

Ho voluto raccontare questo caso per far riflettere su quante scelte sono state sbagliate e fatte a discapito di P.

Un altro esempio è quello di R., donna di quasi 40 anni, che usa la LIS e che ha frequentato diversi istituti per sordi finché alla fine ha conseguito un titolo di studio all’Accademia di Belle arti di Carrara. A prima vista sembra un buon risultato: infatti R.

mostra con orgoglio il suo diploma. Si scopre però che il suo cammino è stato “agevolato”

dalla sua insegnante di sostegno che l’ha aiutata durante gli esami. Per questo, ma anche per altre esperienze in passato, è cresciuta con la convinzione che, essendo sorda, abbia un diritto quasi divino al lavoro. Visto l’attestato conseguito e vista la sua passione per le arti, le è stata assegnata una borsa di studio presso un museo, nell’intenzione di formarla come una guida sorda in modo che possa seguire i visitatori sordi. Già in partenza era un progetto molto utopistico perché prevedeva un percorso di formazione standardizzato per le guide e non c’erano risorse per renderlo accessibile, fornendo un’assistente alla comunicazione che le avrebbe passato i contenuti adattati al suo livello di conoscenze. La proposta era quella che avrebbe affiancato le guide ed avrebbe imparato “ascoltandole”.

Dopo tre mesi, il risultato è stato che stava seduta quotidianamente alla portineria in un angolo ed ogni tanto girava per il museo a controllare che i visitatori non uscissero dal

percorso espositivo. Le guide avevano constatato l’enorme difficoltà nel farsi capire sia nella comunicazione basilare sia nel passarle termini tecnici. Formare R. significava togliere una risorsa che si dedicasse completamente a lei senza però avere la garanzia di un risultato accettabile. È stato chiesto ai servizi sociali di cambiarle destinazione perché era evidente il fallimento di questo progetto. Dopo anni di vari tentativi in luoghi di lavoro diversi, ha rinunciato a cercare lavoro e fa la casalinga.

L’idea del progetto era ottima ma non ha funzionato perché non c’è stata la volontà di investire, anche economicamente, sul progetto. Si poteva, ad esempio, prevedere un corso di formazione o di aggiornamento per guide, reso accessibile in LIS, che prevedesse anche moduli formativi sulla cultura sorda e sulla LIS: avrebbero potuto partecipare udenti e sordi creando così delle risorse spendibili sul territorio per creare un servizio di guida turistica accessibile alle persone sorde. È mancato quindi il coraggio di innovare e di testare nuove possibilità, più che la disponibilità economica che non è mai stata verificata.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA (pagine 58-61)

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