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Gli strumenti di comunicazione e la conservazione della natura nel Lazio: analisi di efficacia ed efficienza delle strategie utilizzate per sostenere gli interventi di tutela

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Academic year: 2021

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(1)UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA DI VITERBO. DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECOLOGICHE E BIOLOGICHE. Corso di Dottorato di Ricerca in ECOLOGIA E GESTIONE DELLE RISORSE BIOLOGICHE- XXV ciclo. GLI STRUMENTI DI COMUNICAZIONE E LA CONSERVAZIONE DELLA NATURA NEL LAZIO: ANALISI DI EFFICACIA ED EFFICIENZA DELLE STRATEGIE UTILIZZATE PER SOSTENERE GLI INTERVENTI DI TUTELA ( s.s.d. BIO/07). 1.

(2) “Potrebbero morire pesci o uomini, il bagno nei mari o nei fiumi potrebbe causare malattie, potrebbe non esserci più benzina nei distributori e la temperatura media potrebbe crescere o calare: fino a che su di questo non si comunica, ciò non ha alcun effetto sociale. La società è certo un sistema sensibile, ma operativamente chiuso. Osserva solo attraverso comunicazioni”. (Niklas Luhmann). 2.

(3) Abstract Una delle criticità universalmente riconosciute nella gestione di aree protette è l’intensità della pressione antropica a cui sono sottoposti gli elementi naturali da preservare. Concettualmente sono state avanzate, negli ultimi duecento anni, molte ipotesi di gestione dei territori protetti, tra le quali un modello estremo che prevede la non ingressione dell’uomo su superfici significative (“aree integrali”) oppure, quale alternativa opposta, un sistema di governance che trasforma aree naturalisticamente rilevanti in riserve, dove il mantenimento di popolazioni selvatiche è garantito esclusivamente da surplus energetici (trofici) o da altri servizi (ad esempio veterinari) forniti dall’uomo. Tra le diverse tipologie di attività gestionali di un’area naturale protetta svolgono un ruolo di primaria importanza quelle inerenti alla comunicazione/informazione/fruizione territoriale spesso collegate all’ecoturismo. Tali attività gestionali rispondono -o almeno dovrebbero rispondere- ad alcuni importanti requisiti quali: la minimizzazione dell’impatto ambientale, il miglioramento nella conoscenza dei sistemi naturali e culturali e la maggiore tutela e valorizzazione del patrimonio naturale. La valutazione della pressione antropica, espressa in termini di numero di visitatori/fruitori/residenti, è tesa a stimare il numero massimo di individui che insistono contemporaneamente in un’area. Nello stesso tempo la pressione antropica è condizionata dalle infrastrutture presenti in un territorio, che a loro volta incidono sugli home-range delle specie, sui passi migratori, sulle aree riproduttive, sugli spostamenti, ecc. Per questo lavoro di tesi sono state prese in considerazione e sistematizzate, per la prima volta,. le. informazioni. relative. all’insieme. delle. infrastrutture. (stradali. e. di. “comunicazione”) che insistono sul sistema delle Aree Protette della Regione Lazio, calando il dettaglio su tutte le amministrazioni comunali che sono state interessate da iniziative di comunicazione finalizzate ad ottenere un elevato livello di coinvolgimento. Nello specifico è stato analizzato un programma di comunicazione, attuato dalla Regione Lazio nel triennio 2008-2010, che prevedeva un ampio calendario di escursioni ed eventi di comunicazione/animazione naturalistica organizzati all’interno di aree naturali protette.. 3.

(4) Nel presente lavoro, i dati relativi al numero di eventi di comunicazione/animazione naturalistica realizzati nel triennio 2008-2010 all’interno del Sistema Regionale delle Aree Naturali Protette, sono stati messi in relazione con: i) la rete infrastrutturale, intesa come l’estensione delle vie di comunicazione (strade, autostrade, ferrovie) in relazione alle dimensioni di un’area di riferimento (Indice di densità Infrastrutturale, DI), prese in esame secondo l’approccio della road ecology. ii) le strutture deputate alla comunicazione/informazione/educazione presenti sul medesimo territorio. I centri prescelti come area di studio sono stati i comuni ricadenti in area protetta interessati, nel periodo 2008-2010, dal parametro “eventi” e/o dal parametro “strutture”. In totale sono stati presi in considerazione 107 comuni, distinti su base provinciale. In questo lavoro si è inteso inoltre verificare se il pattern relativo al numero di eventi di comunicazione/animazione è coerente o meno con una strategia finalizzata alla sistematizzazione delle attività di comunicazione/informazione/sensibilizzazione svolte dagli enti preposti, a vari livelli, alla gestione di un’area protetta (regioni, province, enti parco, comuni ecc.) nonché l’individuazione di criteri che consentano in futuro di orientare efficacemente i programmi di comunicazione a livello di network di aree protette. I risultati ottenuti hanno messo in luce:. 1. Una ridotta capacità programmatica del Sistema delle Aree Naturali Protette della Regione Lazio nella gestione delle attività inerenti la performance sociale. Le porzioni di territorio protetto esaminate su ambito provinciale manifestano infatti una tendenza a comportarsi in maniera disomogenea - a livello quantitativo e temporale- denunciando una scarsa propensione alla concertazione e all’organica messa a sistema delle attività di comunicazione. Frosinone e Roma, per motivi diversi, sono le province con il comportamento meno omogeneo. 2. La profonda eterogeneità nell’estensione della rete viaria nelle cinque province del Lazio (RM, LT, RT, VT e FR), sembra influenzare lo svolgimento e le performance dell’insieme degli eventi di comunicazione, anche se le differenze nel numero di eventi tra province non sono risultate sempre significative. 3. Il numero medio di eventi, calcolato al livello di ciascun comune, più elevato (così. 4.

(5) come la variabilità intra-provinciale) si riscontra in provincia di Roma. La provincia di Frosinone spicca per il valore medio e la variabilità più bassi se confrontati con le altre province. 4. Il percorso metodologico, basato sulla trattazione fine dei dati relativi alla pressione antropica, ha fornito, al fine della programmazione a medio e lungo termine, indicazioni univoche e immediatamente fruibili. 5. Il numero totale di eventi nel triennio 2008-2010, che si svolgono nell’insieme dei comuni interessati dalla presenza di aree protette, è risultato positivamente correlato con numero di strutture e densità infrastrutturale, suggerendo che la presenza sul territorio protetto di servizi per il visitatore giornaliero ha inciso sulla performance degli eventi di comunicazione. 6. Per quel che concerne la pianificazione temporale (stagionale e settimanale) degli eventi di comunicazione/animazione naturalistica si evince (ed è confermato un atteso) che tutte le province si affidano a determinati periodi di elezione, ossia primaveraestate e week-end (sabato, domenica) benché emergano differenti pattern stagionali tra le varie province. Si ritiene che la metodologia messa a punto e i risultati conseguiti permetteranno di supportare la definizione di regole e strumenti di indirizzo contribuendo a migliorare l’efficacia della governance del territorio ricadente in ambiti naturalisticamente importanti.. Per quanto riguarda la possibilità di applicare tale metodologia di ricerca ad altri sistemi o network di aree protette si possono ipotizzare alcune attività quali: -. la valutazione periodica dell’efficacia della pianificazione integrata riguardante attività di comunicazione/animazione/educazione su scala regionale nelle aree protette e/o in aree naturalisticamente importanti (come ad esempio i siti della Rete Natura 2000);. -. l’individuazione di strumenti idonei per comunicare agli amministratori l’importanza di programmare e di pianificare efficacemente gli eventi e le iniziative di promozione territoriale, tenendo conto della conservazione del patrimonio naturalistico;. -. l’integrazione della componente comunicazione/informazione negli strumenti di gestione e promozione delle Aree Naturali Protette (regolamento, piano del parco e piano socioeconomico, piani di gestione dei siti della Rete Natura 2000, misure minime di conservazione, contratti d’area);. 5.

(6) -. la possibilità di sottoporre ad analoga verifica di efficacia e coerenza anche altri progetti realizzati a livello di sistema di aree protette, incluse le attività connesse alla tutela della biodiversità (censimenti, monitoraggi ecc);. -. la possibilità di inserire nel modello il numero dei partecipanti, acquisiti attraverso modalità tecnologicamente avanzate di prenotazione (via web; smartphone ecc). Tale variabile consentirebbe una misura reale e diretta della pressione antropica su territori sensibili.. Parole chiave: Pressione antropica, Gestione dei flussi turistici, Sistema Regionale delle Aree Naturali Protette, Lazio, dinamica temporale, serie storiche, progetti di sistema, comunicazione, Governance. 6.

(7) Abstract. pag. 4. Indice. pag. 7. Capitolo 1. Obiettivi dello studio e indicatori 1.1 Obiettivo dello studio. pag. 9. 1.2 Gli indicatori. pag. 12. 1.3 Il modello DPSIR. pag. 12. 1.3 Cenni sul turismo naturalistico e indicatori turistici. pag. 15. 1.4 Cenni sugli indicatori di densità infrastrutturale. pag. 20. 1.5 La “Road Ecology”. pag. 22. Capitolo 2. I contesti di svolgimento della ricerca 2.1 Breve storia delle Aree protette in Italia. pag. 27. 2.2 Le normative nazionali e regionali sulle aree protette. pag. 30. 2.3 I parchi regionali. pag. 34. 2.4 Le politiche internazionali. pag. 37. 2.5 Le politiche comunitarie. pag. 39. Capitolo 3. Cenni di comunicazione, sensibilizzazione, educazione e promozione territoriale 3.1 La comunicazione Pubblica nelle aree naturali protette. pag. 41. 3.2. La comunicazione ecologica e la consapevolezza territoriale. pag. 43. 3.3 La comunicazione nell’ambito della conservazione della Natura e della Biodiversità: difficoltà e ostacoli. pag. 45. 3.4 L’educazione ambientale. pag. 47. Capitolo 4. L’area di studio 4.1 La Regione Lazio. pag. 51. 4.2 La dotazione infrastrutturale del Lazio. pag. 53. 4.3 Il Sistema Regionale delle Aree Naturali Protette. pag. 55. 4.4 Area di intervento della ricerca e progetti di riferimento. pag. 59. 4.5 Cenni sul turismo natura. pag. 64. 4.6 Le Giornate di animazione naturalistica del Sistema delle Aree Naturali protette della regione Lazio: il programma Giorni Verdi. pag. 67. 4.7 Attività di comunicazione e promozione del programma GiorniVerdi. pag. 70. 7.

(8) Capitolo 5 Materiali e metodi 5.1 Il reperimento e l’organizzazione dei dati. pag. 72. 5.2 Trattamento statistico-matematico dei dati. pag. 77. 5.2.1 Test U di Mann-Whitney-Wilcoxon. pag. 78. 5.2.2 Test per di Wilcoxon dei ranghi con segno. pag. 79. 5.2.3 Analisi di correlazione (test rho di Spearman). pag. 80. 5.2.4 Modelli Generali Linearizzati. pag. 81. 5.2.5 Criterio di scelta del modello. pag. 81. 5.2.6 Analisi delle serie storiche. pag. 82. 5.3 La classificazione delle serie temporali dal punto di vista ecologico 5.3.1 Le principali analisi delle serie temporali ecologiche. pag. 83 pag. 84. Capitolo 6 Risultati 6.1 I dati degli eventi di animazioni naturalistiche GiorniVerdi. pag. 93. 6.2 Andamenti degli eventi di animazione naturalistica 2008-2010. pag. 97. 6.2.1 Frosinone. pag. 99. 6.2.2 Latina. pag. 100. 6.2.3 Rieti. pag. 102. 6.2.4 Roma. pag. 103. 6.2.5 Viterbo. pag. 104. 6.3 Andamento giornaliero degli eventi di animazione naturalistica 2008-2010. pag. 106. 6.4 I dati delle strutture dedicate alla com./inf./edu./form.. pag. 115. 6.5 I dati dell’indice di densità infrastrutturale. pag. 117. 6.6 Analisi statistica descrittiva. pag. 127. 6.7 Analisi delle tendenze centrali e della variabilità. pag. 129. 6.8 Scelta del miglior modello mediante AIC (Akaike’s Information Criteria). pag. 140. 6.9 Analisi delle serie temporali a livello giornaliero (Fourier). pag. 143. 6.10 Analisi delle serie temporali (Exponential smoothing). pag. 147. 6.10.1 Valutazione della qualità delle previsioni. pag. 152. Conclusioni. pag. 153. Appendice. pag. 158. Bibliografia. pag. 245. Sitografia. pag. 254. 8.

(9) Capitolo 1 Obiettivi dello studio e indicatori 1.1 Obiettivo dello studio La politica delle aree naturali protette ha assunto, ormai, un rilievo istituzionale poiché ha disegnato una nuova geografia territoriale, che interessa tutte le regioni italiane, basata sulla riscoperta di antichi valori storici, sociali, culturali e ambientali (Bernetti e Marinelli, 1995). La rivalutazione dei parchi e delle riserve ha reso indispensabile l’attuazione di corrette politiche di organizzazione e gestione territoriale, le cui norme operative sono mutate contestualmente all’evolversi del concetto di area protetta. Quest’ultima, infatti, da “elemento di vincolo”, completamente separato dal contesto territoriale di riferimento, è successivamente reputata uno “strumento dinamico” capace d’integrarsi con la realtà locale mediante l’inserimento nei circuiti economici, sociali e culturali. Allo stato attuale delle conoscenze pare assodato che un’area protetta deve mirare al raggiungimento di una pluralità di obiettivi quali la conservazione delle aree, lo sviluppo della ricerca scientifica, la tutela dei paesaggi storici, la valorizzazione ricreativa del territorio, la ricerca di forme di sviluppo maggiormente rispettose dell’ambiente (Marangon e Tempesta, 1999). Tra le diverse tipologie di attività gestionali svolgono un ruolo di primaria importanza quelle riconducibili alla categoria della comunicazione istituzionale ai sensi della legge 150/2000 (Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni). L’articolo 1, comma 4, dichiara infatti che sono considerate attività di informazione e di comunicazione istituzionale quelle poste in essere in Italia o all'estero delle strutture dell’apparato pubblico finalizzate a: b) favorire la comunicazione esterna rivolta ai cittadini, alle collettività e ad altri enti attraverso ogni modalità tecnica e organizzativa; b) illustrare le attività delle istituzioni e il loro funzionamento; d) promuovere conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale; f) promuovere all’esterno l'immagine dell’amministrazione. Le istituzioni pubbliche hanno dunque l’obbligo giuridico di sviluppare strategie e azioni di comunicazione. Nel caso di un’area protetta ciò si concretizza anche attraverso la 9.

(10) diffusione di una più consapevole conoscenza dell’ambiente, ai fini di promuovere una nuova sensibilità nei confronti del territorio e dei beni in esso conservati, ma anche per instaurare un dialogo che coinvolga tutti gli attori in gioco, turisti e imprese, cittadini ed enti. Per far conoscere il territorio, certamente, ma anche per sviluppare quel senso di tutela e di salvaguardia nei confronti di beni “di tutti” e “per tutti”, di uno spazio comune da preservare dai naturali cambiamenti che il tempo apporta. Pianificare la comunicazione dell’ambiente e del territorio è dunque un processo che ciascuna organizzazione, pubblica, privata o partecipata, deve mettere in atto al fine di comunicare in modo efficace con il proprio pubblico di riferimento. Come abbiamo anticipato in precedenza, il presente lavoro di ricerca prende in considerazione il Sistema delle Aree Naturali Protette del Lazio e si pone la finalità di approfondire lo stato delle conoscenze circa la progettazione e lo svolgimento di questo genere di attività (vedi cap.4, § 4) anche al fine di trarne future indicazioni di gestione diretta del territorio. Si tratta in estrema sintesi di indagare la comunicazione istituzionale residuale, ossia quella non solo connessa agli obblighi funzionali della pubblica amministrazione (trasparenza e accesso agli atti ai sensi della legge 241/90 ss.mm.ii; ufficio relazioni con il pubblico) ma posta in essere al fine di migliorare il rapporto con cittadini, ovvero la comunicazione persuasiva, volta cioè ad ottenere la partecipazione emotiva e il consenso dei cittadini. Trattasi dell'attività comunicativa che elevando i livelli di condivisione delle politiche pubbliche e di partecipazione alla vita politica, ambientale, economica e culturale del paese, suscita lo sviluppo di un clima favorevole all'accettazione delle scelte di carattere generale (Soda, 2000). Un altro obiettivo è quello di definire l’impatto di tali attività attraverso l’elaborazione di un percorso metodologico che valuti l’impatto della comunicazione mediante un approccio di tipo statistico. Si tratta di una metodologia che tiene conto, oltre che delle vie di comunicazione (ferrovie, strade, autostrade) anche degli eventi di animazione naturalistica o delle escursioni realizzati nel triennio 2008-2010 e delle strutture deputate alla comunicazione/informazione/educazione/fruizione presenti sul territorio. L’obiettivo è quello di stabilire un legame causa-effetto, tra i criteri regolativi delle maglie urbane e l’insistenza sul territorio di strutture volte alla performance sociale, con le conseguenze derivanti a carico della sfera ecosistemica nel senso allargato del termine, perseguendo una maggiore. comprensione degli indirizzi di programmazione, delle condizioni di stato. 10.

(11) ambientale e di carico antropico. E’ noto che per raggiungere livelli ottimali di pianificazione e gestione del territorio è fondamentale selezionare e utilizzare, fin da subito, degli indicatori appropriati che garantiscano l’allestimento di una base cognitiva per gli strumenti di governo del territorio. La frammentazione ambientale e l’insularizzazione degli ecosistemi costituiscono un momento centrale per il conseguimento degli standard di sostenibilità nelle procedure di governo del territorio, è allora indispensabile che, così come accade per forme di impatto più consolidate nella cultura amministrativa e sociale (inquinamenti, degrado fisico e paesaggistico del suolo, ecc.), gli effetti della disgregazione ecosistemica assumano un carattere “misurabile”, entrando nel novero degli indicatori di qualità urbana e territoriale che gli indirizzi europei alle comunità nazionali attualmente considerano irrinunciabili e decisivi per denunciare l’efficienza della gestione e le correzioni apportate dal management ambientale. Per questo lavoro si è scelto di prendere le mosse da un indice di pressione, o meglio da un parametro insediativourbanistico, cioè il DI, Densità Infrastrutturale, già in uso (Romano, Paolinelli, 2007). Questo parametro indica l’estensione del sistema della mobilità multimodale in relazione alle dimensioni dell’area di riferimento. Tale estensione è proporzionale all’azione di frammentazione ambientale derivante dalla cesura fisica degli ecomosaici e dai fattori di disturbo associati (rumori, inquinamento, vibrazioni) ed è stata utilizzata di frequente in lavori sull’impatto delle reti di trasporto sull’integrità paesaggistica (Serrano et al., 2002):. DI=. ∑li Au. (Km/Kmq). Dove: li = lunghezza dei singoli tratti di viabilità Au= superficie dell’unità territoriale di riferimento. Può essere anche definito come una sorta di indice di viabilità che può offrire un’indicazione circa il livello di isolamento di un’area. In altre parole più è basso il valore che si ricava, minore è il livello di accessibilità di un’area. Il DI si correla, dal punto di vista del substrato teorico, con la road density di Forman (2003), uno dei massimi teorici della road ecology. Secondo l’autore, la road density offre facilmente la misura di un “road network”, cioè della quantità di strade in un’area. D’altra. 11.

(12) parte, secondo lo stesso autore, molti fenomeni ecologici sono correlati alla densità stradale. I dati raccolti permetteranno di ampliare l’indicizzazione dell’attività antropica nelle Aree naturali protette con un incremento dell’analisi di dettaglio previsionale a fini gestionali. Nei paragrafi successivi verranno presentati, in modo assai sintetico, alcune riflessioni teoriche relative agli indicatori, con particolare riferimento a quelli turistici e insediativo urbanistici.. 1.2 Gli indicatori Un indicatore è considerato come uno strumento in grado di fornire la miglior conoscenza possibile, è un parametro o un valore derivato da parametri, che fornisce informazioni sullo stato di un fenomeno/ambito/area con un significato che va oltre ciò che è direttamente associato al valore del parametro (OECD, 1993). Per essere utile ai fini gestionali, un indicatore deve essere ben progettato e deve possedere qualità e caratteristiche specifiche, quali: • pertinenza (deve essere in grado di soddisfare le richieste della definizione degli obiettivi); • rilevanza (deve essere in grado di suggerire efficacemente e facilitare la costruzione del processo decisionale); • semplicità (deve essere comprensibile e utilizzare unità di misura chiare e semplici); • comparabilità (deve permettere la comparazione tra casi diversi e lungo la scala temporale); • fattibilità (i dati devono essere disponibili). In alcuni casi un indicatore o un insieme di indicatori risultano fondamentali per aiutare nella comprensione di fenomeni di difficile definizione. Infatti, quanto più l’obiettivo da raggiungere presenta contorni incerti, tanto più gli indicatori possono segnare la strada per un suo effettivo conseguimento. È questo il caso della sostenibilità; concetto complesso, spesso definito e interpretato nei modi più diversi. Per questo motivo, la costruzione di un indicatore e/o di un insieme di indicatori basati su solide argomentazioni teoriche, efficaci nell’orientare i processi decisionali e capaci di restituire un concreto quadro di valutazione nei monitoraggi, è diventato uno dei compiti principali della ricerca in tema di. 12.

(13) sostenibilità. Differenti sono i modi per definire gli indicatori in generale, e dunque anche quelli di sostenibilità. Una prima grande distinzione è tra indicatori relativi a fenomeni direttamente misurabili e indicatori relativi a fenomeni non misurabili in maniera diretta. È possibile affermare che tutti i fenomeni che riguardano la sostenibilità sono quantificabili. Alcuni sono fenomeni fisici direttamente misurabili (per esempio le emissioni di CO2); altri invece sono caratteri per i quali non disponiamo di strumenti di misura diretta, ma che possono sempre essere espressi quantitativamente con riferimento ad un’appropriata e ponderata scala di intensità. Più interessante, ai fini delle valutazioni di sostenibilità, è la distinzione tra: •. indicatori assoluti, che esprimono i livelli delle variabili individuate come significative;. •. indicatori relativi, costituiti da rapporti tra indicatori assoluti dello stesso tipo o di tipi. diversi. In concreto, i primi forniscono l’informazione di base sulle componenti del sistema, cioè sulle quantità e sui flussi; mentre i secondi consentono di trasformare l’informazione in conoscenza, poiché mettono in luce i rapporti tra le componenti del sistema e inoltre rendono i valori assoluti comparabili attraverso la normalizzazione. Ancora, gli indicatori possono essere classificati, in base alla funzione che svolgono, in tre grandi categorie: •. indicatori descrittivi (o sistematici), indicatori elementari che misurano “cosa sta. succedendo” in relazione alle varie componenti ambientali, sono i tipici indicatori di base per la caratterizzazione della situazione ambientale; •. indicatori prestazionali, misurano la distanza (distance-to-target) della situazione attuale. rispetto a valori di riferimento, obiettivi politici, livelli di sostenibilità; •. indicatori di efficienza: indicatori derivati che misurano l’efficienza di uso delle risorse. (o di inquinamento) per unità di prodotto, di processo, di reddito e via discorrendo.. 1.3 Il modello DPSIR Per mettere a punto un indicatore adeguato è indispensabile far riferimento anche alle metodologie impiegate per l’analisi dei dati ambientali. Il modello DPSIR, un’estensione del modello PSR (Pressione-Stato-Risposta), è la struttura di indicatori più ampiamente accettata; tale schema sviluppato in ambito EEA (European Environment Agency), si basa su una struttura di relazioni causali che legano tra loro i seguenti elementi:. 13.

(14) - Determinanti - Pressioni - Stato - Impatti - Risposte. Fig. 1. Schema del Modello DPSIR (dalle iniziali illustrate in figura). Secondo il modello DPSIR gli sviluppi di natura economica e sociale sono i fattori di fondo (Determinanti) che esercitano Pressioni sull'ambiente, il cui Stato (disponibilità delle risorse, livello di biodiversità o qualità dell'aria) cambia di conseguenza. Tramite gli indicatori di Impatto si descrivono gli effetti ultimi dei cambiamenti di stato. Le risposte sono indicatori di prestazione legate e scelte politiche e a strategie e in quanto tali hanno lo scopo di ridurre gli impatti ed hanno ripercussioni anche sugli altri indicatori nella logica di un modello DPSIR dinamico. Il modello DPSIR essendo basato su relazioni causa-effetto, assume come punto di partenza il contesto socio-economico del territorio al quale si applica. Gli indicatori attribuibili alla categoria determinanti, hanno lo scopo di misurare alcuni aspetti chiave delle attività antropiche, includendo le attività economiche (agricoltura, industria, turismo, ecc.), i fattori demografici, occupazionali, socio-sanitari e individuando i fattori potenzialmente critici rispetto alle condizioni ambientali. Gli indicatori di pressione, di stato, di impatto e di risposta sono esclusivamente riferiti al sistema ambientale e il modello, nella sua formulazione originaria, non consente di cogliere gli aspetti legati ad esempio, alla sicurezza sul lavoro e alle politiche sociali che invece sono fattori chiave dello sviluppo di un turismo sostenibile. L’indice di densità infrastrutturale, utilizzato all’interno del presente lavoro, è inserito tra gli indicatori di pressione.. 14.

(15) L’EEA oltre a classificare gli indicatori secondo il loro contenuto informativo in indicatori descrittivi, di prestazione e di efficienza, individua una quarta categoria denominata Total Welfare Indicators, che risponde alla necessità di misurare una qualche forma di “sostenibilità totale”. Lo scopo della creazione del set di tali indicatori è quello di misurare l’avvicinamento o l’allontanamento rispetto a un modello sostenibile, assumendo come punto di riferimento l’entità del cambiamento nel tempo e l’individuazione di tendenze e direzioni, piuttosto che di valori definibili in termini assoluti. Un contributo all’individuazione di indicatori capaci di esprimere le caratteristiche di un fenomeno di pressione viene anche dall’APAT (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi tecnici, ora ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) che nell’annuario sui dati ambientali seleziona degli indicatori per descrivere le problematiche legate alle pressioni antropiche. 1.3 Cenni sul turismo naturalistico e indicatori turistici Poiché parte alcuni dati presenti all’interno della presente ricerca provengono da attività assimilabili al turismo naturalistico (escursioni giornaliere), per completezza di informazione si riportano nel paragrafo alcuni cenni sulle caratteristiche generali del turismo naturalistico e sugli indicatori -semplici e complessi- del World Tourism Organization (WTO) elaborati per i parchi e le aree protette, le zone montane e le destinazioni eco turistiche. Come è noto, il turismo naturalistico comprende differenti tipologie di turismo (Pacciani, 2012) che si svolgono all’interno o in prossimità di aree a forte vocazione naturalistica (parchi, aree protette, altre aree di pregio o comunque caratterizzate da risorse naturalistiche significative) e che hanno tra le proprie motivazioni di base l’osservazione e l’apprezzamento della natura e delle culture tradizionali. La motivazione naturalistica non esaurisce spesso le ragioni della vacanza o dell’escursione e può assumere specificazioni molto differenti, tanto che è possibile distinguere, in funzione della presenza di altri interessi e dell’aspettativa di svolgere determinate attività, tra: •. turismo ricreativo, basato su riposo e relax, ma con effettuazione di passeggiate non. impegnative e visite a siti naturali e culturali; •. turismo attivo, che prevede la pratica non occasionale di attività fisica, svolta anche. servendosi di apposita sentieristica (itinerari ciclistici, di trekking, sci di fondo, ciaspolate ecc);. 15.

(16) •. turismo educativo e/o persuasivo, ove all’obiettivo dell’osservazione si accompagna. quello dell’apprendimento, svolto ad esempio mediante partecipazione a corsi su conservazione e identificazione di specie, ad attività ludiche a tema, a laboratori formativi. Il turismo educativo e/o persuasivo è spesso utilizzata dall’ente gestore di un’area protetta anche per comunicare, attraverso momenti esperenziali di durata limitata nel tempo (6-8 ore), i valori e/o le criticità di un’area protetta (o di un habitat, di una specie) a un vasto target di riferimento (famiglie, anziani, adolescenti, ecc.). In questi casi, il target non si reca in situ solo per un’autonoma scelta ma anche perché “richiamato”, attraverso idonei strumenti di comunicazione (cartacei e/o informatizzati), dal medesimo ente gestore che, facendosi spesso garante della programmazione di questo genere di attività, assolve a una parte della sua mission istituzionale. Il tema della sostenibilità è molto rilevante per il turismo naturalistico, in quanto esso si appoggia per definizione a risorse naturali spesso fragili e, per questo motivo, particolarmente esposte a fenomeni di congestione o di sovra-sfruttamento. Alcune aree protette hanno punti d’accesso controllati: si paga un biglietto d’ingresso e il flusso di turisti può essere controllato e monitorato; in altri casi invece non esistono “porte di accesso” e il controllo sui turisti è limitato. I gestori di questi luoghi tendono dunque a bilanciare l'uso dei visitatori e la tutela dell'ambiente. Tuttavia, indipendentemente dalle politiche di fruizione che si decide di porre in essere, rimane fondamentale acquisire informazioni qualificate sui visitatori, sui loro bisogni, aspettative e desideri, sull'impatto delle le visite, la loro distribuzione e il movimento di tali flussi nello spazio e nel tempo (Eagles, 2002; Hendee & Dawson, 2002). Inoltre, alcune aree protette sono antropizzate (è il caso di molti parchi del Lazio dove spesso la concentrazione di residenti è molto elevata, per esempio di parchi di Roma e provincia) e comprendono, non di rado, anche zone adibite ad altre attività economiche: campi coltivati, aziende zootecniche, piccoli nuclei produttivi, ecc. Tutto ciò ovviamente rende ancor più complessa la gestione di queste aree. Il legame del fenomeno turistico con le risorse territoriali è però duplice, in quanto allo stesso tempo può contribuire a qualificare e valorizzare le risorse naturali, suscitando sensibilità da parte dei consumatori/cittadini, e può anche generare flussi di reddito suscettibili di sostenere la riproduzione delle risorse stesse. Facendo riferimento alla Guida elaborata dal WTO nel 2004, si è ritenuto opportuno riportare gli elementi cui far riferimento nell’elaborazione di indicatori che potrebbero. 16.

(17) essere utilizzati quando la destinazione turistica oggetto di analisi è un’area di elevato pregio naturalistico, come i parchi e le aree protette, le zone montane e le destinazioni eco turistiche. Tali elementi sono: a. Conservazione dell’ambiente naturale delle località e delle aree ecoturistiche. Poiché l’ecoturismo si svolge principalmente in aree naturali relativamente indisturbate, sensibili al possibile impatto dell’attività turistica, è giocoforza che debbano essere intraprese delle precauzioni per gestire il turismo. Gli indicatori sono perciò importanti come strumenti gestionali. b. Rapporti con le comunità residenti, conservazione delle risorse culturali. c. Funzionamento. Di Norma ci si aspetta che lo svolgimento delle attività ecoturistiche sia volto a minimizzare l’impatto negativo sull’ambiente naturale e socio-culturale, e a contribuire alla protezione delle aree naturali. Per questa ragione le attività vengono normalmente, ma non esclusivamente, organizzate per piccoli gruppi da tour operator specializzati. Il livello di sostenibilità dipende dalle pratiche operative e dalla qualità dei servizi offerti. Gli indicatori possono servire a misurare il raggiungimento di standard operativi propri dell’operatore e degli standard di riferimento (come quelli posti da un sistema di certificazione), e possono essere d’aiuto per gestire e controllare l’impatto delle attività; d. Informazione e comunicazione. Uno dei principali elementi dell’ecoturismo è la conoscenza della natura e/o della cultura che il visitatore ottiene attraverso un’esperienza guidata. Una comunicazione o un’informazione di scarso livello può indurre a effetti negativi sulle mete turistiche e essere causa di insoddisfazione del turista. Può risultare pertanto fondamentale riuscire a misurare il livello qualitativo di questo genere di attività (questionari sul gradimento utenza ecc) e. Marketing e gestione dell’ecoturismo. L’ecoturismo deve essere un’attività economicamente realizzabile ed è di vitale importanza per il suo sviluppo la conoscenza del mercato (domanda e offerta). f. Sicurezza per le attività eco turistiche. Le attività ecoturistiche spesso sono organizzate in zone remote con condizioni specifiche (foreste, boschi. montagne, ecc.) e richiedono attività fisica (come il trekking, la canoa, ecc.). Secondo alcuni studi sui fattori fondamentali per un turismo sostenibile (Bassotti, 2003) la sicurezza delle attività è al secondo posto per importanza secondo i clienti, e viene soltanto dopo la tutela. 17.

(18) dell’ambiente. Gli indicatori che rispondono della sicurezza e della salvaguardia del turista nelle mete ecoturistiche e del modo in cui funzionano sono perciò importanti. Essendo di fatto l’ecoturismo un microcosmo di tutte le tematiche del turismo sostenibile, gli indicatori che possono essere impiegati sono molteplici, proprio perché riconducibili a tutte le forme di turismo che vedono coinvolte l’ambiente naturale e le piccole e tradizionali comunità.. Tematiche. Indicatore consigliato. Numero totale di visitatori del parco e dei siti più importanti; Massima affluenza (giorno, mese di massima affluenza) ; Durata del soggiorno; Intensità dell’utenza nei siti principali (persone per Km²); Entrate derivanti dai visitatori paganti; Numero di guide/operatori autorizzati ad usare il parco/l’area protetta; % di tutti i visitatori che prendono parte a visite controllate/guidate. Numero di siti/ecosistemi/risorse considerati danneggiati o a rischio (% Integrità dei principali di sistemi protetti tutti i sistemi/le risorse definite nell’area protetta); Indicatori del buono stato di salute delle specie animali e vegetali più importanti; % di suolo del parco compattato per i visitatori o per uso diverso; % dell’area protetta sottoposta a diversi livelli di controllo (per esempio categorie IUCN di protezione ed accesso). % di sistema protetto in condizioni di degrado - (quando sia possibile, Danni attribuibili all’attività classificare in base alla causa); dei visitatori % di percorsi e strade carrabili (lunghezza) danneggiate; Costo del ripristino dei sistemi danneggiati (annualmente); % dell’area del parco interessata da attività non autorizzate (caccia, abbattimento di alberi, caccia per mezzo di trappole, caccia e pesca di frodo, ecc.); Numero di episodi di caccia o pesca di frodo identificati Numero di contatti registrati tra uomini e animali che hanno provocato Livello di controllo e ferite o un rischio e monitoraggio delle ferite; monitoraggio sui visitatori Numero di reati contro i turisti; Numero di episodi di vandalismo; % di visitatori che non pagano gli ingressi (qualora venga richiesto il pagamento di una quota di ingresso); Numero di guardie o di personale di controllo (e numero per turista); Cifra spesa per la commercializzazione dell’area protetta; Marketing Numero di operatori del parco (guardie, amministratori, addetti Amministrazione manutenzione, ecc); Numero di operatori preposti a far osservare le regole per visitatore; Costo della protezione; Numero di riunioni pubbliche o delle comunità tenute con gli interessati, comprese le comunità confinanti; Rapporto tra costi e ricavi per il funzionamento del parco Tab.1. Indicatori del turismo in aree naturali protette proposti dal WTO (2004). Gli indicatori sono previsionalmente proposti dal WTO ai gestori di AAPP per stimare le diverse tipologie d attività che insistono nelle AAPP. Numero visitatori. 18.

(19) Come abbiamo visto, alcuni indicatori possono essere basati sulle registrazioni esistenti e altri direttamente sui dati misurabili basati, magari, su rilevazioni specifiche dei visitatori, delle imprese, dei residenti locali ecc. Rilevazioni di questo tipo hanno il vantaggio di essere direttamente correlate al problema, in quanto consentono di inquadrare direttamente la questione anche attraverso il punto di vista e la percezione dei fruitori (Moore&Polley, 2007). Tuttavia, possono essere costose e richiedere molto tempo. Devono inoltre essere ben progettate, seguire un metodo scientifico rigoroso (Watson et al., 2000) e disporre di un campione o di un tasso di risposta sufficientemente ampi, per poter ottenere un quadro non alterato. In generale, queste rilevazioni possono richiedere: - Rilevazioni dei visitatori. Interviste casuali a circa 1000 visitatori, raccolte su diversi tipi di località, rappresentativi dei modelli e dei flussi noti dei visitatori. Dovrebbe includere i profili dei visitatori, i dati sulla visita e l’atteggiamento/la soddisfazione. - Rilevazioni d’affari. Una rilevazione annuale, da compilare a cura degli operatori economici (tour operator ecc) - Rilevazioni dei residenti. Una rilevazione casuale delle famiglia (tramite posta o telefono) in vari quartieri, concentrata principalmente sull’atteggiamento verso, e il coinvolgimento nel turismo. Oltre quelli appena riportati, esistono in letteratura ulteriori quadri di pianificazione dei flussi turistici in area protetta, per esempio i Limits of Acceptable Change (LAC); il Visitor Impact Management (VIM), il Visitor Experience Resource Protection (VERP), il Tourism Optimisation Management Model (TOMM), tutti indicatori che dovrebbero aiutare gli amministratori a definire standard di gestione accettabili (Newsome e altri, 2002). Un ulteriore metodo per la stima dei flussi turistici si basa sulla produzione di rifiuti solidi urbani prodotti mensilmente all’interno delle Aree Protette. Questo dato infatti, può essere considerato come un indicatore efficace delle presenze effettive in un territorio. La metodologia utilizzata per la stima dei visitatori di un’area protetta prende in considerazione come indicatore indiretto delle presenze la quantità di rifiuti solidi urbani (RSU) prodotti nei comuni dell’area. I RSU, infatti, costituiscono una “traccia” sicura della presenza di un individuo in un determinato territorio a prescindere dalla tipologia e caratterizzazione della presenza stessa (residente, turista ufficialmente censito, turista sommerso, escursionista).. 19.

(20) A titolo meramente esemplificativo, gli indicatori sul turismo riportati nell’Annuario dati ambientali ISPRA (ex APAT) 2008 sono 3 (tabella 2), scelti tenendo conto di quelli proposti dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA).. Nome indicatore. Finalità. Infrastrutture turistiche. Quantificare ricettiva. DPSIR la. capacità. degli. esercizi. D. Riferimenti normativi Direttiva. 95/97/CE. del. 23/11/95 e L 135/01. alberghieri, delle strutture complementari e dei B&B presenti nel territorio Flussi turistici per modalità. Evidenziare. le. diverse. di trasporto. forme di trasporto utilizzate. D. L 135/01. D. Direttiva. per scopi turistici Intensità turistica. Determinare turistico. il agente. carico sul. 95/97/CE. del. 23/11/95 e L 135/01. territorio. Tab.2. Elenco degli indicatori proposti dall’APAT per valutare gli impatti del turismo sull’ambiente (Fonte: APAT, 2008). La bibliografia offre tantissimi esempi di applicazione di indicatori per la valutazione della sostenibilità delle attività turistiche: le informazioni riportate in questo paragrafo sono pertanto poco esaustive rispetto alla letteratura esistente.. 1.4 Cenni sugli indicatori di infrastrutturazione del territorio Come è noto, per descrivere i caratteri dell’insediamento umano, si può fare riferimento ad alcune caratteristiche fisiche del territorio quali, ad esempio, la sua estensione, la localizzazione altimetrica, l’infrastrutturazione urbana e viaria. Questi elementi permettono di descrivere le caratteristiche fisiche del territorio, ma anche il rapporto tra questo e la popolazione che su esso gravita. Essi, infatti, riguardano la concentrazione o dispersione della popolazione, la dislocazione dei centri abitati e la distribuzione della popolazione in essi, le possibilità di mobilità e il livello di isolamento e integrazione territoriale rispetto al contesto esterno. Tali indicatori non forniscono soltanto una misura dei vincoli e delle opportunità offerte dal territorio in quanto spazio geografico occupabile o fruibile, ma rinviano anche a dinamiche socio-demografiche dell’insediamento umano - sia residenziale sia produttivo - non spiegabili semplicemente in termini di orografia del territorio. Ciò per introdurre uno degli indicatori inseriti all’interno della presente ricerca ossia, la Densità. 20.

(21) infrastrutturale (DI), utile all’analisi dei caratteri dell’insediamento umano in rapporto alla modificazione e infrastrutturazione del territorio riguarda lo sviluppo della rete stradale. Si tratta di un aspetto spesso sottovalutato, ma che fornisce indicazioni interessanti per un’analisi dei vincoli ambientali allo sviluppo locale. Lo scambio delle merci, l’accesso al mercato, ai servizi, alle informazioni, sono tutte attività subordinate alle possibilità oggettive di mobilità sul territorio. Nonostante la tendenziale riduzione delle distanze e dei tempi introdotta dall’innovazione telematica, la possibilità di mobilità resta, cioè, un elemento determinante nell’integrazione di una qualsiasi unità socio-territoriale con il contesto esterno. Questa possibilità di mobilità può essere espressa e misurata in modi diversi. La geografia, le scienze della pianificazione e l’economia spaziale, a questo proposito, hanno prodotto differenti modelli di analisi più o meno complessi, in cui proprio il sistema viario rappresenta un elemento centrale di cui tener conto in quanto vincolo strutturale. Per analizzare tale sistema possono essere prese in considerazione: • le sue caratteristiche: tipologia, estensione, collegamenti, copertura territoriale, percorribilità; • la fruizione: intensità e caratteristiche degli spostamenti che vi si generano. Due indicatori di semplice applicabilità sono relativi alla densità della rete stradale. Essa può calcolarsi rispetto all’estensione del territorio e alla popolazione. La densità della rete stradale si ottiene suddividendo il numero di chilometri delle strade e, in alcuni casi delle ferrovie, che attraversano un determinato territorio per la superficie complessiva del territorio stesso. L’incidenza della popolazione sulla rete stradale è invece il rapporto esistente tra la popolazione residente in un determinato territorio e il numero di chilometri di strade che attraversano il territorio stesso. Il primo indicatore, ossia quello affrontato nei capitoli successivi, fornisce un’informazione di tipo strutturale sull’asservimento stradale del territorio. Questo indicatore può assumere valori anche molto diversi da un comune all’altro, o da un’area territoriale all’altra, essendo costruito sulla base della superficie territoriale complessiva. Quei comuni con un’ampia superficie, ma scarsamente abitata per ragioni morfologiche o di insediamento, presentano, infatti, una densità territoriale della rete stradale sensibilmente più bassa rispetto ai piccoli comuni o in cui esiste una residenzialità diffusa. L’indice di DI presenta. 21.

(22) il vantaggio di essere facilmente calcolabile a partire dai dati di base sul territorio e sulla rete stradale resi disponibili dagli uffici tecnici comunali, provinciali e/o regionali. Nella sua applicazione sarebbe bene, tuttavia, provvedere a una esplicitazione dei criteri di identificazione e delimitazione della rete stradale da prendere in considerazione, esaminando di volta in volta l’opportunità di estenderne l’applicazione anche alla rete ferroviaria, lì dove rappresenti una componente dell’intero sistema viario che interessa direttamente il territorio considerato. Per comprendere meglio il rapporto tra strade, territorio e ambiente offriremo nel paragrafo successivo qualche breve cenno sulla road ecology.. 1.5 La “Road Ecology” Le attività dell’uomo, con particolare riferimento alla costruzione e all’esercizio delle infrastrutture di trasporto, alterano la funzionalità degli ecosistemi modificando gli habitat e provocando danni diretti alla fauna selvatica. L’esigenza di contrastare tali fenomeni ha condotto allo sviluppo di nuove branche dell’ecologia, volte ad analizzare specificatamente i disturbi causati da particolari azioni antropiche. La Road ecology (Sherwood et al., 2002; Spellerberg, 2002; Forman et al., 2003), ossia l’ecologia delle strade, è la scienza che studia le interazioni tra le vie di comunicazione umane e la biodiversità cercando soluzioni applicabili in fase di progettazione di strade, autostrade e ferrovie o finalizzate alla mitigazione degli effetti di opere già realizzate e trovando una valida applicazione anche negli studi di supporto alle procedure valutative di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), Valutazione Ambientale (VAS) Strategica e Valutazione di Incidenza Ambientale che hanno per oggetto modifiche del sistema viario. Il termine Road ecology è stato coniato negli anni Novanta del secolo scorso anche se già da alcuni decenni erano stati realizzati degli studi riguardanti le interazioni tra la fauna selvatica e le infrastrutture e, nello stesso periodo, erano stati costruiti anche i primi sovrappassi per consentire l’attraversamento di barriere lineari agli animali. Secondo Forman (2003) una strada è una via aperta per il passaggio dei veicoli e l’ecologia è lo studio delle relazioni tra gli organismi e il loro ambiente. La loro combinazione descrive l’essenza della road ecology, quindi le interazioni tra l’ambiente naturale e la rete stradale. Più estesamente, i flussi di traffico su una infrastruttura di strade e di servizi correlati formano un “road system”, ossia un sistema stradale. Perciò la road ecology. 22.

(23) esplora e indirizza la relazione tra l’ambiente naturale e il sistema stradale. Tutte le strade (sentieri, autostrade, ecc.) sono veri e propri focus della road ecology. Secondo Forman “a volte il termine “road” o “roadway” si riferisce al tracciato tra i solchi al ciglio della strada. Altre volte, la parola “road” o “road corridor” si riferisce a una striscia più estesa dove la superficie del territorio è stata alterata da regimi di costruzione, manutenzione e gestione”. Comunemente, questa striscia più vasta include la superficie della strada, bretelle, fossi e gli argini esterni. Laddove, tagliando attraverso il lato di una pendenza, il corridoio stradale (o road corridor) tipicamente include una superficie di taglio sul lato a monte e un’area piena sul lato a valle della collina. La road ecology si concentra anche sul road segment, la porzione di una strada tra due punti, come per esempio tra due incroci o due città L’insieme dei road segment compone il road network o road system. Il sistema stradale collega dunque dei nodi, o località importanti come per esempio una città , se prendiamo in considerazione una scala estesa (per esempio regionale), oppure scuole, gruppi di negozi o altri centri aggregativi, se prendiamo in considerazione una scala più fine (locale). Attraverso il network , il traffico può variare da quasi zero a migliaia di veicoli al giorno e cambiare sensibilmente lungo il giorno, la settimana e la stagione. In effetti, il sistema stradale divide la natura in porzioni, come piccoli poligoni inclusi nelle maglie del network ed è proprio questo network a produrre i maggiori effetti sul paesaggio. La densità stradale (road density), la lunghezza totale della strada media per l’estensione di un’area di paesaggio (p.es. km su kmq, o miglio su miglio quadrato), è dunque una misura di un road network o della quantità di strade in un’area. Abbiamo poc’anzi affermato che numerosi fenomeni ecologici sono stati correlati alla densità stradale; ebbene possiamo approfondire il concetto illustrando alcune situazioni dove le strade e l’ambiente circostante si influenzano a vicenda. Per esempio, il microclima che circonda una strada, di solito, differisce fortemente dalle aree adiacenti. Una superficie stradale nera assorbe di norma grandi quantità di calore dalla radiazione solare, dunque in alcuni giorni può diventare abbastanza tiepida da attrarre animali, inclusi anfibi e serpenti. Infatti, l’angolazione solare determinata dall’altezza dell’astro in relazione alla superficie del terreno, determina estese variazioni di temperatura all’interno di un corridoio stradale , come pure negli argini stradali sui lati disposti in direzione nord-sud di una strada che corre da est a ovest. Inoltre, l’orientamento di una strada o la direzione relativa al vento esercita effetti maggiori sulla velocità del vento, sulla formazione di turbolenza, sulla. 23.

(24) umidità relativa e sulle caratteristiche di inaridimento del suolo. Possiamo dunque affermare che importanti fluttuazione di condizioni microclimatiche si ritrovano spesso concentrate nelle zone più strette di un corridoio stradale. Questo pattern aiuta a creare diversi microhabitat per piante e animali. Gli effetti del vento e quelli atmosferici correlati al trasporto operano, invece, sia su scala globale che regionale. L’anidrite carbonica e gli altri gas serra derivanti dalla combustione degli idrocarburi, si accumulano nella stratosfera e sono associati al cambiamento climatico globale, che produce numerosi effetti su piante, animali e sistemi ecologici. Analogamente, l’ozono e gli ossidi di azoto tendono a depositarsi nell’ambiente, e ciò avviene sia su scala globale che su scala locale. Inoltre, collegate alle strade e ai veicoli, ci sono anche l’erosione da vento e da particolati del suolo e le infiltrazioni di acqua (Forman, 2003) In ogni caso, i principali effetti negativi sugli ecosistemi indotti dalla presenza di strade possono essere sintetizzati in: • Inquinamento chimico: il rapporto tra inquinamento atmosferico dovuto al traffico veicolare e ambiente naturale è ancora poco considerato ma alcuni studi hanno dimostrato che lungo strade con traffico molto intenso le specie vegetali sono diverse rispetto a strade poco trafficate. Oltre agli effetti dovuti ai gas di scarico delle vetture, bisogna considerare anche gli eventuali additivi utilizzati per la manutenzione dei tracciati: ad esempio l’uso di sale nei periodi invernali lungo le strade di montagna comporta un cambiamento nella chimica delle risorse idriche, inoltre il cloruro di sodio sulla carreggiata attrae specie come cervo e capriolo aumentando il rischio di investimento. • Inquinamento acustico: molte specie, soprattutto ornitiche, risentono del rumore provocato dalle auto in transito sulle strade. Numerosi studi hanno mostrato una riduzione del numero di specie nei primi 200-300 metri di distanza dalle strade. • Introduzione di specie alloctone: i bordi delle carreggiate diventano un canale preferenziale per la propagazione di specie vegetali non autoctone e spesso a rapido accrescimento utilizzate nell’arredo stradale. • Presenza di microdiscariche: spesso le scarpate lungo le strade e le piazzole di sosta vengono utilizzate come discariche abusive. Il percolamento dovuto alle piogge provoca effetti secondari di contaminazione dei suoli e delle acque. • Frammentazione ambientale: la presenza del reticolo viario comporta una graduale riduzione della superficie degli ambienti naturali e un aumento dell’isolamento dei frammenti eco sistemici residui.. 24.

(25) • Perdita di habitat e riduzione della loro qualità: la superficie di territorio occupata dal tracciato stradale viene sottratta all’ambiente naturale peggiorando la qualità di quello adiacente. A questa percentuale di suolo, va aggiunto quello utilizzato nell’espansione insediativa che tipicamente segue la costruzione di nuove strade. • Mortalità faunistica: gli incidenti che coinvolgono la fauna selvatica interessano sia gli animali che attraversano le infrastrutture durante gli spostamenti sia i predatori che utilizzano la carreggiata come territorio di caccia. La mortalità faunistica su strada è in forte aumento e rappresenta un grande rischio anche per gli automobilisti. • Effetto barriera e perdita di connettività: le infrastrutture lineari presentano lateralmente e, nelle strade a lunga percorrenza anche centralmente, barriere di vario genere: guard-rail, barriere spartitraffico, barriere acustiche, new-jersey, muri di contenimento, recinzioni ecc. Tali elementi sono dei veri e propri impedimenti per il passaggio faunistico e, oltre a limitare il movimento di singoli individui, riducono o annullano gli scambi all’interno di popolazioni, suddividendo in alcuni casi quest’ultime in metapopolazioni. Mentre le prime quattro ripercussioni negative si hanno indipendentemente dalla collocazione geografica dell’infrastruttura, l’incidenza di fenomeni come l’effetto barriera, la mortalità faunistica, la perdita e la frammentazione di habitat, aumenta notevolmente laddove sono rilevabili delle sovrapposizioni o dei punti di tangenza tra la rete infrastrutturale e quella ecologica. In tutti quei siti in cui i tracciati viari attraversano o costeggiano zone potenzialmente identificabili come core areas, buffer zone, wildlife corridor, stepping stones o semplici restoration areas è infatti particolarmente accentuato il disturbo arrecato alle popolazioni faunistiche i cui spostamenti lungo le direttrici naturali sono intralciati dalla presenza di ostacoli lineari antropogenici. Per questo, una volta individuate le zone che presumibilmente manifestano una maggiore criticità, è opportuno approfondire le indagini attraverso metodi standardizzati e riproducibili che consentono di comparare i risultati ottenuti in contesti diversi ed elaborare strategie d’intervento comuni. La vulnerabilità delle diverse specie alle strade dipende da caratteristiche intrinseche alle specie stesse. Le generaliste e quelle con una elevata mobilità intrinseca sono solitamente più suscettibili alla mortalità diretta (Comins et al. 1980, Levin et al. 1984) mentre le specie interior non la subiscono, specie caratterizzate da avoidance road sono vulnerabili solamente alla riduzione dell’habitat (Forman & Collinge 1996), infine le specie che hanno un basso tasso di riproduzione sono suscettibili a tutte le tipologie di impatto (Lande 1987,. 25.

(26) With & King 1999). I motivi che attirano gli animali verso le strade sono (Dinetti 2000, Scoccianti & Ferri 2000): • Attraversamento volontario durante attività biologiche. • Invasione accidentale per sfuggire alla predazione. • Alimentazione con i resti di altre specie morte in seguito a investimento. • Ricerca di preda da parte di rapaci. • Ricerca di rifiuti alimentari. • Utilizzo della superficie dura della strada per rompere i semi facendoli cadere dall’alto. • Attraversamento durante la migrazione. • Ricerca di condizioni microclimatiche favorevoli. • Utilizzo della strada quale luogo di richiamo e incontro. • Utilizzo della strada o del margine quale corridoio di migrazione, spostamento locale o dispersione dei giovani. • Utilizzo della vegetazione o degli habitat lungo i bordi e le scarpate quale ambiente di rifugio e riproduzione. Le misure di mitigazione volte a limitare gli impatti delle strade sulla fauna selvatica sono considerate ormai necessarie per una mobilità sostenibile. Purtroppo in Italia interventi di questo tipo sono ancora piuttosto limitati e spesso sono realizzati senza studi preliminari in grado di stabilire quale sia la misura più idonea, la sua reale utilità e la migliore collocazione (Fabrizio, 2009).. 26.

(27) Capitolo 2 I contesti di svolgimento della ricerca 2.1 Breve storia delle Aree protette in Italia Il contesto di riferimento della presente ricerca è il territorio sottoposto a protezione dal punto di vista della natura con particolare riferimento al Lazio, regione dell’Italia Centrale. In Italia il movimento per la conservazione della natura mosse i suoi primi passi nel 1910, quando la Società botanica italiana insieme alla Società zoologica italiana proposero l’istituzione di un Parco nella valle di Livigno (dello Spöl) confinante con le valli svizzere poste sotto protezione. Il progetto, nonostante l’interessamento di Giolitti (Liberti, 2006), l’allora Ministro degli Interni, non vide mai la luce per difficoltà burocratiche. Il primo Parco Nazionale italiano fu creato grazie a un’iniziativa personale del re Vittorio Emanuele III, il quale donò allo Stato italiano 2100 ettari della sua Riserva di caccia. Il Regio Decreto n° 1584 del 3 dicembre 1922 istituì ufficialmente il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Secondo il Decreto istitutivo, tutti gli aspetti decisionali erano affidati a una commissione di funzionari ed esperti di istituzioni pubbliche; alle sedute della commissione avrebbero potuto partecipare anche i rappresentanti dei comuni coinvolti e di alcune associazioni ed enti tra i quali il Touring Club e l’Ente nazionale per l’incremento delle industrie turistiche. Le finalità del Parco erano la conservazione della fauna e della flora e la preservazione delle formazioni geologiche. I terreni dovevano essere acquistati dal Demanio, ma in caso di mancato accordo si sarebbe proceduto all’espropriazione, inoltre l’Azienda del Demanio era anche autorizzata a richiedere “la cessazione di qualsiasi diritto di caccia e di pesca”. La caccia e la pesca venivano vietate, così come era vietato anche il pascolo e la raccolta delle specie vegetali ritenute più rare. Era inoltre proibita l’esecuzione di qualsiasi costruzione civile, stradale e di qualsiasi altra opera senza previa autorizzazione del Dicastero competente, su parere della commissione, ma anche in caso di autorizzazione le costruzioni sarebbero state vincolate alle prescrizioni e alle modalità dettate dalla commissione stessa. Il Gran Paradiso non fu istituito quindi per finalità romantico-estetiche, ma per scopi scientifici e preservativi. Poche decine di giorni dopo l’istituzione del Parco Nazionale del Gran Paradiso, l’11 Gennaio 1923, venne istituito il Parco Nazionale d’Abruzzo. Il Parco. 27.

(28) Nazionale d’Abruzzo nacque, come il Gran Paradiso, con funzioni di tutela della flora, della fauna e delle formazioni geologiche, ma introdusse anche funzioni concernenti lo sviluppo del turismo e dell’attività alberghiera. Nel 1935, infine, il regime istituì il Parco Nazionale dello Stelvio come Parco turistico. Nel 1935 in Italia esistevano dunque tre differenti tipologie di area protetta: •. Parco a fini scientifici (Gran Paradiso). •. Parco a fini misti scientifico-turistici (Abruzzo). •. Parco a fini turistici (Stelvio). Sebbene fossero state istituite con finalità diverse, le tre tipologie erano riunite tutte sotto la definizione di Parco Nazionale. Nel 1939 venne approvata la legge per la tutela del paesaggio, che permise il riconoscimento di nuove aree: le aree di interesse pubblico, che sono state fino a tempi recenti l’unica possibilità di tutela di zone di grande interesse. Tra il 1935 e il 1968 non ci furono sostanziali novità nel mondo dei parchi italiani: in quest’ultimo anno fu istituito il Parco Nazionale della Calabria, in gran parte su proprietà demaniali, che ebbe sempre vita difficile. Nel dopoguerra fino alla fine degli anni ’80, le aree protette italiane, furono continuamente minacciate dell’abusivismo edilizio, dal bracconaggio, finanche da attentati dinamitardi. Fortunatamente la reazione della società civile, tramite il proliferare dell’associazionismo verde e della più generale consapevolezza dei cittadini rispetto ai problemi ambientali, fece sì che lo Stato si prendesse carico delle istanze conservative. Nel 1986 fu istituito il Ministero dell’Ambiente. Nel 1991 fu approvata la legge 394/9, legge quadro sulle aree protette. La legge suddivide le aree protette italiane in Parchi e Riserve Nazionali e regionali e Riserve marine. Alla classificazione delle Aree Protette definita nell’art. 2 della L. 394/1991 ha fatto seguito quella contenuta nella Delib. 2-121996 “Classificazione delle aree protette” e la successiva modificazione avvenuta con Del. CSR n. 119 del 2008 che ha esteso alle aree appartenenti alla Rete Natura 2000 del regime di protezione ex DPR 357/97; il quadro attuale è riportato nella sottostante Tab. 3.. 28.

(29) 29.

(30) Tab. 3. Classificazione delle Aree protette ex L. 394/91 e Delib. 2/12/96 (Natalia, 2009). 2.2 Le normative nazionali e regionali sulle aree protette Come abbiamo appreso, prima del 1991, l’Italia non aveva una normativa quadro sulle aree protette. Le prime leggi sull’istituzione di parchi furono quelle del Parco Nazionale del Gran Paradiso nel 1922 e del Parco Nazionale d’Abruzzo. Ma è interessante ripercorrerne brevemente la storia, anche internazionale, per comprendere come si è arrivati a queste istituzioni, e cosa sia successo in seguito per portare in meno di un secolo l’Italia da due a quasi mille aree protette, oggi il più importante strumento per la conservazione della biodiversità nel nostro paese (Tallone, 2007). Sono gli Stati Uniti il luogo dove possiamo individuare le prime Aree Protette di cui abbiamo notizia: nel 1832 nell’Arkansas con un atto ufficiale del Congresso fu posto sotto tutela il territorio corrispondente alle sorgenti termali Hot Springs (Tomasin, 1990) e nel 1964 l’intera valle dello Yosemite viene dichiarata, assieme al Meripese Greve, “area protetta”. Il governo della California, un secolo dopo, assumerà la competenza del territorio con un provvedimento così motivato:. 30.

(31) “per conservare, mostrare al pubblico, usare e offrire al beneficio dell’umanità questo territorio”. Nel 1872 vede la luce il primo Parco Nazionale, quello di Yellowstone, che si estende oggi per quasi un milione di ettari nel nord ovest del paese. Il paradigma di queste aree protette è semplicissimo: delimitare, e confinare, un’area nella quale la proprietà è della Nazione e nella quale ogni attività umana, con l’esclusione del “public enjoyment”, della fruizione turistica, è interdetta. Nei parchi americani, che con questo modello hanno fatto scuola nel mondo, la progettazione delle infrastrutture per la fruizione e l’interpretazione diventa una scienza (Hornback e Eagles, 1999), e tutto è finalizzato a massimizzare questo obiettivo. La gestione degli ecosistemi nei parchi nazionali americani è prevalentemente conservativa, con l’idea di mantenere gli “equilibri naturali”. Anche nel pensiero dei parchi nazionali italiani questo modello ha avuto molta fortuna in passato, e tra i “padri storici” delle aree protette nel nostro paese c’è chi l’ha percorso con vigore come, ad esempio, Renzo Videsott, spesso individuato tra i fondatori del pensiero sulla protezione della natura in Italia. L’idea che ne esce è quella, sopra richiamata, dei parchi come “natura allo stato assoluto” da difendere contro gli attacchi dell’uomo (Pedrotti, 1996). Videsott oltre che con i suoi scritti ha applicato questa idea con la sua opera nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, di cui è stato per molti anni Direttore Sovrintendente, e non stupisce quale fosse la sua visione non solo per i riferimenti culturali che all’epoca erano disponibili, ma anche perché nell’immediato dopoguerra si trovò a difendere gli stambecchi del parco da un vero e proprio assalto, utilizzando ex partigiani ed ex militari per contrastare il bracconaggio che minacciava pericolosamente questa specie. In anni recenti anche il sistema dei parchi americani ha iniziato a ripensare il proprio modello, alla luce dell’evoluzione della società e del contesto nel quale essi si trovano ad operare. Al centro della riflessione, così come esplicitato dal un documento strategico, tradotto in Italia da Federparchi (NPS, 2001) troviamo il concetto di stewardship: un tentativo di creare un ponte tra i parchi e la popolazione, non solo in termini di fruizione turistica ma soprattutto di condivisione di vision e obiettivi. Il modello su cui poggiano i parchi storici italiani -come detto- è quello dei parchi nazionali americani, e dei primi parchi nazionali europei. Il concetto fondante era quello di avere grandi distese di natura “incontaminata”, non toccata dall’azione umana. Un modello sostanzialmente simile fu adottato nella realizzazione, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, delle Riserve Naturali dello Stato da parte del. 31.

(32) Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, e in particolare dell’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali e del Corpo Forestale dello Stato (ASFD). Anche in queste riserve il modello seguito fu quello delle “riserve di natura”, con una sostanziale estromissione delle attività umane, resa possibile anche dall’acquisizione al patrimonio pubblico delle aree. Le complesse vicende di regionalizzazione di parte delle competenze dell’ASFD, che fu anche nominalmente disciolta ma continua ancora oggi a operare come UTB – Uffici Territoriali Biodiversità del CFS- portarono ad una serie di incertezze sul destino di queste aree, che comunque in gran parte andarono a costituire il cuore di molti dei nuovi parchi nazionali istituiti tra il 1988 e il 1991 (Aspromonte, Dolomiti Bellunesi, Foreste Casentinesi, Gargano, Gran Sasso, Maiella, Valgrande). L'istituzione delle Regioni a statuto ordinario avvenne nel 1970 e nello stesso anno, con legge delega n. 281, si concretizzò il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni. I decreti di trasferimento delle materie indicate all'art. 117 della Costituzione, e in particolare il DPR 616 del 24 luglio 1977, attribuirono nuove competenze alle Regioni e in particolare, la possibilità di istituire parchi regionali e riserve. Dalla fine degli anni Settanta agli anni Ottanta, vennero istituiti circa 60 parchi regionali (il primo fu il Parco Regionale Lombardo del Ticino, nel 1974) e numerose riserve (la prima fu la Riserva Regionale di Tevere Farfa nel Lazio). Nel 1986 con la legge 439 vide la luce il Ministero dell'Ambiente dando nuovo impulso alla politica delle aree protette, in quanto tra le sue competenze fu inserita la elaborazione di proposte di nuovi parchi nazionali. Come abbiamo appreso, gli anni Novanta si aprirono con l’emanazione della legge quadro sulle aree protette, n. 394/91. Questa dettava norme certe circa: l'istituzione degli enti parco, l'elaborazione di un piano per il parco, l'emanazione di un regolamento disciplinante le attività consentite nell'area nonché la redazione di un piano pluriennale finalizzato a promuovere, nel rispetto delle esigenze di tutela del territorio, ogni iniziativa di sviluppo economico-sociale a favore delle collettività residenti all'interno o nelle zone limitrofe del parco. In particolare l'ente parco, previsto dalla legge, è non solo un ente gestore del parco ma, soprattutto, ente normativo che emana la disciplina cui si deve sottoporre il relativo territorio, sotto il profilo sia urbanistico che paesistico-ambientale. I beni oggetto della speciale tutela e gestione sono i territori ove sono presenti le formazioni fisiche, geologiche e biologiche o gruppi di esse, di rilevante valore naturalistico e ambientale. Le finalità da perseguire sono la conservazione di specie animali e vegetali, di associazioni vegetali e forestali, di. 32.

(33) comunità biologiche, di formazioni geopaleontologiche, di biotipi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici; l'attuazione di metodi di gestione o di restauro ambientale atti a concretizzare una integrazione fra uomo e ambiente naturale anche per mezzo di una particolare tutela dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali; la promozione di attività educative, di formazione e di ricerca scientifica nonché di attività ricreative compatibili; la difesa e la ricostruzione degli equilibri idraulici e idrologici. Le aree naturali protette sono classificate come: parchi nazionali; parchi naturali regionali; riserve naturali. Queste ultime, in base all'importanza degli interessi presenti possono essere statali o regionali. La categoria dei parchi regionali nasce in Francia nel 1967 (Decreto I marzo 1967, n. 67/158) come strumento di competenza dello Stato, trasferita poi alle Regioni nel 1975, data in cui vengono introdotti gli strumenti di piano costituiti dalla Charte Costitutive con annesso Plan du parc (Scarabotti, 1997). In Italia la facoltà di istituire parchi regionali viene disposta con il DPR del 15/1/1972, n.11, laddove si attribuiscono alle Regioni poteri di protezione della natura "non contrastanti con quelli dello Stato". Il decreto suscitò però molte polemiche che furono sedate con il successivo DPR 616/77. Con il trasferimento delle competenze in materia di aree protette dallo Stato alle Regioni e con la conseguente istituzione da parte delle stesse dei Parchi Naturali, si interrompono decenni di inattività normativa e organizzativa. I parchi naturali regionali, oltre ad aumentare sensibilmente la complessiva superficie di territorio nazionale protetto, hanno dato l'avvio a una stagione di dibattito e di innovazione concettuale sui temi della forma e della gestione delle aree protette. In particolare le aree protette regionali, sulla base delle analoghe esperienze condotte in altri Paesi europei, hanno saputo adattare il primitivo modello di parco nordamericano alla complessa realtà dell'antropizzato mondo italiano. La novità apportata da questi parchi è stata quella di aver cercato di coniugare la conservazione delle risorse naturali con l'uso sociale delle stesse e con la ricerca dello sviluppo compatibile per le popolazioni insediate. I parchi si sono così proposti come laboratori di sperimentazione ecologica permanente, dove, con un nuovo approccio culturale ed economico, si riesca a definire un modello di gestione territoriale da estendere al resto del Paese.. 33.

(34) 2.3 I parchi regionali Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la categoria dei parchi regionali nasce in Francia nel 1967 (Decreto 1 marzo 1967, n. 67/158) come strumento di competenza dello Stato, trasferita poi alle Regioni nel 1975. In Italia la facoltà di istituire parchi regionali viene disposta con il DPR del 15/1/1972, n.11, laddove si attribuiscono alle Regioni poteri di protezione della natura "non contrastanti con quelli dello Stato". In sintesi, la differenza concettuale tra parco nazionale e naturale regionale, secondo quanto si rileva nell’art. 2 della legge 394/1991, dovrebbe risiedere essenzialmente nel fatto che in quest’ultima area protetta si dà maggiore risalto alla fruizione antropica strettamente collegata, e vissuta con intima aderenza, con i valori paesaggistici, culturali, artistici e demo-etno-antropologici delle popolazioni locali. La novità apportata da questi parchi è stata dunque quella di aver cercato di coniugare la conservazione delle risorse naturali con l'uso sociale delle stesse e con la ricerca dello sviluppo compatibile per le popolazioni insediate. Come abbiamo detto sopra, la Regione Lazio fu la prima a istituire una riserva naturale di 700 ettari, nel 1979, la Riserva Naturale Tevere Farfa. Oggi il Lazio conta oltre 70 aree protette, uno dei sistemi più ampi a livello nazionale. La legge regionale n. 46 del 28 novembre 1977 diede l'avvio anche per la Regione Lazio alla programmazione della nascita di un Sistema di parchi e di riserve naturali. La legge definiva, oltre alle finalità, gli obiettivi e i soggetti, anche la tipologia delle aree e i relativi organi di gestione, insieme alle norme per l'adeguamento degli strumenti urbanistici e le modalità dei finanziamenti. Nel 1986 viene adottata da parte della Giunta Regionale, di un "Programma di lavoro per la redazione del piano regionale dei parchi e delle riserve naturali". Lo schema di Piano dei Parchi fu adottato dalla Giunta Regionale nel 1993, anche se mai definitivamente approvato. Questo schema di Piano suddivide le aree soggette a tutela e sviluppo orientato alla salvaguardia in 5 tipologie: Parco naturale: area di notevole estensione con elevate caratteristiche di naturalità. Ha come obiettivo la conservazione di ambienti e paesaggi nella loro integrità con differenti gradi di utilizzazione e differenti zonizzazioni del territorio interessato. Parco suburbano: area di media estensione in prossimità di aree urbane con valori ambientali notevoli ma soggetti a utilizzazioni antropiche. Obiettivo è la fruizione turistico-ricreativo e didattica di una risorsa tutelata.. 34.

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