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La disciplina della concorrenza nel mercato assicurativo

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Academic year: 2022

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La disciplina della concorrenza nel mercato assicurativo

(ISTITUTO PER GLI STUDI ASSICURATIVI - Atti del Seminario - MERCATO ASSICURATIVO ED AUTHORITIES: ESPERIENZE, PROBLEMI, PROSPETTIVE. Università degli Studi di Trieste maggio-giugno 2000 )

Dr. Francesco Nanni

1. Premessa

2. Considerazioni introduttive: il diritto della concorrenza e l'attività assicurativa

3. Il sistema delle fonti: a) Le fonti comunitarie. Alcune caratteristiche particolari del diritto «antitrust»; b) Le fonti nazionali e l'evoluzione originale del diritto vivente. Il sistema dei rimedi a disposizione delle imprese e la sua insufficienza; c) Il Regolamento CE n. 3932 del 1992.

Problemi interpretativi e applicativi 4. Considerazioni conclusive.

1. Ringrazio per il cortese invito; vedremo alla fine se valeva veramente la pena di rinunciare a una così bella giornata al mare per venire qui a sentir parlare di un argomento complesso, ostico e tuttora alquanto incerto come è quello della disciplina «antitrust» nello specifico comparto assicurativo.

Non è facile tentare di fare una riflessione di sintesi su un argomento del genere, perché la legislazione a tutela della concorrenza è, almeno in Italia, di recente formazione e ancora in fase di assestamento. Quando, nel 1990, siamo arrivati ad avere finalmente una legge a tutela della concorrenza e del mercato, nell'area OCSE, se non ricordo male, eravamo gli unici, insieme con la Turchia, a non disporre di una legislazione di questo tipo. E, se si ha specificamente riguardo al settore assicurativo, il discorso non era poi tanto diverso neppure a livello di diritto comunitario.

Cercherò di suddividere il mio ragionamento in tre momenti diversi. Il primo, dedicato ad alcune considerazioni di carattere preliminare, assolutamente necessarie per entrare nello specifico contesto assicurativo. Il secondo, dedicato al sistema delle fonti comunitarie e nazionali e il terzo, sul quale vorrei soffermarmi più nel dettaglio, dedicato al Regolamento

ANIA -Direttore del Servizio Legale.

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comunitario di esenzione n. 3932 del 1992, che è un po' la «magna carta» in tema di diritto della concorrenza in assicurazione.

Incontreremo, in questa rapida carrellata di riflessioni, una quantità di concetti e categorie che appartengono tanto alla tecnica quanto al diritto delle assicurazioni e, con riferimento a quest'ultimo, tanto al diritto pubblico dell'impresa quanto al diritto privato del contratto. Non so quale sia il livello di dimestichezza dei presenti con tutta questa complessa e vasta materia, la cui conoscenza debbo necessariamente dare per presupposta in questa sede. Vorrà dire che alla fine, se qualche punto fosse rimasto particolarmente controverso, potremo soffermarci insieme per appronfondirlo meglio.

2. Partiamo dalle considerazioni di natura preliminare, che considero assolutamente necessarie per addentrarci nel problema e che dipendono da una circostanza fondamentale: vale a dire, che il diritto della concorrenza - ormai per universale convincimento, suggellato sul piano formale anche da una produzione normativa «ad hoc» - può essere applicato all'attività assicurativa soltanto in parte e con tutta una serie di opportuni adattamenti.

Questo dipende, a sua volta, da una quantità di fattori. Il primo e fondamentale dei quali è che l'attività assicurativa richiede necessariamente un fitto scambio di informazioni e un' intensa attività di cooperazione tra le imprese.

Fare assicurazione significa, infatti, fare mutualità e fare mutualità significa partire dai rischi individuali, cui sono sottoposti i singoli assicurati, per arrivare ad una comunione di rischi, nella quale i rischi individuali diventano rischi collettivi, elidendosi reciprocamente. Significa approcciare il fenomeno della copertura assicurativa in termini di legge dei grandi numeri e arrivare alla possibilità di lavorare sulla base di ampie e complete serie statistico-attuariali: significa, quindi, dover mettere insieme una quantità di informazioni e notizie per organizzare e gestire la comunione di rischi.

Questa comunione - a propria volta suddivisa in classi di rischi - deve essere caratterizzata, sul piano quantitativo, da dimensioni ampie che si avvicinino il più possibile al modello probabilistico ideale, che esprime un 'universalità, e, dal punto di vista qualitativo, deve risultare qualificata dalla omogeneità dei - rischi immessi nella comunione medesima.

Gli assicuratori, per quanto grandi possano essere, non arrivano mai da soli a dar vita a una comunione di rischi sufficientemente rappresentativa per fondarvi ipotesi probabilistiche corrette sul piano scientifico e provvedono, quindi, a perfezionare prima di tutto la comunione di rischi attraverso il ricorso alla coassicurazione e alla riassicurazione: ad ampliarla, cioè, da un punto di vista quantitativo e a migliorarla qualitativamente, attraverso un processo di frantumazione e di omogeneizzazione dei rischi. Ma neanche questo è sufficiente e gli assicuratori procedono allora, da sempre e in ogni

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parte del mondo, a scambiarsi informazioni sulla natura di questi rischi e sui fenomeni probabilistici che li riguardano, per addivenire a una corretta tariffazione degli stessi.

È chiaro, da questo punto di vista, che un'applicazione troppo rigorosa e dogmatica del diritto della concorrenza porterebbe a rendere praticamente impossibile l'esercizio dell' attività assicurativa.

Ma ci sono anche altre ragioni che rendono opportuno questo temperamento.

Voi sapete che l'attività assicurativa in quanto tale forma tradizionalmente oggetto di una complessa e minuziosa legislazione sul terreno del diritto pubblico dell' impresa. Si tratta di un' attività che è soggetta a capillare controllo sia nel momento iniziale di accesso al mercato, attraverso l'autorizzazione all'esercizio, sia nella fase successiva dell' esercizio stesso e questo dipende dalla delicatezza di tale attività sul piano economico e dalla rilevanza degli interessi in essa coinvolti, nonché dal noto fenomeno dell'inversione del ciclo produttivo, per cui l'assicuratore prima realizza i ricavi e solo in un secondo momento sostiene i costi, e cioè i sinistri da pagare. Il legislatore, dunque, si è sempre preoccupato di cosa può succedere delle risorse finanziarie, rinvenienti dai premi raccolti dall' impresa, prima che si verifichino i sinistri da risarcire.

Questa attenzione del legislatore è determinata da un interesse pubblico fondamentale, che concerne la salvaguardia della massa degli assicurati e dei terzi danneggiati e che è interesse alla stabilità dell'impresa e all'equilibrio del mercato: perché ciò che si teme particolarmente con riferimento all'attività assicurativa è, appunto, la crisi finanziaria dell'impresa e il contraccolpo che inevitabilmente ne deriverebbe a danno del- l'intero mercato, ritenuto giustamente di alta rilevanza sul piano sociale.

Ebbene, voi capite intuitivamente che l'interesse pubblico alla stabilità dell'impresa e all'equilibrio del mercato è cosa ben diversa e potenzialmente persino confliggente con l'interesse pubblico sotteso, invece, alla normativa

«antitrust», che è quello alla libertà del mercato e alla competitività delle imprese.

Non c'è, in altre parole, una naturale affinità tra stabilità e competitività dell'impresa: anzi, la competitività, spinta a certi livelli, porta, dapprima, all'emarginazione dell'impresa - l'impresa marginale della dottrina economica - e poi, nei casi più gravi, alla crisi e all'espulsione dell'impresa dal mercato.

Né è la stessa cosa parlare di libertà del mercato e di equilibrio del mercato.

Allora si tratta di cercare di coniugare queste due realtà, questi due interessi pubblici fondamentali che, ciascuno a suo modo, indubbiamente mirano alla tutela delle medesime categorie di persone: gli assicurati come consumatori, in un caso, e come beneficiari di una garanzia, nell'altro. Si tratta

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di contemperare queste esigenze in guisa da salvaguardare entrambe nello stesso tempo.

Non è un caso, credo, che nella legislazione assicurativa l'interesse pubblico proprio di quest'ultima - quello, lo ripeto, alla stabilità e all'equilibrio del mercato - si realizzasse tradizionalmente anche con l'autorizzazione preventiva delle tariffe dei premi e delle condizioni di contratto, o addirittura attraverso la predeterminazione autoritativa dei contenuti delle garanzie da prestare, che sono, entrambi, interventi altamente depressivi del momento competitivo e concorrenziale. Naturalmente sappiamo bene che questi irrigidimenti del mercato nel lato dell' offerta non sono più possibili neppure sulla base della stessa legislazione assicurativa. Dopo le direttive europee c.d.

di terza generazione, il controllo pubblico sull'attività assicurativa non si può esprimere in queste forme così espropriative delle scelte discrezionali e delle strategie delle imprese: però non c'è dubbio che l'abbandono di interventi pubblicistici tanto incisivi non fa venire meno gli interessi profondi che sono alla base dell'esistenza stessa di una risalente e laboriosissima legislazione sull'attività assicurativa. Il problema di coniugare al meglio i due accennati ordini di pubblici interessi rimane, dunque, e deve essere in qualche modo risolto.

Ricordo in proposito che, dal punto di vista storico, l'applicazione della normativa «antitrust» all'attività assicurativa è un fatto recente anche a livello di Unione Europea: la prima applicazione del diritto comunitario «antitrust»

da parte della Commissione europea nel nostro settore risale, infatti, al 1984.

Fu un caso clamoroso, che suscitò molte polemiche e un acceso contenzioso anche sul piano giurisdizionale. Alla fine, però, la Corte di giustizia, con una storica sentenza del 1987, confermò l'applicabilità delle norme del diritto della concorrenza anche in materia assicurativa.

Ancora nel 1994, peraltro, l'Autorità garante italiana osservava, nel suo Rapporto annuale, che solo di recente in Inghilterra il diritto «anti-trust» era stato applicato al settore assicurativo e che ciò ancora non avveniva o avveniva solo parzialmente in molti degli Stati Uniti d'America, proprio per le ragioni che molto sommariamente ho cercato di accennare.

Da questo punto di vista, la soluzione ideale per coniugare armoniosamente quegli interessi pubblici non sempre cospiranti - e talvolta addirittura contrastanti - cui prima facevo riferimento, dovrebbe essere rappresentata dall' adozione di una disciplina speciale della concorrenza per il settore assicurativo, sia per quanto riguarda il diritto sostanziale applicabile, sia per quanto concerne l'Autorità preposta al controllo.

Con riferimento, in particolare, a quest'ultimo profilo, la soluzione ottimale potrebbe essere quella.di affidare a un'unica autorità il controllo di entrambi gli interessi pubblici sottesi alle due concorrenti legislazioni, perché

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soltanto un'autorità e per giunta che conosca a fondo i meccanismi della particolare attività economica in parola sarebbe in condizione di attuare quello sforzo di sintesi e di contemperamento tra i diversi aspetti sopra accennati.

Non è questo, come vedremo, il sistema che ha preso corpo in Italia con la legge n. 287 del 1990. Lo è, invece, ma solo in parte, per quanto riguarda la normativa vigente a livello europeo.

3.a) Passando adesso molto rapidamente al sistema delle fonti, occorre tener presente anzitutto che siamo in Europa, nel bene e nel male, e quindi in presenza di due ordinamenti legati tra loro da un rapporto gerarchico, nel senso che l'ordinamento comunitario è un ordinamento sovraordinato rispetto a quello nazionale, eccezion fatta, beninteso, per i principi di rango costituzionale. Le norme fondamentali in materia di diritto della concorrenza sul piano europeo si rinvengono nello stesso Trattato istitutivo della Comunità economica europea. Nel Trattato di Roma si trovano, infatti, gli artt. 85 e seguenti (ora 81 e seguenti, dopo le modifiche operate dal Trattato di Amsterdan), concernenti, appunto, questa materia. Non mi soffermo sulle categorie di base, a tutti note. Sono dichiarati incompatibili col mercato comune e, quindi, vietati tutti gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese, le pratiche concordate e gli abusi di posizione dominante che possono pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune.

Mi interessa sottolineare, invece, il quadro dinamico-funzionale che l'ordinamento comunitario fin dal suo inizio delineava per quanto concerne l'organizzazione, le procedure e i soggetti istituzionali deputati alla realizzazione di questa nuova disciplina.

L'art. 88 del Trattato di Roma (oggi art. 84), sia pure con una connotazione di diritto transitorio, che poi è venuta meno, già immaginava che in questo lavoro di attuazione della disciplina del mercato e della concorrenza, insieme con gli organismi comunitari, dovessero cooperare e cooperare attivamente le autorità nazionali. A quell'epoca, parlando di autorità nazionali, si pensava soprattutto alle autorità giudiziarie, in quanto l'esperienza delle autorità amministrative indipendenti è generalmente successiva. Peraltro, la formula legislativa comunitaria è aperta a qualunque tipo di autorità nazionale, sia pure nel rispetto dei reciproci ruoli. Questa impostazione veniva poi ribadita dal Regolamento n. 17 del 1962, nel quale, oltre a dettagliare più analiticamente i divieti della normativa «anti-trust» già presenti nel Trattato, si diceva a un certo punto che, ferma la competenza esclusiva della Commissione europea per quanto riguarda la concessione di atte stazioni negative e di esenzioni, per quanto concerne, invece, il profilo repressivo con le Autorità centrali di Bruxelles erano chiamate a cooperare le autorità

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nazionali.

Ciò che veniva fatto salvo era soltanto il primato dell'ordinamento comunitario, al qual fine l'art. 9, terzo comma, del Regolamento n 17 precisava che, nel momento in cui la Commissione avesse formalmente aperto una procedura su una fattispecie anticoncorrenziale già sotto esame da parte di un'autorità nazionale, quest'ultima avrebbe dovuto arrestarsi. Quindi il coinvolgimento delle autorità nazionali al fine della repressione dei comportamenti anticoncorrenziali era forte fin dal primo momento. Non era così e non è così neppure oggi -ma le cose potrebbero andare assai diversamente domani, se il previsto e temuto decentramento verrà attuato nell'ordinamento comunitario -per quanto concerne, invece, le attestazioni negative e, soprattutto, i provvedimenti di esenzione. E qui dobbiamo fare una piccola digressione su quello che è un aspetto fondamentale della disciplina

«antitrust», la cui essenza risiede non tanto nelle nonne che individuano le fatti specie illegittime e nelle relative sanzioni, quanto nei provvedimenti con cui le autorità competenti valutano approfonditamente e, talvolta, recuperano alla legittimità fattispecie astrattamente anticoncorrenziali.

Voi venite da studi economici e penso, quindi, che nessuno abbia sostenuto un esame di diritto canonico. È un peccato, perché questo aiuterebbe a capire cos' è veramente il diritto «antitrust». Il diritto canonico è caratterizzato da una grande funzionalizzazione delle sue nonne, nel senso che l'obiettivo sostanziale che si vuole con esse perseguire è sempre prioritario su tutto. Le nonne rappresentano soltanto lo strumento ordinario per perseguire quell'obiettivo. L'obiettivo, lì, è la «salus animarum» e, qui, la libertà del mercato e della concorrenza.

Quello che mi preme sottolineare è che nel momento in cui, avuto riguardo a un certo caso concreto, la nonna, per una qualunque caratteristica della fattispecie particolare, non appare idonea a raggiungere 1'obiettivo in vista del quale essa è stata concepita, la nonna deve essere derogata, perché è l'obiettivo sostanziale quello che importa e non il formalismo giuridico. Per voi dovrebbe essere più facile capirlo che non per un giurista puro. Qui non è in gioco la giurisprudenza dei concetti, ma quella degli interessi. Bisogna essere molto attenti, più di quanto il diritto non richieda abitualmente, a riconoscere tutte le caratteristiche di fatto della singola fattispecie concreta.

La normativa parte dalla qualificazione di una fattispecie come astrattamente anticompetitiva e, dunque, illegittima (le intese, le disposizioni di associazioni di imprese, le pratiche concordate, gli abusi di posizione dominante). Questo è l'armamentario ordinario, sono le figure sintomatiche di base per riconoscere le situazioni sulle quali orientare la propria attenzione, ma l'esame approfondito della fattispecie può e, in molti casi, riesce a illuminare profili di procompetitività che, avuto riguardo al caso di specie,

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giustificano il passaggio da una astratta valutazione di illiceità ad una concreta considerazione in termini di liceità. Il tutto in una prospettiva dinamica ed evolutiva, perché il mercato non è una realtà immobile. Quelle condizioni di mercato che in un certo momento storico, sociale, economico hanno giustificato un approccio permissivo, portando ad assolvere una fatti specie astrattamente illegittima, domani - e magari anche in conseguenza della soluzione originariamente adottata e degli effetti che essa ha potuto determinare sul mercato, modificandolo - non esisteranno più e la situazione dovrà essere, quindi, riconsiderata. Il che ben spiega il carattere normalmente circoscritto nel tempo dei provvedimenti di esenzione.

Capire questo è di fondamentale importanza e può risultare, per il giuri sta puro, motivo di qualche difficoltà. Ma il nostro è un campo del diritto in cui domina l'analisi economica dei problemi e l'interpretazione teleologica del dato normativo positivo.

Tanto per capire di che cosa stiamo realmente parlando: il Consiglio di Stato, giudicando a suo tempo una fattispecie anticoncorrenziale proprio nel settore assicurativo, come tale sanzionata dall'Autorità garante nazionale, ha ritenuto che non ci possa essere intesa anticoncorrenziale se gli esponenti delle imprese, che hanno partecipato all'accordo, non erano provvisti dei necessari poteri rappresentativi dal punto di vista civilistico - formale.

Ebbene, voi capite che su questa strada non si va da nessuna parte, perché un accordo anticoncorrenziale non si fa, evidentemente, muniti di procura speciale... per fare un accordo anticoncorrenziale. La procura formale serve per stipulare «alieno nomine» un qualsiasi contratto, ma non un'intesa illecita, come è quella restrittiva della concorrenza.

Insomma, le categorie dogmatiche astratte e il formalismo giuridico non aiutano molto sul piano del diritto «antitrust»: queste categorie ci sono, naturalmente, ma su di esse, una volta correttamente individuate, occorre poi che l'interprete innesti tutto un ragionamento molto legato ai profili economici e alle specificità, anche meramente fattuali, del caso concreto.

E qui possiamo ritornare a quanto stavamo dicendo a proposito della scelta di fondo operata sin dall'origine dal legislatore comunitario in tema di competenza al rilascio di attestazioni negative e di provvedimenti di esenzione relativi a fattispecie astrattamente anticoncorrenziali e quindi, in via di principio, illegittime. Come dicevo, solo gli Organi centrali dell'UE sono considerati competenti a provvedere in questo caso, perché qui sta il cuore del diritto «antitrust» e solo una giurisprudenza accentrata ed univoca di questo genere può consentire, al di là della griglia iniziale dei divieti, l'enuclearsi progressivo, flessibile e ragionato di un autentico ordinamento giuridico della concorrenza e del mercato.

Al contrario, per quanto riguarda il momento repressivo, anche le autorità

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nazionali sono state chiamate da sempre a cooperare fattivamente con quelle europee.

Orbene, per l'Italia questo sistema è stato l'unico sistema di diritto

«antitrust» fino agli anni '90. Voi sapete, infatti, che le norme di diritto comunitario -quanto meno quelle di 'un certo livello nella gerarchia formale delle fonti -trovano applicazione immediata e diretta negli ordinamenti nazionali, dando vita a diritti ed obblighi pienamente azionabili anche all'interno di tali ordinamenti.

Quindi il Trattato di Roma ed il Regolamento n. 17 del 1962 erano realtà già operanti nel nostro Paese, anche se di esse non c'è mai stata da noi una grande applicazione in alcun settore economico.

Non c'era ancora un'Autorità amministrativa indipendente deputata alla salvaguardia della libertà del mercato e della concorrenza e tutto quello che si è avuto è stata una scarna giurisprudenza dei tribunali, aditi da tal uni imprenditori per lamentare la violazione di questa normativa ad opera di qualche concorrente.

3.b) Con la legge n. 287 dell’ottobre 1990 arriviamo anche in Italia ad una legislazione nazionale «antitrust». Arriviamo buoni ultimi, i come avvertivo prima. Arriviamo quando tutti gli altri Paesi europei disponevano già di una loro propria legislazione in argomento, sulla quale spesso quella comunitaria si era solo sovrapposta in un secondo momento. È anche per questo che il legislatore italiano fa una scelta strategica sulla quale sono stati scritti fiumi di inchiostro da parte della dottrina, ma una parola definitiva deve ancora essere detta: sceglie una legislazione del tipo a «barriera unica» e non

«a doppia barriera».

Negli ordinamenti «antitrust» c.d. a doppia barriera, la medesima fattispecie anticoncorrenziale - se di rilevanza comunitaria e, cioè, tale da interessare il commercio tra gli Stati membri - forma oggetto di concorrente apprezzamento sia da parte della legislazione nazionale che ad opera di quella comunitaria, fermo, naturalmente, il primato di quest'ultima per quanto concerne i risvolti comunitari.

Si dicono, invece, «a barriera unica» quegli ordinamenti in cui la fattispecie anticoncorrenziale di rilevanza comunitaria è fatta oggetto di valutazione solo alla stregua di una legislazione, ovviamente quella di natura comunitaria.

La legge italiana è di esemplare chiarezza al riguardo. L'art. 1, comma l°, della legge n. 287 del 1990 esordisce affermando che le disposizioni della legge si applicano alle intese, alle pratiche concordate ecc. che non ricadono nell'ambito di applicazione del Trattato istitutivo della Comunità europea o di atti comunitari con efficacia normativa equiparata.

C'è, dunque, una precisa ripartizione delle rispettive sfere d'influenza,

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una divisione nettissima. Le fatti specie anticoncorrenziali di rilevanza comunitaria formano oggetto di valutazione, dal punto di vista della normativa sostanziate applicabile, solo da parte dell' ordinamento comunitario. Ma c'è di più, perché nella legislazione «antitrust» italiana vige anche il c.d. principio di reciproca esclusione: nel senso che, di fronte ad una fatti specie anticoncorrenziale di spessore comunitario, l'Autorità garante nazionale è considerata incompetente dalla legge e dovrebbe sospendere la procedura eventualmente avviata, per rimettere gli atti della questione a Bruxelles.

Il comma 20 dell' art. l della legge n. 287 afferma, con grande chiarezza, che l'Autorità garante, qualora ritenga che una fattispecie al suo esame non rientri nell' ambito di applicazione della legge stessa ai sensi del comma 10, ne informa la Commissione delle Comunità europee, alla quale trasmette tutte le informazioni in suo possesso. Il comma 30 del medesimo art. l fa, invece, l'ipotesi inversa in cui, rispetto ad una fattispecie già all'esame dell' Autorità garante, la Commissione europea inizi in un secondo momento una procedura presso di sé e stabilisce che l' Autorità nazionale deve sospendere l'istruttoria, tranne che per gli eventuali aspetti di esclusiva rilevanza nazionale.

Va sottolineato che, mentre una norma di quest'ultimo tipo si rinviene in tutti gli ordinamenti nazionali, siano essi a doppia o unica barriera, in quanto la stessa è semplicemente volta a garantire il primato dell'ordinamento comunitario, una norma come quella recata dal comma 20 è tipica del nostro sistema legislativo. Essa, infatti, deriva dal più volte rilevato carattere «a barriera unica» del nostro ordinamento «antitrust» e, andando ancora più in là, realizza il principio della reciproca esclusione tra sistema nazionale e comunitario: quando una fattispecie anticoncorrenziale, avendo rilevanza comunitaria, è regolata, sul piano sostanziale, dalla normativa europea, allora, anche sul piano della competenza, autorizzati a provvedere sono solo gli Organismi dell'UE, sicché l'Autorità garante nazionale deve spogliarsi della questione e rimettere gli atti della procedura a Bruxelles.

Mi soffermo su questo punto perché, come vedremo meglio tra breve, le cose non sono andate esattamente così nel nostro Paese.

Ma c'è un altro aspetto importante rispetto al quale la concreta evoluzione del nostro sistema «antitrust» si è venuta sviluppando secondo linee non coerenti con il dettato normativo originario, pervenendo ad esiti difficilmente prevedibili.

Mi riferisco alla norma di cui al comma 40 dell'art. 1 della legge n. 287, secondo la quale l'interpretazione delle norme contenute nel Titolo I della legge stessa è effettuata in base ai principi dell' ordinamento comunitario della concorrenza.

La norma non potrebbe essere più chiara: essa dispone semplicemente un criterio interpretativo delle disposizioni nazionali in tema di intese, abuso di

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posizione dominante e operazioni di concentrazione di cui, appunto, al Titolo I della medesima legge n. 287. Certo, si tratta di disposizioni ricalcate a carta carbone dalla normativa europea e per giunta molto scarne: esse non vanno, in pratica, al di là di una traduzione dei concetti essenziali contenuti negli artt. 85 e 86 (ora 81 e 82) del Trattato e ignorano del tutto l'abbondante produzione normativa «antitrust» che, spesso con riferimento a settori del tutto particolari dell' economia, è intervenuta nel corso del tempo a livello europeo, muovendo appunto da quei concetti essenziali e generalissimi già presenti nelle ricordate disposizioni del Trattato. Resta il fatto, tuttavia, che proprio questo e solo questo dice il comma 40 dell'articolo 1 della legge n. 287.

Ebbene, anche con riferimento a questo aspetto le cose hanno assunto una piega alquanto imprevedibile nel nostro Paese.

Tutto ciò è avvenuto per un duplice ordine di fattori. Il primo, è che l'Autorità garante nazionale deve aver temuto per un momento di essere stata creata per niente, dato che oggi le fattispecie anticoncorrenziali di esclusiva rilevanza nazionale tendono ad essere ben poche in un mercato unico europeo.

Sono sempre più numerosi, invece, i casi in cui l'intesa, la pratica concordata etc. presentano spessore e rilevanza comunitari. In questi casi, l'Autorità

«antitrust» italiana, una volta iniziata un'istruttoria, si è immancabilmente trovata davanti a un fuoco di fila di eccezioni ten- denti a paralizzarne l' operatività: le parti interessate obiettavano il carattere comunitario della fatti specie e, quindi, l'incompetenza dell' Autorità.

Il secondo ordine di fattori che ha contribuito a determinare un'evoluzione imprevista del nostro ordinamento della concorrenza è stato 1'orientamento assunto in materia dall'U.E., sempre più fondato sul c.d.

principio di sussidiarietà. Abbiamo già rilevato in precedenza come le strutture centrali comunitarie siano apparse, fin dal primo momento, obiettivamente inadeguate a svolgere fattivamente funzioni repressive rispetto alle infinite situazioni anticoncorrenziali suscettibili di prodursi nel territorio dei vari Stati membri e questa difficoltà è venuta, ovviamente, crescendo con il progressivo allargarsi dell'U.E.

Abbiamo anche visto, d'altra parte, come già il Trattato istitutivo della Comunità riservasse esclusivamente alla Commissione europea la competenza a rilasciare attestazioni negative e provvedimenti di esenzione, il che ha sempre comportato per la Commissione un'ingente mole di lavoro. È proprio per questo che la Commissione ha incoraggiato in ogni modo le Autorità garanti nazionali a intervenire direttamente sul piano della repressione dei fenomeni anticoncorrenziali, in omaggio, appunto, al principio di sussidiarietà e sul presupposto che queste ultime, in quanto più vicine ai fatti da prendere in considerazione, apparivano le più idonee ad intervenire.

Si è venuta, d'altra parte, formando a livello comunitario una prassi

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operativa che ha contribuito anch'essa a dilatare il ruolo e i compiti delle Autorità nazionali, e cioè la prassi delle c.d. lettere amministrative (comfort lettre). Dicevo prima che non soltanto nell'ordinamento italiano, ma in tutte le legislazioni nazionali, anche in quelle «a doppia barriera», attesa la supremazia dell'ordinamento comunitario, se le Autorità centrali europee aprono una procedura su una certa fatti specie anticoncorrenziale, quelle nazionali debbono sospendere le istruttorie eventualmente avviate su quella stessa fattispecie.

Orbene, è avvenuto spesso e un po' dappertutto che gli operatori economici coinvolti dalle Autorità nazionali in procedure di infrazione abbiano fatto appello alla Commissione europea -quando la fattispecie avesse rilevanza comunitaria - per sollecitarne l'intervento e spostare, così, il discorso in sede sovranazionale. La Commissione, però, ha cercato di risolvere questi casi senza aprire formalmente un procedimento, ma attraverso un semplice scambio di corrispondenza con gli interessati: uno scambio di corrispondenza informale, con il quale la Commissione faceva conoscere le proprie valutazioni sulla fatti specie anticoncorrenziale e sollecitava, se del caso, le modifiche necessarie ed opportune per rendere compatibile tale fattispecie con la normativa «antitrust».

Uno scambio di lettere di significato sostanziale, dunque, ma, sul piano della natura giuridica degli atti, pur sempre uno scambio di lettere meramente amministrative.

Laddove una procedura formale, se è di infrazione, inizia con un provvedimento di contestazione degli addebiti, mentre, se è di esenzione, si manifesta all'esterno solo con l'adozione del provvedimento che concede l'esenzione stessa.

Questa situazione ha incoraggiato quel processo di valorizzazione del ruolo delle Autorità nazionali di cui prima si diceva, giacché si è concluso che uno scambio di lettere amministrative non integra gli estremi dell'apertura di una vera e propria procedura formale in sede europea e non determina, dunque, alcun impedimento alle normali competenze repressive delle Autorità nazionali.

Stando così le cose, quale poteva essere in Italia una soluzione corretta dei problemi sul tappeto, e cioè una soluzione rispettosa, da un lato, delle scelte operate insindacabilmente dal legislatore nazionale e capace, dall'altro, di consentire alla neonata Autorità garante lo svolgimento di un ruolo effettivo e non limitato ai profili di esclusiva rilevanza nazionale?

Come ho detto, la legge n. 287 è arrivata buon ultima a regolare la materia della concorrenza e del mercato e l'ha trovata perciò già dettagliatamente disciplinata a livello comunitario.

La legge italiana ha fatto, proprio per questo, una scelta magari

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rinunciataria, ma che era anche l'unica logicamente possibile a quel punto:

unica barriera, reciproca esclusione e, quindi, incompetenza dell'Autorità nazionale rispetto alle fattispecie anticoncorrenziali di rilevanza comunitaria.

Peraltro se non a caso eravamo partiti da qui - l'art. 88 del Trattato di Roma e l'art. 9, comma 3°, del Regolamento n. 17 del 1962 da sempre attribuivano anche alle Autorità nazionali il compito di procedere all'applicazione degli artt. 85, paragrafo 1, e 86 (ora 81 e 82) del Trattato, vale a dire di intervenire per la repressione dei fenomeni anticoncorrenziali di rilevanza comunitaria. E l'espressione a tal fine impiegata «autorità degli Stati membri» ricomprendeva non solo gli organi giurisdizionali, ma anche le autorità amministrative competenti sui singoli Stati per l'applicazione del diritto «antitrust» (cfr. Corte di giustizia 30 aprile 1986, Ministere Public c.

Lucas Asjes, R86, 1425). Sulla base di queste fonti comunitarie, dunque, l'Autorità garante nazionale - per quanto incompetente rispetto ai suddetti fenomeni ex lege n. 287 - ben avrebbe potuto operare applicando direttamente le norme del Trattato e dell'ordinamento comunitario della concorrenza in genere.

Questa strada non è stata, tuttavia, percorsa dall'Autorità garante italiana, per ragioni non mai chiarite adeguatamente.

A un certo punto la legge n. 287 è stata anche integrata ad opera dell'art.

54, comma 5°, della legge 6 febbraio 1996, n. 52, prevedendosi espressamente che l'Autorità può procedere all'applicazione diretta delle norme comunitarie della concorrenza, ma a me non risulta, ripeto, che questa strada sia mai stata in concreto percorsa. Voi non troverete - quantomeno in materia assicurativa - alcun provvedimento dell' Autorità il cui fondamento venga formalmente riposto sul diritto comunitario e che applichi a una fattispecie anticoncorrenziale, come norma sostanziale regolatrice della stessa, il diritto comunitario. Troverete nominati, sì, nella motivazione dei provvedimenti, gli artt. 85 e 86 (ora 81 e 82) del Trattato e citate altre fonti successive dell'ordinamento europeo della concorrenza: a fondamento della propria competenza l'Autorità ha, però, sempre posto la legge n. 287 e di questa ha preteso di fare applicazione anche rispetto a presunti fenomeni antincorrenziali di rilevanza comunitaria. E quel comma 40 dell' art. l della legge n. 287, sul quale dianzi ci eravamo soffermati, che dispone di interpretare il diritto nazionale (quando, ovvia- mente, questo è il diritto applicabile!) secondo i principi comunitari, è divenuto, in realtà, un'altra cosa.

È divenuto un principio di autointegrazione dell' ordinamento italiano, come se per questa porta stretta potesse entrare, nell'asfittica e pedissequa legislazione nazionale della concorrenza, tutta la vasta produzione normativa comunitaria sull'argomento.

In conclusione, l'Autorità garante nazionale, di fronte a fatti specie

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anticoncorrenziali di sicuro spessore comunitario:

a) si muove ancora oggi in base alla legge n. 287, pur essendo stata addirittura emanata una legge dello Stato che - ribadendo ciò che già disponevano le sovraordinate fonti comunitarie - autorizza la medesima Autorità a procedere secondo il diritto comunitario;

b) fa perno sul comma 40 dell'art. 1 di detta legge, letto non più come mero criterio interpretativo, ma come strumento di autointegrazione della legge, e trasforma tutta la vasta produzione normativa e giurisprudenziale comunitaria in una sorta di «fonte di ispirazione» liberamente apprezzabile per le sue valutazioni nel merito delle fattispecie al suo esame. Dove è chiaro a tutti che altro è ispirarsi a una norma e altro fare applicazione di quella norma:

ispirarsi a una norma vuol dire, infatti, ragionarci sopra, fare delle considerazioni in punto di «mens legis»; applicare una norma significa prenderla per quello che essa obiettivamente è, interpretata secondo i prescritti canoni ermeneutici.

Faccio un esempio concreto per chiarire meglio quello che voglio dire. È noto a tutti il caso della coassicurazione di tutti i rischi del Comune di Milano.

Fu fatto un bando di gara per la copertura assicurativa di questi rischi e lo stesso bando, scimmiottando le formule sui raggruppamenti di imprese negli appalti pubblici, prevedeva espressamente la forma della coassicurazione, trattandosi di rischi assai rilevanti e di diverso tipo. La gara fu vinta da alcune imprese che, con un unico contratto in coassicurazione, garantirono quei rischi. Ebbene, l'Autorità garante è intervenuta e ha preteso di sanzionare come anticoncorrenziale l'accordo raggiunto tra le compagnie per assumere insieme quell'affare. Eravamo in, presenza di una fattispecie di rilevanza comunitaria, perché la dimensione merceologica e geografica del preteso fatto anticoncorrenziale erano tali da interessare il commercio tra gli Stati membri.

Solo che, nell'ordinamento comunitario della concorrenza, il singolo contratto di coassicurazione non è in alcun caso considerato come un 'intesa anticoncorrenziale. Esiste nell'ordinamento comunitario della concorrenza, come vedremo meglio nel prosieguo, un regolamento di esenzione specifico per il settore - il Regolamento n. 3932 del 1992 - il quale arriva ad esentare, a certe condizioni, addirittura i consorzi di coassicurazione, e cioè gli accordi stabili tra imprese per la copertura in comune di un numero indeterminato di rischi. Orbene, non è chi non veda che, se il legislatore comunitario, sia pure a determinate condizioni che dopo esamineremo meglio, ha ritenuto legittimi i consorzi di coassicurazione, ravvisando in essi aspetti precompetitivi che giustificano un'esenzione per regolamento, «a fortiori» il singolo contratto di coassicurazione deve essere ritenuto del tutto irrilevante ai fini del diritto della concorrenza.

Nonostante questo, l'Autorità garante nazionale, liberamente ispirandosi

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alla normativa comunitaria - ma non facendo di essa puntuale applicazione, nel qual caso avrebbe dovuto fare i conti col tenore letterale di disposizioni ineludibili - ha preteso di sanzionare questa fattispecie. Fortunatamente la questione ha poi trovato più equa soluzione, in sede giurisdizionale. E la Commissione europea, per parte sua, nel rapporto sull'applicazione del Regolamento di esenzione n. 3932 del 1992, esplicitamente confermato che il singolo accordo di coassicurazione non crea problemi di concorrenza, smentendo così clamorosamente le «ispirazioni» che l'Autorità garante italiana aveva ritenuto di poter trarre dall' ordinamento comunitario.

A parte il caso di specie, ciò che a me preme rilevare in questa sede è che nel nostro Paese, partiti da una forse discutibile, ma chiarissima, scelta di diritto interno all'insegna della barriera unica, della reciproca, esclusione e, quindi, dell'incompetenza dell' Autorità nazionale rispetto ai fenomeni anticoncorrenziali di rilevanza comunitaria, si è arrivati, attraverso un'evoluzione del «diritto vivente» difficilmente prevedibile e col favore di tutta una serie di circostanze, interne ed esterne, a una situazione del tutto diversa, se non addirittura opposta. A ben vedere, infatti, noi oggi abbiamo, di fatto, un sistema giuridico in tema di concorrenza «a doppia barriera»,.giacché attraverso il comma 40 dell'art. l della legge n. 287, inteso come strumento di auto integrazione del sistema stesso, ci troviamo a disporre di una normativa di diritto interno mutuata alquanto liberamente da quella comunitaria attraverso la «ruminatio» che di quest'ultima l'Autorità garante viene compiendo giorno per giorno nello svolgimento delle proprie funzioni istituzionali. E questo, si badi bene, non solo con riferimento alle fattispecie anticoncorrenziali di esclusiva rilevanza nazionale, ma anche relativamente a quelle di spessore comunitario che, come abbiamo visto, l'Autorità continua ad esaminare in base alla legge n. 287 e non applicando direttamente e rigorosamente le fonti comunitarie. .

Si tratta di una situazione che non può non impensierire chi guardi alle cose dal punto di vista della certezza del diritto, anche perché ci troviamo alla vigilia di una nuova rivoluzione copernicana in tema di diritto della concorrenza.

È uscito da poco il c.d. libro bianco sulla concorrenza ad opera della Commissione europea. La Commissione desidera devolvere alle autorità nazionali non più solo il momento della repressione dei fenomeni anticoncorrenziali, ma anche quello della valutazione dei profili di procompetitività suscettibili di recuperare alla legittimità, nel caso concreto, fattispecie astrattamente contrarie alla libertà della concorrenza e del mercato e che, come si è visto, fino ad oggi hanno fonDato oggetto di competenza esclusiva da parte delle Autorità centrali dell'U.E. E ognuno vede i rischi ai quali in tal modo si andrebbe incontro, specie in una situazione come quella

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italiana.

Solo una parola sui rimedi giuridici che sono oggi consentiti agli operatori economici che lamentassero un'erronea applicazione del diritto comunitario da parte dell' Autorità garante nazionale e che sono rappresentati dalla lunga trafila dei rimedi giurisdizionali interni all' ordinamento giuridico italiano: quindi, impugnativa del provvedimento dell' Autorità davanti al giudice amministrativo; prospettazione, in quella sede, di una questione pregiudiziale concernente l'interpretazione della normativa comunitaria da sottoporre ai competenti Organismi giurisdizionali dell'U.E., questione che il giudice italiano adito può accogliere o meno. L'unico vincolo che il Trattato di Roma pone su questo punto (art. 234, già 177) è che il giudice nazionale di ultima istanza è tenuto a rivolgersi alla Corte di giustizia delle Comunità europee. E voi comprendete bene, a questo punto, che il giro che bisogna fare prima di poter discutere la questione di interpretazione della norma comunitaria nella sede centrale a ciò deputata è estremamente lungo e defatigante. Questo, se è comunque pesante allorché si verta in tema di repressione di comportamenti anticoncorrenziali, risulterebbe del tutto frustrante allorché si trattasse della valutazione di quei profili procompetitivi che, in concreto, possono portare alla riammissione di una fattispecie astrattamente anticoncorrenziale. Il provvedimento repressivo comporta, infatti, l'applicazione di una sanzione: al limite, pago e poi vedremo chi aveva ragione. Ma se io progetto una qualche forma di cooperazione con altre imprese e ritengo che questa cooperazione, astrattamente anticoncorrenziale, sviluppi in realtà potenzialità procompetitive tali da renderla compatibile con le regole poste a tutela del mercato e della concorrenza, mentre l'Autorità garante, erroneamente interpretando la normativa comunitaria, è di diverso avviso, è chiaro che non posso affidarmi utilmente a «rimedi» come quelli appena accennati. .

Se, infatti, tra qualche anno la Corte di giustizia dovesse dare ragione a me e torto all' Autorità garante, verosimilmente le condizioni di mercato e il quadro economico di riferimento si sarebbero nel frattempo a tal punto modificati che la modalità cooperativa immaginata ben difficilmente risulterebbe ancora praticabile.

Per questo da più parti si chiede che, alla vigilia di una devoluzione alle autorità nazionali del potere delicatissimo e fin qui esercitato solo dalla Commissione europea di valutare gli aspetti procompetitivi di una fattispecie in sé anticoncorrenziale, rimedi giuridici nuovi e davvero incisivi vengano immaginati per poter arrivare ad una verifica più tempestiva del reale stato delle cose dal punto di vista del diritto comunitario.

Rimedi nuovi che sono indubbiamente possibili e che potrebbero assumere forme diverse, da quella di un ricorso gerarchico immediato alla

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Commissione europea - visto che in questi casi le autorità nazionali opererebbero, in fine dei conti, come mandatarie di quella comunitaria e, quindi, in una posizione sostanzialmente subordinata - a quella di un'istanza di avocazione della questione da rivolgere all'Autorità comunitaria, prima ancora che quella nazionale si sia pronunciata definitivamente sulla questione stessa.

Vedremo quello che succederà, ma intanto è certo che il tipo di ordinamento europeo che si sta delineando in tema di concorrenza suscita tra r gli operatori economici - e non solo in Italia - notevolissime apprensioni e perplessità.

3.c) Un 'ultima serie di considerazioni vorrei fare sul citato Regolamento comunitario n. 3932 del 1992, che, come dicevo, costituisce un po' la «magna charta» del diritto «antitrust» nella specifica materia assicurativa.

Al Regolamento si perviene in quanto - essendosi deciso, a metà degli anni' 80, per l'applicabilità del diritto della concorrenza in campo assicurativo - la Commissione europea è stata subissata da richieste degli assicuratori di tutti gli Stati membri tendenti ad ottenere, rispetto a una quantità di accordi da essi sottoscritti, atte stazioni negative ai sensi del- l'art. 2 del Regolamento n.

17 del 1962 o provvedimenti di esenzione ex art. 85, paragrafo 3 (ora art. 81), del Trattato.

Si è potuto capire, così, non solo che moltissimi di questi accordi presentavano, effettivamente, apprezzabili aspetti procompetitivi, il che li rendeva meritevoli di esenzione, ma anche che essi erano molto simili tra di loro - esprimendo esigenze tipiche dell'attività assicurativa - il che ha consigliato di accordare l'esenzione per regolamento, cioè in via astratta e generale, anziché caso per caso.

Il Regolamento n. 3932 è stato concesso nel 1992, per un periodo di dieci anni. Ciò appare coerente con la logica dei provvedimenti di esenzione che, essendo accordati sulla base di una certa situazione di fatto del mercato, hanno ovviamente un'efficacia limitata nel tempo: alla sua scadenza bisognerà verificare quindi - e la Commissione europea lo sta già facendo - l'evoluzione registrata dal mercato assicurativo, per vedere se sussistono ancora le ragioni che giustificavano un'esenzione del genere ovvero se quest'ultima deve essere opportunamente ridisegnata per tener conto, appunto, dello sviluppo frattanto registrato dal mercato.

Il Regolamento prevede, dunque, delle fattispecie tipiche, astratte e generali, con le quali ogni impresa di assicurazione che cooperi con altre è chiamata a confrontare la propria situazione, per accertare se il suo modo di agire rientri oppure no nella casistica presa in considerazione e consentita dal legislatore comunitario. Se questo avviene, l'esenzione deve intendersi senz'altro concessa, senza bisogno di provvedimenti «ad hoc». Se, invece, la risposta è negativa, non è che per questo il discorso debba considerarsi

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senz'altro chiuso, in quanto è sempre possibile chiedere alla Commissione europea un provvedimento di esenzione individuale. Come dicevo, ogni fattispecie anticoncorrenziale rappresenta, infatti, un caso a sé stante e deve formare oggetto di una concreta e approfondita disamina, per vedere se essa non sviluppi eventualmente effetti procompetitivi utili al mercato e idonei a fondare un provvedimento di esenzione.

Detto questo, quali sono le situazioni tipicamente contemplate dal Regolamento n. 3932?

In esso si possono riconoscere tre parti diverse: una prima parte è dedicata allo scambio di informazioni tra imprese; una seconda parte alle intese per la copertura in comune dei rischi - i consorzi, ai quali accennavo in precedenza - e una terza parte, che in Italia sembra rivestire ridotta importanza, alla certificazione di apparecchiature di sicurezza. Mi soffermo sulle prime due, che sono decisamente le più importanti. Quanto allo scambio di informazioni, viene autorizzata anzitutto l'elaborazione in comune di tariffe di premi puri e di condizioni di contratto, nel rispetto di certe regole che ora vedremo meglio. Non è consentito, invece, elaborare in comune tariffe ai premi commerciali, dove per premio commerciale si deve intendere il costo effettivo della copertura assicurativa a carico del consumatore. Il premio, infatti, è tradizionalmente suddiviso in diverse componenti. Si comincia con un c.d. premio di rischio, che esprime il fabbisogno economico di cui qualunque impresa, rispetto a un certo tipo di rischio, ha necessità, tenuto conto del modello probabilistico-attuariale e che è dato, in sostanza, dal prodotto della frequenza dei sinistri per il rispettivo costo medio. Si passa, poi, al c.d. premio puro, che rappresenta l'adattamento dell'evidenza statistica astratta alla mutualità di una certa impresa e si ottiene applicando al premio di rischio tal uni coefficienti tecnici correttivi, tra i quali i c.d. caricamenti di sicurezza. Si arriva, infine, al premio commerciale, che è dato dall'aggiunta alla componente tecnica rappresentata dal premio puro di varie componenti di natura commerciale: i c.d. caricamenti, che ricomprendono le spese di acquisizione dei contratti (e cioè i compensi riconosciuti dall' impresa alla propria rete di vendita), le spese di liquidazione dei sinistri, le spese generali dell'impresa e l'utile che quest'ultima si ripromette di conseguire dalla propria attività. Tutte voci, come è agevole intendere, che dipendono molto da come l'impresa sa e vuole organizzarsi e dalle sue scelte di mercato e che non hanno, quindi, quel fondamento tecnico obiettivo che sta alla base del premio puro.

Quello che il Regolamento n. 3932 sembra consentire, dunque, è che la parte di premio che si costruisce tecnicamente - allargando la visuale di cui la singola impresa può disporre sulla base della sua specifica mutualità - possa formare oggetto di una intensa cooperazione fra le compagnie, che ricomprende lo scambio di informazioni e il calcolo in comune di tariffe di

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premi denominati ora «di rischio» e ora «puri», con un margine di ambiguità sul piano semantico tutt'altro che trascurabile. Quel che è certo, comunque, è che il Regolamento non consente di inglobare nel premio calcolato in comune né i menzionati «caricamenti di sicurezza» né i «rendimenti finanziari» che l'assicuratore si ripromette di conseguire dall'investimento delle attività poste a copertura delle riserve tecniche e che costituiscono una componente importante, di natura anch' essa tecnica, nella costruzione del premio, attesa la rilevata inversione del ciclo produttivo tipica dell' attività assicurativa.

Per quanto concerne, poi, i profili previsionali, il Regolamento consente soltanto l'effettuazione di studi di carattere generale sulla frequenza e sul costo dei sinistri nonché, appunto, sulla redditività dei diversi tipi di investimento, senza però che le conclusioni di questi studi possano mai portare alla fissazione in comune tra le imprese di conseguenze omogenee sul piano specificamente tariffario.

Lo stesso discorso vale per le condizioni di contratto, che costituiscono uno strumento essenziale per realizzare quella omogeneità dei rischi ricompresi nella comunione di cui parlavo all'inizio e che rappresenta una caratteristica tecnica di primaria importanza della mutualità. Il Regolamento consente, infatti, l'elaborazione in comune tra assicuratori delle condizioni contrattuali, limitandosi a disporre che gli strumenti contrattuali frutto di cooperazione tra imprese -al pari, del resto, delle tariffe dei premi puri - debbono essere proposti solo con valore di riferimento, senza obbligo alcuno per le imprese stesse di non discostarsene nella pratica.

Il legislatore comunitario permette insomma, ritenendolo utile per lo sviluppo del mercato, che le imprese confrontino fra loro il frutto delle reciproche esperienze, senza arrivare, peraltro, a vincolare rigidamente la loro libertà di scelta. Viene, così, vietata espressamente la comune predisposizione di taluni tipi di clausole che, prevedendo importi di ordine quantitativo (franchigia, scoperto), andrebbero al di là dello scambio di dati esperienziali per incidere direttamente, standardizzando le, sulle garanzie prestate. E per altre clausole anch'esse particolarmente depressive della concorrenza, come quelle concernenti le esclusioni di rischio e le c.d. condizioni obiettive di assicurabilità, si richiede - non senza un certo formalismo fine a se stesso - che, sotto la singola clausola, venga ribadito quel valore di mero riferimento già sancito in via generale e di principio rispetto all'intero contratto - tipo predisposto in comune.

Una parola, ora sulla copertura in comune dei rischi, che riveste importanza affatto particolare nel nostro settore. Come dicevo prima, viene consentita la costituzione di consorzi di imprese e, cioè, di strutture collettive stabili e permanenti per l'assunzione in comune di una serie indefinita di rischi.

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Va sottolineato che l'esenzione in parola non si colloca nel quadro della ben nota dichiarazione europea del 1968 sulla collaborazione fra imprese, in cui si dice, praticamente, che l'accordo di collaborazione può, sì, risultare utile e beneficiare quindi di un'esenzione, ma deve a questo fine essere valutato in concreto. Nel nostro caso, infatti, la valutazione di procompetitività è già formulata direttamente e «ex ante» dallo stesso Regolamento di esenzione, sicché tutti gli accordi per la sistematica copertura in comune di rischi che corrispondano alle fattispecie prese in considerazione dal Regolamento sono, per ciò solo, consentiti.

Questi consorzi tra assicuratori possono operare in coassicurazione o in ricoassicurazione. Per ciò che concerne la coassicurazione, non penso di dover fornire particolari spiegazioni: si tratta di un modo di ripartire la copertura di un rischio tra più imprese attraverso l'unico contratto di assicurazione intercorrente direttamente con l'assicurato, il quale è, dunque, a conoscenza così del riparto proporzionale del rischio tra i diversi assicuratori come pure dell'identità di questi ultimi ed esprime «ab origine» il suo consenso sottoscrivendo il contratto.

Quanto alla ricoassicurazione (o coriassicurazione), si tratta in realtà di una particolare forma di riassicurazione, nel senso che l'accordo tra assicuratori non ha rilevanza esterna nei confronti dell'assicurato, ma riguarda i rapporti interni tra l'unico assicuratore diretto - che ha assunto il 100% del rischio gravante sull'assicurato - e altri assicuratori, con i quali il primo (c.d.

ricoassicurato) ripartisce il rischio per il quale ha prestato garanzia.

Da questo punto di vista, la ricoassicurazione ha di caratteristico solo il fatto che la ripartizione del rischio avviene - come nella coassicurazione - attraverso una corrispondente ripartizione del premio commerciale e dei relativi accessori. Quindi, mentre nella riassicurazione classica l'assicuratore diretto si rivolge a un riassicuratore professionista chiedendo di retrocedergli una parte del rischio garantito a fronte di un corrispettivo liberamente stabilito dallo stesso riassicuratore, qui siamo in presenza di una sorta di riassicurazione diretta e mutualistica fra un certo numero di imprese, che realizza la ripartizione del rischio attraverso cessioni di quote del premio commerciale.

I consorzi fra imprese per la copertura in comune dei rischi, previsti dal Regolamento n. 3932, comportano effetti alquanto depressivi sul piano della concorrenza e, tuttavia, vengono considerati utili per lo sviluppo del mercato assicurativo e, quindi, ammessi dal legislatore comunitario.

Depressivi per la concorrenza risultano soprattutto i consorzi di coassicurazione, presupponendo essi necessariamente l'impiego di condizioni di contratto, di tariffe di premi commerciali e di regolamenti per la regolazione dei sinistri assolutamente uniformi per tutte le imprese

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partecipanti all'accordo.

L'effetto anticompetitivo è minore per i consorzi di ricoassicurazione. In questo caso, infatti, la preventiva standardizzazione delle modalità operative riguarda unicamente le condizioni di contratto e le tariffe dei premi «di rischio». Questo significa che ogni impresa partecipante al consorzio può ricaricare il premio di rischio uniforme con caricamenti da essa scelti liberamente. E anche il regolamento per la regolazione dei sinistri può risultare uniforme solo per i sinistri il cui ammontare superi determinati importi.

Detto questo, occorre aggiungere che i consorzi di cui trattasi non sono ammessi dal Regolamento n. 3932 «sic et simpliciter», ma a patto che rispettino un complesso insieme di condizioni e di regole, alcune delle quali di ordine quantitativo e altre di tipo qualitativo.

Ci sono, in primo luogo, dei limiti massimi di sviluppo dei consorzi, differenziati a seconda che si tratti di consorzi di coassicurazione o di ricoassicurazione e questi limiti quantitativi di crescita sono più bassi per i consorzi del primo tipo, in quanto, come abbiamo già rilevato, i consorzi di coassicurazione vulnerano in modo più grave degli altri la libertà del mercato e della concorrenza.

Questi limiti risultano, inoltre, differenziati in base al tipo di rischi garantiti dal consorzio, distinguendo al riguardo il Regolamento tra rischi ordinari (per i quali valgono, ovviamente, i limiti più stretti) e rischi aggravati e catastrofali. Più nel dettaglio, i consorzi sorti per la copertura in comune dei rischi ordinari possono essere formati soltanto da imprese che non detengano, già di per sé e a monte del consorzio (si tratta quindi, a ben vedere, di un blocco non alla crescita, ma alla costituzione stessa del consorzio), più del 10% dei rischi di un certo «mercato di riferimento», se trattasi di consorzi di coassicurazione, ovvero del 15% se trattasi di consorzi di ricoassicurazione.

Tradotto in pratica, ciò significa che, per quanto riguarda i rischi ordinari (e cioè tutti quei rischi che non hanno le caratteristiche di quelli aggravati o catastrofali), il legislatore comunitario consente che solamente piccole imprese possano dar vita a strutture cooperative del tipo di quelle in esame: la grande impresa la cui quota di mercato, sommata a quelle delle altre compagnie che volessero prendere parte al consorzio, superasse i limiti sopra indicati non potrebbe far ricorso allo strumento cooperativo di cui trattasi.

I predetti limiti quantitativi non si applicano più alle imprese che intendono partecipare al consorzio, ma direttamente al consorzio stesso - e costituiscono, dunque, veri e propri limiti di crescita di quest'ultimo - allorché si tratti, invece, di consorzi per la copertura in comune di rischi aggravati o catastrofali e le ragioni di questo trattamento di maggior favore sono agevolmente intuibili.

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Per rischi aggravati si intendono quelli caratterizzati da un'alta frequenza dei sinistri, mentre rischi catastrofali sono quelli che presentano una bassa frequenza dei sinistri, ma il cui verificarsi, attesa la natura plurioffensiva dell'evento dannoso, produce una serie assai grave di danni, come è a dirsi, ad esempio, per le calamità naturali. Si tratta di rischi che è difficile approcciare statisticamente, proprio per la bassa frequenza dei sinistri che li caratterizza, e che risulta assai arduo coprire sul piano economico per la vastità delle loro conseguenze dannose.

Per i rischi aggravati e catastrofali, dunque, il Regolamento di esenzione ha riguardo alla quota di mercato del consorzio, per la quale impone i surricordati limiti massimi, del tutto a prescindere dalle quote di mercato detenute, di per sé e a monte del consorzio, dalle imprese partecipanti.

Tradotto in pratica, ciò significa che possono partecipare a consorzi per la copertura in comune di rischi aggravati o catastrofali anche imprese di grandi dimensioni. Per i rischi aggravati però - che, in termini di difficoltà di copertura, costituiscono una categoria intermedia tra rischi ordinari e rischi catastrofali - il consorzio deve rispettare un altro limite: la sua quota di mercato non può superare, infatti, il 15% della quota del medesimo mercato di riferimento già detenuta autonomamente dalle imprese partecipanti. Ciò significa che, per i rischi aggravati, il legislatore comunitario non vuole che il consorzio rappresenti l'unico strumento impiegato dalle imprese per prestare ,la garanzia.

Non è così per i rischi catastrofali - i più difficili da assicurare - per i quali, quindi, non solo il consorzio può essere costituito anche da imprese di grandi dimensioni, ma può altresì costituire l'unico modo di operare prescelto dagli assicuratori nei relativi mercati interessati, fermi solo i più volti rilevati limiti massimi di sviluppo del consorzio medesimo.

Il quadro delineato dal Regolamento di esenzione n. 3932 - che prevede altre condizioni di minore importanza, sulle quali, per brevità, non mi soffermo in questa sede - è dunque estremamente ragionato, complesso e articolato: un quadro in cui vengono consentite significative deroghe alle astratte regole della concorrenza e del mercato, proprio al fine di con- sentire lo sviluppo di mercati assicurativi asfittici o addirittura inesistenti, per le obiettive difficoltà che gli assicuratori incontrano nell'organizzare l'offerta su di essi; un quadro, comunque, in cui la concorrenza non risulta giammai soppressa, vuoi per i severi limiti quantitativi imposti dal

Regolamento alla crescita del consorzio, vuoi perché proprio l'esistenza, di questi invalicabili limiti apre a una concorrenza, per dir così, di secondo livello tra una molteplicità di strutture consortili, necessarie per rispondere adeguatamente alla domanda di coperture assicurative.

Serie difficoltà suscita, piuttosto, il calcolo dei limiti massimi di sviluppo

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dei consorzi, perché oltremodo problematica risulta l'identificazione del

«mercato rilevante» sul quale quei limiti vanno, appunto, determinati.

Quella di mercato rilevante o interessato è una categoria concettuale molto complessa nel diritto della concorrenza. lo definirei, con apparente paradosso, come una dimensione al tempo stesso ideale e fattuale, caratterizzata al suo interno da una notevole omogeneità dal punto di vista geografico, merceologico, normativo, economico nella quale e nella quale soltanto è possibile individuale e apprezzare compiutamente il fatto anticoncorrenziale. Voi comprendete che, se interviene un'intesa tra un'impresa che opera, ad esempio, soltanto in Australia e una attiva unicamente in Germania, non è possibile, in via di principio, parlare di alcun mercato di riferimento, perché quella dimensione unitaria cui ora facevo riferimento difetta sul piano geografico. Allo stesso modo è evidente che, se un'impresa produce aeroplani da guerra e un'altra aeroplani da turismo, ancorché entrambe operino, magari, nella stessa area geografica, il mercato interessato difetta dal punto di vista merceologico del prodotto, sicché un'eventuale intesa tra le due non avrebbe, in via di principio, ricadute negative sul terreno della concorrenza. Chi oggi volesse volare romanticamente su Trieste per ammirare il tramonto del sole sul mare, ben difficilmente si servirebbe di un cacciabombardiere: ma anche chi ha bisogno di un aereo da combattimento non comprerebbe certo un aeroplanino da turismo! Si tratta di due prodotti diversi dal punto di vista merceologico, ma anche dal punto di vista economico e normativo. Allora, esiste un'accezione geografica del mercato e una merceologica - mi limito alle due più importanti - e l'individuazione in concreto del mercato «tout-court» è una questione complessa, che pone notevoli problemi. Guardiamo al settore assicurativo, che è quello di nostro interesse. Quale è il mercato rilevante dal punto di vista merceologico? Vale anche qui il discorso accennato a proposito degli aeroplani. Si parte, di regola, dal concetto di fungibilità del prodotto: i confini del mercato sono individuati sulla base della possibilità per il consumatore di sostituire un prodotto, idoneo al suo fabbisogno, con altri prodotti, per dir così, equipollenti. Dove questa possibilità di sostituzione si arresta, lì si trova il confine del mercato interessato dal punto di vista merceologico. Equipollenza dei prodotti non vuoi dire identicità degli stessi. Per esempio, esistono molti tipi di lana - dallo Shetland al Cachemire - ma, per chi cerca un «pullover», esiste anche una tendenziale fungibilità tra questi diversi prodotti, per cui potremmo parlare non arbitrariamente di un unico mercato della laneria. Altre volte, invece, i mercati risultano molto ristretti. C'è una sentenza della Corte di giustizia europea che ha individuato un mercato degli ottoni prodotti in Gran Bretagna. Quella del mercato rilevante è, dunque, una grandezza che va ricercata sempre nel caso concreto, con grande discernimento e pazienza e che

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può riservare spesso delle sorprese.

In assicurazione, dal punto di vista merceologico, quale è allora questo mercato?

In un primo tempo, si è partiti su questo punto dal concetto di ramo i assicurativo (il ramo incendio, responsabilità civile generale, malattie, I ecc.), ma ci si è andati poi sempre più orientando verso ambiti più ristretti, per non dire polverizzati. Sul piano logico, questa non è che una conseguenza inevitabile - nello specifico comparto assicurativo - dell'accennato criterio della fungibilità del prodotto: è evidente, infatti, che nessuno che abbia bisogno di una copertura assicurativa r.c. proprietari di fabbricati potrebbe acquistare, in sua vece, una copertura r.c. professionale del medico, pur rientrando entrambe queste garanzie nell'unico ramo r.c. generale.

Sul piano pratico, questa progressiva segmentazione e parcellizzazione del concetto di mercato rilevante in assicurazione pone una quantità di problemi e, a lungo andare, mina alla base l'idea stessa di mercato come dimensione globale in cui il singolo fatto anticoncorrenziale si lascia apprezzare: è chiaro, infatti, che, di questo passo, il concetto di mercato rilevante in assicurazione, fatto coincidere all'inizio con quello di ramo, non potrebbe essere riferito alla fine che a quello del tutto miniaturizzato del singolo rischio.

Questa tendenza pone evidentemente seri problemi anche per quanto concerne i consorzi di coassicurazione e ricoassicurazione ammessi dal Regolamento n. 3932: voi capite bene, infatti, che, essendo rappresentato il limite massimo di sviluppo del consorzio da una misura percentuale del mercato di riferimento merceologico, più il montante sul quale quella percentuale va calcolata si fa ristretto, più il limite in questione viene raggiunto rapidamente e il ricorso allo strumento consorti le da parte degli assicuratori diviene impossibile.

Problemi si pongono anche per quanto riguarda il concetto di mercato dal punto di vista geografico. Qualcuno ha cercato di sostenere che, trovandoci a far parte di un mercato unico europeo, la nozione di mercato geografico dal punto di vista del diritto della concorrenza dovrebbe essere fatta coincidere con l'intero territorio dell'U.E., di guisa che fattispecie anticoncorrenziali che avessero a manifestare in ambiti ridotti di questo territorio non dovrebbero interessare il diritto «antitrust» comunitario.

Ma le cose non stanno così. Dottrina e giurisprudenza hanno prontamente precisato, infatti, che è rilevante ai fini del diritto comunitario anche una porzione di territorio inferiore a quella dell'intera U.E. - e, segnatamente, il territorio di un singolo Stato - purché tale ambito circoscritto interessi, di fatto, il commercio fra gli Stati membri. E la Corte di giustizia è arrivata a considerare rilevante sul piano comunitario, dal punto di vista geografico, la

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sola città di Londra. Noi stessi, del resto, parlando poco fa del caso

«coassicurazione del Comune di Milano», non esitavamo a riconoscere ad esso spessore comunitario, traendone tutta una serie di pregnanti conseguenze sul terreno della disciplina giuridica applicabile.

4. Mi fermerei qui, avendo approfittato già troppo della vostra pazienza.

Aggiungo solo - cogliendo un qualche disorientamento sui vostri volti - che non ci si deve lasciar sconcertare da un diritto che sembra consegnarci più problemi che certezze. In realtà, è sempre così con le norme e non solo con quelle giuridiche. Guai a immaginare la legge come una macchina perfetta, già programmata per ogni evenienza e che basta interrogare per riceverne una risposta compiuta. Il diritto non è uno strumento di oppressione, ma di sollecitazione dell'intelligenza: non foss'altro perché esso non può mai prevedere l'infinita varietà delle situazioni suscettibili di prodursi nella vita (ma anche per molte altre e, talvolta, meno nobili ragioni) e va perciò continuamente riportato alla vita attraverso i complessi e delicati strumenti dell'ermeneutica, che il diritto stesso contempla e fa obbligo all'interprete di impiegare in vista della giustizia.

Il diritto è discernimento, perché il diritto è per la vita e non la vita per il diritto. Ciò appare particolarmente evidente in certi campi; tra i quali, appunto, quello della concorrenza e del mercato. Per questo facevo, all'inizio del nostro discorso, l'esempio illuminante del diritto della Chiesa, nel quale la norma, lungi dall'esprimere un dovere assoluto, indica piuttosto una necessità funzionale, funzionale al risultato sostanziale e metagiuridico che si vuole conseguire. In questo senso la norma esprime un «müssen» e non un «sollen»:

è necessario fare così, non si deve in ogni caso fare così; è necessario ordinariamente fare così per raggiungere quel certo risultato, ma dove proprio la norma che è stata costruita per realizzare l'obiettivo nei casi normali risulti paradossalmente di impedimento, si deve fare diversamente.

Resterebbe un'ultima considerazione da fare. Una considerazione sulle difficoltà che ormai il diritto incontra - in ogni sua specie, anche quelle molto più dogmatiche del diritto «antitrust» - come conseguenza della grave crisi in cui versa la visione politica nelle società di democrazia avanzata del mondo occidentale.

Parlo di politica in senso alto, sia chiaro, come visione della «polis», che il diritto riceve dal legislatore e che, per parte sua, dovrebbe realizza- re in concreto con la maestà e la forza della legge. Oggi la visione politi- ca della società risulta appannata e talora indecifrabile per una quantità di ragioni che qui non è neppure il caso di accennare. Mi preme dire peraltro - a costo di non apparire «politically correct» - che, a mio sommesso giudizio, una delle ragioni di questo palpabile stato di crisi è rappresentato, per noi, proprio dal processo di unificazione europea, o meglio dalle secche in cui da tempo si è

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arenato questo processo.

Il progetto - e vorrei dire il sogno - di un 'Europa unita nasce come disegno politico forte, nasce dagli esiti tragici dei nazionalismi del XIX secolo e dalle ferite orrende di due conflitti mondiali. Nasce dal travaglio interiore e dal coraggio profetico di personalità politiche europee di grande spicco.

Principia, sì, a realizzarsi concretamente sul piano economico, ma solo come scelta tattica e pragmatica della strada più opportuna da intraprendere in una fase meramente iniziale. Purtroppo - ed è passato, ormai, mezzo secolo - questo disegno generoso ha continuato a prendere corpo unicamente sul terreno dell' economia, senza che l'affiato politico delle origini venisse mai più rinnovato e langue oggi in modo evidente per chiunque abbia il coraggio di guardare in faccia la realtà. E questo proprio mentre riaffiorano dovunque antichi egoismi nazionali e si manifestano nuovi, imprevisti appetiti regionali.

Per quanto riguarda, in particolare, gli strumenti giuridici attuativi del processo di unificazione, occorre rilevare prima di tutto che l'incredibile sviluppo del diritto comunitario - che, avrebbe detto De Gaulle, sta al diritto vivente di un certo paese come il volapük sta alla lingua italiana della Divina Commedia - ha contribuito non poco alla crisi di identità degli ordinamenti giuridici nazionali, determinando alloro inteso innesti e trapianti di realtà normative disparate e, quindi, reazioni di rigetto e stati confusionali da tutti percepibili. Un prezzo, questo, che si sarebbe potuto probabilmente anche pagare, a condizione di giungere però a un effettivo e robusto riavvicinamento delle diverse legislazioni nazionali. Ma questo effetto è stato conseguito solo in parte: si è progressivamente passati, infatti, da una legislazione europea di vero e proprio coordinamento a una legislazione di pseudo-omogeneizzazione, che lascia le differenze normative esistenti tra i vari ordinamenti statuali in buona parte inalterate.

Le scelte operate dal Trattato di Roma non consentivano spazi e vie di fuga ai legislatori nazionali. E lo stesso poteva dirsi - penso in particolare al nostro settore - per le c.d. direttive di prima generazione. Arrivati a un certo punto però - il punto, cioè, del massimo coordinamento effettivo possibile - le direttive hanno cominciato ad essere zeppe di opzioni rimesse alla libera scelta degli Stati membri e considerate, pur nell'obiettiva diversità dei loro esiti, reciprocamente equipollenti. Siamo giunti, infine, alle difettive di carattere del tutto minimale, sui cui contenuti normativi, cioè, il legislatore nazionale resta libero di innestare ulteriori previsioni e discipline aggiuntive.

Il tutto è stato suggellato dalla ben nota «fictio juris» per cui restiamo, è vero, diversi, ma facciano finta di non esserlo e gli operatori economici di un certo Paese possono lavorare in tutta l'U.E. con le regole di casa loro, eccezion fatta per le c.d. nonne di interesse generale del Paese ospite. Il che, a tacer d'altro, ha portato molti Stati membri a scoprire inopinatamente l'esistenza di

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