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L ACCERTAMENTO MEDICO LEGALE DEL DANNO

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L’ ACCERTAMENTO MEDICO LEGALE DEL DANNO TEMPORANEO ALLA PERSONA

Prof. Domenico De Leo - Guido Cavagnoli - Alessandra De Salvia

Il modello tradizionale del risarcimento del danno alla persona, ma l’aggettivo forse oggi è inopportuno, tenuto conto che sin dal 1986 con la ben nota sentenza 184 della Corte Costituzionale è stata acclarata la centralità della compromissione della integrità psico-fisica come primum movens dell’iter risarcitorio, era incentrato sugli aspetti patrimoniali del danno medesimo ed in particolare sulle effettive conseguenze che la lesione, nelle sue sequele d’ordine temporaneo (malattia convalescenza) e d’ordine permanente (postumi) determinava sul guadagno di fatto (per la componente temporanea) e sulla capacità di guadagno (cioè di produzione del reddito per il futuro).

Le voci levatesi in dottrina a criticare, prima ancora della Giurisprudenza, tale modello risarcitorio, avevano sottolineato la sostanziale inapplicabilità, se non con delle finzioni giuridiche, del criterio fondato sugli aspetti patrimoniali, in quanto inapplicabile ad esempio nei riguardi di tutti quegli individui che al momento del fatto illecito non svolgevano alcuna attività lavorativa remunerata (così ad esempio la casalinga, il minore, il disoccupato, il pensionato): in relazione a questi non era individuabile in quanto non provato un reddito lavorativo.

Per superare tale ostacolo furono per l’appunto introdotte nozioni di reddito figurativo a testimoniare un danno futuro, potenziale, anche solo eventuale alle quali ancorare il calcolo del danno patrimoniale.

Questo modo di operare apriva, peraltro, la strada a grossolane incongruenze risarcitorie che non tenevano conto del fine ultimo della norma, quello di creare, nell’impossibilità ovvia di ricostituire la primitiva integrità, un sistema risarcitorio equilibrato, cioè giusto in quanto fondato su criteri applicabili a tutti gli individui.

Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica Sezione di Medicina Legale,

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Dalla casistica personale potrei trarre l’esemplificazione di un sinistro dei primi anni ’80 comportante per un notaio di acclarata fama il classico “trauma distorsivo del rachide cervicale”, seguito da certificazioni di malattia con rappresentazione esclusivamente di sintomi in assenza del benché minimo riscontro obiettivo, che radicò una causa civile nella quale, a ben vedere, il danno da temporanea superava di gran lunga gli eventuali postumi permanenti, peraltro anch’essi monetizzati avendo come base il reddito documentato, ridotto (ma non più di tanto) con gli abbattimenti equitativi previsti dall’art. 1226 c.c.

Questo perché si assumeva che per lo stato di malattia indotto dalle primitive lesioni il professionista fosse stato sostanzialmente incapace al lavoro per poco meno di 2 mesi, avendo come base reddituale annua una somma prossima ai 2 miliardi.

Riletta con gli occhi dell’oggi ci si rende conto di come una tale iniziativa processuale, transatta con somme comunque non di molto lontane da quanto reclamato in atto di citazione, suonasse come fatto della massima iniquità, dato il convincimento che quello stato di malattia indotto da quelle specifiche lesioni aveva potuto pregiudicare per non più di qualche giorno (forse) l’impegno lavorativo del danneggiato.

Se un rischio di questo tipo è forse oggi del tutto bandito, nell’

accertamento del danno permanente, dalla definitiva statuizione della compromissione della integrità psicofisica come valore meritevole di tutela armonica in tutti gli individui, l’accertamento della temporanea può ancora prestarsi ad ambigue soluzioni.

Resta il fatto che in un momento nel quale da parte delle Società Assicuratrici si reclama la difficoltà di riequilibrare il mercato, ed il pensiero corre naturalmente al risarcimento del danno su polizza RC auto che assorbe la quasi totalità degli accertamenti medico-legali in tema di valutazione civilistica del danno, si avverte anche l’esigenza che tali accertamenti siano correttamente rappresentativi della base biologico-clinica del singolo caso.

Solo attraverso un riequilibrio valutativo ed un aggiustamento indennitario, ed in questo si deve di necessità sposare la posizione degli assicuratori che lamentano l’impossibilità di tarare adeguatamente il rischio assunto, può essere vista la migliore strategia anche per un contenimento dei costi assicurativi sui quali così vivace e polemico è il dibattito fra le parti interessate.

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I dati assicurativi non offrono diverse letture interpretative: l’Italia ha un numero di sinistri in percentuale su polizza sicuramente più elevato rispetto ai Paesi Europei.

Dai dati presentati dalla Comunitè Europèenne des Assurances risulta ad esempio che i sinistri in Italia colpiscono il 12.12% delle polizze a fronte dell’8%

della Germania, del 6.75% della Francia e del 3-4% dei Paesi Scandinavi e questo solo fatto è uno dei motivi per cui il costo delle polizze italiane appare superiore.

Ma un altro motivo di appesantimento dei costi assicurativi, anche qui i dati di fonte ANIA non consentono letture diverse, va ricercato nel numero particolarmente elevato di sinistri con danni alla persona, e questo indipendentemente dal fatto che si tratti di lesioni modeste. Sono state spese molte parole anche in sede medico legale sui motivi per i quali in Italia oltre il 17% dei sinistri su polizza RC auto comporta danni fisici quando, ad esempio, nel Regno Unito tale incidenza non supera l’8% ed in Francia è dell’8.70%.

Si è insistito ancora sulla mancanza di interventi di prevenzione di infortunistica stradale (ricordiamo che è del tutto recente la possibilità di accertare il tasso alcolemico dei conducenti di autovettura o di altri soggetti coinvolti in sinistri della strada) e sulla qualità della rete stradale (obsoleta e pericolosa).

Un ulteriore fattore va visto, sicuramente, nella scarsa attenzione che è prestata sin dalla fase immediatamente successivamente al sinistro dai medici curanti, nell’accertamento della realtà di lesione, nella definizione di un motivato progetto terapeutico riabilitativo, nella approssimazione di tante attestazioni certificative.

Né va sottaciuto il ruolo assunto dai medici legali valutatori a proposito della approssimazione, e l’ammissione di colpa non può essere contestata da parte di quei medici legali che, con mancanza di spirito critico, assumono passivamente rilievi anamnestici, documentali ed obiettivi sino alla rappresentazione di parametri di danno non motivati.

Tutto questo in un sistema fondato sui grandi numeri porta, inevitabilmente, a sperequazioni risarcitorie, a incongruenze valutative, ad una perdita di controllo, in definitiva, da parte dell’assicuratore privato, dei costi per sinistro, da cui la doverosità di provvedimenti atti a garantire quello che è un obiettivo d’impresa (la redditività del ramo).

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In sintesi dunque la valutazione medico legale del danno alla persona dovrebbe rispettare le esigenze di una uniformità valutativa e di riflesso risarcitoria, dare certezza al percorso risarcitorio ed eventualmente, ma solo in casi nei quali ciò sia tecnicamente praticabile, pervenire ad una personalizzazione del danno suscettibile di ricadute anche economiche.

In quest’ottica quanto mai condivisibile è apparso il progressivo affermarsi in dottrina di una corrente valutativa finalizzata a cogliere gli aspetti più pregnanti della invalidità temporanea.

Ci riferiamo agli interventi della Scuola Medico Legale Milanese nei quali si è voluto fare giustizia di un pregresso accostarsi al danno temporaneo che assumeva in termini acritici la sussistenza della malattia per proporla al risarcimento in forma sostanzialmente automatica (tot giorni di malattia per tot lire al giorno). Un orientamento questo che era stato parzialmente recepito dal peraltro decaduto D.L. 70/2000 dove all’articolo 3, punto 1 paragrafo b, si leggeva che “a titolo di danno biologico temporaneo è liquidato un importo di lire 50.000 per ogni giorno di invalidità assoluta; in caso di invalidità temporanea inferiore al 100% la liquidazione viene in misura corrispondente alla percentuale di invalidità riconosciuta per ciascun giorno”.

Il Legislatore aveva dunque fatto proprie le perplessità manifestate dalla dottrina medico legale che si era sforzata di chiarire come i concetti di malattia, cioè di processo morboso evolutivo e di validità, cioè di ricaduta negativa sulle attività occupazionali ed extralavorative dell’infortunato, rappresentassero entità concettuali distinte.

Una soluzione tuttavia che non poteva reggere alle immediate critiche sulla violazione di diritti costituzionalmente protetti (ex art. 2, 3, 32 Cost.), primo fra tutti quello della tutela piena del diritto alla salute (la “valorizzazione soggettiva”) il che appariva incompatibile con l’impossibilità da parte del Giudice di adattare la somma risarcitoria alle circostanze specifiche del caso. Ben sappiamo come la soluzione proposta in realtà tentasse di dare soluzione ad esigenze che tutto riguardavano fuorché la tutela del diritto individuale alla salute, ponendosi in prima linea il controllo delle spinte inflazionistiche che venivano da questo settore della responsabilità civile: motivazioni queste di cui è finanche intuitiva la violazione del dettato costituzionale.

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In una revisione critica della casistica peritale gli autori milanesi hanno ben sottolineato come incongruità valutative potessero conseguire ad un giudizio che avesse tenuto conto solo delle ripercussioni del fatto biologico sull’attività del leso, essendo di tutta evidenza che fattispecie cliniche sovrapponibili debbano vedersi riconosciuti periodi di invalidità temporanea diversi a seconda che il soggetto svolgesse in proprio o come dipendente lo stesso tipo di attività lavorativa (solo per introdurre un elemento, quello del lavoro autonomo o meno).

Ed ancora appariva ed appare assolutamente incongrua l’assunzione di una malattia con incapacità sostanzialmente totale alle ordinarie occupazioni, mutuata dalla corrispondenza di un periodo di assenza lavorativa del tutto ingiustificato rispetto alle manifestazioni cliniche del caso ma validato da periodici certificati del Medico di famiglia, quando non da Medici incaricati di verifiche fiscali.

Siffatti modi di procedere non sono in effetti aderenti al concetto di danno biologico così come definitivamente affermatosi, il quale impone il risarcimento anche del danno temporaneo indipendentemente da eventuali riduzioni reddituali per il sol fatto della menomazione dell’integrità psico-fisica anche temporanea.

Che la temporanea, poi, meritasse un giusto riconoscimento risulta affermato dalla Suprema Corte sin dal 1985 con la sentenza n° 1130: “è pienamente risarcibile ai sensi dell’art. 2043 del Codice Civile il danno biologico consistente nelle menomazioni agli organi e alle funzioni fisio-psichiche della persona, indipendentemente dalla perdita della capacità di lavoro e di guadagno, perché trova il suo fondamento nella Costituzione. In tale voce autonoma di danno rientra anche il danno per il periodo da invalidità temporanea totale e parziale”.

Nulla quaestio, ma su questo niente di nuovo, sulla cumulabilità fra le voci di danno, alla integrità psico-fisica e patrimoniale, se è vero che la Corte Costituzionale, con la già richiamata sentenza 184/86 ebbe ad affermare che “oltre alla voce relativa al risarcimento di per sé del danno biologico, ove si verifichino, a seguito del fatto lesivo della salute danni conseguenze di carattere patrimoniale (esempio: lucro cessante) vanno anch’essi risarciti con altra autonoma voce…”.

Il lucro cessante nell’invalidità temporanea rappresenta un accertamento medico legale a posteriori: si tratterà di validare una asserita perdita reddituale quale conseguenza di una incapacità lavorativa. Al contrario nel lucro cessante da invalidità permanente l’accertamento medico legale si fonda sostanzialmente su

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un giudizio prognostico, la cui rilevanza ai fini della sua risarcibilità, è bene ricordarlo, non ha certo univocità di lettura in dottrina ed in giurisprudenza.

Che sia importante la doppia analisi sul danno temporaneo la Corte di Cassazione ebbe a dichiararlo sin dal 1978 con la sentenza n. 3504: “il dipendente pubblico o privato che durante il periodo di invalidità temporanea totale conseguente a fatto illecito continui a percepire l’intero stipendio non subisce di norma alcun danno e quindi non ha diritto al risarcimento…”. Questa sentenza, che chiaramente afferisce a quello che abbiamo definito il filone tradizionale del risarcimento del danno a persona, va naturalmente letta alla luce della successiva evoluzione giurisprudenziale che garantisce comunque anche per la “temporanea”

un adeguato riconoscimento.

Analogamente alla percentualizzazione dell’invalidità permanente biologica, appare dunque del tutto convincente la percentualizzazione anche dell’incapacità temporanea del soggetto, rispetto agli atti ordinari della vita relazionale.

In altre parole non può, sempre in ossequio al principio di rispetto di un equilibrio valutativo, assimilarsi la condizione di malattia di colui che è ospedalizzato in una struttura di rianimazione con sostanziale preservazione della vita solo grazie all’intervento vicariante di attrezzature rianimatorie, alla condizione di chi, pur in malattia, vede solo minimamente compromessa la sua vita relazionale.

Si pensi ancora alla condizione di un tetraplegico per il quale è ancora in atto un intervento terapeutico-riabilitativo che potrebbe modificare anche in maniera sostanziale il destino funzionale degli arti; al politraumatizzato costretto all’immobilizzazione perché portatore di apparecchi gessati ad arti superiori e ad arti inferiori o comunque a mezzi di osteosintesi con divieto di carico ed impossibilità ad una funzione prensile adeguata; si pensi, per converso, al così frequente traumatizzato cranico o traumatizzato cervicale che al di là del disagio di un tutore ortopedico può riproporsi senza interruzioni e senza significative limitazioni alla vita ordinaria.

Soccorreranno per una corretta percentualizzazione dell’incapacità la natura della lesione iniziale, le disfunzioni correlate, i tempi di evoluzione e di recupero funzionale, la necessità di terapie e provvedimenti terapeutici, tutti

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fattori questi che si ripercuotano sugli aspetti costitutivi della vita quotidiana che consentono alla persona danneggiata di godere della propria esistenza.

In questi termini l’ipotesi di un riconoscimento pecuniario omogeneo appare irragionevole né può invocarsi, quale elemento correttivo, il quantum debeatur a titolo di danno extra patrimoniale. Il già richiamato Decreto Legge n°

70 del 28/3/2000 quantificava il danno extrapatrimoniale con importi complessivi non superiori al 25% dell’importo liquidato a titolo di danno biologico a seconda dell’entità del pretium doloris riconoscibile.

Sarà bene ricordare che non esiste sovrapposizione concettuale fra danno biologico temporaneo ed eventuale danno extrapatrimoniale, quest’ultimo essendo di apprezzamento riservato al Magistrato anche se, negli ordinamenti di altri Stati (Francia), al consulente medico legale è riservato il compito di indirizzare il Liquidatore nella graduazione del risarcimento attraverso la ascrivibilità del caso clinico ad una di sette fasce graduate per entità oggettiva delle sofferenze e dei disagi.

Potrebbe apparire questo come un modo surrettizio di procedere ad una vera e propria duplicazione del danno, pericolo sempre paventato nella più volte ricordata sentenza 184/86 della Corte Costituzionale: in realtà l’intervento medico legale si articola in due momenti distinti, l’uno rappresentato dalla definizione del pregiudizio funzionale per la graduazione del risarcimento del danno biologico temporaneo, l’altro dalla oggettivazione (relativa) delle sofferenze soggettive perché la monetizzazione del danno extrapatrimoniale sia sottratta alla arbitrarietà, questa sì, del Liquidatore (Magistrato od altri che sia).

Altri Autori hanno osservato, partendo dalla analisi di un cospicuo numero di CTU medico legali e sentenze correlate nel corso dell’ultimo quinquennio, una progressiva riduzione dei casi nei quali non si sia proceduto alla liquidazione del danno biologico temporaneo; una parallela riduzione dei casi nei quali si sia riconosciuto un lucro cessante risarcibile per incapacità lavorativa temporanea; un iniziale tentativo di personalizzazione del nocumento temporaneo in relazione alla effettiva entità ed evoluzione dello stato di malattia.

I rilievi offertici dal privilegiato osservatorio della commissione medica centrale di una Società Assicuratrice di primaria importanza, non ci confortano tuttavia sulla raggiunta sensibilità dei medici valutatori verso una metodologia di apprezzamento del danno quale da noi suggerita.

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Sarà sufficiente ricordare che su 100 successive consulenze medico-legali stragiudiziali di fiduciari esaminate, ben in 90 casi non viene operata una distinzione critica fra danno biologico temporaneo e incapacità lavorativa temporanea; sugli stessi 100 casi, in 10 si procedeva alla assunzione acritica della temporanea dalle prognosi indicate dai Curanti, in 40 si perveniva alla corretta determinazione del danno temporaneo come biologico ma non come lavorativo, in 30 al contrario la corretta determinazione riguardava la componente lavorativa.

Tali osservazioni valgono a testimoniare che il cammino da farsi, nella pratica quotidiana, è ancora lungo, anche perché un approccio di questo tipo all’apprezzamento del danno temporaneo impone, e non ci pare che i dati di esperienza confortino in tal senso, l’approfondimento dell’anamnesi fisiologica; la critica serrata delle certificazioni mediche non tanto e non solo per i giudizi prognostici rappresentativi ma soprattutto per la costante carenza di adeguati rilievi clinici che li sottendano; il costante richiamo al dato di esperienza perché il criterio dell’id quod plerumque accidit, per lesioni consimili, assuma quel valore che oggi sempre più frequentemente gli viene negato.

Quali i rilievi conclusivi:

1) Ben raramente il Giudice disattende, o anche solo implementa, le valutazioni tecniche del suo CTU e dunque si deve ribadire come gli accertamenti medico-legali debbano essere ispirati alla massima prudenza, dovendo rispecchiare il costante evolversi della dottrina e della giurisprudenza, il che impone un lavoro di aggiornamento nello specifico che non è di tutti coloro che si avvicinano a questa delicata funzione;

2) A fronte della tendenza ad un appiattimento delle soluzioni liquidatorie, e qui parliamo della temporanea e delle più recenti ipotesi normative peraltro decadute (D. L. 70/2000), si impone una personalizzazione della ricaduta di danno e sotto il profilo biologico e sotto quello lavorativo, anche con le percentualizzazioni di cui si è fatta portavoce la Scuola milanese di Medicina Legale;

3) Appare utile, così come peraltro stanno già facendo i più attenti Magistrati, coinvolgere il medico legale anche nella determinazione di parametri, i più obiettivi, per la liquidazione del danno extrapatrimoniale, almeno rispetto alla gravità della offesa, posto che altri parametri concorrono a delinearlo,

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questi sì di esclusivo apprezzamento del Magistrato (il comportamento del danneggiante, la sensibilità della vittima, il modo di porsi di questa sotto il profilo etico, culturale, religioso, sociale in relazione alla fattispecie che l’ha vista offesa);

4) Una valutazione armonica, cioè equilibrata fra caso e caso, non può prescindere da una analisi critica della portata probatoria delle certificazioni esibite, sempre più frequentemente appiattite sui desiderata degli infortunati, anche in relazione alla utilizzazione che ne viene fatta: se appare infatti difficilmente contestabile un giudizio di inidoneità lavorativa, talora avallato anche in sede di controllo medico legale estemporaneo, non si può ignorare la diversa valenza che tali certificazioni assumono per l’apprezzamento del danno biologico temporaneo;

5) In un sistema normativo nel quale sempre più frequentemente si incontrano il momento risarcitorio della responsabilità civile e quello indennitario assicurativo sociale e previdenziale, il corretto collocamento delle ricadute negative della temporanea sui piani della validità e della inidoneità lavorativa consentirà al sistema di assolvere quella funzione di ammortizzatore dello stato di bisogno del danneggiato che gli è proprio, per un puntuale esercizio delle azioni di surroga e regresso che la norma codicistica prevede.

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