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Il punto medico legale e giuridico sul Danno estetico

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Academic year: 2022

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Il punto medico legale e giuridico sul Danno estetico

Dr. Lino Schepis*

Inquadramento storico

Secondo la tradizione, il danno estetico nasce ufficialmente nei primi anni ’30, ad opera della magistratura torinese; chiamata ad esprimersi sulla risarcibilità di una lesione dell’aspetto di una signora dell’alta società torinese, la Corte non si sentì nella condizione di rifiutare un indennizzo sul solo presupposto dell’assenza di un’effettiva flessione di reddito, e ricorse ad una nuova espressione per giustificare l’erogazione di un compenso fuori dagli schemi usuali.

E’ curiosa, ma non casuale, la contestualità della nascita del danno alla vita di relazione, ad opera dei giudici milanesi (la prima sentenza che ne fa menzione porta la data del 24 febbraio 1931): le due sentenze denunciavano il disagio, già allora dimostrato dalla giurisprudenza di merito, nel “sistemare” concettualmente i molteplici aspetti del danno alla persona nel ristretto ambito segnato dal bipolarismo danno patrimoniale/danno morale, ambito ulteriormente compresso dai vincoli imposti dall’art.2059 c.c. alla liquidabilità del danno morale.

Appare senza dubbio di meritevole rilievo ed apprezzamento una simile sensibilità, da parte di magistrati di merito, verso la tutela di situazioni di danno prive di contenuto patrimoniale, in un’epoca così lontana e così diversa da oggi, tutta: “homo faber- dipendente”, cioè orientata a considerare quasi esclusivamente l’aspetto della lesione reddituale.

In un certo senso, si può dire che erano già presenti in nuce i grandi temi che ci hanno condotto, oltre cinquant’anni dopo, alla teoria del danno alla salute come bene primario tutelato dalla Costituzione.

Negli anni che seguirono, fu frequente imbattersi in sentenze che, in modo piuttosto disinvolto, riconoscevano al danneggiato un compenso aggiuntivo, indipendente dall’accertata presenza di un danno economico o di un danno morale. Peraltro, accadeva spesso che tale danno supplementare venisse conteggiato, in mancanza di diversi e migliori parametri di riferimento, sul reddito, reale o potenziale, del danneggiato; con ciò aumentando confusione e perplessità.

Contro tale situazione ebbe più volte modo di pronunciarsi la Corte di Cassazione, ribadendo che “ il cosiddetto danno estetico non costituisce un tertium genus, distinto dal danno patrimoniale e dal danno morale, rientrando, secondo i casi, nell’una o nell’altra categoria, perché, in definitiva, esso si risolve o in un danno alla vita di relazione, in quanto può determinare una diminuzione della capacità di acquisire determinate posizioni sociali, dalle quali deriva un’utilità economicamente valutabile, e in tal caso va compreso nella categoria dei danni materiali, ovvero in un danno morale per lo stato di

* Presidente Commissione Danni Fisici ANIA, Milano

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perturbazione psichica che dal difetto estetico deriva alla persona che ne è affetta ” (Cass.

Civ. 2 dicembre 1969, n.3859; nello stesso senso Cass. Civ. 10 gennaio 1966, n.198).

Da notare, in queste decisioni, non solo la strenua difesa del bipolarismo patrimoniale/morale, ma anche la riduzione del danno alla vita di relazione a sola ipotesi di danno patrimoniale, contro la diffusa opinione dei giudici di merito che tale figura di danno potesse assumere talvolta le connotazioni del danno senza contenuto patrimoniale, venendo a consistere “in un particolare perturbamento psichico e morale senza alcun pregiudizio diretto o indiretto al patrimonio” (così C.A. Firenze 8 novembre 1949).

L’avvento della sentenza n.184/1986 della Corte Costituzionale, che ha istituzionalizzato la risarcibilità del danno biologico al di là e prima di ogni valutazione di ricadute patrimoniali, ha inevitabilmente determinato l’assorbimento di queste surrettizie figure di danno non patrimoniale – il danno estetico, il danno alla vita di relazione, il danno sessuale - nel generale contenitore del danno biologico stesso, ed ha fatto perdere alle stesse ogni autonomia risarcitoria.

Tuttavia, se l’aspetto della definizione sistematica poteva così dirsi risolto, una serie di ulteriori questioni, soprattutto di ordine pratico, si sono venute determinando, come vedremo più avanti, sia sul versante della medicina legale, sia su quello applicativo del diritto.

Definizioni

Tra le più autorevoli definizioni formulate dalla dottrina medico legale per il danno estetico si ritrova quella del Gerin, il quale nel 1946 lo descriveva come “ogni modificazione peggiorativa, di natura morbosa, del complesso estetico individuale”, intendendo per “morbosa” ogni origine non fisiologica (come la vecchiaia), ma patologica o traumatica.

“La <faccia esterna> della persona – continuava l’illustre e lungimirante studioso ne “La valutazione medico-legale del danno alla persona in responsabilità civile”, Giuffrè, 1987 – svolge una funzione di primaria importanza nell’ambito della vita di relazione, per cui si deve parlare di <funzione estetica>, e di <danno estetico>”.

“Detta funzione è svolta, ovviamente, non soltanto dai tratti del volto e dalla mimica facciale, ma da tutto l’insieme degli attributi esteriori della persona, di ordine morfologico e funzionale, che concorrono a caratterizzare l’individuo nell’ambito della vita di relazione”.

Il Gerin estendeva l’estetica individuale ai caratteri della voce e del linguaggio, persino alle sensazioni olfattive, giungendo ad affermare che “la fisionomia, la mimica, la voce, il portamento, ecc., sono rivelatori della personalità, sono i mediatori dell’io psichico rispetto al mondo esterno, per cui una modificazione peggiorativa di tali caratteri fisiognomici non è soltanto un pregiudizio della venustà individuale, ma anche un danno alla vita di relazione di indole diversa, e cioè psicologico-sociale”.

Sul versante più strettamente giuridico merita citazione la definizione data dal Giannini:

“Il fattore estetico è un attributo della persona, una componente del valore-uomo, la cui lesione può riflettersi negativamente sui rapporti interpersonali, comportando conseguenze

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talvolta patrimoniali (impossibilità di svolgere determinate attività lavorative, difficoltà di reinserimento o di mantenimento dei rapporti socio-economici, ecc.) oppure afflittive, per la consapevolezza dell’imbruttimento che rende il danneggiato sgradevole agli altri” (Il risarcimento del danno alla persona, Giuffrè, 1991).

Precisava il Giannini, rifacendosi all’enunciazione di principio contenuta nella sentenza n.184/86, che “anche il pregiudizio estetico è essenzialmente e primariamente un danno biologico, cui si possono aggiungere le eventuali e ulteriori conseguenze del danno patrimoniale da lucro cessante e del danno morale”.

Ma, come si diceva, se la Corte Costituzionale ha risolto la questione sotto l’aspetto delle definizioni e dell’inquadramento, l’assorbimento del danno estetico nell’omnicomprensivo contenitore del danno alla salute, cioè della lesione dell’efficienza psicosomatica nello svolgimento di qualsiasi attività, lavorativa o meno, ha determinato l’aprirsi di nuovi problemi, soprattutto di raccordo e di compatibilità con i criteri di giudizio adottati nella valutazione delle varie ipotesi lesive:

- se il riferimento deve essere il 100% di “capacità biologica”, cioè di una realtà diversa e più ampia rispetto a quello tradizionale della “capacità generica al lavoro”, quale può essere il valore massimo attribuibile alla componente estetica?

- fino a che punto l’estrema variabilità del danno estetico può “convivere” con i criteri valutativi, ben più rigidi, applicati alle altre tipologie di danno?

- la compromissione estetica presente in molte situazioni lesive è ricompresa nelle espressioni numeriche fornite di volta in volta dal medico legale?

Le Guide valutative

Per analizzare il processo evolutivo avuto dal danno estetico in ambito medico legale è utile rifarsi alle Guide valutative che per decenni hanno sorretto ed accompagnato il lavoro di tutti gli operatori, medici legali e non.

La prima, storica, “Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente”

di Luvoni e Bernardi, risale al 1970, e risente ovviamente della cultura del tempo in materia di danno alla persona. Fortemente condizionata dall’esigenza di valutare la capacità lavorativa generica, esprime una serie di suggerimenti, sia di merito che quantitativi, che possono essere così sintetizzati:

- non viene indicato un valore massimo attribuibile alla complessiva integrità estetica del soggetto leso;

- vengono forniti alcuni valori di riferimento, il più elevato dei quali è il 30% attribuito ad una “gravissima deformazione del viso”;

- viene ripetutamente precisato trattarsi di valori di minima, suscettibili di variazioni anche rilevanti quando applicati al caso concreto;

- i valori debbono tenere conto di età e sesso del soggetto leso.

La riedizione più recente, datata 1990, e modificata anche nel titolo ( “Guida alla valutazione medico-legale del danno biologico e dell’invalidità permanente” ), dichiara

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di voler tenere conto dei nuovi indirizzi sul danno biologico dettati da giurisprudenza e dottrina dopo la sentenza cardine del 1986 della Corte Costituzionale.

Tuttavia, dal punto di vista del danno estetico non si riscontrano sostanziali novità rispetto all’edizione precedente; infatti, secondo gli Autori:

- i valori percentuali indicati, se riferiti al danno biologico, debbono costituire sempre il minimo valutativo, riferito all’uomo medio;

- conseguentemente, le valutazioni base vanno aumentate nei soggetti più giovani e nelle donne.

Anche la Guida aggiornata omette di indicare un “peso” limite da attribuirsi alla componente estetica nel patrimonio biologico dell’individuo, ma è lecito assumere che una grave compromissione estetica possa essere legittimamente valutata, secondo le indicazioni della Guida, anche oltre quel 35/40% di invalidità costituente il limite implicito indicato dagli Autori nella precedente tabellazione.

Il che appare per lo meno singolare, se si considera che nella precedente impostazione il danno estetico costituiva una parte di un 100% riferito alla capacità generica al lavoro, mentre oggi il 100% di riferimento, cioè la completa capacità biologica, costituisce un quid pluris, in quanto assorbe ogni forma di lesione definibile come “danno evento”, inclusa la generica capacità al lavoro.

Non si può non sottolineare l’irrazionalità della coincidenza dei valori numerici attribuiti dalle due Guide ad identiche lesioni, nonostante la richiamata diversità del contesto, che vede oggi la “ capacità generica al lavoro” come un sottoprodotto del “biologico”; la

“generica” non è più il 100% di riferimento teorico, dal quale dedurre la quota imputabile al danno estetico, ma diviene una parte di un altro 100% di riferimento, cioè relativo al più ampio contesto del danno biologico. Come si giustifica allora l’invarianza nei valori tabellati?

Se, in un certo senso, l’attribuzione di un peso così rilevante al danno estetico poteva apparire giustificata nello scenario “storico”, in quanto una grave compromissione estetica poteva in teoria rendere un soggetto inidoneo al lavoro, non si vede come un’identica lesione estetica possa avere analoga incidenza sul 100% di integrità biologica del soggetto leso.

Sostanzialmente diversa, quanto meno nell’impostazione di base, e fortemente innovativa nel metodo valutativo proposto, appare l’ultima tabellazione messa a disposizione degli operatori, la “Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente”, elaborata dalla Società Italiana di Medicina Legale nel 1996.

Queste le maggiori innovazioni introdotte:

- per la prima volta viene precisato un valore massimo di riferimento per l’efficienza estetica, pari al 35% del totale (salvo casi limite che richiedano una stima ad hoc );

- non vengono indicati singoli valori percentuali, bensì classi progressive (da 0 a 5, da 6 a 10, da 11 a 15, da 16 a 35 ) per situazioni di danno di crescente importanza;

- viene, per la prima volta, fornita una scala di gravità per sede anatomica della lesione;

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- si conferma peraltro che le valutazioni percentuali vanno comunque intese come indicative, suscettibili di variazione, nei due sensi, in funzione di età, sesso e di quant’altro conduca ad una valutazione personalizzata, con oscillazioni fino al 30% delle indicazioni di fascia;

- si introduce il concetto del “risentimento di ordine psichico” conseguente al danno estetico, la cui manifestazione in termini di eventuale patologia neuro-psichica a carattere permanente costituisce un ulteriore nocumento da valutare caso per caso (evidentemente mediante un incremento percentuale del giudizio valutativo del danno biologico complessivo).

Risultano peraltro in evidenza alcune circostanze singolari, per certi versi sorprendenti:

1) L’assoluta diversità di impostazione concettuale non si traduce in sostanziali diversità valutative in termini numerici, risultando singolarmente sovrapponibili la gran parte delle espressioni percentuali utilizzate dalle precedenti Guide;

2) L’efficienza estetica sembra poter assorbire, anche secondo le “nuove” tabelle, più della metà della capacità biologica complessiva ( nella Guida SIMLA 35% + 1/3 aggiuntivo + danno neuro-psichico correlato );

3) Anche la nuova Guida suggerisce l’opportunità di personalizzazioni, anche rilevanti, mediante ricorso ad integrazioni del valore numerico di base previsto per la fattispecie.

Un’identica lesione può trovare quindi apprezzamento numerico sensibilmente diverso da parte del medico legale, in ragione del differente sesso od età, od altra situazione soggettiva.

Aspetti critici

Molti sono i dubbi che, a mio avviso, si devono porre al tecnico, al giurista, allo stesso medico legale che deve servirsi delle tabelle e della propria discrezione per valutare un caso concreto:

1) Questa suggerita “mobilità” dell’espressione percentuale del danno estetico, che non si ritrova in alcuna altra fattispecie lesiva, e che dovrà essere tradotta in somma risarcitoria, come si concilia con l’esigenza, per nulla secondaria, di garantire quella “uniformità di base”

espressamente richiesta dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza? Non mi risulta che la stessa zoppia, lo stesso impaccio funzionale, od altre identiche forme lesive subiscano correttivi differenziati se danneggiato sia un minore, una donna, un anziano ovvero un uomo adulto.

2) Se si assume per la determinazione di un danno estetico in una giovane donna un correttivo in aumento, si finisce per proiettare tale valore maggiore per il resto della vita, quando la giovane sarà divenuta adulta, poi anziana, poi decisamente vecchia. E’ giusto? A me non sembra. In questo modo, da un lato si creano ingiustificate disparità di trattamento rispetto a persone colpite da fatto lesivo in età più avanzate, dall’altro si vìola proprio il principio che si vuole applicare, cioè che ad ogni età debba corrispondere un diverso apprezzamento. Occorrerebbe allora, per coerenza di sistema, introdurre una sorta di

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formula “a scalare”, che preveda una progressiva riduzione, con l’aumentare dell’età, del punteggio assegnato in fase iniziale. Ma ciò potrebbe complicare ulteriormente, in modo inopportuno, l’iter liquidativo, già oggi accusato di essere particolarmente lento e farraginoso.

3) Ancora, se, come abbiamo visto, l’attribuzione di un’importante percentuale di danno permanente, un 40% o 50%, appare possibile, come si raccorda ciò con la necessità di valutare una successiva grave lesione funzionale, al limite un’amputazione o la perdita di un organo? Riesce difficile ritenere compatibile una siffatta impostazione valutativa con l’esigenza di far rientrare nel 100% teorico di integrità psico-fisica tutte le varie ipotesi lesive virtualmente concorrenti. Vi è il rischio concreto o di sottovalutare, e conseguentemente sottoindennizzare lesioni successive, oppure, al contrario, di raggiungere e superare la percentuale massima di invalidità riconoscibile (che oggi viene collocata intorno all’80%, essendo valutazioni maggiori riservate a situazioni estreme, come ad esempio un coma apallico), senza che la capacità biologica residua ne risulti effettivamente azzerata. In pratica, se già con l’80% si valuta il danno di un tetraplegico, dopo un’importante lesione fisiognomica vi sarebbe solo un 30% di margine utile per ricomprendere lesioni gravissime come un’amputazione, la perdita di un organo o di un senso, addirittura in concorso tra loro. E’ ben vero che, secondo la migliore dottrina medico-legale, dopo ogni fatto lesivo comportante danno permanente, la situazione di efficienza psico-fisica residua dovrebbe ripartire dal 100% (il cosiddetto “cento esistenziale”); ma non si può ignorare la realtà nella quale operiamo, che probabilmente ci porterà ad avere una tabella legislativa di quantificazione monetaria che difficilmente terrà conto di tale differenziazione. La questione doveva essere ben presente al Gerin, il quale nel 1987 (“La valutazione…” cit.), cioè in contemporanea con l’uscita della sentenza n. 184, così si esprimeva:

“Ovviamente, se vi sarà soltanto un’incidenza sulla validità – cioè l’efficienza psicosomatica nello svolgimento di qualsiasi attività, lavorativa o meno – sarà opportuno ricorrere a quel valore economico medio sul quale mi sono già ampiamente intrattenuto e la valutazione del danno dovrà essere fatta in cifre percentuali che mai dovrebbero andare al di là di quel 35% che ho posto come limite massimo alla valutazione dell’invalidità fisiognomica”.

4) Seguendo l’impostazione metodologica suggerita dalla Guida SIMLA, al danno estetico, quanto meno di apprezzabile entità, potrebbe accompagnarsi un danno aggiuntivo, da valutarsi caso per caso (in ulteriore quota percentuale di invalidità?), in ragione

“dell’eventuale patologia neuro-psichica a carattere permanente reattiva al postumo, quando clinicamente accertata, o plausibile nel caso di menomazioni di una certa entità”.

La questione richiede a mio avviso doverosi chiarimenti.

E’ pacifico che molte delle fattispecie lesive ipotizzabili comportano sovente anche riflessi di carattere estetico; questi, a loro volta, determinano ricadute psicologiche e psichiche di varia entità: un’amputazione, una zoppia, un handicap motorio, indubbiamente pesano psicologicamente su qualsiasi danneggiato, non solo per il peculiare danno funzionale, ma anche per la lesione della propria immagine. Se poi si tratta di soggetti

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femminili, la menomazione viene percepita in termini più gravi dall’ambiente esterno, e maggiori sono le ricadute psicologiche sulla persona lesa.

Nella pratica liquidativa di ogni giorno non succede di imbattersi in una doppia valutazione, o in una significativa differenziazione rispetto ai normali valori tabellati per la lesione principale; il che porta a concludere che la componente estetica di lesioni più complesse o di natura funzionale sia compresa nel valore percentuale suggerito dalle tabelle. Ugualmente, devono ritenersi ricomprese dalla prassi medico-legale anche le ricadute psichiche provocate tanto dall’impaccio funzionale, quanto da quello estetico.

Inoltre, se, come appare razionale, la scienza medico-legale ha effettivamente ricompreso nel valore tabellato anche la componente estetica, evidentemente non ha anche suggerito, né i medici valutatori hanno recepito, di dover valorizzare particolarmente sesso, età od altre caratteristiche personali. Par di capire che, ad esempio, un’amputazione di piede debba valere il 30/35% sia che concerna un giovane, sia un anziano, sia una donna.

Nella Guida SIMLA vi è un unico accenno ad una possibile relazione tra danno funzionale e danno estetico, quando si precisa, in tema di danno da amputazione (pag. 86), che la possibilità di applicazione di protesi “incide più sugli aspetti fisiognomici del danno che non su quelli più prettamente funzionali”; non è chiaro quale effetto pratico induca tale precisazione, ma l’ipotesi più probabile è che la possibilità di protesizzazione debba determinare una riduzione della percentuale tabellata, a conferma del fatto che il danno estetico sia ricompreso.

Quale dunque la ragione di un regime così diverso per il danno estetico, inteso oggi come componente del complessivo danno alla salute?

Non appare preferibile che anche il danno estetico, come già avviene per ogni altro danno costituente danno alla salute (cioè “danno primario, danno evento, menomazione dell’integrità psico-fisica in sé e per sé considerata”), venga valutato sul piano di un’uniformità di base, di una congruenza metodologica, lasciando ad altre modalità il compito di garantire le doverose personalizzazioni?

Non sembra più adatto a tale funzione proprio il danno morale?

Non va dimenticato che la Corte Costituzionale, nell’evidente intento di salvare l’art.2059 c.c. dal giudizio di incostituzionalità, ha fatto nascere il danno biologico da una

“costola” dell’originario danno morale, che venne vivisezionato dalla nota sentenza, e scomposto in due parti dalla dubbia distinguibilità qualitativa:

- il danno morale, aggettivato come “danno morale subiettivo”, caratterizzato dal

“transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso”, cioè dalla temporaneità, dalla volatilità nel tempo (oltre che dalle sole ripercussioni psichiche o psicologiche, con esclusione delle sofferenze fisiche, che sarebbero danno biologico); tale danno continua ad essere collocato nel contesto dell’art.2059 c.c., e dipende dalla sussistenza di un fatto reato;

- il danno biologico (quale risultante della “sottrazione” dal danno morale tradizionale del danno morale subiettivo, dovremmo chiamarlo anche “danno morale obiettivo”?),

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ovvero “la menomazione dell’integrità psico-fisica dell’offeso, che trasforma in patologia la stessa fisiologica integrità, e costituisce l’evento interno al fatto illecito”;

in altri termini, e meglio precisato dalla sentenza n.372/1994 della Corte stessa, quando la sofferenza da temporanea degenera in vera patologia stabilizzata, allora il danno morale diviene danno biologico; per esigenze costituzionali il danno biologico rientra nell’ambito dell’art.2043 c.c. (per quanto la stessa Corte non è sempre d’accordo su tale principio: si pensi alla già citata sentenza n.372 ).

Ma se realmente solo ciò che è temporaneo è danno morale, mentre ciò che contraddistingue il danno biologico è la stabilità, è lecito parlare di “danno biologico temporaneo”, oppure è una contraddizione in termini?

Inoltre, quando si liquida il danno morale (transeunte, volatile…), è corretto prevedere un risarcimento rapportato all’entità dei postumi permanenti ed all’intera durata della vita?

Non è anche questa, del danno morale “permanente”, una contraddizione, peraltro presente nell’operato di molta parte della giurisprudenza, che ormai di regola esprime in tabelle il danno morale come quota del valore monetario del danno biologico permanente riconosciuto?

Considerazioni conclusive

Appare a mio avviso evidente l’esigenza di ricercare, anche per il danno estetico, un’impostazione valutativa meno “libera” e più compatibile con la necessità di coesistere con il generale inquadramento dato dalla dottrina medico legale e dalla giurisprudenza alla materia del danno alla salute.

Se da un lato non si può discutere la necessità di individuare, nella liquidazione di ogni fattispecie lesiva, il giusto risarcimento, facendo opportuno ricorso ad elasticità e flessibilità (“per adeguare la liquidazione del caso di specie all’effettiva incidenza dell’accertata menomazione sulle attività della vita quotidiana, attraverso le quali, in concreto, si manifesta l’efficienza psico-fisica del soggetto danneggiato”), dall’altro non inferiore considerazione merita l’esigenza di garantire un’uniformità pecuniaria di base, in quanto “lo stesso tipo di lesione non può essere valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto”.

Quanto sia problematico assicurare ai cittadini un’effettiva uniformità negli indennizzi lo vediamo ogni giorno attraverso l’operato dei giudici di merito, togati e non; e per lo più le diseguaglianze sono conseguenza di divergenti criteri pecuniari adottati. Se anche il dato valutativo medico legale divenisse incerto ed opinabile, ne conseguirebbe un’ulteriore ragione di imprevedibilità e di sperequazione.

Già il Gerin avvertiva l’esigenza di “evitare pericolosi soggettivismi, ricorrendo a tabelle orientative…da applicare con molta prudenza e con intelligente flessibilità”.

La Guida SIMLA, per parte sua, così si esprime nella parte introduttiva (pag.XXVIII):

“L’approssimazione, la discrezionalità e spesso l’arbitrio che hanno caratterizzato sin qui l’attività medico-legale devono essere superati poiché non più rispondenti all’esigenza di una razionale ed equa applicazione del diritto”.

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A mio avviso la funzione di personalizzazione dovrebbe essere affidata a strumenti diversi, peraltro già conosciuti ed utilizzati dagli operatori, quali:

- “l’appesantimento” monetario del valore attribuito al punto di invalidità biologica, come già avviene quando si deve apprezzare un riflesso patrimoniale incerto;

- l’erogazione di un eventuale indennizzo supplementare per danno morale (se, come ci auguriamo in molti, il disegno legge elaborato dalla Commissione di esperti coordinata dall’ISVAP diverrà legge, verrà meno l’ormai anti-storico sbarramento dell’art.2059 c.c., e non vi saranno più problemi in tal senso).

Per contro, ritengo che nella prospettiva del medico legale valutatore, il danno estetico, in quanto categoria di danno biologico, debba uniformarsi, per chiarezza di sistema, ai criteri in uso per ogni altra fattispecie di lesione, mediante valutazioni il più possibile omogenee, ancorché non costrette in un’unica espressione percentuale, ma racchiuse entro un range predeterminato, in una forbice che preveda un ragionevole minimo ed un massimo compatibile, senza possibilità di eccessivi adattamenti, che possano sconfinare in arbitrio, ma che consentano una coerenza nel sistema.

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