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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE DEL DANNO BIOLOGICO "TEMPORANEO" E DIMENSIONE STORICISTICA

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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE

DEL DANNO BIOLOGICO "TEMPORANEO"

E DIMENSIONE STORICISTICA

Prof G. Dell'Osso, Dr. L. Di Mauro, Dr. G. M. Rapisarda, Dr. S.

Iannuzzi

E' ormai acquisito che, in materia di responsabilità civile, una corretta valutazione medico-legale del danno alla persona deve primariamente incentrarsi nell'apprezzamento del cosiddetto "danno biologico", comprensivo della menomazione dell'integrità psicofisica e dei riflessi dinamici dalla stessa riverberati sulla capacità di costruire "valide" relazioni interpersonali, di inserirsi adeguatamente nella vita sociale e di svolgere con profitto le attività lavorative e con serenità ristorativa quelle extra-lavorative. In siffatto contesto particolare riguardo va posto alla delicata fase di valutazione del periodo e dell'entità del cosiddetto "danno biologico temporaneo" ("D.B.T."), o - per meglio dire - del cosiddetto "danno alla salute temporaneo" ("D.S.T."). Deve, in proposito e preliminarmente, evidenziarsi che in tale definizione può anzitutto ricomprendersi lo stato di malattia prodottosi nel soggetto in conseguenza del danno-evento in esame, della modificazione peggiorativa cioè dello stato anteriore, estrinsecantesi dinamicamente in un disordine funzionale apprezzabile, anche solo di parte dell'organismo, con ripercussioni sulla vita organica relazionale, e bisognevole di intervento terapeutico ancorché modesto: "alterazione anatomica e funzionale dell'organismo, generale o locale, a carattere evolutivo e cioè avviata verso la guarigione, la invalidità ovvero la morte" (Cfr. Franchini A., Medicina Legale, ed.

Cedam, Padova, Ed. X, 1985).

La stima del danno biologico temporaneo non si esaurisce, tuttavia, nella mera individuazione dello stato di malattia e della relativa durata, estendendosi sibbene alla individuazione della "portata" invalidante della malattia (di temporanea "diminutio" della validità psicofisica del soggetto) e del lasso

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biologico durante il quale, a causa di essa, il soggetto é stato impossibilitato ad attendere alle consuete occupazioni; va da sé che in medicina legale non v'è stato di malattia che, per quanto lieve e transitorio, sia suscettibile di valutazione se non ricorrono i caratteri, seppur minimi e temporanei, della disfunzionalità. Il momento valutativo attinente al danno biologico temporaneo si rivela così ricco di problematiche talora "sottovalutate" anche da parte di accorti medici valutatori. La materia si complica ulteriormente ove la terminologia stessa impiegata nella pratica corrente venga utilizzata in modo improprio, ingenerando ulteriore confusione in una materia già di per sé non semplice.

Richiamata, dunque, la distinzione fra danno biologico (aspetto statico) e danno alla salute (aspetto dinamico) e tenuta altresì presente la suindicata definizione di malattia, non pare inopportuno precisare che, ove per malattia s'intende correttamente uno stato pregiudizievole della salute del soggetto, di mutamento cioè in peius rispetto allo stato anteriore del soggetto prima dell'evento lesivo (il vocabolo "alteratio-onis", giunto a noi dal tardo latino, fa assumere, infatti, al sostantivo italiano "alterazione" una pregnanza semantica che, nell'accezione comune, si connota dei tratti della modificazione peggiorativa:

"alterazione - ad esempio - di monete", "alterazione di uno scritto", "alterazione del volto", etc. - Cfr. Ist. Encicl. Treccani, Vocabolario della Lingua Italiana, Ed.

1986), ne consegue la estrema importanza dell'indagine anamnestica e dell'esame obiettivo (che permettono di tracciare la linea di discrimine dell'ex-ante rispetto a quanto prodotto dall'evento lesivo) ai fini della più corretta individuazione del reale stato di malattia e della sua concreta "portata" invalidante.

Se per malattia s'intende un fenomeno dinamico, essa, oltre ad avere un inizio ed un periodo evolutivo, avrà necessariamente un termine; ovvero, se non è ragionevolmente prevedibile il suo esaurirsi, essa potrà costituire una "malattia certamente o probabilmente insanabile" trasmutando in "postumi" veri e propri (ed i postumi conservano, anch'essi, un qualche dinamismo, come - ad esempio - i postumi di frattura che, se non adeguatamente trattati, possono produrre esiti anche gravi) che daranno poi luogo ad "esiti" più o meno invalidanti (ed il definitivo esaurirsi del dinamismo del processo morboso è rappresentato, da ultimo, proprio dagli esiti). Ed ancora, se per malattia s'intende un disordine funzionale, ciò vuol significare che la lesione di un organo o di un tessuto da cui non derivi disordine funzionale di sorta, neppure momentaneo e localizzato, non

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può invero considerarsi, in Medicina, malattia; tuttavia, ciò confligge con le emergenze giurisprudenziali del Supremo Collegio (Cfr. ad es.: Cass. Pen. Sez.

VI, n.343, 16-03-'71, Novelli; Cass. Pen. Sez. I, n.2904, 18-02-'77, Carchedi), per le quali anche una modesta alterazione anatomica da residuale discromia post- ecchimotica al dorso di un piede sarebbe considerata dal Giudice di Legittimità quale stato di malattia (il che, però, ben si dimostra come assurdo medico prima, e medico-legale poi; atteso, peraltro, che, così ragionando, anche una piccola cicatrice cutanea ad un dito di un piede è da ritenersi malattia in quanto alterazione anatomica, ed anzi malattia certamente o probabilmente insanabile in quanto con buona probabilità non andrà a scomparire).

Se per malattia s'intende (come, in effetti, in senso medico-legale devesi) un insieme di fenomeni alterativi e reattivi funzionali a carattere dinamico, all'unisono tali fenomeni devono pur possedere il requisito dell' "abnormità";

ossia, devono aver superato quella soglia di media statistica che si discosta in senso qualitativo- quantitativo a tal punto dalla "normale" variabilità da sconfinare nell'abnorme e, dunque, nello stato di malattia.

Se per malattia s'intende tutto quanto per l'innanzi descritto, non possono comunque considerarsi estranei al novero dei caratteri che la definiscono anche la sofferenza individuale, fisica e/o psichica, e la compromissione che la stessa può comportare al soggetto in termini socio-affettivi e/o lavorativi; che, anzi, su tali due ultimi aspetti va notevolmente impegnata l'attività medico-legale.

Se per "lesione" s'intende "l'alterazione menomante del complesso somato- psichico della persona, cioè a dire la modificazione peggiorativa (talora fino all'annientamento) del suo stato fisico e psichico" (Cfr. Cazzaniga A., Cattabeni C. M., Compendio di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Ed.

U.T.E.T., Torino, Ed. 1961), allora "appare evidente come essa si riferisca ad ogni offesa dell'integrità somato- psichica" (Cfr. G. De Vincentiis, Considerazioni medico-legali sul rapporto di causalità nell'ambito della Pensionistica Privilegiata Ordinaria e di Guerra, Giorn. Med. Milit., 106, 636, 1956).

Se per "infermità" s'intende "un qualsiasi stato morboso che colpisce l'organismo umano, anche permanente e di lunga durata" (Cfr. G. Rotondo, Elementi di Medicina Legale in materia pensionistica privalegiata, Ed. Minerva Medico-Legale, Vol. 103, n.3-4, 1983), e quindi ogni modificazione peggiorativa, somatica e psichica, temporanea o permanente, determinata da qualsiasi causa ed

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attraverso qualsiasi meccanismo d'azione, allora il termine "infermità" si rivela più estensivo di quello di "malattia" che presuppone una precisa diagnosi nosografica (Cfr. Gerin C., Medicina Legale e delle Assicurazioni, Ed. Schirru, Roma, 1977).

Se per "menomazione" s'intende "l'effetto della lesione" e la conseguente

"diminuita efficienza della persona di fronte alle esigenze della vita vegetativa e di relazione, intesa questa in senso lato, cioè anche come vita sociale propriamente detta", allora "le menomazioni non si differenziano già, come le lesioni, per la qualità della causa, sibbene in base alla qualità della funzione che risulta compromessa, che è quanto dire in ordine alla ragione della dannosità; così si parla di menomazioni alla sensibilità generale, di menomazioni della funzione neuromuscolare, di menomazioni sensoriali specifiche, psichiche, estetiche, sessuali " (Cfr. Cazzaniga A., Cattabeni C.M., Compendio di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Ed. U.T.E.T., Torino, 1961).

Se per "convalescenza" s'intende quel "periodo intervallare" che, intercorrendo fra lo stato di malattia e la completa guarigione, può essere di tipo regionale o dell'individuo in toto (Cfr. Pellegrini C., Loro A., Compendio di Medicina Legale, Ed. CEDAM, Padova, 1931) e, pur differenziandosi nettamente dallo stato di malattia, "ne costituisce le manifestazioni terminali" (Cfr. G. Marras, Malattia, Convalescenza ed Incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, in La Giustizia Penale, 1, 16, 1967), allora non v'è chi non veda come solo nell'esaurirsi della convalescenza vada identificato il momento in cui il soggetto può considerarsi completamente stabilizzato (ancorché non possa in effetti, disconoscersi come la stessa Medicina manifesti non pochi dubbi e difficoltà concettuali nel definire le fasi "terminali"della malattia che vengono denominate

"convalescenza", o "fase riabilitativa", etc…).

Se, infine, per "capacità di attendere alle ordinarie occupazioni" s'intende non soltanto la capacità di svolgere l'attività lavorativa ma anche quella di svolgere tutti gli atti che, pur non costituendo lavoro produttivo di reddito, fanno tuttavia parte dell'abituale tenore di vita del leso, allora va da sé come ogni attività materiale od intellettuale (comprese quelle ludiche) rientri, ove giuridicamente apprezzabile ed effettivamente abituale per il soggetto, nel novero delle sue ordinarie occupazioni.

Alla luce, dunque, dei concetti sui quali si fondano i giudizi medico-legali relativi alle valutazioni del danno alla persona, e segnatamente di quello

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temporaneo, va sottolineato anzitutto come le consuete definizioni di "incapacità temporanea assoluta" e di "incapacità temporanea parziale al 50%" (spesso utilizzate per indicare il danno alla persona temporaneo) siano da abbandonare in favore delle più corrette definizioni di "invalidità temporanea assoluta" e di

"invalidità temporanea parziale al 50%", posto che le stesse si riferiscono, invero, al danno temporaneo alla validità psicofisica (di geriniana memoria). Ove, poi, si volesse adottare la migliore terminologia, dovrebbe parlarsi di "danno biologico temporaneo assoluto" (o "al 100%") e di "danno biologico temporaneo all' x %"

(laddove l'incognita "x" corrisponde alla percentuale riconosciuta di danno biologico temporaneo parziale), come oltre un decennio fa incominciò a fare il Tribunale Civile di Roma (Cfr. Sez. VI, sent. n.7595, 1990), pur senza dimenticare che siffatta terminologia non contempla l'eventuale valutazione dell'

"incapacità temporanea al lavoro specifico" (presupposto per il risarcimento dell'eventuale "incapacità reddituale transitoria") che dal medico valutatore andrà apprezzata - ove sussista - con adeguata aggettivazione ("minima", "modesta",

"lieve", "medio-grave", etc.). Ancora, è da precisare che la questione medico- legale sulla quale s'incentrano le problematiche relative alla valutazione del danno biologico temporaneo ("D.B.T."), o - per meglio dire - del "danno alla salute temporaneo" ("D.S.T."), verte essenzialmente su tre punti cardine:

a) la modalità interpretativa attraverso la quale va espresso il giudizio qualitativo inerente al DST (il giudizio, cioè, per cui è possibile verificare la sussistenza dei fattori che costituiscono il DST);

b) la modalità interpretativa attraverso la quale va espresso il giudizio cronologico inerente al DST (il giudizio, cioè, per cui è possibile verificare per quanto tempo si è protratto il DST);

c) la modalità interpretativa attraverso la quale va espresso il giudizio quantitativo inerente al DST (il giudizio, cioè, per cui viene attribuito al DST un valore percentuale corrispondente al valore della parziale diminutio della validità del soggetto realizzatasi durante il periodo individuato - per l'appunto - come di DST).

Per quanto enerente al primo punto ( al giudizio, cioè, per cui è possibile verificare la sussistenza dei fattori che costituiscono il DST), v'è subito da precisare che - come, s'è anticipato - la verifica della sussistenza del DST comporta anzitutto l'individuazione dello stato di malattia, ma involge anche la

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verifica della sussistenza di una eventuale e susseguente incapacità del soggetto di attendere alle ordinarie occupazioni (siccome ormai invalso nell'uso, fa con l'attingere, più o meno impropriamente, ai dettati giuspenalistici).

Né pare fuori luogo qualche nota aggiuntiva sul concetto di stato di malattia - siccome nell'accezione medico-legale accolta - e nonostante se ne sia precedentemente discusso, segnalando in particolare che, se da un canto la guarigione dalla malattia è fatto squisitamente biologico, la convalescenza presenta sul versante medico-legale numerosi risvolti da considerare.

Per giudicare della prima, va preliminarmente posta in evidenza l'importanza fondamentale dell'apprezzamento dello stato anteriore del soggetto, posto che esso può risultare immodificato al seguito della malattia ovvero modificato in peius al seguito della malattia, ed ancora in melius al seguito della malattia ("malattia benefica" : regressione della paralisi progressiva al seguito di malaria; regressione della blenorragia al seguito di itteri catarrali; etc.). Ma va annotato, altresì, che il giudizio di guarigione rimane pur sempre "relativo e convenzionale" (Cfr. Perrando G. G., Manuale di Medicina Legale, Ed. Idelson, Napoli, 1921), poiché la natura, che procede per gradi inapprezzabili nell'evoluzione dei suoi fenomeni, non si presta a delimitazioni assolute di essi;

sicché non esistono in realtà restitutiones ad integra perfette, né guarigioni piene e complete, ed ogni turbamento dell'integrità psicofisica e funzionale, per quanto inapprezzabile nell'ulteriore stato dell'organismo, maschera pur sempre una qualche indelebile modificazione conforme alla legge biologica generale di adattamento: il concetto di "guarigione" è, in altri termini, "inafferrabile" (Cfr.

Cazzaniga A., Problemi Cronologici della Medicina Legale, Ed. Bocca, Torino, 1940), in quanto non è dato ad alcuno di verificare "in vivo", nell'intima compagine dei liquidi organici, l'approdo a quel nuovo equilibrio (a quella nuova omeostasi) che viene denominato "guarigione".

Può, peraltro, individuarsi in Medicina una guarigione clinica, intendendo per essa "la scomparsa del complesso sintomatologico che costituisce il quadro clinico del morbo e ne permette l'identificazione, da ciò deducendosi: 1) che la guarigione clinica riflette i fatti acuti, la fase attiva della malattia; 2) che il convalescente è già clinicamente guarito; 3) che non vi è parallelismo tra guarigione clinica e ripristino della capacità lavorativa" (Cfr. Pellegrini R., Trattato di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Ed. CEDAM, Padova, 1959).

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Ma - com'è noto - diverso è il paradigma medico-legale, fortemente ancorato alla esigenza giuridica.

Ne consegue che, visto con ottica medico-legale, il concetto di guarigione può anche suddividersi in uno di "guarigione parziale" ed in un altro di

"guarigione integrale" : "Una lesione può essere sanata morfologicamente nel suo risarcimento anatomico più o meno perfetto e ricompaginativo della parte, e non di meno essere tuttora ben lungi dal ripristino fisiologico della vita regionale (circolazione, innervazione, meccanicità, ecc.); può essersi ricostituito uno stato morfologico locale normale e compensativo ma senza che si sia raggiunta quella scioltezza di congegni onde deve ripetere l'estrinsecabilità delle funzioni di cui un dato organo o un sistema organico o poliorganico è deputato. Quando anche ciò sia, nella misura conseguibile, conseguito, non siamo che sul limitare di quella rimessa in circolazione incondizionata, utilizzazione o adibizione della propria persona al lavoro, in genere ad occupazione"; cosicché, la guarigione integrale riassumerebbe in sé tutte le realizzazioni progressive di restaurazione anatomica, fisiologica, funzionale post-lesiva (Cfr. Borri L., Trattato di Medicina Legale, Ed.

Vallardi, Milano, 1922).

Di qui, ancora, la difficoltà di potere stabilire biologicamente, in modo inequivoco, il momento in cui, cessata la malattia, interviene la guarigione:

questa, infatti, è anch'essa un processo biologico evolutivo e, pertanto, è illogico il ritenere che possa individuarsi un tempuscolo prima del quale la malattia sussisteva ancora e uno dopo del quale essa era cessata. Più logico - e soprattutto più utile a fini medico-legali - si dimostra, invece, il considerare una malattia "in senso biologico" ed "in senso assicurativo", ed analogicamente dicasi per la guarigione.

Fermi restando, dunque, i classici parametri orientativi che, in ambito clinico, inducono il medico a formulare la diagnosi di malattia ed il giudizio di guarigione, al medico legale compete, invece e precipuamente, individuare ed utilizzare parametri che, proprio su malattia e guarigione, gli consentano di esprimersi non soltanto con valida significatività scientifica ma anche - e soprattutto - con effettiva aderenza agli indirizzi della dottrina medico-legale e della giurisprudenza. A tal fine non è disutile qualche precisazione sui concetti che, talvolta piuttosto nebulosi, attengono a quella fase evolutiva del passaggio dal morbo alla piena sanità che viene denominata "convalescenza", essendo noto

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che alla guarigione segue, di solito, uno stato che va sotto il nome di convalescenza. Per riprendere l'autorevole pensiero scientifico del Pellegrini (Cfr.

Pellegrini R., Trattato di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Ed. CEDAM, Padova, 1959), e distinguendo fra convalescenza in senso biologico e convalescenza in senso assicurativo, fra convalescenza dell'individuo (dopo guarigione - ad esempio - da una polmonite, o da un tifo, etc.) e convalescenza regionale (dopo guarigione - ad esempio - da una soluzione cutanea di continuo che ha prodotto la crosta ematica, o da un focolaio fratturativo riparato sul quale non vi sia stata ancora sufficiente precipitazione di sali di calcio, etc.), fra convalescenza conciliabile, oppure inconciliabile, con lo svolgimento delle ordinarie occupazioni del soggetto ( e ciò, a seconda che questi sia stato colpito da una malattia generale o locale, che sia stato prostrato nelle forze, che sia stato denutrito, che abbia vissuto il periodo di malattia in particolari condizioni ambientali, che abbia svolto specifiche attività sociali, etc…), elemento essenziale perché si possa parlare di convalescenza rimane lo stato di malattia che deve averla preceduta. Pertanto, non v'è convalescenza nell'ipotesi di soggetti menomati - ad esempio - da fatiche eccessive.

Il De Vincentiis, invece, (Cfr. "Zacchia", n.1, 1953) vede la convalescenza come stato intermedio fra malattia e sanità, fra lesione e validità: della prima, infatti, mancano ad essa le alterazioni e la reazione di natura morbosa; della seconda non vi si riscontra l'ordinario, pacato, dinamismo. Ancora una volta - secondo l'Autore - sembrerebbe che a criteri di ordine quantitativo vada affidata la differenziazione degli stati di cui si discute: "Fintantoché tali fenomeni si succedono, esisterà indubbiamente lo stato di malattia: patologiche si dovranno considerare pure, per la loro natura, quelle graduali reazioni integrative che si manifestano specialmente dopo la formazione del callo, quali il riassorbimento degli stravasi emorragici e dell'edema, il restaurarsi di una normale circolazione ematica, la rimobilizzazione delle articolazioni momentaneamente anchilosate, etc.; fenomeni tutti, certamente di natura patologica in quanto alterativi e reattivi, accompagnati da un deficit motorio di grado diverso a seconda dei casi. Formatosi il callo, riassorbitisi gli edemi e gli stravasi emorragici, ripristinata la funzione circolatoria, lo stato di malattia deve ritenersi esaurito. Subentra in questo momento quel lento, graduale processo di rieducazione e riadattamento interessante non soltanto i tessuti lesi bensì l'organismo, tendente a raggiungere

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per quanto è possibile le condizioni preesistenti; i gruppi muscolari si contraggono ormai come di norma e ubbidiscono ai compiti loro prefissi; la motilità degli arti e dei segmenti di essi ha acquistata la normale ampiezza, la circolazione sanguigna si effettua normalmente, etc.; residuano però una facile esauribilità ed una difficoltà nell'esecuzione dei movimenti lavorativi, per così dire più fini e delicati.

Ecco quindi il graduale riadattamento, la rieducazione motoria, quel lento ritorno nel consueto ambiente di lavoro che caratterizza lo stato di convalescenza.

Ripristinatesi le condizioni ordinarie, si entra definitivamente nell'ambito della sanità che rappresenta l'equilibrio dell'economia organica turbata dal fatto lesivo.

Ed infatti ciò è in armonia con la etimologia dell'espressione "convalesco"

equivalente a rinforzarsi, prendere forza, vigore, crescere, dilatarsi; "ignis convalescit": il fuoco aumenta".

Deve, in aggiunta, segnalarsi che sulla durata della convalescenza influiscono molti fattori, anche solo subiettivi: si tratta, soprattutto, della cosiddetta "pigrizia convalescenziaria" largamente diffusa tra chi nutre speranze risarcitorie (affermava, in proposito, sarcasticamente il Lieck che la peggiore complicazione delle ferite è l'assicurazione, ed il Göbbels gli faceva eco riportando "testimonianze malevolenti secondo le quali la guarigione di una frattura avviene in quattro settimane per chi sia dato ad un mestiere libero che non permetta di oziare, ma per chi sia impiegato, in quattro mesi"). Per converso, è dato a volte il riscontro di un fenomeno antitetico alla pigrizia convalescenziaria, e cioè il ritorno precoce - rectius, prematuro - alle precedenti attività; il che mette ancora una volta in evidenza il contrasto fra convalescenza in senso medico e convalescenza in senso lavorativo (vi sono casi - ad esempio - in cui il medico competente rifiuta di riammettere al lavoro chi sia stato giudicato guarito dal proprio medico o da quello dell'Istituto Assicuratore - e ciò, per la scarsa produttività di chi non si è ancora riadattato, in verità, alla consueta vita lavorativa, oppure per la possibilità di nuove sofferenze, o perché non venga accresciuto il rischio di infortuni - ed in tali situazioni resta da stabilire se, nell'eventuale danno provocato ad altri per avere ingiustificatamente troncato il periodo di convalescenza, non possa ravvisarsi anche una responsabilità: valga, per tutti, il caso dei conducenti di autoveicoli).

Da ultimo, la fase che conclude definitivamente la malattia (intesa, questa, in senso medico-legale) è rappresentata dal ripristino delle capacità del soggetto,

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che si distinguono in quattro gruppi: proprie, e cioè relative allo speciale mestiere od alla speciale professione esercitata dal soggetto; generiche, quali le occupazioni casalinghe; ordinarie, come il camminare, il lavarsi, il vestirsi;

voluttuarie, intendendosi per tali quelle occupazioni non produttive e non necessarie (purché - ovviamente - giuridicamente apprezzabili), cui il soggetto aveva consuetudine di attendere prima del fatto lesivo (purché - ovviamente - per lui effettivamente abituali) per inclinazione propria, o perché a lui comuni come alle altre persone dello stesso ceto sociale, della stessa età, etc. Va da sé che si può essere resi incapaci di attendere a tutte od a parte delle ordinarie occupazioni, completamente o parzialmente, ma sul versante medico-legale si tiene conto solo di quelle incapacità che siano essenziali e cospicue rispetto al consueto tenore di vita del soggetto, avuto riguardo che quelle espletabili non lo siano con dolore o con possibilità di pericoli di sorta per l'incolumità psicofisica della persona (e, peraltro, anche ai minori va riconosciuta la incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, cosicché il giocare - ad esempio - è, per essi, da considerarsi attività ascrivibile al novero delle ordinarie occupazioni).

Né può tralasciarsi di sottolineare che, al fine di esprimere un corretto giudizio medico-legale di convalescenza, va anche tenuta in doverosa considerazione la verifica dell'avvenuto concretarsi, o meno, del cosiddetto

"consolidamento"; vale a dire di quello stato psicosomatico che non sia, presumibilmente, più suscettibile di modificazioni agli effetti dell'apprezzamento forense (si possono osservare consolidamenti successivi, così il consolidamento - ad esempio - di una mutilazione di un arto inferiore avviene in quattro tempi:

prima, cioè, nei riguardi della guarigione chirurgica; poi, dell'individuo nel suo complesso, il che si verifica al termine della convalescenza; successivamente, per quanto concerne il lavoro; infine, rispetto all'applicazione di un apparecchio protesico (e quest'ultimo momento coincide non già con la cicatrizzazione del moncone, ma soltanto a decorrere dal momento in cui la parte ha riassunto una notevole resistenza; si deve, infatti, impedire che il moncone poggi direttamente sul cavo della protesi, a meno che non si disponga di un interposto tappeto di gomma, il che si ottiene facendo sì che l'apparecchio trovi appoggio più in alto, e cioè, a seconda dell'altezza dell'amputazione, sul capitello tibiale, sul cono della coscia, sull'ischio, e così via dicendo). Per cui, in pratica, saranno da considerarsi con attenzione: il periodo che precede la guarigione chirurgica; il periodo di

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convalescenza dell'individuo; il periodo corrispondente ad una evoluzione idonea della parte, fino all'applicazione di un apparecchio provvisorio; finalmente, il periodo nel quale è applicabile un apparecchio definitivo. E siffatte distinzioni sono tutte molto importanti agli effetti delle prestazioni assicurative da erogare e della valutazione del DST.

Dalle precisazioni che precedono, emerge con tutta evidenza quale sia il problema fondamentale che il medico valutatore è chiamato a risolvere allorché debba esprimersi in merito a quella che ormai è invalso nell'uso denominare

"inabilità temporanea" (assoluta, o temporanea) ma che - come già puntualizzato - è meglio definire "danno biologico temporaneo", o - per meglio dire - "danno alla salute temporaneo": discernere, cioè, ed individuare correttamente, i fattori che sono da ascrivere al danno alla salute temporaneo da quelli che non lo sono.

Nella pratica corrente, invece, si osserva sovente che il relativo giudizio medico-legale viene inteso come mera individuazione e relativa annotazione della sua durata, correlando questa direttamente al protrarsi dello stato di malattia e dell'eventuale convalescenza; ma se ciò vale - ed anzi è d'obbligo - in ambito di infortunistica privata, nonché in ambito di infortunistica assicurativa sociale con riferimento alla capacità lavorativa, in ambito civilistico si dimostra banalmente approssimativo e fortemente riduttivo in relazione alle complesse sfaccettature che caratterizzano il DST.

Avuto riguardo, per contro, di quanto precedentemente illustrato, non v'è chi non veda come la durata della malattia non può che essere uno dei vari parametri da prendere in considerazione per il giudizio sul DST, in quanto essa è spesso insufficiente a dar conto dell'effettivo turbamento della salute del leso dal momento del trauma e fino a quello della stabilizzazione dei postumi: è, infatti, fuor di dubbio che nel periodo di DST, sia totale che parziale, si possono verificare, nello stato di salute del leso, i più disparati, e sfavorevoli, e penosi accadimenti; dal che, si rivelerebbe profondamente ingiusto il tralasciare ragionevoli tentativi valutativi mirati ad una stima personalizzata di tale tipo, seppure transeunte, di danno alla persona. Peraltro, non va sottaciuto che i successi della scienza medica nel campo della cura delle malattie in generale, e di quelle di natura traumatica in particolare, hanno aumentato la quantità e la durata nel tempo degli interventi terapeutici atti al ripristino delle migliori condizioni

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funzionali, ed hanno conseguentemente ridotto l'entità dei postumi permanenti, ma hanno fatto accrescere all'unisono la durata e l'entità del DST.

Ne scaturisce, pertanto, la considerazione per cui le legittime aspettative di risarcimento non possono riguardare soltanto gli esiti di un dato evento traumatico, ma anche il danno alla "qualità della vita" del leso, sotto il profilo della salute medicalmente intesa, sia durante il periodo della malattia che durante quello della convalescenza. Cosicché, il medico legale non dovrà limitarsi a definire la mera dimensione cronologica di un'indefinita e vaga inabilità temporanea (totale o parziale che sia), né a quantificare la malattia intesa come entità nosografica; egli, invece, deve considerare ed apprezzare quanto l'effettiva compromissione della valetudo che essa - e la convalescenza, se effettivamente apprezzabile - comporta nell'individuo malato, in quanto la malattia non è evento esclusivamente biologico ma anche psicologico, economico e sociale (evento che, fra le altre cose, implica spesso pure il dolore fisico : dimensione della sofferenza umana che, ancorché non ben definibile e registrabile nella pratica medico-legale, è - e rimane pur sempre - realtà incidente sulla validità psicofisica).

E per potere esprimere un corretto giudizio di DST comprensivo sia dell'invalidità temporanea prodotta dalla malattia, sia di quella residuale (e gradualmente proiettata verso la sanità) dovuta alla convalescenza, la medicina legale ha individuato il proprio riferimento dottrinario utile nel concetto di

"incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni"; concetto, di ben nota derivazione penalistica (ex Art.583 C.P.), per il quale - come già segnalato - s'intende non soltanto la capacità di svolgere l'attività lavorativa ma anche quella di svolgere tutti gli atti che, pur non costituendo lavoro produttivo di reddito, fanno tuttavia parte dell'abituale tenore di vita del leso, cosicché ogni attività materiale od intellettuale (comprese quelle ludiche) rientra, se giuridicamente apprezzabile ed effettivamente abituale per il soggetto, nel novero delle sue ordinarie occupazioni. Corre l'obbligo, tuttavia, di rimarcare - come s'é anticipato - che non si può aderire in toto alle concezioni penalistiche allorquando si operi in ambito civilistico; non sarebbe, infatti, in alcun modo ammissibile medico- legalmente - come già stigmatizzato - che anche una modesta alterazione anatomica da residuale discromia post-ecchimotica al dorso di un piede venisse considerata quale malattia (rappresentata in penale financo da una modesta alterazione anatomica seppur priva di alcuna disfunzionalità): ammettendo ciò, si

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scivolerebbe inevitabilmente in un assurdo medico, prima ancora che medico- legale, e si dovrebbe anche ammettere che una piccola cicatrice cutanea ad un dito di un piede sia da ritenersi malattia in quanto alterazione anatomica, ed anzi malattia certamente o probabilmente insanabile in quanto con buona probabilità non andrà a scomparire.

Ad ogni buon conto, va da sé come malattia e convalescenza si sovrappongano l'una l'altra, nella realtà che governa i fenomeni biologici, quasi cerchi concentrici i cui perimetri mal s'intravedono anche da parte dell'occhio medico-legale più esperto. Rimane tuttavia il dato per cui uno stato di malattia ed il suo successivo periodo di convalescenza non possano che rientrare nel novero dei fattori che costituiscono e definiscono qualitativamente il DST.

Per quanto inerisce al secondo punto (modalità interpretativa attraverso la quale va poi espresso il giudizio cronologico inerente al DST; il giudizio, cioè, per cui è possibile verificare per quanto tempo si è protratto il DST), va subito precisato che la mera individuazione di un unico periodo cui si volesse ascrivere il DST si rivelerebbe indubitabilmente approssimativa e fallace; fermo restando che (come ormai da tempo sostenuto da dottrina e giurisprudenza), nell'ambito della pur unica valutazione da eseguirsi sul danno alla persona, detta unitarietà non assume significazione di appiattimento valutativo, essendone, anzi, momento- cardine il ricorso ad una rigorosa metodologia medico-legale che persegua il fine ultimo della cosiddetta "personalizzazione" del danno.

Ne deriva la necessità di individuare, per la specifica questione del DST, più periodi di invalidità che siano illustrati dal medico valutatore nella loro piena realtà di differenti momenti invalidanti capaci di produrre, rispettivamente, differenti gradi di pregiudizio sull'organismo nel suo complesso, oppure su di una o più funzioni di esso. Anche se non possono considerarsi effettivamente invalidanti - e perciò da ascriversi al DST - tutti i pur numerosi fatti residuali che dalla convalescenza conducono l'individuo alla sanità ed alla piena reintegrazione di homo socius e di homo faber; che siffattamente si rischierebbero pericolose attribuzioni di dignità di pregiudizio funzionale a minime sintomatologie subiettive o ad appena apprezzabili limitazioni del movimento di un'articolazione interfalangea distale d'un mignolo.

Per quanto inerisce al terzo punto (modalità interpretativa attraverso la quale va poi espresso il giudizio quantitativo inerente al DST; il giudizio, cioè, per

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cui viene attribuito al DST un valore percentuale corrispondente al valore della parziale diminutio della validità del soggetto realizzatasi durante il periodo individuato - per l'appunto - come di DST), va subito precisato che mantengono, invero, tutta la propria utilità pratica le due grandi suddivisioni di "invalidità temporanea assoluta" ("ITA") ed "invalidità temporanea parziale" ("ITP") fino ad oggi adottate.

Va, tuttavia, puntualizzato che, se da un canto l'ITA è da intendersi espressione di un periodo di malattia che comporti pregiudizio globale sull'organismo, d'altro canto essa non può non rappresentare - alla luce di quanto suesposto - anche l'assoluta incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni pur quando l'infermità in giudizio interessi, ed anche durante la convalescenza, soltanto un apparato la cui disfunzionalità, però, impedisce completamente quelle occupazioni.

Del pari, va puntualizzato che, se da un canto l'ITP è da intendersi espressione di un periodo di malattia loco-regionale che non comporti pregiudizio globale sull'organismo, d'altro canto essa non può non rappresentare anche la parziale incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, ed anche durante la convalescenza, in funzione del parziale impedimento che l'infermità in giudizio comporta in conseguenza della disfunzionalità da essa cagionata.

E, mentre per l'ITA assume concretezza il valore percentuale di "100"

(100% = invalidità assoluta), per l'ITP il discorso si complica. Per essa, infatti, o si ragiona per frazioni di periodo, individuando un primo periodo comportante un'ITP del valore - ad esempio - del 75%, poi uno del 50%, infine un altro del 25%; oppure, eseguendo la media di tali valori, in rapporto al periodo complessivo intercorrente fra il primo giorno al 75% e l'ultimo al 25%, si definisce tutto il periodo come di ITP al 50%.

La valutazione del DST in buona sostanza e in estrema sintesi, abbisogna di buon senso valutativo e di valida esperienza medico legale più che di regole, o convenzioni giuridiche, suggerimenti freddamente giurisprudenziali.

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