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I I E n ot r i o Ro m a no ( 1 8 6 0 - 1 8 7 1)

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II

Enotrio Romano

(1860-1871)

1. I primi anni bolognesi

1.1. Bologna 1860. Poetare a vista

È sera quando il 10 novembre 1860 Carducci arriva a Bologna. Ha attraversato gli Appennini, già innevati, a bordo di una diligenza, costretto a condividere il viaggio con signore e bambine1. Alla stazione trova ad attenderlo Emilio Teza2, anche lui

fresco di nomina; a settembre, infatti, Mamiani gli aveva affidato l’insegnamento di Letterature moderne comparate3. Trascorre la notte nella locanda dell’Aquila Nera,

1 Del viaggio è Carducci stesso a descrivere i tempi, la compagnia e le difficoltà nelle lettere dell’11 novembre a Chiarini e alla moglie Elvira, in CARDUCCI, Lettere, II, pp. 144-5.

2 Emilio Teza nasce a Venezia il 14 settembre 1831. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza a Padova, si dedica alla linguistica e alle lingue antiche e moderne. Le sue competenze spaziano dalla filologia, romanza e germanica, alla glottologia. Studia, ed è tra i primissimi, il sanscrito. Si occupa di comparatistica, di dialettologia e di traduzione. Nel settembre del 1860 Mamiani gli affida la cattedra di Letterature moderne comparate dell’ateneo felsineo; Teza lascia il suo impiego di bibliotecario alla Laurenziana di Firenze e nell’ottobre si trasferisce a Bologna. Vi rimarrà fino al 1866, quando prenderà la cattedra di Sanscrito prima all’Università di Pisa (ne sarà rettore tra il 1884 e l1885), poi all’Università di Padova. Muore a Padova il 30 marzo 1912. Su Teza, «un po’ tedesco» ma «dotto da vero», si veda la lettera a Carlo Gargiolli del 28 gennaio 1861, in CARDUCCI, Lettere, II, p. 199; un giudizio più esteso, e in parte limitativo, si legge in una lettera a Luciano Banchi datata 2 maggio 1862, ivi, p. 249. Su Teza si rimanda a L’Ottocento, a c. di G. Mazzoni, cit., vol. II, p. 1367; VINCENZO

CRESCINI, Emilio Teza, con una bibliografia del Teza a c. di Carlo Frati, Venezia, Ferrari, 1914;

DIONISOTTI, Ricordi della scuola italiana, cit., pp. 341-2 e relativa bibliografia. Su Teza e Carducci, si

rimanda agli studi di Tullio Ortolani usciti sulla «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929, 1° marzo 1930, 16 novembre 1932, 1° maggio 1934, e il già citato Dionisotti.

3 La nomine di Carducci e di Teza, ma anche quella, nel 1863, del latinista Giovanni Battista Gandino (Bra, 1827 – Bologna, 1905), si inquadrano nel piano di riforma dell’Ateneo felsineo che il Governo provvisorio, a colpi di destituzioni e promozioni (si creano nuove cattedre, si sopprimono alcune delle vecchie; i docenti prelati e filopapalini sono epurati; si reclutano nuovi professori) aveva iniziato fin dall’estate del 1859, poco dopo il suo insediamento. Questi i fatti: la notte del 12 giugno 1859 gli austriaci, sconfitti a Palestro e a Magenta dai franco-piemontesi, avevano abbandonato Bologna. Di fatto, lo Stato della Chiesa aveva ormai perso non solo la città, ma tutti i territori della Legazione romagnola. A Bologna si era instaurato un Governo provvisorio composto da Gioacchino Napoleone Pepoli (Bologna, 1825 – Bologna, 1881; sarà poi sindaco di Bologna dal 1866 al 1868), Camillo Casarini (Bologna, 1830 – Bologna, 1874; sindaco della città dal 1870 al 1872), Luigi Tanari (Bologna, 1820 – Bologna, 1904), Giovanni Malvezzi (Bologna, 1819 – Ozzano dell’Emilia, 1892) e Antonio Montanari (Meldola, Forlì, 1811 – Meldola, 1898; rettore dell’ateneo felsineo dal 1859 al 1868; docente si Filosofia della storia dal 1862 al ’91. Di lui, Carducci dice cose pessime in CARDUCCI,

Lettere, II, p. 152). Il Governo provvisorio rimane in carica fino al 14 luglio, quando Cavour invia

Massimo D’Azeglio come commissario regio e governatore della città. Gli succedono Leonetto Cipriani (Centuri, Corsica, 1812 – Centuri, 1888), che governa fino a ottobre, e Luigi Carlo Farini (Russi, 1812 – Quarto, 1866), in carica fino al plebiscito dell’11-12 marzo 1860 che sancisce

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dove alloggia per una decina di giorni, fino a quando non accetta l’ospitalità di Teza, che nel frattempo gli ha fatto da Cicerone e con il quale ha comprato a mezzo «toga e berretta»4. La famiglia – madre, fratello, moglie e figlia – lo raggiunge il 3 dicembre5.

Prendono in affitto un appartamentino di quattro stanze in via delle Banzuole; a maggio si trasferiscono in via Broccaindosso, al n. 777, nella casa del melograno; lì sarebbero rimasti per sedici anni6.

Inizialmente Carducci guarda con fiducia al suo futuro bolognese. Accettato il destino di «cittadino quieto e da bene» al quale la morte del padre lo ha costretto7,

l’annessione di Bologna al Regno di Sardegna. Iniziano il riordinamento dell’Ateneo Giuseppe Pisanelli (1812-1879) e Farini. Nel 1860, Pisanelli a febbraio e Farini a marzo offrono la cattedra di Eloquenza italiana a Francesco De Sanctis, allora insegnante al Politecnico Federale di Zurigo, che la rifiuta, si veda FRANCESCO DE SANCTIS, Opere, vol. XX, Epistolario (1859-1860), a c. di Giuseppe Talamo, Torino, Einaudi, 1965, p. 149, p. 151, p. 157. È poi Mamiani a offrirla prima a Prati, poi a Carducci. Ricca la bibliografia sul tema; si vedano almeno GINA FASOLI, Il professor Carducci e GIORGIO

TABARRONI, I colleghi dell’altra cultura, in Carducci e Bologna, a c. di Gina Fasoli e Mario Saccenti, Bologna, Cassa di Risparmio di Bologna, 1985, pp. 9-34, e VEGLIA, “La vita vera”. Carducci a Bologna, Bologna,

Bononia University Press, 2007, pp. 45-8. Per un inquadramento generale, MARINO BERENGO, Cultura

e istituzioni nell’Ottocento italiano, Bologna, Il Mulino, 2004; specificatamente su Bologna, ALBANO

SORBELLI, LUIGI SIMENONI, Storia dell’Università di Bologna, Bologna, Zanichelli, 1940; CARLO

CALCATERRA, Alma mater studiorum. L’università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Bologna, Zanichelli, 1948; RENZO CREMANTE, L’Università di Bologna dalle riforme napoleoniche al primo decennio del

Novecento, in I laboratori storici e i Musei dell’Università di Bologna. La città del sapere, Bologna, 1987, pp.

77-122, e Filosofia e scienza a Bologna tra il 1860 e il 1920, a c. di Guido Oldrini e Walter Tega, Bologna, Cappelli, 1990.

4 Nella lettera datata 20 novembre 1860 e diretta a Giuseppe Chiarini, Carducci afferma: «nella cui casa [di Teza] verrò stasera a dormire lasciando l’albergo», in CARDUCCI, Lettere, II, p. 152-3: 163.

Sull’acquisto della toga e del berretto, si veda la lettera del 23 novembre 1860 a Giuseppe Chiarini, ivi, pp. 154-5.

5 Durante questa traversata degli Appennini il baule contenente, tra l’altro, le lettere d’amore di Carducci alla moglie viene distrutto e il contenuto perduto.

6 Sul trasferimento in via Broccaindosso, n. 777, primo piano, si vedano la lettera del 19 aprile alla Bartolini e quella del 7 maggio a Gargani, rispettivamente in CARDUCCI, Lettere, II, p. 234 e p. 254. Lì i

Carducci rimarranno fino al 1876, quando si trasferiscono prima a palazzo Rizzoli e poi, nel 1890, nella casa sulle mura di porta Mazzini. Nel 1903 questa casa sarà acquisita dalla regina Margherita e successivamente da lei donata al comune di Bologna. Oggi vi ha sede Casa Carducci. Anche su questo tema, la bibliografia è vasta; si rimanda al già citato Carducci e Bologna e si segnala il recente exploit della “critica narrativa” incentrata su Carducci e Bologna: CLAUDIA CULIERSI,PAOLO CULIERSI, Carducci

bolognese, Bologna, Pàtron, 2006, e il già citato VEGLIA, “La vita vera”, cit., entrambi sostenuti da un buon apparato iconografico; di finalità divulgative è il volume illustratoALESSIA TUCCI, Giosue Carducci.

Un poeta a Bologna, con disegni di Gianluigi Toccafondo, Bologna, Bononia University Press, 2007.

7 È il ruolo di capofamiglia che ha ereditato dal padre, morto troppo presto, ad averlo privato della possibilità di vivere secondo la propria natura: da poeta puro, libero, selvatico. Questa, almeno, la tesi che Carducci ribadisce più e più volte nelle lettere agli amici, in alcune prose dal taglio memorialistico-rievocativo e nella poesia. Per questo periodo, si vedano la lettera del 15 giugno 1860 a Gargani, quella del 5 novembre 1860 alla Bartolini e quella del 26 dicembre 1860 a Cristiani, in CARDUCCI, Lettere, II, p. 105, p. 143, pp. 172-3; ancora nella lettera del 4 febbraio 1862 a Diego Mazzoni: «io, cui il padre mortomi nell’età mia di 23 anni lasciò una famiglia da provvedere, con soli 10 paoli nel cassetto», e nella lettera del 27 febbraio dello stesso anno a Narciso Feliciano Pelosini: «La mia poesia, se poesia s’ha a chiamare, è aspirazione al di fuori: e il destino mi vuole riconcentrato in una stanza a scrivere, scrivere, scrivere sempre. Ma così è: la mia miseria e la morte immatura di mio padre, mi hanno fatto schiavo di tutti; me, per natura, nemico d’ogni ordine costituito; me partigiano

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spera di potersi lasciare alle spalle gli anni più difficili, quelli segnati dal precariato, dai lutti e dalle continue difficoltà economiche; gli anni che, più avanti, avrebbe ricordato come un tempo di miseria8.

La vita a Bologna, però, si rivela tutt’altro che rosea. Le spese sono molte e onerose; trovare casa diventa un’impresa che richiede, oltre a mezzi economici straordinari, conoscenze e raccomandazioni; il costo della vita, nel complesso, è più alto. L’epistolario restituisce un fitto traffico, da una parte all’altra degli Appennini, di prestiti e conti, oltre che di libri. «Veggo bene che per l’utile ne avevo più ad essere professore nel Liceo di Firenze», scrive dopo solo tre giorni dal suo arrivo a Gargani: «di gran signore che può parere ad alcuni ch’io sia diventato, veggomi ridotto alla giusta statura del solito Carducci»9.

Altre seccature gli vengono dal mondo culturale bolognese, angusto rispetto a quello di Firenze. Nelle lettere agli amici si lamenta del mercato librario, stagnante, e delle biblioteche, poche e gravemente sguarnite10. In effetti, nel sistema culturale

italiano d’inizio anni Sessanta, l’ex capoluogo della Legazione papalina è poco più che periferia. E periferico è ancora l’Ateneo felsineo, che, nonostante i recenti e massicci interventi di rinnovamento che vi avevano concentrato docenti giovani e di valore, nel 1860 conta poco più di trecento studenti; gli emiliani, infatti, gli preferiscono gli atenei dei vecchi Ducati (Ferrara, Modena e Parma); i romagnoli, Firenze, per la più illustre tradizione, e le piccole università marchigiane; ciò perché, a dispetto del nuovo regime, a Bologna erano ancora forti i poteri e le ingerenze clericali, come anche Carducci capisce poche settimane dopo il suo arrivo11.

dell’anarchia assoluta, nella quale sola veggo le condizioni della vita vera», rispettivamente in CARDUCCI, Lettere, III, p. 25 e pp. 51-2.

8 «Se dovessi dire oggi – nel 1888 – come vivessi, mi troverei imbrogliato: delle volte, pare, non più d’una volta forse, a certe età, si vive anche di nulla», in CARDUCCI, Prefazioni, in ID., Opere, XXIV,

pp. 42-3.

9 Lettera del 13 novembre 1860 a Giuseppe Torquato Gargani, in CARDUCCI, Lettere, II, p. 148. 10 Il 1° aprile 1861 Carducci scrive a Barbèra. Ha accettato di curare una rassegna letteraria per la «Nazione», il giornale che Barbèra, dopo averlo fondato nel luglio del 1859, intende ora rinnovare, e chiede che sia la redazione ad inviargli a Bologna le pubblicazioni da recensire perché «Bologna è città dove il movimento letterario è quasi nullo: manca un Gabinetto che sia, non dico da confrontare al Vieusseux, ma né pur degno del nome […]. Alcune pubblicazioni qui o non vengono mai, o vengono dopo i tre e quattro mesi», ivi, p. 227. A Carlo Gargiolli, il 18 ottobre 1862: «il questa porca Bologna, né in pubbliche né in private biblioteche mi riesce trovare il Poliziano cominiano [cioè dell’editore Comino di Padova] del 1765»; ad Alessandro D’Ancona, il 15 aprile 1863: «in questa porca città manca tutto: intendi bene, non solo i libri stranieri, ma anche gli antichi», in CARDUCCI, Lettere, III, p. 217 e p. 327.

11F

ASOLI, Il professor Carducci, cit.; si veda la lettera del 18 dicembre 1860 di Carducci a Barbèra, in

CARDUCCI, Lettere, II, pp. 165-6, poi, con minime variazioni, su «La Nazione» del 22 dicembre con il titolo L’università di Bologna su ’l finire del 1860, riprodotto in ID., Opere, XXVI, pp. 289-91. Qui Carducci espone il caso emblematico delle pressioni e delle diffamazioni subite da Bonaventura Mazzarella (Gallipoli, Lecce, 6 febbraio 1818 – Genova, 3 marzo 1882, patriota, filosofo, evangelico; Bonaventura, non Benvenuto, come invece si legge in VEGLIA, “La vita vera”, cit., p. 53), nominato da

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Particolarmente grave è lo stato della Facoltà di Filosofia e Filologia, che nell’anno accademico 1860-1861 non ha iscritti. Così, al suo primo corso – Sulle origini della cultura italiana e sulla letteratura patria nel secolo XIII – Carducci ha soltanto uditori occasionali, passivi: «per ora – scrive a Gargani – non è questa città da far lezioncione»12. Si trova, così, a dover ridimensionare le proprie aspirazioni didattiche:

abbandona il progetto iniziale di esporre come la letteratura italiana si origini dalla latina modificata dal cristianesimo e ripiega sulla Commedia, di cui spiega, attraverso un numero limitato di passi esemplari, le ragioni storiche e politiche13.

Del resto, di ambizioni contenute, soprattutto a causa del poco tempo avuto per stenderla, era stata anche la sua prolusione: letta il 22 novembre davanti a colleghi e studenti, Delle età storiche della letteratura italiana in quanto è collegata con la istoria civile della nazione è un collage di contributi già editi sul «Poliziano» e sintetizza l’idea che per Carducci sta alla base dello studio letterario: che la letteratura, cioè, sia organica alla nazione e che le sue «età storiche» siano «connesse alle vicende politiche della Nazione e modificate da quelle»14. Una prolusione in tono minore, questa, certo più

per Carducci che per il suo nuovo pubblico, che lo aveva interrotto diverse volte per applaudirlo15.

Molti debiti, pochi libri, nessuno studente e, fatta eccezione per Teza, nessun confidente: queste sono le difficoltà delle quali Carducci si lamenta nelle lettere, a volte non affrancate, che spedisce agli amici toscani16. A complicargli la vita si

aggiungono anche i bolognesi, che dopo una prima impressione positiva gli sembrano chiusi e infrequentabili17. Persino il paesaggio e il clima, rigido e nevoso

sulla «Nazione» del 22 dicembre 1860. Racconta i timori suscitati nei benpensanti cattolici dall’arrivo a Bologna di Carducci, Teza e Mazzarella RODOLFO FANTINI [et al.], Clero e partiti a Bologna dopo l’Unità, con prefazione di Umberto Marcelli, Bologna, Sezione arti grafiche Istituto Aldini-Valeriani, 1968, p. 28. Per un breve profilo di Mazzarella si rimanda a L’Ottocento, a c. di Armando Balduino, cit., tomo III, p. 1634.

12 Lettera del 7 gennaio 1861 a Giuseppe Torquato Gargani, in CARDUCCI, Lettere, II, p. 181. Aveva tenuto la sua prima lezione il 18 dicembre davanti a tre persone.

13 Sul contenuto del corso, si veda la sintesi che Carducci ne fa a Chiarini, ivi, pp. 135-6, pp. 185-7, p. 234 e BIAGINI, Il poeta della Terza Italia, cit., pp. 117-8.

14 CARDUCCI, Opere, V, pp. 490-529: 490-1.

15 Lettera del 16 novembre 1860 a Giuseppe Chiarini, in CARDUCCI, Lettere, II, pp. 150-1. L’avrebbe poi definita «robaccia», in ID., Opere, V, p. 571.

16 Alcuni, come lui, si sono trasferiti per lavoro in altre città: a marzo del 1861 Chiarini è a Torino, dove è impiegato nel Gabinetto del ministro Michele Amari, mentre Gargani si trova a Faenza, dove insegna nel liceo cittadino. La mancata affrancatura ha ragioni meramente economiche, che nelle lettere Carducci spiega ricorrendo spesso a battute o a peregrine divagazioni dal taglio umoristico; solo alcuni esempi, ivi, p. 182.

17 Ancora il 2 agosto del 1861 scrive a Chiarini: «Tu non crederai: ma io non conosco nessuno quassù, non discorro con nessuno mai mai, non vo né pure al caffè. Che vuoi? I Bolognesi in generale son gente molto a sé e anche un po’ superbetta», in CARDUCCI, Lettere, II, p. 301. Più colorito questo

sfogo indirizzato a Ferdinando Cristiani il 16 marzo 1863: «Per non avere a contendere e leticar sempre con tutti, non vo da nessuno, non cerco nessuno a pena esco a passeggiare: perché anche in questo paese la combriccola dominate fa e dice cose orribili stomachevoli incredibili. […] questa

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l’inverno e afoso l’estate, gli risultano estranei e insostenibili. Che poi a Bologna non si possa bere il ponce, che era stato a Pisa, a San Miniato e a Firenze la sua bibita “letteraria”, è un fatto che, lettera dopo lettera, Carducci carica di valori simbolici, rendendolo l’emblema della propria solitudine e del lavoro forsennato che lo seppellisce vivo e gli sottrae anche il tempo per svagarsi al caffè18.

Ma non è solo per il caffè che nei primi mesi a Bologna Carducci non trova tempo. Anche la poesia è accantonata. Dapprima ciò sembra essere nei programmi, come un passo doloroso ma necessario, vissuto con consapevolezza:

Quest’anno – scrive a Chiarini – bisognerà far senno, lavorare di molto e addio poesia, addio! Ora che non posso più trattarla, mi accorgo che forse in quella potevo fare qualcosa19.

L’afasia si rivela però persistente e nell’epistolario si infittiscono, con registi diversi a seconda del destinatario, le dichiarazioni di frustrazione e avvilimento. Carducci si descrive come un isolato, accerchiato dal lavoro e dai doveri, costretto in una quotidianità contraria alla sua natura e avversa alle sue ambizioni artistiche. Già a fine dicembre, scrivendo a Ferdinando Cristiani20, amico e uomo d’azione, che due

anni prima era partito per la Sicilia con Garibaldi, si dà quasi per spacciato:

io sto quassù e sempre più mi rincoglionisco, e mi par d’essere un fungo fuori stagione. Lavoro lavoro lavoro; ed è vero che qualche soddisfazione l’ho avuta: ma l’animo mio non è contento: perché io sono innamorato della bellezza dell’arte in se stessa, e questa dispero di raggiungerla e mi sento ghiacciare l’animo e l’ingegno21.

I suoi progetti poetici svaporano. L’idea di pubblicare una nuova raccolta gli balugina più volte alla mente, ma non riesce a concretizzarla22. Conclude a fatica i

geniaccia di nani panciuti ingrassa d’egoismo, d’abiettazione, di calunnie e della sua propria viltà. Oh ne mangi tanto che scoppi!», CARDUCCI, Lettere, III, p. 307.

18 «Sai che non bevo più ponci, perché quassù li fanno pessimi?», lettera del 26 dicembre 1860 a Ferdinando Cristiani; «Non vo più né pure al caffè, né piglio più ponce: sto sempre solo, o col Teza», lettera del 22 gennaio a Giuseppe Chiarini; «da mattina a sera vivo sempre sepolto affatto affatto negli studii, non vado più né pure al caffè, né bevo più ponci; tanto arrabbiatamente e col capo chino ho dato dentro agli studi», lettera del 28 gennaio 1861 a Carlo Gargiolli; rispettivamente in CARDUCCI,

Lettere, II, p. 173, p. 188 e p. 198.

19 Lettera del 10 dicembre 1860 a Giuseppe Chiarini, ivi, p. 162.

20 Nel 1859, lasciato l’insegnamento, Cristiani (Pisa, 18 maggio 1836 – Livorno, 3 marzo 1911) si arruola volontario nel 1° reggimento dei granatieri di Sardegna; l’anno successivo è con le truppe garibaldine. Si arruolerà di nuovo nel 1866. Cristiani garibaldino si veda ERSILIO MICHEL, Ferdinando

Cristiani in Dizionario del Risorgimento nazionale. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, a c. di Michele

Rosi, Milano, Vallardi, 1930-1937, p. 787.

21 Lettera del 26 dicembre 1860 a Ferdinando Cristiani, CARDUCCI, Lettere, II, p. 173.

22 A partire dal 1860 Carducci dichiara più volte di voler dare alle stampe una raccolta di poesie; il progetto però cambia continuamente forma, senza andare mai in porto. Per vedere edito un volume di poesie carducciane occorrerà attendere l’uscita dei Levia gravia nel 1868. Alcune testimonianze: «L’animo mio sarebbe (nuovamente mutato) di fare nell’estate o nell’autunno un’edizioncina di Rime», a Chiarini, il 26 gennaio 1862, in CARDUCCI, Lettere, III, p. 17; ma anche ivi, p. 191, p. 231 e p. 269; al

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componimenti che inizia. Ha in mente di eguagliare Leopardi e Monti («vorrei far versi come il primo gli sa fare, perfetti e divini; come il secondo gli fa splendidi e affascinanti»23), ma è consapevole della mediocrità dei risultati che ha fino ad allora

conseguito. È scontento di sé; intende migliorarsi, ma il lavoro lo assorbe e la solitudine lo indebolisce, privandolo delle risorse intellettuali che avevano contraddistinto i suoi anni toscani: «[il lavoro] m’impedisce – spiega a Chiarini – quel vigore che procede dall’attrito delle conoscenze, delle dispute, delle questioni, dei ritrovi amichevoli»24. Sente messe in pericolo le proprie aspirazioni e teme che il tran

tran lo esaurisca e lo condanni a una senilità precoce: «sento che ero nato a far qualche cosa, e sento che non farò nulla»; «mi sento invecchiare avanti il tempo»; «voglio gettar via tutte queste sciocchezze di notizie, di varianti, d’illustrazioni, di ricerche che mi fanno invecchiare innanzi tempo»25. Con toni ricercati e dovizia

d’immagini suggestive, confessa all’amica Louisa Grace Bartolini26 le traversie che il

suo animo di poeta sta fronteggiando, e la sfiducia, certo un po’ di posa, di superarle:

La poesia! Cara signora ed amica, la poesia fugge inorridita dinanzi alle critiche, alle citazioni, alle rassegne, ai commentarii, alle varianti, alle prove di stampa: fra questi sterpi veggo inaridire quel piccolo filo de’ miei verdi anni che querulo e nascoso scorreva verso l’oceano dell’oblio. Oramai, addio alle liete e

Cristiani, il 16 marzo 1863: «potrebbe darsi che nell’estate andando in Toscana stampi tutt’insieme una raccoltina delle poesie d’argomento meno inutile», cioè politico, ivi, p. 307; ancora, nella lettera del 20 dicembre 1865 a Giuseppe Chiarini:«mi son messo in testa di ricorregger alcune delle mie rime edite e inedite (non politiche) e darle a stampare in un volumetto a mio fratello», CARDUCCI, Lettere, IV, p.

276.

23 Lettera del 22 gennaio 1861 a Giuseppe Chiarini, ivi, pp. 188-9. 24 Lettera del 2 agosto 1861 a Giuseppe Chiarini, ivi, pp. 301-2.

25 Lettera del 26 luglio a Louisa Grace Bartolini e lettera del 2 agosto 1861 a Giuseppe Chiarini, ivi, p. 298 e p. 302; lettera del 9 febbraio 1863 a Louisa Grace Bartolini, CARDUCCI, Lettere, III, p. 293.

26 Carducci aveva conosciuto Louisa Grace Bartolini l’anno precedente, a Pistoia, dove si era trasferito per insegnare al Liceo Forteguerri, cfr. cap. I. La Bartolini era nata a Bristol nel 1818 da una nobile famiglia irlandese; aveva compiuto i suoi studi prima in Provenza, poi in Toscana. Nel 1860 aveva sposato l’architetto pistoiese Francesco Bartolini. Sarebbe morta cinque anni più tardi, il 3 maggio 1865. Tra le sue principali attività, la pittura, la scrittura di articoli e saggi d’argomento storico-letterario, la poesia e la traduzione; dei suoi lavori, Carducci conosceva e apprezzava in modo particolare le versioni dal poeta statunitense Henry W. Longfellow (1807-1882) e i Canti di Roma antica [Lays of ancient Rome] dello storico Thomas B. Macaulay (1800-1859). Gli scritti della Bartolini furono pubblicati postumi in due volumi, il primo contenente le sue traduzioni da Longfellow e Macaulay (LOUISA GRACE BARTOLINI,«Canti di Roma antica» di Thomas Babington Macaulay e «Poesie sulla schiavitù» e

«Frammenti» di E. W. Longfellow tradotti in versi italiani, Firenze, Le Monnier, 1869), il secondo di poesie e

prose originali e tradotte (EAD.,Rime e prose originali e tradotte, raccolte per cura di Francesco Bartolini,

Le Monnier, Firenze 1870). Carte inedite della Bartolini sono state donate dal marito alla Marucelliana di Firenze, dove tutt’oggi sono conservate nel Fondo Bartolini, solo parzialmente catalogato. Un profilo della Bartolini è tracciato da Isidoro Del Lungo nell’Avvertenza a BARTOLINI, «Canti di Roma

antica», cit., che si legge anche in ISIDORO DEL LUNGO, Louisa Grace Bartolini, in ID., Pagine letterarie e

ricordi, Firenze, Sansoni, 1893, pp. 327-32; si rimanda anche a GIULIANA ARTOM TREVES, Profilo di

Louisa Grace Bartolini, in Inghilterra e Toscana nell’Ottocento, Atti del congresso di Bagni di Lucca per il

cinquantenario del British Institute of Florence, 22-24 settembre 1967, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 25-33.

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superbe speranze, addio alle commozioni soavi, addio ai moti del core profondo, addio ai fantasmi splendidi aleggianti in un cielo di luce, addio alle tombe di Grecia e d’Italia, madri del mio pensiero. Non più speranza, non più gloria, non più poesia27.

Un paio di mesi più tardi, a Chiarini, che gli chiedeva notizie, si confessa frustrato e al tempo stesso convinto che qualcosa di buono, in un futuro imprecisato, potrebbe pur fare:

Di me che ho da dirti? Che mulino sempre poesie in testa, e non scrivo mai un verso: per verissimo timore anzi disperazione che il fato non risponda all’idea mia. Pur un giorno qualche cosa scoppierà: e o sarà un fiasco orribile, e allora addio poesia, o sarà qualche cosa28.

Prima di trasferirsi, Carducci era cosciente che stava per concludersi un’epoca della sua vita e che la nuova non si sarebbe del tutto confatta alla sua indole29. Ora, a

Bologna, non riesce a mettere a fuoco gli scenari futuri; quel poco che si configura – lo status di stipendiato regio, l’attività didattica e di ricerca, le scadenze editoriali, le responsabilità di capofamiglia – è in aperto contrasto con le sue «superbie», con il suo desiderio di essere artista e uomo libero. L’ispirazione ne risente: «il mestiero – scrive a Del Lungo – ammazza in me l’arte»30; qualche mese più tardi, alla Bartolini: «O

sante Muse, a voi fa paura la toga e il berretto nero! E avete ragione»31.

Anche quando cerca di definire la sua «arte», ci riesce a stento e non senza contraddirsi. Tenta di precisare un ideale di poesia che punta al bello assoluto, che si slaccia dalle contingenze, che si spalanca a fantasticherie, a sogni, a creazioni e ricreazioni di mondi lontani nel tempo e nello spazio, e che restituisce al suo autore «la gloria d’artista libero»32, permettendogli di abbandonarsi alla contemplazione del

bello e di ricrearlo attraverso la ricerca della forma perfetta. Di fatto, però, i pochi componimenti che scrive sono tutti d’occasione, legati a eventi di rilevanza privata o pubblica e sempre rivolti a destinatari storicamente individuati. Ed è proprio l’occasione che sta all’origine dei versi a penalizzarne l’elaborazione formale: spesso il labor limae risulta incompatibile con contenuti che vivono della prossimità degli

27 Lettera del 19 aprile 1861 a Louisa Grace Bartolini, CARDUCCI, Lettere, II, p. 235; si veda almeno anche la lettera del 20 aprile 1861 a Gargani: « non mi trovo da un anno a questa parte una stilla di poesia in testa», ivi, p. 236, e quella del 26 luglio 1861 alla Bartolini, ivi, pp. 296-7.

28 Lettera del 4 giugno 1861 a Giuseppe Chiarini, in CARDUCCI, Lettere, II, p. 271.

29 Lettera del 5 novembre 1860 a Louisa Grace Bartolini, ivi, p. 143, ma anche la lettera del 27 agosto 1860 a Luigi Billi: «Quello che mi amareggia […] è il pensiero di dover lasciare il paese, dove ho pur tutto quello che fa più cara la vita, dove ho molti buoni e bravi e degni amici. Io non son municipale, anzi mi do lode di essere stato sempre larghissimamente italiano: ma la Toscana è sempre Toscana, massime per chi c’è nato cresciuto educato, e v’ha imparato a sentire ad amare a pensare. Pazienza! Mi toccherà rinnovare del tutto la vita, senza però la speranza di trovare altrove gli amici che qui avevo», ivi, p. 132.

30 Lettera del 14 maggio 1862 a Isidoro del Lungo, in CARDUCCI, Lettere, III, p. 134. 31 Lettera del 4 novembre 1862 a Louise Grace Bartolini, ivi, p. 228.

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avvenimenti e che hanno un tempo di attualità e validità limitato. Questi testi, connessi ai fatti della cerchia carducciana – per lo più lutti e matrimoni – o agli eventi politici e sociali del Regno d’Italia e d’Europa, hanno una data di scadenza estremamente prossima a quella della loro stesura. Non è un caso se Carducci, ogni qual volta cerca di riprenderli per ritoccarli e concluderli, si blocca33, o se, dopo

poche settimane dalla stesura, decide di non darli alle stampe perché non rappresentano più il suo pensiero.

Queste, le caratteristiche della scrittura poetica dei primi anni bolognesi, ostacolata, sì, dall’assedio degli impegni lavorativi, ma soprattutto da difficoltà formali e incertezze ideologiche: il dissidio tra ambizioni da artista puro e impellenza di una realtà politica e sociale in continuo mutamento inizialmente inceppa i suoi versi. Per uscire da questa impasse e fissare, seppur temporaneamente, la propria identità di poeta, Carducci avrà bisogno almeno di due anni di prove e di maturazione ideologica.

1.2. Università, ricerca, giornalismo letterario

I primi anni a Bologna sono per Carducci un periodo di studio intenso e stremante. La didattica e le ricerche universitarie, la conclusione di lavori filologici già da tempo intrapresi e la pianificazione di nuovi sono le attività che monopolizzano gran parte del suo tempo e consolidano le sue competenze. Il pendolarismo per lo più estivo tra Bologna e le biblioteche fiorentine scandisce i suoi ritmi di lavoro. La lettera si rivela uno strumento di ricerca indispensabile, poiché consente di raccogliere materiali e dati e di evitare viaggi e spese maggiori; se non sono già collaboratori ufficiali come Del Lungo per il Poliziano, gli amici vengono precettati per svolgere attività di ricerca e di promozione culturale a distanza: raccogliere trascrizioni o verificarle sui manoscritti, cercare libri, reperire sottoscrittori per iniziative letterarie.

Giovane, in un ruolo di prestigio, con una situazione familiare onerosa ma stabile e non ancora invischiato nelle trame dell’attivismo politico, Carducci ha energie, motivazioni e solitudine per dedicarsi proficuamente a imprese filologiche complesse e di ampio respiro. Nel 1862 dà alle stampe le Rime di M. Cino da Pistoia e d’altri del secolo XIV; nel 1863, dopo sei anni di lavoro, pubblica Le Stanze, l’Orfeo e le Rime del

33 Solo alcune dichiarazioni di Carducci, a titolo esemplificativo: il già citato CARDUCCI, Lettere, III, p. 134; «Il canto alla Grecia era già cominciato quando venne la sua lettera. Ma gli esami non han voluto che si prosiegua», ivi, p. 228; 16 maggio 1862 a Chiarini: «per dio, i concetti belli e grandi non mi mancano. Mi manca il modo di esternarli degnamente, di dar loro la forma propria. Onde mi passan di mente, e non mi giovano a nulla. […] Quel che manca [alle poesie] è la potenza di esprimerle», ivi, pp. 136-8.

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Poliziano34; nello stesso anno inizia a comporre, assieme al D’Ancona, la silloge

Cantilene e ballate, strambotti e madrigali dei secoli XIII e XIV: un impegno, anche questo, che gli costerà molta fatica e che sarà stampato solo otto anni più tardi.

In questo periodo collabora con riviste fiorentine e bolognesi. Tra il 1860 e il 1863 cura la rassegna letteraria della «Nazione», il quotidiano fiorentino fondato da Barbèra: è questo un impegno minore, che comunque gli permette, attraverso la formula della recensione, di trattare temi d’attualità: si occupa, infatti, di linguistica e di didattica, ma anche di letteratura e, in particolare, di opere contemporanee e impegnate, come quelle di Aleardo Aleardi, Antonio Gazzoletti e Francesco Domenico Guerrazzi. Interromperà la collaborazione tre anni più tardi, ritenendo ormai inconciliabili i suoi principi con l’orientamento moderato e antigaribaldino del quotidiano35.

L’interesse per la letteratura del Settecento e della prima metà dell’Ottocento e, in particolare, per la poesia patriottica è testimoniato anche dal lavoro per la «Collezione Diamante», per la quale cura nel 1861 una scelta poetica di Gabriele Rossetti36.

L’autore è scelto poiché ritenuto «un classico, se non alla elegante letteratura delle scuole, alla efficace della rivoluzione»37. Nella prefazione Carducci mette a fuoco

quelli che ritiene essere i requisiti formali della buona poesia impegnata, della poesia, cioè, che veicola efficacemente i propri messaggi e li rende memorabili e che convince il lettore e lo induce all’azione: sono utili la rima, i metri regolari e i versi brevi della tradizione melica; negativo è il ricorso agli esametri sciolti, che invece abbondano nella poesia civile contemporanea, inefficace e oltretutto ben lontana dalla «severa arte»38 di Foscolo e Leopardi. All’analisi segue, perentoria,

un’indicazione rivolta ai contemporanei e ritenuta perennemente valida: «la poesia nazionale, per esser veramente tale oggi giorno, deve essere melica39.

34 Le Stanze, l’Orfeo e le Rime di Messer Angelo Poliziano Ambrogini, rivedute su i codici e su le antiche stampe

e illustrati con annotazioni di varii e nuove da Giosuè Carducci, Firenze, Barbèra, 1863.

35 Ne accenna lui stesso nell’Avvertenza [1891] aCeneri e faville, serie prima (1859-1860); si veda in CARDUCCI, Opere, XXVI, p. II.

36 Poesie di Gabriele Rossetti ordinate da Giosue Carducci, Firenze, Barbèra, 1861. La stesura dell’introduzione risale ai mesi di gennaio e febbraio 1861. Ne ristamperà un’edizione accresciuta nel 1864, cfr. CARDUCCI, Lettere, IV, pp. 72-3.

37 Qui e oltre si cita da CARDUCCI, Opere, XVIII, pp. 185-238: 187. 38 Ivi, p. 235.

39 Ivi, pp. 235-6. Sulla «poltronaggine» (ivi, p. 235) della poesia contemporanea, che non conosce il

labor limae né si pone come obiettivo la forma chiusa, Carducci scrive a proposito di Fabio Nannarelli:

«Si definisce la strofa dove e quando un vuole, si sdrucciola dove torna meglio, si mette un po’ di rima in fondo. Insomma è poesia poltrona. Non è arte né natura. Il mancar del reflusso delle strofe accusa il mancare del pulso delle arterie. Addio lirica. Descrivono, e descrivono bene; ma chi descrive tanto minutamente non sente né immagina. Sono bonzi che contemplano; e contemplano se stessi […]. È un egoismo che non si estrinseca, e che guarda il suo guscio d’uovo come un grande orbe terracqueo. È filautìa malaticcia», lettera del 1869 a Pietro Ellero, in CARDUCCI, Lettere, VI, pp. 135-6. Si rimanda

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Il merito di Rossetti è appunto quello di propagandare idee rivoluzionarie («unità d’Italia; cessazione del potere secolare e della tirannia spirituale di Roma; fraternità dei popoli oppressi»40) sfruttando le risorse formali della tradizione melica italiana:

poiché «carbonaro metastasiano» e «improvvisatore» di «melodrammatiche strofette musicali», egli riesce a fare versi cantabili, scanditi da semplici melodie, e ricongiunge così la letteratura contemporanea alle tradizioni patrie e le «moltitudini» al «pensiero italiano»41. È quindi in virtù della loro facies metrica e formale se, a distanza di quindici

anni dalla loro diffusione clandestina, le poesie rossettiane si mantengono efficaci e commoventi.

Se gli impegni giornalistici lo legano al passato prossimo e all’attualità, le lezioni universitarie gli permettono, invece, di riprendere in modo dettagliato e sistematico la storia della letteratura italiana. Nel suo primo corso ne indaga le origini risalendo fino al V secolo: l’idea portante è che a definire la letteratura italiana sia la persistenza di elementi classici e che, quindi, una stretta continuità la leghi alla letteratura greca e alla latina42. L’anno successivo, a partire cioè dal dicembre del 1861, si occupa di

Petrarca e in modo specifico del suo profilo biografico; fin d’ora Carducci spera di poter impiegare questi materiali in un commento al Canzoniere: l’analisi è destinata a durare poco meno di un quarantennio e si concluderà con la pubblicazione nel 1899 del commento alle Rime di Francesco Petrarca di su gli originali, curato a partire dal 1893 con Severino Ferrari43. Oltretutto, tra il 1861 e il 1862 l’apprezzamento di Carducci

per Petrarca cresce repentinamente; nell’epistolario si succedono i giudizi favorevoli:

all’università – scrive a Pelosini – do a intendere […] chi era il Petrarca, e perché scriveva così, e come qualmente e’ fosse un canonico che faceva all’amore […] ma sì veramente un gran pensatore e un gran cittadino, superiore a Dante pel concetto politico, il solo degli italiani che imponesse al suo secolo la venerazione per l’arte e per l’ingegno, il solo avanti la Francia del secolo XVIII che della letteratura si servisse come istrumento di civiltà su tutta l’Europa44.

40 CARDUCCI, Opere, XVIII, p. 219. 41 Ivi, p. 201 e p. 188.

42 Si veda § 1.1 e relativa bibliografia; TISSONI, Carducci umanista, cit., pp. 55-6.

43 Si veda la lettera del 21 maggio 1867 a Berbèra nella quale Carducci battaglia con l’editore rimproverandogli le sue mancanze e imponendo per il lavoro sul Petrarca il proprio taglio: «un lavoro nuovo, raccolto il meglio dei lavori varii, con qualcosa di più; un lavoro insomma come Le suggerii nel 1860 e che ora modificherei in meglio, e restringerei un poco per amore di sobrietà artistica», CARDUCCI, Lettere, V, pp. 116.

44 Lettera del 28 maggio 1862 a Narciso Feliciano Pelosini, CARDUCCI, Lettere, III, pp. 150-1; si veda anche la lettera alla Bartolini del 22 gennaio 1862, quella del 26 gennaio a Chiarini, ivi, p. 13 e p. 18. Sulle ventitré Lezioni su la vita e le opere di Francesco Petrarca, pronunciate in gran parte nell’anno accademico 1861-1862 e in minima all’inizio dell’anno accademico successivo, si rimanda a VINICIO

PACCA, Le lezioni petrarchesche del giovane Carducci, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», X, 1-2, 2007,

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Nel maggio del 1863, in una lettera a Chiarini afferma che anche per la poesia amorosa preferisce a Dante «il divino Petrarca», perché quest’ultimo è «vero analizzatore dell’animo, e appassionato umanamente»45. Petrarca prende il posto di

Dante, il poeta idolatrato nella giovinezza, nelle grazie di Carducci.

La prima intenzione sul corso dell’anno accademico 1862-1863 è sintetizzata in una lettera del 25 ottobre a Chiarini: Carducci intende trattare la Vita Nuova e il Canzoniere «prendendoli come centro a tutta la poesia italiana del Duecento»46. Nella

stessa lettera accenna all’idea di pubblicare i contenuti del corso in forma di saggio e sotto il titolo di La gioventù di Dante, e la poesia lirica del secolo XIII47. Le lezioni, poi,

prendono un’altra direzione. Ne fa una sintesi, a maggio, ancora a Chiarini, al quale scrive di averne dedicate «due o tre» alle prime attestazioni della lingua italiana, una decina alla storia della lingua avanti all’anno Mille, quattro alla poesia latina e a quella tardolatina. Aggiunge di volerne fare un paio sulla poesia provenzale e alla sua influenza su quella italiana e confessa che queste analisi di taglio storico-critico gli sono «riuscite faticosissime oltre il solito, e proprio ammazzatoie» perché non ha potuto lavorare su «libri moderni (eccetto Fauriel)» e si è ridotto a «raccapezzare, compilare, frugare qua e là in tutti gli antichi»48. Gli ha dato, però, un qualche sollievo

illustrare le poesie del Petrarca e confrontarle con la Vita nova di Dante. L’anno 1863-1864 è ancora la volta della poesia del Duecento, della Vita nova e, nell’ultima parte del corso, di una serie di raffronti tra Dante e Petrarca. Il corso del 1864-1865 è monopolizzato dalla prima metà dei canti del Purgatorio; della seconda metà avrebbe trattato nel 1865-1866.

In questo giro d’anni, Dante è una presenza costante nelle lezioni universitarie; del resto, Carducci lo studia con passione fin dall’adolescenza. Inoltre, nel 1865 ricorre il sesto centenario della nascita di Dante: è un’occasione preziosa per Carducci, che intende proporre studi originali basati su un’erudizione e una competenza testuale insuperabili, e affermarsi come dantista. Spinto da queste motivazioni, a maggio si reca a Firenze, neocapitale del Regno, per prendere parte alle celebrazioni del centenario. Il 14, all’Università di Firenze, tiene il discorso Dei principî informatori dell’antica letteratura italiana. Pochi giorni dopo presenta lo studio Le Rime di Dante comparate a quelle degli altri Poeti del suo tempo, che sarà poi pubblicato nella miscellanea Dante e il suo secolo. Sulla «Nuova Antologia», tra il 1866 e il 1867, pubblicherà a puntate lo studio Della varia fortuna di Dante: una storia della ricezione dantesca destinata, però, a rimanere incompiuta.

45 Lettera del 21 maggio 1863 a Giuseppe Chiarini, ivi, p. 345. 46 Ivi, p. 221.

47 Ibidem.

48 Ivi, p. 344. È ragionevole ritenere che il libro di Fauriel al quale Carducci accenna sia M. FAURIEL, Dante et les origines de la langue et de la littérature italiennes: cours fait à la Faculté des lettres de Paris,

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Nel complesso, gli studi e i corsi universitari di questi anni gettano le basi per i cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale, ai quali Carducci lavorerà intensamente dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Settanta: la lunga e difficoltosa stesura è indice dell’ostinazione con la quale Carducci cerca di mettere a punto la storia della tradizione letteraria italiana e il suo canone, al fine di fissare in modo definitivo in che modo lo spirito nazionale si sia realizzato e debba continuare a realizzarsi nella letteratura, corroborando l’identità culturale del Paese49.

1.3. L’impiegato regio in attesa della rivoluzione

Al di là delle difficoltà iniziali, il Carducci maggiore nasce a Bologna, e non è immaginabile altrove. È a Bologna, infatti, che attraverso un difficile processo di radicamento il suo profilo di intellettuale, di letterato e di poeta cambia e si definisce. Determinante per la sua maturazione è il clima di rinascita culturale che la città sta vivendo: ben presto Carducci ne è coinvolto fino a diventarne uno dei maggiori protagonisti. Nell’ottobre del 1862 è nominato socio corrispondente della Commissione per i Testi di Lingua, istituita due anni prima da Farini e diretta da Francesco Zambrini50. Nel 1863, su invito del presidente Francesco Gozzadini51,

entra a far parte della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna, anch’essa voluta nel 1860 da Farini; per dieci anni, a partire dal 1865, vi svolgerà la funzione di segretario e nell1887, alla morte di Gozzadini, ne sarà acclamato

49 Su questo tema, MATTEO LEFÈVRE, «Dello svolgimento della letteratura nazionale»: Giosuè Carducci e le

lezioni bolognesi del triennio 1868-1871, in Scrittori in cattedra. La forma della lezione dalle Origini al Novecento, a

c. di Floriana Caletti, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 139-52 ed ENRICO ELLI, Un’idea di canone. Foscolo,

Carducci, Pascoli, Novara, Interlinea, 2006.

50 Con una lettera datata 24 ottobre 1862 Zambrini informa Carducci che due giorni prima il ministro della Pubblica Istruzione, Carlo Matteucci, lo aveva nominato «Socio corrispondente alla R. Commissione per la pubblicazione de’ testi di lingua inediti o rari nelle Province dell’Emilia», VEGLIA,

“La vita vera”, cit., p. 98. La Commissione era nata nel 1860 e Carducci ne aveva scritto a Chiarini

nell’inverno del 1860-1861. Nel maggio del 1862, nella libreria Romagnoli, aveva conosciuto il presidente della Commissione, Francesco Zambrini. Nato a Faenza nel 1810, Zambrini è filologo autodidatta, dedito all’edizione di antichi testi volgari; presidente della Commissione per i testi di lingua nel 1860, nel 1861 inizia la compilazione della Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal sec. XIII al

XVII; nel 1868 fonda il periodico letterario «Il Propugnatore», di cui nel 1888, morto l’anno prima

Zambrini, Carducci sarà eletto presidente (si rimanda a EMILIO PASQUINI, Storia e caratteri del

«Propugnatore», in Atti del Convegno di studi in onore di Francesco Zambrini nel centenario della

morte (Faenza, 10-11 ottobre 1987), Faenza, Faenza Litografica, 1989, pp. 119, 139-40. La sua opera maggiore è il catalogo ragionato Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV). Per la Commissione scrive Della scelta di curiosità letterarie inedite o rare, edito a puntate sulla «Rivista italiana di scienze, lettere ed arti» del 1863. Lo si legge in CARDUCCI, Opere, XII, pp. 3-62. Si rimanda a MARIA GRAZIA

ACCORSI, Dalla «Diamante» ai Testi di Lingua, in Carducci e Bologna, cit., pp. 145-54.

51 Giovanni Gozzadini (Bologna, 1810 – ivi, 1887), storico e archeologo, è autore di numerose opere di storia bolognese (Studi archeologici e topografici sulla città di Bologna, 1868) e ampie monografie di archeologia. Scoprì il sepolcreto di Villanova e l’etrusca Marzabotto. Nel 1860 è senatore del Regno d’Italia; nell1881 è socio nazionale dei Lincei.

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presidente52. L’ingresso in queste istituzioni risorgimentali, nate per tutelare il

patrimonio storico-letterario del bolognese e restituirlo, tramite pubblicazioni, alla comunità nazionale, gli consente di scoprire la storia di quel territorio e di comprendere più a fondo quanto varia e complessa sia la compagine del neonato Regno d’Italia. È quest’ultima un’acquisizione di valore sostanziale, che procede dall’allontanamento, seppur sofferto, da Firenze e dal microcosmo della Toscanina ex-granducale e che alimenterà la sua erudizione e il filone storico-paesaggistico della sua poesia53.

Nello stesso giro d’anni, Carducci si inserisce nel tessuto politico di Bologna e la sua voce d’opposizione al governo dei moderati acquista gradualmente un rilievo pubblico: coopera con la Società operaia, milita nell’Unione Democratica, si affilia alla Massoneria bolognese54. In una prima fase, però, tra il 1861 e il 1863, rivede “in

solitaria” i propri ideali politici e rigetta le posizioni conciliatorie e filosabaude che avevano caratterizzato il suo ultimo biennio toscano. La linea dei governi moderati successivi alla morte di Cavour (6 giugno 1861) lo indigna: ne disprezza l’indifferenza rispetto ai problemi sociali del paese e l’incapacità di portare a termine il processo di unificazione nazionale; per reazione, si attesta su posizioni democratiche, anticlericali, rivoluzionarie.

All’inizio del 1862 i suoi idoli politici sono «la plebe» e Garibaldi, che ritiene in grado di sbaragliare i moderati, di conquistare Roma con le armi e di sovvertire persino l’assetto sociale del Paese: «la rivoluzione mugge nell’aere – profetizza –, vasta, densa, terribile: scoppierà su tutta Europa, divina come una procella d’Omero»55. Nel contempo, il suo anticlericalismo si inacerbisce. Le manifestazioni

filopapaline che si svolgono in Toscana tra il gennaio e il febbraio 1862 lo irritano: scrivendone a Chiarini, le addebita alle sobillazioni del governo Ricasoli, impegnato in una fallimentare strategia diplomatica; giudica, poi, «osceno» che i figli e i nipoti dei patrioti toscani osannino il «carnefice del pensiero umano», il «grande assassino cattolico» Pio IX, al quale, da parte sua, augura di morire presto e male, per mano del

52 Si trattava di una carica a vita. Si rimanda a GIORGIO CENCETTI, Giosuè Carducci nella Deputazione

di Storia Patria, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», n.s.,

IX, 1957-1958, pp. 3-18, e a GINA FASOLI, Il professor Carducci, in Carducci e Bologna, cit., pp. 169-76. Nel

1896 Carducci rievocherà questa esperienza in Risposta ai socii della Deputazione di Storia patria, in CARDUCCI, Opere, XXV, pp. 403-5.

53 Ne tratta en passant ma con mirabile perspicuità CARLO DIONISOTTI, Culture regionali e letteratura

nazionale in Italia, in Culture regionali e letteratura nazionale, Atti del VII Congresso dell’Associazione

Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana (Bari, 31 marzo – 4 aprile 1970), Bari, Adriatica, 1974, pp. 13-27: 27.

54 Su Carducci massone si rimanda ai recenti ALDO A.MOLA, Giosue Carducci. Scrittore, politico,

massone, Milano, Bompiani, 2006 e VEGLIA, “La vita vera”, cit., pp. 121-6.

55 Lettera del 4 febbraio 1862 a Diego Mazzoni, CARDUCCI, Lettere, III, p. 27. Si veda anche la lettera del 6 febbraio 1862 a Giuseppe Chiarini: «A Roma non si va che colla rivoluzione e non ci si ferma che colla rivoluzione», ivi, p. 34.

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«boia» della rivoluzione, e di tirarsi dietro tutti i membri del governo, bollati come malfattori e antilluministi56.

È chiaro che il mito del «re galantuomo» e l’ideale della conciliazione utile tra principio monarchico e principio popolare sono superati. Carducci sente, anzi, la necessità di mettere in chiaro a che patto continua a tenere la cattedra e ad essere quindi, a tutti gli effetti, un «impiegato regio»:

lo stipendio lo prendo perché lavoro per la società e non servo chi amministra – scrive a Pelosini – […] quando io credessi, per parlar chiaro, la regalità inconciliabile con la democrazia, io rifiuterei gli stipendi e tornerei a viver col mio lavoro; come ho fatto per due intieri anni, sebbene non avessi nulla di mio, e avessi famiglia. Ma potrebbe anche darsi che, prima che mi risolva io, si risolvan quei signori a mandarmi via57.

Segno minore, ma inequivocabile, di questi nuovi orientamenti è l’inquietudine con la quale vive l’assegnazione della Croce di Cavaliere mauriziano di Casa Savoia, nel giugno del 1862: per lui si apre improvvisamente un caso di coscienza. In un primo momento, pensa di rifiutare l’onorificenza, poiché la ritiene un attentato alla propria libertà e un simbolo di sottomissione al governo; scrive quindi una lettera di rinuncia, che invia, per un consulto, a Chiarini; in essa afferma la propria fedeltà sia alle istituzioni monarchiche, sia alle proprie idee: dopo essersi dichiarato devoto alla «maestà del Re», definisce se stesso «un uomo educato nei principi della rivoluzione, un uomo di convinzioni democratiche» e la Croce «un resto del feudalismo e del medio evo»58. Sono parole pesanti. Finirà, però, per non spedire la lettera e accettare

la Croce.

In realtà, dei lacci della prudenza Carducci si sarebbe liberato di lì a poco. Se ancora nel febbraio del 1862 si era definito un «esigliato dal mondo», un idealista in mezzo ai «malvoni» bolognesi, uno che «rumina» in solitudine i suoi «fremiti» politici e che non cerca guai59, a dicembre si vanta di aver avuto l’«ardimento» di pronunciare

di fronte allo stato maggiore dell’università di Bologna, Reggente filogovernativo

56 «È la politica di Piazza Castello e de’ capitoli e delle bigotterie che vuol sempre schiavo il pensiero e inceppata la ragione. Dar libertà al male, intronare sopra la ragione e istaurare la morte e la servitù! Ché il papa è morte e servitù. Oh via imbecilli!». In Piazza Castello, a Torino, è situato il Palazzo reale. Questo brano è tratto dalla lettera del 6 febbraio 1862 a Giuseppe Chiarini, CARDUCCI,

Lettere, III, pp. 34-5. Tutta la lettera è contraddistinta da un tono feroce e immagini cruente; oltre a

questa, se ne riporta un’altra porzione, notevole per stile e contenuti, poiché vi si afferma che la rivoluzione è l’unico mezzo per fare di Roma la capitale del Regno d’Italia: «E credi tu che s’anderà a Roma? Le son baie. A Roma non si va che colla rivoluzione; la quale rompa colla scure del boia la falsa cattedra di San Pietro… Io per me grido morte al papa, morte sempre al papa, morte al papa re e prete, carne e spirito, passato e presente e futuro: morte morte morte mille milioni di morti», ibidem.

57 Lettera del 28 maggio 1862 a Narciso Feliciano Pelosini, in CARDUCCI, Lettere, III, p. 153. 58 Lettera del 14 giugno 1862 a Giuseppe Chiarini, ivi,pp. 164-5.

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incluso60, una prolusione «assai rivoluzionaria» e di «idee democratiche»61. Nel mezzo

c’è la partecipazione alle attività della Società Operaia, dove ha allacciato i primi contatti con la massoneria, i mazziniani e i repubblicani felsinei62. Non solo: ad

alimentare il suo disprezzo per i moderati, rei di ostacolare la guerra di popolo per la liberazione di Roma e di Venezia, erano occorsi i fatti di Aspromonte (29 agosto 1862), che avevano drammaticamente rivelato l’irriducibile contrapposizione tra il governo e l’esercito regolare, ligi agli ultimatum francesi, da un lato, e il mondo democratico, garibaldino e rivoluzionario dall’altro. Il ferimento, l’arresto e l’incarcerazione di Garibaldi63, la fucilazione di alcuni volontari, gli arresti di massa

delle camicie rosse e la messa al bando delle associazioni garibaldine avevano segnano un punto di non ritorno. Mai fino a quel momento si era rivelata con tanta evidenza l’inconciliabilità tra la via governativa e la via rivoluzionaria all’unificazione del Paese e alla risoluzione della questione romana.

Ai fatti di Aspromonte erano seguiti mesi di instabilità politica: il governo aveva sospeso gran parte delle garanzie costituzionali, aveva proclamato lo stato d’assedio nel Meridione e relegato nell’illegittimità i rivoluzionari che avevano tentavano di risolvere la questione romana con una nuova spedizione dei Mille. Da questi eventi le idee politiche di Carducci escono radicalizzate. Di nuovo, è l’epistolario a fornirne le prove: definisce l’«Italia puttana»64, teme le ingerenze della Francia65, impreca contro

Rattazzi ed è pronto a prendere «a calci nel culo» il Parlamento nel caso in cui non lo

60 Cioè il rettore, Antonio Montanari (Meldora, Forlì, 20 ottobre 1811 – Meldora, Forlì, 6 aprile 1898), in carica dal 1859 al 1868; nel 1860 è nominato senatore. Di orientamento liberale, è amico intimo di Marco Minghetti e Luigi Carlo Farini.

61 Rispettivamente la lettera a Carlo Gargiolli del 10 dicembre 1862 e quella di Luigi Billi del 20 dicembre 1862, in CARDUCCI, Lettere, III, p. 250 e p. 257.

62 A Bologna, nella primavera del 1860, il conte Livio Zambeccari (Bologna, 1802 – ivi, 1862), patriota e personaggio di spicco della rinascente massoneria italiana, promuove la nascita dell’Associazione degli Operai, che l’anno successivo assume il nome di Società Operaia. Obiettivo della Società è offrire mezzi di mutuo soccorso ai lavoratori e, più in generale, tutelarne i diritti e garantirne il benessere e la promozione culturale. La fondazione della Società Operaia non è un esperimento isolato, bensì rientra in più un ampio quadro d’iniziative volte a far guadagnare alla massoneria un ruolo di primo piano nella società ed è segno della spiccata vocazione politica che contraddistingue la massoneria italiana. Sulla rifondazione e il rinnovamento, all’inizio degli anni Sessanta, della Massoneria italiana, sono fondamentali FULVIO CONTI, Storia della massoneria italiana: dal

Risorgimento al fascismo, Bologna, il Mulino, 2003 e ID., Massoneria e religioni civili: cultura laica e liturgie

politiche fra XVIII e XX secolo, Bologna, il Mulino, 2008; sulla Società Operaia bolognese, si rimanda a

MARIO MARAGI, Storia della Società Operaia di Bologna, Imola, Cooperativa P. Galeati, 1970, e a FIORENZA TAROZZI, Quirico Filopanti e la Società Operaia di Bologna (1860-1872), in Quirico Filopanti. Studi

e ricerche, introduzione di Aldo Berselli, Budrio, Tipografia Montanari, 1980, pp. 67-95.

63 Sarà poi rilasciato poco più di un mese più tardi in virtù di un provvedimento di amnistia, firmato dal re il 5 ottobre 1862; si veda SCIROCCO, Garibaldi, cit., pp. 322-3.

64 Lettera del 22 agosto 1862 a Narciso Feliciano Pelosini, CARDUCCI, Lettere, III, p. 197. 65 Lettera del 27 agosto 1862 a Isidoro Del Lungo, ivi, p. 202.

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avesse sfiduciato66. All’inizio del 1863 guarda alla Polonia, insorta contro

l’occupazione russa, e spera che possa risollevare le sorti della «rivoluzione europea»:

Oh! No, no, tutta l’Europa non è come questa svergognata Italia che s’adagia nello scetticismo e nella decrepitezza rimbambita impostale dai suoi padroni, per far dimenticare al mondo che anche ella osò essere generosa a Venezia, a Roma e a Brescia e nel ’62. Ma la rivoluzione europea, se Dio vuole, s’avvicina; allora risveglieremo Italia e anche Francia67.

Ancora si tiene in disparte rispetto alla ribalta politica. A Cristiani, nel marzo del 1863, scrive di fare vita ritirata, quasi da asceta, perché le sue idee lo costringerebbero «a contendere e leticar sempre con tutti», dato che a Bologna «la combriccola dominante fa e dice cose orribili stomachevoli incredibili»68. Eppure, il suo

massimalismo è destinato a tradursi, di lì a poco, nella scelta di una maggiore esposizione pubblica.

Nell’agosto del 1864 Carducci è a Firenze per uno dei suoi “soggiorni filologici”; qui sottoscrive una protesta per la mancata autorizzazione di un comizio guerrazziano69. Pochi giorni più tardi un giornaletto fiorentino, «La Chiacchiera», lo

accusa di maledire il re e un altro, «Il Fischietto» di Torino, di essere repubblicano70.

A Bologna girano voci di una sospensione o di una destituzione punitiva; il 18 agosto la moglie Elvira gliene scrive preoccupatissima; Carducci le risponde sereno: non teme di perdere il lavoro e ritiene che «il diritto» sia dalla sua, tant’è che non intende anticipare il rientro a Bologna per occuparsi della questione. Una settimana più tardi, da Firenze, dove continua le sue ricerche in Laurenziana, scrive a Luigi Prezzolini71,

«Gigi», suo amico e impiegato del Ministero dell’Istruzione: con risoluta stringatezza,

66 Lettera del 29 novembre 1862 a Giuseppe Chiarini, ivi, p. 240. 67 Lettera del 9 febbraio 1863 a Louisa Grace Bartolini, ivi, p. 293. 68 Lettera del 16 marzo 1863 a Ferdinando Cristiani, ivi, p. 307.

69 Il testo della sottoscrizione si può leggere in «La Civiltà Cattolica», a. XIV, s. V, vol. V, 1863, parte I, pp. 632-3. Oltre a Carducci, firmano Francesco Domenico Guerrazzi, Lorenzo Niccolini, Luigi Guicciardini, Dionisio Carrara, Odoardo De Montel, Raffaello Bruti, Giacomo Alvisi e Emilio Rudi. Questo l’antefatto: il 6 agosto i democratici richiedono di poter tenere un meeting in piazza degli Uffizi l’11 agosto 1864; in un primo momento, il gonfaloniere di Firenze concede l’autorizzazione, poi, su richiesta del governo, deve ritirarla. Da lì, la lettera, nella quale si protesta conto «la violenza e l’arbitrio» del ministro degli interni e si chiede il rispetto dello Statuto.

70 Lettera del 18 agosto 1864 alla moglie Elvira e lettera del 25 agosto 1864 a Luigi Prezzolini, CARDUCCI, Lettere, IV, pp. 87-9.

71 Luigi Prezzolini (1836-1900) è segretario del barone Bettino Ricasoli (1809-1880), sottoprefetto e infine prefetto del Regno d’Italia. Tra il 1884 e il 1889 è prefetto delle Prefetture di Grosseto, Sondrio, Macerata, Belluno, Reggio Emilia, Udine e Novara. Martini lo definisce «uno dei funzionari più intelligenti e più colti, fra quanti n’ebbe il nuovo Regno d’Italia», in FERDINANDO MARTINI,

Confessioni e ricordi (Firenze granducale), Firenze, Bemporad, 1922, p. 211, e De Amicis lo ricorda come

uno dei «lettori infaticabili» del salotto Peruzzi, in EDMONDO DE AMICIS, Un salotto del secolo scorso, Barbèra, Firenze, 1902, p. 73. Così Giuseppe Prezzolini (1882-1982) ricorda il padre Luigi: «Il primo letterato che conobbi fu mio padre. Veramente, mio padre era Prefetto, ma, uomo d’una bella cultura umanistica, portava, con sé, di residenza in residenza, una biblioteca», in GIUSEPPE PREZZOLINI,

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gli ribadisce di essere un uomo coerente, onesto, fedele al re che lo ha nominato («s’io avessi la convinzione che la forma repubblicana convenisse all’Italia, a quest’ora avrei già obbedito alla mia coscienza e, chiesta la dimissione, mi sarei sciolto dalla fedeltà giurata al re»); si svincola, però, dall’obbedienza al governo; chiede soltanto che lo si informi per tempo di un’eventuale destituzione o sospensione, al solo fine di «accomodare la famiglia»72. La vicenda si conclude senza ripercussioni; il Ministro

dell’Istruzione Michele Amari73 decide di non prendere alcun provvedimento74.

Neanche un mese più tardi, lo spostamento della capitale da Torino a Firenze, in seguito agli accordi stipulati tra la Francia e il Regno d’Italia75, lo lascia interdetto e

indignato; di primo acchito, la scelta della «Neo-Mecca»76 gli pare una rinuncia alla

conquista di Roma77.

Qualche settimana più tardi, scrivendo alla Bartolini, dopo aver ribadito attraverso i versi di Gasparo Gozzi d’appartenere alla «turba cheta de’ minchioni»78,

politicamente imbelli perché attanagliati da problemi materiali, rivaluta il trasferimento della capitale: pur disgustato all’idea che la città di Dante, Machiavelli e Savonarola venga invasa da orde di «Eccellenze» e «Onorevoli», considera positivo che la monarchia si spiemontizzi e si radichi nel centro Italia, a Firenze, «in mezzo

72 Lettera del 25 agosto 1864 a Luigi Prezzolini, in CARDUCCI, Lettere, IV, p. 88.

73 Michele Amari nasce a Palermo il 7 luglio 1806. Per la sua opposizione ai Borbone è costretto all’esilio in Francia; qui intraprende lo studio della lingua araba, che gli consente di progredire nelle sue ricerche sulla Sicilia musulmana. È in Sicilia nel biennio 1848-’49 come deputato del parlamento siciliano; ricopre anche la carica di ministro delle Finanze. Rientrato a Parigi, entra in contatto con i circoli mazziniani e con Mazzini. Nel 1860 è in Italia. Appoggia la linea cavouriana. Nel 1861 è senatore del Regno d’Italia; nel governo Farini è ministro dell’Istruzione dal 1862 al 1864; dal 1860 al 1873 è docente di lingua araba nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Muore a Firenze il 16 luglio 1889. Tra le sue opere si ricordano: Storia dei Musulmani di Sicilia, 1854-1872; Biblioteca

Arabo-Sicula, 1857-1887; Le epigrafi arabiche di Sicilia, 1875-1885.

74 «Amari sa chi tu sei e ti stima. Tu non sarai né destituito né sospeso. “L’aver avuto in poesia buon gusto / La fotta che facesti ti perdona”». Così si legge nella lettera che da Torino Luigi Prezzolini invia il 27 agosto 1864 a Carducci, per rispondere alla sua del 25; si veda CARDUCCI, Lettere, IV, p. 361 e pp.

88-9.

75 Tali accordi, noti come Convenzione di settembre, vengono stipulati il 15 settembre 1864 tra il Regno d’Italia (ministro degli Interni, allora, era il bolognese Marco Minghetti, succeduto l’anno prima a Farini alla presidenza del consiglio, e ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta) e la Francia di Napoleone III. Essi prevedono il ritiro entro due anni delle truppe francesi di presidio a Roma e la rinuncia da parte dell’Italia a invadere lo Stato Pontificio. Ulteriore clausola, che inizialmente si voleva segreta, della Convenzione è l’impegno da parte italiana a trasferire, entro sei mesi, la capitale da Torino a Firenze, come segno di rinuncia a Roma capitale.

76 Lettera del 23 settembre 1864 a Pietro Dazzi, in CARDUCCI, Lettere, IV, p. 95; di «Nuova-Mecca» parla anche nella lettera del 27 settembre a Gargiolli, ivi, p. 97, p. 105.

77 «E verrà stagione che io riversi il veleno che ora inghiotto, e solo col fiato appesti questa infame società che io nono potrei odiare tanto quanto ella si merita. Merda! Io sono un pipistrello – che va cantando chiù, e a Roma, messer Piero, e’ non ci si va più», ivi, p. 95.

78 Carducci cita alcuni versi di I novellieri uggiosi (vv. 22-31) di Gasparo Gozzi; si possono leggere in

Scritti di Gasparo Gozzi, con giunta di inediti e rari, scelti e ordinati da Niccolò Tommaseo, Napoli,

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