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Poteri di ufficio del giudice e contraddittorio - Judicium

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Academic year: 2022

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www.judicium.it FRANCESCO P.LUISO

Poteri di ufficio del giudice e contraddittorio

§ 1. Fra le disomogenee novità contenuta nella L. 69/2009, assume a mio avviso un rilievo sistematico particolarmente importante l’art. 101, secondo comma, c.p.c., che rende esplicita e generale – anche in virtù della sua collocazione nel primo libro del codice – la regola che impone al giudice di attuare il contraddittorio sulle questioni da lui rilevate di ufficio e poste a fondamento della decisione.

La stessa regola era già in precedenza espressa dall’art. 183, comma quarto, c.p.c. (nella vigente versione: ma la norma era presente fin dalla redazione originaria del c.p.c., ove costituiva il comma terzo) nonché dall’art. 384, comma terzo, c.p.c., introdotto dalla riforma del 2006. Ma ambedue tali disposizioni sono state oggetto di interpretazioni riduttive: la prima di esse è stata per lo più1 declassata ad un benevolo invito rivolto a giudice, il cui mancato rispetto non portava a conseguenza alcuna; l’applicazione della seconda è stata anch’essa circoscritta, senza alcun ragionevole motivo, alle sole questioni di merito, con esclusione quindi delle questioni di rito rilevate di ufficio2.

La introduzione generalizzata del principio in esame, come anticipato, merita di essere apprezzata positivamente. In senso contrario, si è affermato che tutto ciò che potenzialmente appartiene al processo – e le questioni rilevabili di ufficio indubbiamente hanno questa caratteristica – non avrebbe necessità di essere sottoposto al contraddittorio. Se le parti non si sono avvedute della questione rilevabile di ufficio, peggio per loro: si dovrebbe applicare il principio di autoresponsabilità. Ma una tale opinione si pone in contrasto con principi generalmente accettati, ed è anche di difficile, se non di impossibile attuazione concreta.

Dal primo punto di vista, sostenere che non vi è necessità di sottoporre a contraddittorio ciò che appartiene potenzialmente al processo significa implicitamente ma necessariamente sostenere che una questione ha le stesse probabilità di essere ben risolta vuoi quando è previamente sottoposta al contraddittorio delle parti vuoi quando, invece, essa è solitariamente affrontata dal giudice, senza che egli disponga dei contrapposti argomenti che le parti gli hanno fornito. Ma una tale affermazione contrasta radicalmente con la ratio che ispira gli artt. 24 e 111 della Costituzione, i quali invece – nel proclamare “involabile” il diritto di difesa e nel prescrivere che ogni processo si debba svolgere nel contraddittorio delle parti – evidentemente partono dall’opposta convinzione, secondo la quale ciò che è stato discusso è deciso meglio di ciò che non è stato discusso. Se così non fosse, tanto varrebbe abrogare le norme costituzionali sopra indicate.

Dal secondo punto di vista, non è concretamente esigibile che ciascuna parte possa instaurare il contraddittorio su tutte le questioni astrattamente rilevanti. Richiamando una fattispecie che sarà

1 Con qualche eccezione: si v. ad es. Cass. 10 agosto 2009 n. 18191; Cass. 9 giugno 2008 n. 15194; Cass. 31 ottobre 2005 n. 21108. Ma v. in senso contrario Cass. 27 luglio 2005 n. 15705, in Foro it. 2006, I, 3174 con nota di FABIANI.

2 Cass. 7 luglio 2009 n. 15901, in Diritto & Giustizia 2009, con nota di VALERINI: nel caso di specie, la Cassazione ha escluso che dovesse instaurarsi il contraddittorio sulla questione relativa all’ammissibilità del ricorso, rilevata d ufficio dalla Corte stessa.

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www.judicium.it utilizzata in seguito – la nullità della clausola contrattuale, in quanto vessatoria ex artt. 33 ss. del codice del consumo – non è immaginabile che il legale del professionista “anticipi” al giudice che la clausola contrattuale è valida (perché, ad es., controparte, professionista, ha stipulato il contratto per uno scopo inerente la sua attività professionale e non come consumatore) prima che sulla validità della clausola sorga in concreto un contrasto all’interno del processo. È pensabile che, in un processo, all’interno del quale i punti in contestazione sono focalizzati su tutt’altri profili, la difesa del professionista “metta le mani avanti”, introducendo una questione – la non-nullità della clausola per vessatorietà – di cui nessuno ha parlato fino a quel momento?

§ 2. Poniamoci dunque dal punto di vista del dovere del giudice di sollecitare il contraddittorio sulla questione da lui rilevata di ufficio, e dunque in una prospettiva fisiologica: alla patologia – cioè alle conseguenza della violazione della norma – sarà dedicato il § 3.

Da un punto di vista generale, le questioni rilevabili di ufficio possono essere le seguenti. Il giudice può rilevare:

fatti → immediatamente rilevanti (esclusi i fatti costitutivi identificatori del diritto, oggetto del processo, e le eccezioni in senso stretto), oppure rilevanti solo in via indiretta (fatti secondari);

norme → individuazione e interpretazione (Rechtauslegung), ovvero applicazione (Rechtanwendung).

Sulla base di questa schematizzazione, si suole distinguere questioni di diritto, questioni di fatto, e questioni miste (di fatto e di diritto); e si circoscrive talvolta il dovere del giudice di sollecitare il contraddittorio ad alcune soltanto di tale questioni (ad es., alle questioni di fatto o miste), escludendolo per altre (ad es., le questioni di diritto).

Analoga distinzione può essere effettuata anche in relazione alle questioni di rito.

Ebbene, nessuno contesta la correttezza della distinzione sopra effettuata: solo che essa è meramente descrittiva, e soprattutto non consente di stabilire ex ante – i.e., nel momento in cui la questione è rilevata e dunque si impone al giudice il dovere di segnalarla alle parti – se si tratti di questione di un tipo o di un altro

Proviamo ad esemplificare in relazione ad una concreta fattispecie: la nullità della clausola contrattuale, in quanto vessatoria ai sensi del codice del consumo. Cosa potrebbe replicare la difesa del professionista, una volta che il giudice abbia rilevato la (possibile) nullità della clausola, in quanto vessatoria?

a) contestazione dell’esistenza del fatto → controparte non è un consumatore. Egli ha stipulato il contratto non come consumatore, ma come professionista: ad es., il computer è stato acquistato da Caio, avvocato, per usarlo in studio e non a casa (art. 3, comma primo, lettera a), codice del consumo).

b) allegazione di fatti impeditivi dell’effetto → la clausola è stata contrattata: ad es., il professionista potrà dedurre che la clausola è stata oggetto di contrattazione individuale (art. 34, comma quarto, codice del consumo ).

c) questione di applicazione → la clausola non è vessatoria, perché attiene all’adeguatezza del corrispettivo dei beni o dei servizi (art. 34, comma secondo).

d) questione di interpretazione → cosa significa “corrispettivo dei beni o dei servizi”.

In relazione alle questioni di fatto, è poi possibile distinguere i fatti primari dai fatti secondari:

ad es., con riferimento all’ipotesi sub a), essendo fatto primario l’avvenuta stipulazione del contratto

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www.judicium.it per uno scopo inerente l’attività professionale dell’acquirente, costituisce fatto secondario l’avvenuta consegna del bene acquistato presso il suo studio professionale, o il rilascio di una fattura ove è indicata la partita IVA dell’acquirente.

Orbene, non è possibile stabilire a priori quale di queste variegate, possibili repliche alla rilevazione officiosa sarà effettuata dalla parte interessata: sicché è ben vero che si può distinguere fra questioni di diritto e di fatto, ma ciò solo ex post, quando cioè – segnalata dal giudice alle parti la questione rilevata di ufficio – esse replicheranno in concreto sollevando profili di fatto o di diritto.

Non essendo possibile stabilire ex ante se alla questione rilevata di ufficio faranno seguito repliche in fatto o in diritto, il comportamento del giudice che rileva la questione deve sempre essere lo stesso: segnalare la questione alle parti ed attendere le loro osservazioni. Soltanto all’esito di queste si saprà se la questione rilevata di ufficio potrà qualificarsi di diritto (perché le parti solleveranno solo profili di interpretazione e/o applicazione della norma) oppure di fatto (perché le parti solleveranno profili attinenti all’esistenza del fatto storico rilevante o addurranno fatti impeditivi dell’effetto).

A questo proposito, l’art. 101, secondo comma, c.p.c. si limita a prevedere che il giudice deve assegnare un termine per il deposito in cancelleria di “memorie”: sarebbe quanto mai opportuno che il giudice assegnasse alle parti un doppio termine, sempre nell’ambito dei limiti temporali previsti dal legislatore, al fine di suscitare il contraddittorio reciproco sulle osservazioni che esse potranno fare.

Se le osservazioni delle parti hanno ad oggetto solo questioni di diritto, il giudice potrà mantenere la causa nella fase decisoria, e deciderla tenendo conto di tali osservazioni. Se, viceversa, le osservazioni delle parti involgono profili di fatto, sarà necessario rimettere la causa in istruttoria per dare sfogo alle prove che le parti potranno richiedere. Non mi sembra infatti necessario che le allegazioni in fatto, operate dalle parti con le memorie di cui all’art. 101, secondo comma, siano corredate delle relative istanze istruttorie e produzioni documentali, che potranno essere effettuate solo allorché il giudice rimetterà la causa in istruttoria.

Proprio per questa ragione, la previsione dell’art. 101, secondo comma, c.p.c., che colloca nella fase decisoria l’attuazione del contraddittorio sulle questioni rilevate di ufficio dal giudice, si rivela come il rimedio – tardivo – alla mancata rilevazione delle stesse ai sensi dell’art. 183, comma quarto, c.p.c., che resta dunque la norma fondamentale in materia. Poiché, infatti, la segnalazione alle parti della questione rilevata di ufficio può dar luogo ad allegazioni di nuovi fatti e ad attività istruttoria, è evidente l’opportunità che essa sia effettuata in limine litis, quando cioè tali attività non costringono la causa a regredire dalla fase decisoria alla fase istruttoria, come invece accade allorché la questione sia segnalata al momento della decisione.

§ 3. Se il giudice omette di instaurare il contraddittorio sulla questione rilevata di ufficio, la sentenza è nulla: così espressamente l’art. 101, secondo comma, c.p.c.. Si tratta di una previsione che può apparire troppo rigida e fors’anche eccessiva: e tuttavia, se ne verifichiamo la effettiva portata sistematica, essa si dimostra tutt’altro che inopportuna; anzi, la nullità della sentenza costituisce lo strumento indispensabile per il raggiungimento dello scopo che il legislatore si è prefisso.

Il punto di partenza sta ovviamente nell’art. 161 c.p.c.: la nullità della sentenza deve essere fatta valere attraverso i mezzi di impugnazione. E qui la disciplina si differenzia a seconda che il mezzo di impugnazione sia l’appello ovvero il ricorso per cassazione.

Nell’ipotesi in cui la nullità riguardi la sentenza di primo grado, le parti, con gli atti introduttivi del giudizio di appello, potranno e dovranno effettuare tutte quelle attività che avrebbero compiuto

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www.judicium.it in primo grado, se quel giudice avesse osservato la prescrizione contenuta nell’art. 101, secondo comma c.p.c.:

- potranno effettuare quelle attività, proprio perché la nullità della sentenza impone al giudice di appello, ex art. 354, ultimo comma, c.p.c., la rinnovazione dell’atto di cui egli ha dichiarato la nullità – la sentenza impugnata – previa eliminazione del vizio da cui è affetta:

cioè ammettendo le parti a compiere in appello ciò che non è stato loro concesso di compiere in primo grado;

- dovranno effettuare quelle attività, perché il giudizio di appello è in grado, e pertanto deve chiudersi con una sentenza di merito che tenga conto delle attività compiute dalle parti, e quindi esse non possono limitarsi a denunciare la nullità della sentenza.

Se la violazione del dovere imposto dall’art. 101, secondo comma, c.p.c. non portasse alla nullità della sentenza, le parti in appello sarebbero invischiate dai limiti che tale mezzo di impugnazione prevede per i nova: limiti che invece non sussistono laddove l’appello costituisce mezzo per far fronte alla invalidità, e non alla ingiustizia della sentenza3.

Nell’ipotesi in cui la nullità riguardi la sentenza di appello, essa deve essere fatta valere con il ricorso in cassazione: ed anche in questa ipotesi, ove appuri che il giudice di appello ha violato l’art.

101, secondo comma, c.p.c., la cassazione deve dichiarare la nullità di quella sentenza. Di fronte alla Corte di cassazione, tuttavia, la possibilità di rimediare alla nullità della sentenza impugnata è più limitata, poiché nel procedimento di Cassazione non è possibile effettuare istruzione probatoria, e quindi, ove una delle parti lamenti la nullità della sentenza di appello ai sensi dell’art. 101, secondo comma, c.p.c. e ovviamente indichi quali attività egli avrebbe compiuto se la questione rilevata di ufficio gli fosse stata segnalata, occorrerà distinguere a seconda che tali attività riguardino solo profili di diritto (interpretazione ed applicazione delle norme) oppure anche profili di fatto (allegazioni ed attività istruttoria).

Nel secondo caso la Cassazione dovrà inevitabilmente cassare e rinviare; nel primo caso, invece, a mio avviso potrà emettere una pronuncia sostitutiva: dopo la riforma del 2006, infatti, è stato modificato il secondo comma dell’art. 384 c.p.c., esplicitando ciò che peraltro era già stato affermato in precedenza, e cioè che la Cassazione può pronunciare nel merito anche in presenza di errores in procedendo. Non è vero, dunque, come si afferma talvolta, che, se la sentenza di appello è nulla ai sensi dell’art. 101, secondo comma, c.p.c., la Cassazione deve sempre e comunque cassare e rinviare: occorrerà distinguere i casi, in cui il vizio è rimediabile di fronte alla Corte, dai casi in cui ciò non è possibile.

Un’altra differenza a mio avviso sussiste a seconda che la nullità ex art. 101, secondo comma, c.p.c. colpisca la sentenza di primo grado o di appello: in ambo i casi è sempre necessario che le parti, negli atti introduttivi dei rispettivi giudizi, deducano la nullità e compiano quelle attività che esse affermano avrebbero compiuto se il giudice, che ha pronunciato la sentenza impugnata, avesse rispettato la disposizione. Tuttavia, in appello tali attività debbono essere integralmente compiute, attengano esse a profili di diritto o di fatto: in questo secondo caso, debbono essere effettuate anche le attività probatorie rilevanti attraverso la produzione di documenti e la richiesta di assunzione di prove. In sede di cassazione, al contrario, ove si tratti di profilo di fatto, non credo che si debbano anche effettuare attività probatorie, poiché tali attività non potrebbero comunque essere compiute in cassazione. La parte quindi potrà limitarsi ad effettuare l’allegazione dei fatti rilevanti, mentre le richieste istruttorie e le produzioni documentali potranno essere effettuate in sede di rinvio.

3 Sia consentito rinviare a LUISO, Invalidità della sentenza e mezzi di gravame, in Riv. Dir. Proc. 2009, 26 ss.

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www.judicium.it Per l’ipotesi in cui sia la sentenza della Corte di cassazione ad essere nulla, perché fondata su una questione rilevata di ufficio, e non segnalata alle parti, la nullità potrà essere fatta valere attraverso la revocazione ex art. 391-bis c.p.c.

§ 4. Come si vede, dunque, la nullità della sentenza, che pone a suo fondamento una questione rilevata di ufficio e non previamente sottoposta al contraddittorio delle parti, non costituisce certo una conseguenza eccessiva ed ingiustificata. Anzi, come anticipavo, la nullità è lo strumento tecnico necessario affinché in sede di impugnazione si possa rimediare all’error in procedendo verificatosi nella precedente fase processuale: se la sentenza non fosse nulla, e si dovessero dunque applicare le limitazioni relative alle novità che, in sede di impugnazione, possono essere addotte quando si lamenta un error in iudicando, non sarebbe possibile porre rimedio all’inosservanza della norma da parte del giudice.

D’altro canto, se – a fronte della violazione dell’art. 101, secondo comma, c.p.c. – nessuna delle parti deduce in sede di impugnazione la nullità della sentenza, ciò determina la irrilevanza di tale nullità. Si potrebbe anche essere tentati di sostenere, ragionando ex post, che in questi casi sarebbe addirittura da escludere la nullità della sentenza, ma a mio avviso la conclusione non sarebbe corretta. Infatti, come abbiamo già constatato, non è possibile stabilire ex ante se e quali argomenti le parti addurranno con riferimento alla questione rilevata di ufficio, e quindi il giudice deve in ogni caso attuare il contraddittorio sulla questione officiosa, anche se poi ciò si rivelerà inutile: l’illecito processuale da parte sua, ove disattenda la prescrizione, dunque sussiste e la nullità della sentenza non può essere negata, ancorché essa poi si riveli innocua. Del resto, come non può escludersi la nullità della notificazione della citazione ancorché, rinnovata la stessa, il convenuto rimanga contumace, con ciò dimostrando che quella nullità era in concreto ininfluente: così, non può escludersi la nullità della sentenza quando, in sede di impugnazione, si constati che le parti non avevano niente da dire in relazione alla questione rilevata di ufficio.

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