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La finanza americana fra euforia e crisi

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Academic year: 2021

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Giacomo Luciani

Stanford Research Institute

Martin Feldstein

National Bureau of Economie Research, Washington

Efisio Espa

Istituto Universitario Europeo, Firenze

David Dollar

University of California, Los Angeles

Jeff Frieden

University of California, Los Angeles

Giannandrea Falchi

Banca d'Italia

Stephan Schulmeister

Austrian Institute of Economie Research, Wien

Michael D. Goldberg

New York University, New York

Jan A . Kregel

The Johns Hopkins University, Bologna

Colin Mayer

City University, London

J e f f r e y A . Frankel

University of California, Berkeley

Elvio Dal Bosco

Associazione per le previsioni ed informazioni economiche,

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La finanza americana

fra euforia e crisi

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INDICE

Giacomo Luciani

Introduzione 9

Martin Feldstein

Strengthening the American Financial System 25 Efisio Espa

Il processo di deregolamentazione

nel sistema bancario e finanziano americano, 1975-1987 37

1. Introduzione

2. L'innovazione finanziaria 42 3. Le tendenze principali sui mercati finanziari americani 45

4. Il «Securities Acts Amendments» del 1975 49

5. Il «Deregulation Act» del 1980 54 6. Il «Garn-St. Germain Act» del 1982 55 7. Il «Competitive Equality Banking Act» del 1987 57

8. Gli squilibri nel sistema finanziario statunitense - 58 9. Deregolamentazione, concorrenza e fallimenti 64 David Dollar, Jeff Frieden

The Politicai Economy of Financial Deregulation

in the United States and Japan 73

1. Introduction y ^ 2. Analytical Framework:

Financial Internationalization and Domestic Regulation 76 3. The Politicai Economy of Banking Deregulation in the United States 80

4. The Politicai Economy of Banking Deregulation in Japan 90

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Giannandrea Falchi

Il «Glass-Steagall Act», le banche e i gruppi polifunzionali 103

1. Introduzione 105 2. Il «Glass-Steagall Act» nel contesto

di un sistema finanziario in rapida evoluzione 105

3. Il «Financial Modernization Act» 108 4. Prospettive per il sistema finanziario statunitense 109

5. Stabilità e normativa prudenziale 1 1 1

6. Conclusione 114

Stephan Schulmeister, Michael D. Goldberg

Noise Trading and the Efficiency of Financial Markets

An Investigation into the Dynamics

of Exchange Rates and Stock Prices 117

1. Introduction 119 2. Some Observations on the Pattern of Speculative Prices 121

3. The Profitability of Technical Analysis in the Foreign

Exchange Market and in the Stock Market 126 4. Transaction Costs and the Role of the Futures Market 144

5. The Stock Market Crash of October 19, 1987:

An Out-of-Sample Case Study 147

6. Concluding Remarks 153

Jan A. Kregel

Technical Change and Innovation

in the Organization of Stock Market Trading 165

1. Introduction 167 2. Private Markets, Public Markets and Information 167

3. From the Cali System to the Specialist System 170 4. Price Continuity in Continuous Markets 171 5. Property Owning Democracy Becomes

«Money Manager Capitalism» 174 6. Block Trading and the Specialist 175 7. Block Trading and Programme Trades 180 8. Implications for Change in Organization 185

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Colin Mayer

The Influence of Tìnance on the Takeover Process 191

1. Introduction 193 2. Taxation 195 3. The Financing of Acquisitions 198

4. The Performance of Acquisitions 203 5. Information Theories of Finance 205 6. Corporate Finance and the Takeover Process 206

Jeffrey A. Frankel

United States Borrowing from Japan 211

1. Introduction 2 1 3 2. Origins of the Us Borrowing from Japan 2 1 3

3. Implications of the Us Debt to Japan 227

Elvio Dal Bosco

L'interazione fra i sistemi finanziari

americano e tedesco occidentale 241

1. Il quadro di riferimento internazionale 243 2. L'internazionalizzazione del sistema finanziario della RFT 244

3. I movimenti di capitali fra la RFT e gli Stati Uniti 247

Sebastian Edwards

A Market Solution for the Debt Crisis? 251

1. Introduction 253 2. The Officiai Debt Strategy and the IMF 255

3. The Analytics of Debt Forgiveness and Market Based Mechanisms 264 4. The Debt Crisis and the Secondary Market:

Recent Experiences 2 7 1 5. Conclusions 281

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INTRODUZIONE

Il crollo del mercato azionario di Wall Street che ebbe luogo il 19 ottobre del 1987 sollevò in molti osservatori il timore che si fosse alla vigilia di una nuova crisi dell'economia mondiale, simile a quella il cui inizio fu segnalato da un analogo crollo nel 1929. Ad un anno di distanza, quel timore sembra essere stato allontanato, ma l'episodio ha suscitato il vivo interesse de-gli economisti, e numerose sono state le iniziative tese a valutar-ne il significato. Tra queste si colloca anche il Quaderno che presentiamo al lettore, in cui sono raccolti i contributi discussi nel seminario tenutosi presso il Centro Studi Americani il 18-19 ottobre 1988. La caratteristica distintiva di questa raccolta, ri-spetto alle altre che sono state proposte, è da un lato l'attenzio-ne alla dimensiol'attenzio-ne internazionale del problema, l'attenzio-nella convinzio-ne che il processo di deregolamentazioconvinzio-ne del sistema finanziario a livello nazionale sia strettamente legata e spinta dalla parallela internazionalizzazione dei flussi finanziari; e, dall'altro, lo speci-fico interesse per il tema dell'efficienza del mercato, o in altre parole per il quesito se la crescente importanza attribuita ai mec-canismi del libero mercato porti in effetti al raggiungimento di un equilibrio, o non rischi piuttosto di condurre a crescente instabilità. E chiaro che la stabilità del processo di internaziona-lizzazione — deregolamentazione dipende fondamentalmente dalla convergenza dei mercati verso un equilibrio, perché se così non fosse si assisterebbe prima o poi ad una qualche oscillazione catastrofica che costringerebbe i governi ad intervenire e ad in-vertire la linea di tendenza, ristabilendo controlli e segmentazio-ni. Da qui lo specifico interesse per lo sbalzo registrato da Wall Street nell'ottobre del 1987 — oscillazione fuori norma o prelu-dio di una crisi più grave? — che però non deve, a parer nostro, essere visto isolatamente, bensì nel contesto più generale dell'e-voluzione dei mercati finanziari. Del resto l'esperienza del pas-sato insegna; il crollo del 1929 non segnò soltanto l'inizio della Grande Crisi, ma provocò anche, appunto, l'inversione del pro-cesso di internazionalizzazione della finanza, che era stato assai vivace nei decenni precedenti, ed un sensibile aumento

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dell'in-tervento governativo nella regolamentazione dell'attività finan-ziaria in ciascun paese. La situazione odierna è per molti aspetti diversa da quella di allora, e certamente la diffusione delle poli-tiche anticicliche e l'esistenza di un gran numero di stabilizzato-ri automatici dell'economia rende meno probabile un stabilizzato-ripetersi della Grande Crisi quale venne sperimentata negli anni Trenta — cioè per i suoi aspetti reali. Ma specificamente per quanto riguarda il sistema finanziario, una inversione della tendenza al-la deregoal-lamentazione-internazionalizzazione non può essere esclu-sa, e certo rimane da dimostrare che tale tendenza conduca di persé ad una superiore utilizzazione delle risorse a livello inter-nazionale. Molti, al contrario, argomenterebbero che l'intensifi-cazione dei flussi finanziari internazionali serve soltanto a per-mettere di rimandare l'aggiustamento di squilibri reali, ma non consente di eliminarli; il più delle volte la dilazione nel tempo significa che il sottostante problema reale diventa più difficile ed intrattabile, anziché più facilmente risolvibile; e quindi in definitiva la disponibilità di credito è più oppiaceo, che ottunde la capacità di reazione dei sistemi economici, che non una cura che consente una più rapida crescita dell'economia internaziona-le. Come tutti gli oppiacei, anche questo avrebbe i suoi traffi-canti e profittatori — nel caso specifico gli intermediari finan-ziari che fondano i loro guadagni sulle commissioni e gli arbi-traggi, senza preoccuparsi della stabilità di fondo del sistema. In questa logica, si afferma, alla banca non interessa più che il debitore sia solvibile, perché il suo profitto è assicurato già dalla commissione che intasca nel momento stesso in cui conce-de il credito; e all'operatore di borsa non interessa quale possa essere il giusto prezzo di un titolo, ma solo di valutare l'umore del mercato per decidere quando convenga acquistare e quando vendere. Questi comportamenti, talvolta impropriamente chia-mati speculativi (cosa esattamente sia la speculazione è difficile definire) possono portare a violente oscillazioni e a crisi di fiducia. Abbiamo detto che il processo di deregolamentazione è stret-tamente legato a quello di internazionalizzazione dei flussi fi-nanziari. E interessante ripercorrere le tappe dell'internaziona-lizzazione finanziaria per meglio cogliere questa interrelazione.

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La attuale fase di intensificazione dei flussi internazionali di capitali non è la prima. Già alla fine del secolo scorso e nei primi decenni dell'attuale si ebbe uno sviluppo molto intenso dei flussi finanziari, che venne poi bruscamente interrotto dalla crisi del 1929. Nel dopoguerra, la crescita delle relazioni econo-miche internazionali è stata centrata in primo luogo sul com-mercio, ed in secondo luogo sulla crescita dell'investimento di-retto e sullo sviluppo delle imprese multinazionali, mentre per molto tempo lo sviluppo dei flussi finanziari è rimasto relativa-mente arretrato. Gli intermediari finanziari sono stati inizial-mente stimolati a proiettarsi in una dimensione internazionale dalla necessità di seguire le imprese industriali loro clienti. In altre parole, all'inizio l'internazionalizzazione finanziaria è ap-parsa essere un fenomeno indotto dallo sviluppo multinazionale delle imprese industriali.

I flussi reali sono rimasti al centro dell'attenzione grosso mo-do fino alla metà del decennio Settanta. La prima crisi petrolife-ra (1974) condusse ad un balzo quantitativo degli squilibri delle partite correnti dei principali paesi industriali. Tuttavia, i paesi industriali aggiustarono i loro conti nel giro di un paio di anni, come dimostra l'indice rappresentato nella Figura della pagina seguente. Questo indice rapporta la somma dei valori assoluti degli squilibri commerciali al valore totale del commercio fra paesi industriali e resto del mondo, e avrebbe valore zero nel caso di totale assenza di squilibri commerciali, e valore uno nel caso opposto in cui certi paesi esportano soltanto ed altri sono unicamente importatori. Come mostra la Figura, l'indice crebbe da 0,12 nel 1973 a 0,17 l'anno successivo, ma poi decrebbe a 0,10. Negli anni successivi si verificò una nuova tendenza al-l'aumento, strettamente legata allo squilibrio commerciale ame-ricano, come di nuovo dimostra la Figura. Tuttavia la prosecu-zione dell'aggiustamento reale negli altri paesi determinò una nuova riduzione: gli squilibri reali erano allora concentrati nei paesi in via di sviluppo, ed è allora che maturò progressivamen-te il problema del debito di questi paesi. Ma il punto più impor-tante è la significativa accentuazione degli squilibri nelle transa-zioni reali che si è verificata negli anni Ottanta in stretta con-nessione con l'esplosione dello squilibrio commerciale

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america-no, cui ha corrisposto una intensificazione dei flussi finanziari. Non si comprende la rapida crescita dell'internazionalizzazione finanziaria se non la si vede in stretto collegamento con questo aumento degli squilibri commerciali, ed in particolare col deficit commerciale americano.

Come spesso accade, è difficile discernere con chiarezza la causa dall'effetto: si può argomentare che gli intermediari finan-ziari abbiano semplicemente fatto il loro dovere, provvedendo un meccanismo per diluire nel tempo l'aggiustamento reale; co-me si può argoco-mentare, al contrario, che la crescente incidenza degli squilibri reali corrisponda ad un maggior desiderio del pub-blico, in particolare in certi paesi, di investire all'estero. Nella seconda ipotesi, il fenomeno sarebbe motivato dalla strategia di investimento del pubblico, e i crescenti squilibri reali sareb-bero necessari e «virtuosi»; mentre se i movimenti internaziona-li di capitainternaziona-li sono interpretati come indotti e precipitati

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dall'esi-stenza di squilibri reali, allora il fatto che questi ultimi abbiano teso ad aggravarsi, anziché ad attenuarsi, sembra indicare l'ine-vitabilità di una crisi catastrofica in un qualche futuro, per quanto lontano.

La questione è di quelle che non hanno soluzione: ambedue i punti di vista devono essere tenuti presenti per comprendere gli avvenimenti degli ultimi anni e quelli degli ultimi mesi. Quel che è certo è che l'intensificazione dei flussi finanziari interna-zionali non può continuare altro che se gli squilibri reali si ag-gravano. Si potrebbe immaginare che i flussi finanziari interna-zionali che interessano ciascun paese possano crescere contem-poraneamente in ambedue le direzioni (similmente a quanto è avvenuto col commercio, laddove — contrariamente alle aspet-tative della teoria — il commercio intraindustriale è cresciuto più rapidamente di quello interindustriale); in tal modo i flussi potrebbero espandersi e il saldo netto ridursi. Ma i prodotti finanziari sono molto più omogenei di quelli industriali, e per quanto si possa immaginare che gli investitori abbiano desiderio di diversificare il loro portafoglio — desiderio che può motivare investimenti incrociati — in pratica i flussi finanziari sono mol-to più sensibili di quelli reali ai cambiamenti relativi delle prin-cipali variabili aggregate, quali il tasso di interesse o il tasso di crescita dei prezzi. Mentre le caratteristiche specifiche dei prodotti industriali fanno sì che sia molto comune che paesi il cui livello dei prezzi sia relativamente elevato continuino ad esportare; la possibilità che significativi movimenti di capitali avvengano da paesi ad alto tasso di rendimento reale verso paesi a basso tasso è molto ridotta. Ne consegue che, in generale pos-siamo attenderci una prevalenza di movimenti netti nel compar-to finanziario, il che vuol dire che lo sviluppo di questi flussi postula necessariamente la continuazione o il peggioramento de-gli squilibri reali.

Questa conclusione non può essere accolta senza inquietudi-ne. E chiaro che in definitiva non è possibile che un paese sia eternamente e crescentemente creditore, ed un altro eternamen-te e cresceneternamen-temeneternamen-te debitore: è necessario immaginare una versione delle posizioni relative, e non è chiaro che questa in-versione possa avvenire gradualmente ed ordinatamente.

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Sussi-ste il pericolo che il mercato finanziario sia miope, e incapace di prevedere e gestire l'inversione dei flussi, la quale passerebbe allora attraverso una qualche repentina e probabilmente cata-strofica inversione delle aspettative.

Si è detto che il salto quantitativo negli squilibri reali dovuto alla prima crisi petrolifera fu la causa iniziale del rapido svilup-po dell'intermediazione finanziaria. Al temsvilup-po stesso, esso fu an-che il segnale dell'arresto della crescita rapida delle imprese mul-tinazionali, e l'inizio di una fase di ristrutturazione di molte imprese, in particolare americane, che ha, nel suo complesso, portato ad una riduzione del loro grado di multinazionalizzazio-ne. Tuttavia bisogna guardarsi da facili generalizzazioni: se si è ridotta la sete di multinazionalizzazione delle imprese ameri-cane, non altrettanto è vero per le imprese di altri paesi, in particolare del Giappone e di alcuni paesi europei, le quali han-no continuato ad investire all'estero, ed in particolare negli Sta-ti UniSta-ti. Certamente, quindi, vi è stato un significaSta-tivo riasse-stamento del fenomeno, ma non è chiaro se ciò preluda ad un suo ridimensionamento nel lungo periodo — col ritorno a condi-zioni piii simili a quelle dell'inizio del secolo, quando gli investi-menti finanziari erano molto più dinamici che non quelli diretti — o semplicemente ad una ripresa dopo una temporanea battu-ta di arresto. In una cerbattu-ta misura, la sbattu-tabilità della crescibattu-ta del-l'intermediazione finanziaria richiede anche una ripresa dei flus-si di investimento diretto: così, il riassorbimento del debito dei paesi in via di sviluppo maggiormente esposti, in particolare la-tinoamericani, è probabilmente impossibile se non si verifica una ripresa dell'afflusso di investimenti diretti — un punto sul quale torneremo a proposito delle possibili soluzioni di mercato al pro-blema del debito latinoamericano.

Una ulteriore importante caratteristica della situazione creata-si dopo la prima cricreata-si petrolifera internazionale è stata la con-centrazione di forti attivi finanziari in paesi la cui capacità di assorbimento era strutturalmente limitata. Anche se, in definiti-va, l'esperienza ha dimostrato che la capacità di assorbimento è poi aumentata rapidamente — fin troppo nel caso di certi paesi — ciò ha provocato un periodo di accentuata liquidità

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del sistema finanziario internazionale, che si è tradotta nella prevalenza di tassi di interesse molto bassi o addirittura negativi.

Non è sorprendente che in tali condizioni gli operatori siano stati spinti a comportarsi poco prudentemente: i crediti a molti paesi latinoamericani vennero concessi sulla carta a breve e me-dio termine, quando si riferivano in realtà ad operazioni a lun-go; e a tasso di interesse variabile. Quando, in risposta alla se-conda crisi petrolifera, le autorità monetarie americane mutaro-no rotta e si verificò una impennata dei tassi di interesse, la crisi divenne inevitabile.

Lo stesso fenomeno può essere visto da un punto di vista diverso, centrando l'attenzione sul processo inflazionistico. I me-desimi avvenimenti internazionali che abbiamo ricordato porta-rono anche ad una forte accelerazione del processo inflazionisti-co dei paesi industriali. L'accelerazione dell'inflazione fu una delle cause immediate del precipitare del processo di deregola-mentazione negli Stati Uniti, poiché rese anacronistici i limiti sulla corresponsione di interessi sui depositi in conto corrente e a risparmio. Come si argomenta nel contributo di Frieden e Dollar a questa raccolta, l'erosione dei vincoli venne accelerata dal processo di internazionalizzazione delle principali banche ame-ricane. Dunque esiste uno stretto legame fra inflazione, derego-lamentazione e internazionalizzazione del sistema finanziario.

Al tempo stesso, è inevitabile che il sistema finanziario si tro-vi ad affrontare delle difficoltà nel corso del processo di rientro dall'inflazione. L'inflazione distorce le prospettive di reddito degli investimenti industriali, e spinge le imprese ad imbarcarsi in immobilizzi che appaiono redditizi solo grazie ad essa. La dece-lerazione dell'aumento dei prezzi avviene sempre assieme ad un cambiamento della struttura dei prezzi relativi, che modifica le prospettive di profitto dei singoli investimenti. Interi settori del-l'economia americana sono rimasti gravemente colpiti dall'inver-sione di tendenza dei prezzi nel decennio Ottanta, e ciò ha com-portato l'impossibilità di recuperare buona parte dei crediti con-cessi a questi settori; la quale a sua volta ha messo in difficoltà le istituzioni finanziarie, provocando il collasso di parecchie di quelle di minori dimensioni.

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prospettive sulla stessa vicenda proponendo la seguente genera-lizzazione: i flussi finanziari sono stimolati dall'esistenza di con-dizioni di squilibrio (squilibri commerciali internazionali, accu-mulo di attività finanziarie in paesi a bassa capacità di assorbi-mento, processo inflazionistico) ma i mercati finanziari hanno difficoltà a prevedere i tempi dell'aggiustamento, e questo fini-sce col provocarne la crisi. Quella che è stata chiamata disaster

myopia in realtà non è soltanto incapacità di prevedere un

disa-stro — che sarebbe tutto sommato comprensibile e scusabile, dato che nessun mercato sarà mai in grado di scontare eventi erratici e catastrofici — bensì piuttosto incapacità di prevedere l'aggiustamento dello squilibrio che inizialmente stimola l'inter-mediazione finanziaria. Si direbbe quasi che i mercati finanziari abbiano una naturale tendenza a proiettare comunque nel futu-ro le condizioni del momento, anche quando queste sono palese-mente insostenibili nel lungo periodo.

I contributi raccolti in questo Quaderno non propongono una visione unicamente ottimistica né una visione univocamente pes-simistica del processo di internazionalizzazione finanziaria. An-che l'intervento di Feldstein, An-che pure nel complesso è forse quello che propone la visione più positiva dell'efficienza dei mer-cati finanziari, riconosce che vi sono gravi problemi irrisolti. In particolare, la crisi delle Savings and Loans Institutions negli Stati Uniti imporra un onere al bilancio federale che potrebbe superare, secondo le più recenti stime, i 70 miliardi di dollari. Le principali tappe del processo di deregolamentazione sono riassunte nel saggio di Efisio Espa, che pone in rapporto il pro-cesso di innovazione finanziaria con l'introduzione di nuove leg-gi che hanno gradualmente smantellato le barriere che divideva-no precedentemente il sistema finanziario americadivideva-no in diversi comparti ben distinti. La deregolamentazione e l'aumentata con-correnza, argomenta Espa, conducono inevitabilmente, almeno nel breve periodo, ad un aumento dei fallimenti e delle crisi delle istituzioni più deboli. A sua volta, queste crisi debbono essere affrontate con un accresciuto intervento delle autorità pre-poste alla sorveglianza del mercato finanziario, e per questo mo-tivo si può ipotizzare che la deregolamentazione, cioè

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l'elimina-zione di tutta una serie di limiti legali, si accompagni necessaria-mente ad un più elevato profilo delle autorità monetarie. Al tempo stesso, se le autorità monetarie fanno la loro parte, e si evita una diffusione delle crisi all'intero sistema finanziario, non vi è motivo di ritenere che il processo di deregolamentazio-ne sia instabile, deregolamentazio-nel senso che conduca deregolamentazio-necessariamente ad una crisi catastrofica.

Il successivo saggio di David Dollar e Jeff Frieden analizza il gioco degli interessi che ha sostenuto e provocato il processo di deregolamentazione tanto negli Stati Uniti che in Giappone. Il saggio sottolinea tanto le similitudini (in particolare il fatto che il processo di deregolamentazione e di internazionalizzazio-ne è stato trainato dalle banche di maggiori dimensioni) quanto le sostanziali differenze: nel caso giapponese il processo di dere-golamentazione è avvenuto più rapidamente e coerentemente, come conseguenza di una scelta cosciente delle autorità di go-verno e delle banche principali di proiettare il sistema finanzia-rio giapponese verso l'esterno, scelta che è maturata all'inizio del decennio Ottanta. In ambedue i casi, le sollecitazioni prove-nienti dal contesto internazionale hanno avuto una importanza fondamentale, e il progresso tecnologico nel campo delle comu-nicazioni e del trattamento elettronico dei dati ha consentito uno sviluppo particolarmente rapido. La proiezione delle banche giapponesi sul mercato americano è stata inizialmente facilitata dal fatto che, a causa delle precedenti barriere regolamentari, la struttura finanziaria americana è caratterizzata da un gran numero di banche di dimensioni relativamente piccole, fra le quali le banche giapponesi hanno potuto trovare numerose occa-sioni per acquisire delle teste di ponte.

Al tempo stesso, la vicenda giapponese offre un interessante caso di adattamento all'aggiustamento. Il sistema finanziario giap-ponese è stato infatti in grado di finanziare largamente il deficit di bilancio del governo giapponese negli ultimi anni Settanta, ed è stato il graduale riassorbimento del disavanzo fiscale inter-no che ha spinto le banche a cercare attivamente nuovi impieghi e a impegnarsi con maggior vigore per l'obiettivo dell'interna-zionalizzazione. Ciò suggerisce che la «miopia dell'aggiustamen-to» non è necessariamente comune a tutte le banche e a tutti

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i sistemi bancari — una osservazione del resto confermata dal fatto che l'eccessiva esposizione verso i paesi in via di sviluppo dell'America Latina, è prevalentemente un problema delle ban-che americane, mentre le banban-che di altri paesi lo hanno saputo evitare.

Giannandrea Falchi propone nel suo contributo un'analisi delle proposte tendenti alla abolizione del Glass-Steagall Act, e della parallela crescita di gruppi polifunzionali, i quali svolgono al tempo stesso le funzioni di banche e di agenti di cambio. Le formazio-ni di gruppi polifunzionali è già ad uno stadio relativamente avanzato, indipendentemente dall'adeguamento del quadro legi-slativo, e un suo ulteriore sviluppo è probabilmente inarrestabi-le. Si tratta di una tendenza che pone delle nuove sfide alle autorità monetarie, in particolare impone la necessità di trovare un coordinamento efficace tra sorveglianza bancaria e sorveglianza del mercato azionario, presumibilmente attraverso l'affidamento di ambedue le funzioni ad una unica agenzia.

I successivi tre capitoli discutono aspetti dell'organizzazione dei mercati, utili a valutare l'ipotesi che l'instabilità sia dovuta ad inadeguatezze tecnico-organizzative, e sia quindi eliminabile con opportune modifiche. Il primo dei tre capitoli, opera di Ste-phan Schulmeister e Michael Goldberg, analizza il funzionamento e l'impatto del program trading. Si comprendono sotto questo nome varie tecniche di intervento sul mercato azionario o sul mercato dei cambi che sono basate unicamente sull'andamento dei corsi in un periodo recente e su regole automatiche di inter-vento. Poiché i dati sull'andamento dei corsi sono noti e dispo-nibili su calcolatore, e le regole automatiche di intervento sono esprimibili come funzioni matematiche, è possibile attivare nel calcolatore un programma di intervento sul mercato (trading

pro-gram) che a sua volta decide acquisti e vendite senza

l'interven-to diretl'interven-to dell'operal'interven-tore umano. Quesl'interven-to consente di realizzare profitti sull'arbitraggio di oscillazioni anche di brevissimo perio-do. I dati che vengono qui proposti sono originali perché dimo-strano, attraverso l'analisi delle oscillazioni di brevissimo perio-do (giornaliere o orarie), che alcune regole automatiche di inter-vento consentono in definitiva profitti assai considerevoli. Il punto è in primo luogo che questa possibilità è aperta solo agli

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opera-tori finanziari, e non al pubblico — al quale rimangono invece accollate le perdite. Ma questo è il meno, perché dal punto di vista del pubblico le perdite sono minori e aggiungono solo mar-ginalmente al costo della transazione. L'aspetto più importante è piuttosto che le regole di intervento automatiche sono fondate unicamente sull'evoluzione recente dei corsi, e ignorano del tut-to il problema di quale possa essere il prezzo di equilibrio del titolo o della moneta trattata. In conseguenza, se una parte cre-scente del mercato viene ad essere influenzata da tali regole, il mercato diventa crescentemente irrazionale e instabile. Nel caso del mercato dei titoli, questo sta portando ad una crescente rarefazione del pubblico, che trova troppo pericoloso acquistare titoli direttamente e si rifugia nell'acquisto indiretto, ad esem-pio attraverso i fondi di investimento. In tal modo, il mercato è crescentemente influenzato da operatori che sono in grado di approfittare del program trading e quindi diventa crescentemente instabile. La situazione è diversa nei mercati valutari, perché vi è sempre una domanda ed una offerta di valuta da parte del pubblico motivata dalla necessità di concludere delle transa-zioni, e più difficilmente gli operatori finanziari possono giunge-re a determinagiunge-re completamente il mercato. Tuttavia, se si con-sidera la crescente importanza degli scambi valutari finalizzati a transazioni finanziarie, anziché commerciali, sussiste il perico-lo che il program trading contribuisca ad amplificare, assieme a quella parte della domanda del pubblico motivata da transazioni finanziarie, le oscillazioni delle valute ben oltre il punto di equi-librio (ammesso che un punto di equiequi-librio stabile diverso dal prezzo fissato di giorno in giorno dal mercato sia definibile; ma questa è una questione diversa).

Nel secondo dei tre capitoli dedicati ad aspetti tecnici, Jan Kregel concentra la sua attenzione sulla organizzazione del mer-cato borsistico di Wall Street, caratterizzata dalla trattazione continua dei titoli e dalla figura dello specialista di titolo, e la contrasta con quella più comune nell'Europa continentale e in taluni mercati londinesi (basata sulla concentrazione delle tran-sazioni per un particolare titolo in determinati momenti e da un fixing del prezzo attraverso un meccanismo d'asta). Kregel sostiene che la crescente importanza dei grandi operatori che

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realizzano transazioni di blocchi di titoli di grandi dimensioni ha gradualmente dirottato una fetta crescentemente importante del mercato «al piano di sopra», sottraendola agli specialisti. Questi hanno visto il loro ruolo gradualmente eroso, e non sono ormai più in grado di assicurare la continuità del mercato, perché non hanno e non possono avere tutte le informazioni necessarie. Si verifica così una oscillazione nel senso di una crescente «priva-tizzazione del mercato». Kregel, in altre parole, vede una causa strutturale del fatto che il problema dell'insider trading si sia fatto sempre più grave: è il modo stesso in cui è organizzato il mercato a Wall Street e l'incongruenza di quella organizzazio-ne con la crescente importanza di pochi grandi operatori che crea le condizioni per sempre maggiori e facili profitti per chi viene in possesso di informazioni utili a prevedere l'andamento del mercato.

Il contributo di Colin Mayer si concentra sul fenomeno delle fusioni ed acquisizioni di imprese da parte di imprese concor-renti, e sulle modalità di finanziamento di queste operazioni. La tesi centrale di Mayer è che il fenomeno delle acquisizioni può essere motivato da. cause finanziarie, cioè dalle imperfezioni del mercato dei capitali, anziché da cause reali, cioè dalla capa-cità di migliorare, a seguito dell'assorbimento, la gestione del-l'impresa, o realizzare economie di scala o altri vantaggi di mercato.

Gli ultimi tre capitoli guardano agli aspetti principali dell'ternazionalizzazione finanziaria, e cioè, rispettivamente, agli in-vestimenti giapponesi negli Stati Uniti (Frankel), agli investi-menti tedeschi negli Stati Uniti (Dal Bosco), e al problema del-l'indebitaménto dei paesi in via di sviluppo, in particolare lati-noamericani (Edwards).

Frankel sottolinea l'enormità quantitativa del debito accumu-lato dagli Stati Uniti nel corso dell'ultimo decennio e le motiva-zioni che hanno spinto il pubblico e gli operatori giapponesi ad accrescere tanto i loro investimenti negli Stati Uniti. Il feno-meno pone due quesiti distinti. Nel breve periodo, vi è il peri-colo che per un qualche motivo si verifichi uno spostamento nelle preferenze, e che gli investitori esteri decidano di liquidare i loro investimenti negli Stati Uniti; oppure, il che è lo stesso,

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che il pubblico americano decida improvvisamente di aumentare i suoi investimenti all'estero. Questo rischio è accresciuto dalle crescenti interrelazioni finanziarie internazionali; al tempo stes-so, viene sottolineato il fatto che gli investimenti giapponesi sono prevalentemente a lungo termine, mentre nei flussi a breve termine il Giappone risulta essere un prenditore netto di fondi. In altre parole, il Giappone ha crescentemente assunto il ruolo di banchiere internazionale, precedentemente svolto dagli Stati Uniti e offre fondi a lungo termine mentre ne assorbe a breve. Ciò significa che gli investitori e le banche giapponesi agiscono — o almeno, hanno agito finora — da elemento stabilizzante nella finanza internazionale, ed in un certo senso questo è rassi-curante. Rimane il problema di lungo periodo: non è possibile immaginare che gli Stati Uniti continuino ad accrescere il loro debito indefinitamente — è necessario immaginare che questo debito venga in qualche modo ripagato, il che postula che le transazioni correnti degli Stati Uniti tornino in attivo e il ri-sparmio complessivo — pubblico e privato — torni ad essere positivo.

Si possono immaginare vari cammini evolutivi che consenti-rebbero ciò, nessuno dei quali è privo di problemi. Due punti desidero sottolineare: il primo è la possibilità che gradualmente la percentuale di investimento giapponese che prende forma di investimento diretto — industriale o immobiliare — cresca ulte-riormente, dando luogo, per così dire, ad un consolidamento dei debito. Questo non eliminerebbe la necessità di trasferire i redditi connessi, ma ridurrebbe la dimensione del problema. Si torna così al punto che abbiamo già citato, e cioè che sembra necessario, perché il processo di internazionalizzazione finanzia-ria prosegua in condizioni di stabilità, che vi sia una ripresa della multinazionalizzazione delle imprese ed un più sostenuto ritmo di crescita degli investimenti diretti. Il secondo punto ri-guarda la connessione con il problema del debito dei paesi in via di sviluppo: in definitiva, se il Giappone continua ad essere risparmiatore netto, e gli Stati Uniti muovono nella direzione di aggiustare il loro squilibrio, sarà necessario riprendere i flussi netti di capitali verso i paesi in via di sviluppo, ciò che, tra l'altro, faciliterebbe il raggiungimento contemporaneo di un

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at-tivo di parte corrente tanto al Giappone che agli Stati Uniti. La ripresa di un afflusso netto di capitali verso i paesi in via di sviluppo, in particolare quelli latinoamericani, è ostacolata dalla incapacità di risolvere il problema del loro vecchio indebi-tamento, che ne danneggia la creditivorthiness. Non sorprende, quindi, l'attivismo recentemente dimostrato dal governo giappo-nese nel proporre nuove iniziative volte a risolvere quel proble-ma, che, se non risolto, minaccia di bloccare l'ordinata evoluzio-ne del sistema finanziario internazionale verso un equilibrio più appropriato al grado di sviluppo relativo di ciascun-paese.

È dunque di fondamentale importanza il quesito che si discu-te nel contributo di Sebastian Edwards, e cioè se possano credi-bilmente esistere delle soluzioni di mercato al problema dell'in-debitamento dei paesi latinoamericani, o se, al contrario, non sia necessaria una qualche forma di intervento politico. Negli ultimi mesi si è gradualmente sviluppato un mercato secondario del debito, in cui questo viene ceduto con uno scarto più o meno significativo rispetto alla parità, a seconda del paese. Al-cuni paesi latinoamericani hanno in particolare creato speciali meccanismi legislativi per facilitare o regolamentare la conver-sione del debito, puntando a seconda dei casi alla converconver-sione in investimenti diretti o in nuovo debito con diverse caratteri-stiche. E oggetto di dibattito se questa soluzione sia o meno nel migliore interesse dei paesi in via di sviluppo interessati, ma in ogni caso non è questo che ci interessa in questa sede. Inte-ressa invece la realistica probabilità che queste ipotesi di con-versione possano ridurre significativamente l'esposizione dei paesi interessati, ristabilendone la creditworthiness e così riaprendo la possibilità di un afflusso netto di fondi (che è l'obiettivo ultimo desiderato). L'analisi di Edwards suggerisce una conclusione pes-simistica: anche a causa del fatto che le banche stesse non han-no ancora perduto la speranza di recuperare il loro credito per intero, l'incentivo che esse hanno a offrire quote significative dei loro crediti per la conversione al di sotto della parità non è sufficiente a consentire un rientro .significativo del debito. Un intervento politico, che potrebbe includere una forma di con-versione forzata, sembra quindi necessario a raggiungere una sod-disfacente soluzione del problema.

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I sistemi economici si sviluppano per fasi cicliche, anziché linearmente e proporzionalmente, e questo assioma vale anche per il sistema delle relazioni economiche internazionali. Il passa-to decennio ha vispassa-to una crescita particolarmente intensa delle relazioni finanziarie, e non è certo detto che questa fase sia terminata: almeno in ambito europeo, il 1992 comporterà un ulteriore significativo sviluppo dell'internazionalizzazione, e la progressiva realizzazione di un sistema finanziario europeo inte-grato. Tuttavia, nemmeno è possibile estrapolare la rapida cre-scita del passato decennio in assenza di una più vigorosa ripresa della crescita del commercio e dell'investimento diretto. Un si-stema internazionale in cui i flussi finanziari crescono indefini-tamente solo perché gli squilibri reali non vengono mai aggiusta-ti e diventano progressivamente più gravi non è una costruzione solida.

Siccome non si sa bene cosa sia uno squilibrio reale fonda-mentale, quando e quanto rapidamente sia necessario aggiustar-lo, e a chi spetti l'iniziativa, il giudizio sulla solidità della cresci-ta dell'internazionalizzazione finanziaria rimane largamente sog-gettivo. Una crisi catastrofica non può essere esclusa, ma non vi è forse motivo di avere tanta poca fiducia nell'intelligenza dei governi. E più probabile che questi sappiano, invece, inter-venire per eliminare gli ostacoli più gravi: il processo è andato infatti troppo avanti perché possa essere invertito senza costi troppo elevati. Così, accadrà probabilmente con la finanza lo stesso che accade col commercio: il pericolo del protezionismo non è mai definitivamente fugato, ma finora gli interessi favore-voli alla prosecuzione ed intensificazione degli scambi interna-zionali hanno sempre prevalso. Analogamente, l'internainterna-zionaliz- l'internazionaliz-zazione finanziaria avrà le sue crisi, ma difficilmente si tornerà alle artificiali barriere del passato.

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STRENGTHENING THE AMERICAN FINANCIAL SYSTEM Martin Feldstein

Testo rivisto della presentazione orale fatta dal professor Feldstein a conclusione del seminario (N.d.C.).

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-Discussing the strengths and weaknesses of the American fi-nancial system one is almost inevitably tempted to focus on the securities market and on developments that led to the stock market crash of October 1987. But the most important pro-blems facing the Us financial system are not the ones related to our securities market, nor those associated with the 1987 stock market crash. Although that crash was certainly dramatic, it did not have any adverse effects on the economy as a whole. Indeed real GNP grew more rapidly in 1988 than it would ha-ve been expected to do a year earlier, before the stock market decline.

The collapse in the stock market caused the Federai Reserve to abandon the policy that it had been pursuing, a policy of targeting the exchange rate by keeping monetary policy excep-tionally tight. The reversai of Federai Reserve policy — increa-sing the money supply and bringing down interest rates — led to the strong expansion that was experienced in 1988.

Immediately after the stock market crash, there were a num-ber of proposals put forward in favor of new governmental re-gulations of the securities market. Fortunately, in my opinion, virtually ali those proposals have been either rejected or simply allowed to die quietly. Only one proposai has actually been im-plemented, and that is the decision to stop trading when the stock market moves down more than a certain amount and in any given day. Frankly, I doubt that this change is going to have a significantly favorable effect on the performance of the stock market.

Certainly no evidence was offered to suggest that it would, and the analysis in favour of it was casual at best. Rather it appears that that proposai was made and accepted because there was a politicai need to do something, and probably of ali things that might have been done this was the least harmful.

The other regulatory proposals that were made in the wake of the stock market crash have been generally either impossible to implement, or have been likely to be harmful. Among those that I would classify as impossible to implement are the propo-sals to eliminate computerized trading — or to eliminate the

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so called «program trading» — and to eliminate portfolio insu-rance. Among the things which 'are feasible, but would have been harmful, are the proposals to impose uniform margin re-quirements on different kinds of financial instruments, or — even worse — to put a tax on ali securities transactions. Fortu-nately, after seven months of rather uneventful trading on the stock market, together with moderate increases in the level of share prices, politicai interest in new regulations subsided. This is a positive result: our securities markets are not perfect, but voluntary actions taken by the stock exchanges, by the future exchanges and by member firms, are improving the situation. But there are more important problems facing the American financial system. One can list three of them:

- first, the widespread bankruptcies among our thrift and sa-vings institutions

- second, the developing countries' debt problem, that affects many major centrai banks

- third, the declining competitiveness of ali American banks, re-lative to the securities markets.

It may seem that these are quite different problems, but the-re is in fact a common source to them, that is the sharp incthe-rease in inflation of the 1970s. Unfortunately, controlling inflation and bringing it down to a low level is not enough to deal with those problems.

If we look back to the 1950s, we see that we had an inflation rate of about 2.5%. In the 1960s the level was about the same, although arising at the end of the decade. Then in the 70s the rate of inflation accelerated substantially, and by end of the decade we had an inflation that exceeded 10%. The inflation rate picked up in 1981, then carne down sharply to about 2% before increasing to the current 4.5% rate.

The sharp rise in inflation in the 1970s was the primary cau-se of the current problems of our financial institutions. Let us start with the thrift institutions: savings and loans associations, saving banks. These were created originally as institutions in which households would make deposits that could be used to finance investment in housing. The interest rates on deposits

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were controlied and kept low, and the loans that these institu-tions made were typically mortgage loans at fixed and low inte-rest rates. This system worked well, as long as the inflation rate was low and stable. Then in the 1970s as the inflation rate rose, market interest rates were pushed up and institutions with regulated interest rates lost their deposits. In the end the government was forced to allow increases in the regulated inte-rest rates time after time, ultimately to abandon ali controls on them. As a result, the thrift institutions found themselves paying interest rates which were substantially higher than what they were receiving on the old rate mortgage loans, that they had issued in previous years. The Regulatory Authorities re-sponded to this problem by treating it as a temporary one, in the belief that eventually — as new mortgages were put on the books with high interest rate — these institutions would again become profitable. It was seen as a period of transition. The regulators took several steps, which turned out to be serious mistakes. First they relaxed the capital requirements for the thrift institutions to a point where they can now operate with virtually no capital at ali. Second, they eliminated controls on the kind of assets that the thrift institutions could hold, permitting lending to various kind of commercial ventures, and eventually investing in equities: activities which are much ri-skier than owner occupied housing lending. Despite this increa-se in risk, individuai deposits continued flow into the thrift institutions, because they were fully insured by the Federai Go-vernment though the Federai Savings and Loans Insurance Cor-poration. To make that insurance even more attractive, the Go-vernment increased the limit per account from 40 thousand to

100 thousand dollars.

The results of these changes have been disastrous. The equity investments and risky loans that the thrift institutions were al-lowed to undertake turned sour in many cases. In 1988, about 75% of ali of the thrift institutions were losing money. The insolvent institutions — and about two-third of ali thrift insti-tutions in the USA are insolvent — have an obvious incentive to gamble, to take even greater risks; they have no equity left, and since depositors are nevertheless prepared to provide

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depo-sits because of federai insurance, they have an incentive to at-tract funds at higher interest rates and use them to invest in even higher yielding assets. The least healthy thrift institutions are the ones which are growing most rapidly, as they bid for and attract funds.

With two-thirds of the thrift institutions insolvent, the liabi-lities, of those institutions exceed their assets by approximately 65 billion dollars, or about 1.5% of United States GNP. The excess of liabilities over assets is increasing at the rate of about 1 billion dollars per month. Depositors continue to leave their funds at these institutions because of the combination of Fede-rai Savings and Loans Insurance and the underlying legai obliga-tions that makes the insurance carry the full force of the credit of the United States Government. Depositors may not be wor-ried, but the regulators — the Federai Reserve and the Govern-ment — know that eventually the taxpayers are going to have to pay for the shortfall.

Inflation in the 1970s created also the two other problems that I mentioned. With respect to the debt crisis of the develo-ping countries, inflation was of course not the only reason for it, but it was the primary reason. In the 1970s, as the inflation rate increased, interest rates rose less rapidly; as a result, real interest rates carne down, and by the late 1970s they frequently were negative. The developing countries were able to borrow what they regarded as free money, expecting to easily repay it with inflated dollars. Not only were the Latin American and African countries encouraged to borrow: the banks were also encouraged to lend, confident that, with high inflation, it would be easy for the borrower to pay back, and in the expectation that the high rate of inflation would also keep the prices of commodities, which are the primary exports of the developig countries, at high levels.

But accelerating inflation as experienced in the late 70s sim-ply could not continue, and when the inflation rate declined real interest rates rose and commodity price fell. The result was that the developing countries could no longer service the debt that they had incurred. I believe that without the rising infla-tion and falling real interest rate of the 1970s there would not

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have been the excesses of LDC lending: they created the cur-rent problem.

Finally with respect to the third problem, i.e. the declining competitiveness of our commercial banks relative to security mar-kets, the basic problem is that today the healthy corporations in the USA can borrow at lower costs directly from securities markets, than banks can. Therefore, banks can no longer lend to the best risks in the country. That in turn has created a vicious circle; one in which the increasing riskiness of the banks' portfolios leads to a higher cost of funds, as both lenders and equity investors are reluctant to provide capital to banks, that they see as having riskier and riskier portfolios. The higher cost of funds, in turn, requires the banks to charge higher interest rates which discourage borrowing by the next grade of credit risk. So we have a continually deteriorating risk structure of banks' portfolios, leading to a higher cost of funds and even more risky portfolios.

Specifically, what role did inflation in the 1970s play in this process? It was the increase in inflation that led to a process of disintermediation, under the form of an outflow funds from the banks into the newly created money market mutuai funds. Money market mutuai funds were the result of the rising in-flation and of the rising interest rates of 1970s. That new me-chanism, the money market mutuai funds, by which companies could directly tap the funds of small savers, could just not have developed without the increase in inflation,and" the resulting increase in interest rates. In this way, inflation drew the best borrowers away from the banks.

But there was also a second and more fundamental problem: inflation induced the commercial banks to extend a variety of inflation sensitive loans to borrowers in the USA, just as they had extended loans to the developing countries: borrowers in agriculture, in real estate, in the oil sector. They saw land prices increasing more rapidly than the rate of interest, and didn't understand at the time that this was a temporary phenomenon, which could not be sustained in the long run. Builders and real estate speculators also borrowed, because they saw the price of their real estate assets increasing at a greater rate than the

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rate of interest. And oil prices surged during the period of ri-sing inflation, inducing banks to lend on the expectation that someday oil prices would move from 30 or 35, to 40 or 50 dollars a barrel.

In ali three or these areas, agricultural loans, real estate loans, oil industry loans, there was excessive borrowing and excessive lending because both the borrower and the lender thought that what was in fact a temporary increase in relative prices would become permanent. Eventually, of course, it couldn't continue. As the inflation rate carne down, the process reversed itself. The widespread failures that occurred in business, in agricultu-re, and in real estate have created substantial losses that weake-ned the balance sheets of American commercial banks through-out the country. This led to an increased cost of funds, as both lenders and equity providers became reluctant to put their funds into these weaker financial institutions.

Banks, therefore, must now charge more to attract funds, thus setting in motion the vicious cycle in which an increasing cost of funds drives away the best prospective borrowers.

What must be done now to address the three problems that the American financial system faces as a consequence of the inflationary excesses of the 1970s? Of course the most impor-tant lesson of this experience is that inflation presents hidden dangers and should be avoided. But dealing with the existing problems requires more than just controlling inflation: it needs specific policies to strengthen the financial system in each of these three aspects.

Thrift institutions present the most acute of the three pro-blems. The Government of the USA must take substantial and significant steps in 1989 to deal with the currently insolvent institutions; and secondly there must be changes in the rules and in the incentives, to prevent the recurrence of this problem in the future.

In dealing with the currently insolvent institutions, the Go-vernment has very little choice. The depositors are protected. They will get back the full value of the funds they have deposi-ted up to the maximum of 100,000 dollars per account. That's what they are assured of by the Federai Savings and Loans

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In-surance Corporation, and more recently by legislation which put the full faith of the USA Government behind it.

This means that the Government must move to declare the insolvent institutions to be legally bankrupt, merge them in heal-thy institutions, and infuse government funds into the healheal-thy institutions to compensate them for the liabilities that they ac-cept. The Federai Government through the Home Loan Bank Board, is currently doing this on a small scale. Both reasonable estimates and officiai estimates are rapidly converging in this area, indicating that the scale of the problems in about 75 bil-lion dollars.

Secondly it is necessary to prevent the recurrence of this pro-blem, by changing the system of incentives. The basic incentive problem is that there is no restriction on the risks that a thrift institution can take and stili get complete insurance on its depo-sits; this allows them to bid for funds and then use those fede-rally insured funds to undertake risky investments in order to reap the differential profit. A full remedy to this incentive pro-blem would have three components. First there must be a turn to the situation preceding the deterioration of capital re-quirements that was permitted in the late 1970s, so that thrift institutions actually have their own money at risk. Second there have to be some restrictions on investments in equity positions, on concentrations in particular industries, and on the amount of interest mortgages. Finally — and this would be the most contentious item in terms of the legislative process — there should be some changes in our insurance system, so that instead of providing a full 100% guarantee, which eliminates any con-cern on the part of depositors, there should be some amount of risk for the depositors as well. Perhaps a 90% insurance by the Government would be appropriate, so that depositors would have at least 10% of their funds at risk.

The second problem that we face is the developing countries debt problem, affecting our major money center banks. Frankly Fm relatively optimistic whith respect to that problem: Fve been an optimist since the so-called crisis began, in 1982. Now, six years later, we can no longer cali it a crisis: while the problem xs not solved, the situation is looking better. We have moved

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from the crisis stage to a situation which is crearly evolving towards a solution.

Moreover the reality is better than the appearance. The ap-pearance reflects the fact that we are continually engaged in negotiations between the creditors and the borrowing countries, and those negotiations take place on the pages of the internatio-nal financial press. The creditors issue statements saying that they cannot possibly lend another dollar and the debtors issue statements saying they cannot possibly continue to pay interest on their debt. What is the reality?

The reality differs among countries, and I will focus on the major countries which represent the overwhelming portion of the debt, acknowledging that when one looks to some of the smaller and poorer countries, particularly in Africa and Central America, the situation is quite different. But for Mexico as well as for Brazil, Argentina, and Venezuela reality is relatively heal-thy. The key is that debtors need some additional credit each year, so that they can finance an adequate flow of imports, to support economie growth. But that required additional credit flow is quite consistent with them simultaneously making some repayment on their debt. In general, for these countries to su-stain healthy growth, their external debt has to increase by about 4-5% a year, that is by about the rate of inflation. What this means is that the real value of their debt can remain Constant even though the nominai value of their debt is gradually increa-sing. Since their economies are growing in real terms, that means that debt relative to their real income is actually declining. Mo-reover since their exports tend to grow even more quickly than income in general, that means that the relationship between debt and exports is falling even more rapidly.

Although debt will be increasing during this period, the deb-tor countries will find it progressively easier to deal with it be-cause it is becoming gradually smaller, relatively to their econo-mies and relatively to their exports.

The banks' point of view is somewhat different. Understan-dably, of course, the banks are reluctant to issue more debt to these countries, especially when they are forced to do so at less than market rates. But already the situation is

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impro-ving, as the weight of the L D C ' S debt on the banks balance

sheets is declining relative to their capital position and reserves. What may happen in the future? Well, I believe that the current process will continue. The innovations that we have seen are quite promising, allowing some banks, particularly the smal-ler banks, to get out of the debt process; and allowing other banks to convert some of their debt into equity or into locai currency investments. IMF and World Bank lending will of course continue to absorb a portion of the increasing capital needs of these countries. But, unless there is a breakdown of politicai will on both sides, I think the situation will continue to improve without a need for some new radicai governmental action.

And finally, the declining competitiveness of Us banks and the vicious cycle of increasing risks and increasing cost of funds. The solution to this problem has two aspects: one, that can be solved by the actions of the banks themselves, and the other that would require changes in governmental regulations. The banks must first of ali take steps to reduce the risks of their own situation, so that the cost of funds comes down. That, in turn, has two components: firstly increasing their equity ca-pital, and secondly improving their portfolio.

But dealing with this problem requires more than what the banks can do by themselves. It requires changes in government regulations to strengthen the banks, and improve their profita-bility, so that they can attract both equity and debt at a lower cost. Which regulatory changes are needed? They are basically of two types:

- firstly, permitting national banking. in the United States we have left it tb the individuai states to determine whether banks whose headquarters are in other states can do business in their own territory. Fortunately we are breaking down this system of individuai state banking, and this evolution will allow not only economies of scale but also greater diversification of risk; - secondly banks must be permitted to enter into a wider range of financial services, and this too is gradually beginning. The key banking deregulation legislation unfortunately failed in

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Con-gress in 1988, but I am confident that we will see eventual passage of some significant improvements.

Let me conclude by emphasizing what I said at the begin-ning: that although there are problems in our financial system, it is basically healthy. The current problems reflect the sharp increase in inflation in the 1970s, a level of inflation that is unlikely to recur in the years ahead. Equally important, the chan-ges that are needed — increased regulation of thrift and redu-ced regulation of commercial banks — are likely to be enacted in the near future.

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IL PROCESSO DI DEREGOLAMENTAZIONE NEL SISTEMA BANCARIO E FINANZIARIO AMERICANO, 1975-1987

Efisio Espa

L'autore ringrazia il professor M. de Cecco per i preziosi commenti e sug-gerimenti su una prima stesura del lavoro; utili osservazioni sono state avanzate anche da P. Catte, R. Daviddi, G. Ferri, C. Frateschi, F. Mattesini e F. Schneider. Come sempre, ogni responsabilità per even-tuali errori e omissioni ricade interamente sullo scrivente.

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The Federai Reserve, consistent with its respon-sibilities as the Nation's centrai bank, affirmed to-day its readiness to serve as a source of liquidi-ty to support the economie and financial system.

Alan Greenspan, 20 ottobre 1987

1. Introduzione

Un'accurata analisi degli elementi che hanno contribuito a cam-biare la struttura del sistema bancario e finanziario americano negli ultimi quindici anni si rivela sempre più un compito assai arduo.

Rivoluzionarie nuove leggi, continui tentativi da parte degli operatori privati di aggirare le regolamentazioni esistenti, nuovi prodotti e servizi finanziari, affievolimento della distinzione tra banche ed altre istituzioni finanziarie, un aumento globale nel grado di concorrenza, tutti questi e altri fattori hanno condotto a modifiche molto profonde nel panorama finanziario statuni-tense. Gli agenti svolgono adesso le loro attività in un ambiente concorrenziale completamente nuovo.

Allo stesso tempo, e, almeno in parte a causa dei mutamenti appena menzionati, nuove tensioni e segnali di difficoltà hanno interessato i mercati monetari e finanziari americani: marcato aumento nei fallimenti delle banche commerciali, aggravarsi dei problemi di un altissimo numero di thrift institutions (vale a dire dell'insieme di Savings & Loan [S&L] institutions, mutai savings

banks e credit unions), incertezze assai difficili da cancellare in

relazione alle esposizioni di molte grosse banche commerciali sta-tunitensi nei confronti di vari paesi del Terzo Mondo e dell'A-merica Latina in modo particolare, il drammatico crollo di borsa dell'ottobre 1987. Inoltre, l'insieme dei cambiamenti nel pano-rama finanziario è avvenuto in un periodo nel quale l'economia americana è passata da tassi d'inflazione a due cifre ad un vio-lento processo disinflazionistico, il dollaro ha raggiunto valori ritenuti impensabili dalla quasi totalità degli osservatori nei con-fronti delle altre maggiori valute e ha poi attraversato una fase

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di sostanziale deprezzamento (in tempo tuttavia per generare un enorme deficit commerciale che si va riducendo con estrema lentezza) il debito pubblico è salito a proporzioni sconosciute del PIL, almeno in tempo di pace. Ancora, non dovrebbero es-sere tralasciati il cambiamento nella condotta della politica mo-netaria dell'ottobre 1979 da parte della Federai Reserve (Fed) e la caduta nel prezzo del petrolio che così enormi difficoltà ha causato in molti stati del Sud-Ovest americano.

I miglioramenti nelle tecnologie informatiche hanno inoltre offerto l'opportunità di forti riduzioni nei costi di trasmissione e trattamento delle informazioni, la volatilità dei tassi di inte-resse si è enormemente accresciuta e l'interconnessione tra gli Stati Uniti e gli altri mercati finanziari internazionali è diventa-ta sempre più stretdiventa-ta. Una approfondidiventa-ta comprensione di tutti gli eventi appena citati va naturalmente al di là degli scopi di questo saggio, per quanto gli accadimenti «micro» sui mercati monetari e finanziari potrebbero essere ben compresi soltanto in un quadro che includa i legami con le maggiori modifiche «macro» del quadro economico. La semplificazione che è stato quindi necessario adottare ha condotto a limitare l'analisi ai più importanti mutamenti legislativi, cioè i più importanti accadi-menti istituzionali, nel tentativo di descrivere accuratamente il nuovo panorama finanziario statunitense venutosi a creare negli ultimi anni. Il saggio tenterà tuttavia di andare oltre una mera lista di fatti: verrà infatti suggerita l'opportunità di legare i cam-biamenti nella struttura finanziaria americana (originati dal pro-cesso di deregolamentazione) con quei problemi e quelle situa-zioni di crisi emerse recentemente. L'idea che sta alla base di tale possibile collegamento è la seguente: l'aumento nel grado di concorrenza, causato principalmente (anche se non solamen-te)1 dalla deregolamentazione finanziaria (comprendente sia

quella nata per influenze autonome delle forze di mercato sia quella derivante da modifiche della legislazione esistente e dagli specifici pronunciamenti delle courts statunitensi) aumenta la pro-babilità che si verifichino fallimenti e bancarotte; in una situa-zione di questo tipo, acquista grande importanza il ruolo delle autorità pubbliche di regolazione e supervisione dei mercati ban-cari e finanziari, soprattutto nel loro ruolo di lender of last

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re-sort. Ciò accade per il semplice motivo che solo un (rapido)

in-tervento pubblico viene ritenuto capace di fermare il diffondersi delle situazioni di dissesto da una istituzione finanziaria all'al-tra; alla base di un tale ragionamento si colloca l'assunzione che le crisi originantisi all'interno del sistema bancario e finanziario siano percepite dalla banca centrale (e dagli operatori che in quel momento sfuggono alla crisi del mercato) come più perico-lose e potenzialmente capaci di condurre a crisi ancora più vaste che non in altri settori o attività economiche.

Se una tale sequenza causale contiene del vero, allora il pro-cesso di deregolamentazione può diventare più efficace se i costi derivanti dall'aumento della concorrenza (cioè, in particolare, l'aumento nel numero dei fallimenti) vengono assunti dalle auto-rità di governo, perlomeno in quella prima fase di transizione e di aggiustamento che segue all'introduzione e alla diffusione delle nuove regole sui mercati. E bene sottolineare come in que-ste considerazioni non si esprima alcun giudizio di valore sui possibili vantaggi e svantaggi della deregulation: ciò che ci preme porre in evidenza è l'esistenza di una possibile correlazione posi-tiva tra un più alto grado di deregulation (e quindi di concorren-za) e il rafforzamento dei poteri delle autorità di regolazione e supervisione dei mercati finanziari. In sostanza, una maggiore libertà sui mercati finanziari per gli operatori privati e maggiori poteri conferiti alle autorità monetarie non appaiono necessaria-mente come fenomeni tra loro antitetici.

Nel secondo paragrafo cercheremo di esaminare brevemente sia l'emergere dell'innovazione finanziaria che alcuni dei più im-portanti nuovi prodotti e servizi finanziari ad essa associati; tale analisi verrà seguita nel terzo paragrafo da una descrizione di tre delle più rilevanti tendenze emerse nel sistema finanziario statunitense in tempi recenti: la securitisation (o «cartolarizzazio-ne»), l'integrazione territoriale all'interno del sistema bancario, l'indebolimento della distinzione tra banche e altre istituzioni finanziarie. Il quarto paragrafo si occuperà del Securities Acts

Amendments del 1975 mentre i tre successivi analizzeranno i

due deregulation acts approvati dal Congresso USA nei primi an-ni Ottanta riguardanti le banche nonché le principali caratteri-stiche del Competitive Equality Banking Act dell'estate del 1987,

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mentre l'ottavo paragrafo esaminerà alcuni dei più importanti momenti di crisi venutisi a creare recentemente. Infine, l'ultimo paragrafo cercherà di offrire alcune prime conclusioni sui legami tra deregolamentazione, aumento della concorrenza e l'emergere di situazioni di dissesto economico sui mercati bancari e della finanza.

2. L'innovazione finanziaria

Il termine deregulation viene esclusivamente riferito, in sva-riate circostanze, a quelle modifiche della legislazione che accre-scono la varietà della scelta a disposizione degli operatori priva-ti. Allo stesso tempo, gli ultimi quindici anni hanno visto i tri-bunali influenzare pesantemente l'attuazione pratica della legi-slazione bancaria e finanziaria. I tribunali — scrive M. Eisenberg — «sono divenuti gli strumenti tramite i quali la politica banca-ria nazionale viene attuata — nei distretti, nelle corti d'appello, fino ad arrivare alla Corte Suprema»2; le conseguenze di tale

tendenza sono però anche che — sempre secondo Eisenberg — «si ha un sistema di regolamentazione basato sullo sfruttamento di cavilli giuridici e di pieghe nascoste delle leggi, e non una strategia nazionale centrata sullo sviluppo dei servizi finanzia-ri»3. Il concetto di deregulation deve pertanto coprire tutti quei

mutamenti di regole che accadono grazie all'intervento «inter-pretativo» dei tribunali. Molto spesso inoltre la deregolamenta-zione viene riferita all'introduderegolamenta-zione di nuovi prodotti e servizi finanziari che accrescono la flessibilità nella gestione delle atti-vità e passiatti-vità da parte delle istituzioni finanziarie, un processo in genere definito come «innovazione finanziaria». Nelle pagine che seguono utilizzeremo il termine deregolamentazione nel suo significato più ampio.

Quali che possano essere le sue cause, il processo di innova-zione finanziaria è stato una forza decisiva nel condurre alle modifiche nella struttura del sistema finanziario americano. As-sieme al processo di inflazione e disinflazione e all'accentuata volatilità dei tassi di interesse, l'innovazione finanziaria è anche responsabile per le modifiche nella legislazione bancaria

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conte-nute nei due deregulation acts approvati dal Congresso all'inizio degli anni Ottanta4. Quella che segue è una breve analisi delle

più importanti innovazioni finanziarie e delle più rilevanti ten-denze emerse come risultato dell'introduzione di nuovi prodotti e nuove tecniche finanziarie.

Alcune delle più importanti innovazioni sono derivate dalle necessità per le istituzioni finanziarie di contrastare l'aumentata volatilità dei tassi di interesse alla fine degli anni Settanta e al principio degli anni Ottanta; a causa delle improvvise varia-zioni dei tassi di interesse vi era infatti il rischio di altrettanto improvvise perdite. Nel 1977 un certificato di deposito (CD) a tasso variabile apparve sul mercato per iniziativa della Morgan Guaranty Bank di New York; il tasso di interesse del nuovo CD veniva legato al tasso sui buoni del tesoro. Due anni pri-ma, alcune casse di risparmio californiane avevano offerto dei prestiti ipotecari a tasso variabile, anch'essi legati ai tassi dei

Treasury Bills; in questo secondo caso, tuttavia, parte dei

debi-tori continuava a preferire i vecchi mutui a tasso fisso per paura di aumenti non desiderati nei tassi di interesse.

Anche la rapida diffusione dei financial futures (FIF) può es-sere spiegata dalla necessità di venire a capo del problema della volatilità dei tassi di interesse. Il primo FIF, introdotto nel 1975 dal Chicago Board of Trade, offriva la possibilità di effet-tuare transazioni a termine in titoli della Government National Mortgage Association (GNMA); in un secondò momento, tale

esperienza si generalizzò rapidamente e in diversi stock exchange statunitensi furono aperti mercati futures anche in titoli del Te-soro americano, in CD, negli indici del prezzo delle azioni e altri strumenti finanziari. I cambiamenti nelle tecnologie facili-tarono inoltre l'introduzione dei nuovi strumenti finanziari ri-ducendo il costo di trattamento e trasmissione dei dati. I settori delle carte di credito nell'ultima parte degli anni Sessanta e ne-gli anni Settanta e i cash management accounts a partire dal 1977 furono particolarmente favoriti nell'intrapresa di attività assai profittevoli dalla diffusione e dai miglioramenti tecnologici con-sentiti dall'informatica.

Un passo molto importante in direzione di una maggiore in-novazione finanziaria e di una accentuata concorrenza sui

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