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La Gibilterra Salvata di Ippolito Pindemonte. Edizione e commento.

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA

E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUE, LETTERATURE E

FILOLOGIE EURO-AMERICANE

TESI FINALE

La Gibilterra Salvata di Ippolito Pindemonte.

Edizione e commento.

CANDIDATO RELATORE

Elettra Ligioni Prof.ssa Francesca Fedi

CORRELATORE

Prof.ssa Laura Giovannelli

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Indice

Introduzione……… 1

Pindemonte e il suo tempo Ippolito viaggiatore: da Verona all’Europa………..………..…. 3

Pindemonte e i rapporti massonici………...……...….…… 6

Pindemonte tra Sagramoso e Bertola………...………..….….… 7

L’incerta iniziazione………...………..…….. 12

Tra inglesità e massoneria: due opere pindemontiane Pindemonte e l’anglomania……… 13

La moda inglese dei giardini nella seconda metà del Settecento……….….. 17

Ippolito Pindemonte e la Dissertazione sui giardini inglesi…………..… 19

L’Abaritte………...… 26

La Gibilterra Salvata fra Italia e Inghilterra Informazioni generali………...….. 33

La Florence Miscellany tra Mrs. Piozzi e William Parsons………..…… 36

Mrs. Piozzi e l’Hymn of Calliope……….. 38

La traduzione inglese………. 41

Ricezione dell’opera………..……. 45

L’amicizia con Parsons e la fine dei rapporti inglesi……….…… 47

Il dedicatario della Gibilterra: John Strange……….…… 52

Pindemonte e Strange……….……... 55

Strange e Pindemonte tra Torelli e Lord Bute……….….. 58

Il poema I fatti di Gibilterra……….……. 62

La materia del poema……….……… 65

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Varianti tra prima e seconda edizione………..………. 90

Commento………..…… 95

Appendice iconografica……….… 102

Appendice (a): Ippolito Pindemonte, Appunti di viaggio..……….…… 110

Appendice (b): Paolina Secco-Suardo Grismondi, Per il Signore Elliot…….... 112

Appendice (c): Giovanni Pindemonte, Gibilterra Salvata………….………… 113

Bibliografia……… 114

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1 Introduzione

Il presente lavoro prende in esame la Gibilterra Salvata di Ippolito Pindemonte, poema in endecasillabi sciolti dedicato all’assedio di Gibilterra ed edito per la prima volta nel 1782, prefiggendosi di fornirne una prima edizione commentata. Per una corretta contestualizzazione dell’opera è stato indispensabile ricostruire preliminarmente i rapporti contratti da Pindemonte con il mondo inglese, anche attraverso i circuiti dell’associazionismo massonico. Allievo di eminenti maestri quali Scipione Maffei e Michele Enrico Sagramoso, peraltro autorevoli esponenti della massoneria settecentesca, l’autore abbracciò presto gli ideali latomistici, per poi maturare la cocente consapevolezza della loro irrealizzabilità: una disillusione che Pindemonte avrebbe poi sperimentato anche nei confronti della Rivoluzione Francese e dei suoi esiti. Il progressivo rifiuto dei principî massonici e rivoluzionari sarebbe stato narrato da Pindemonte nel romanzo autobiografico Abaritte, oggetto specifico, insieme alla Dissertazione sui giardini inglesi

e il merito in ciò dell’Italia, del secondo capitolo. Il terzo capitolo si è venuto invece

concentrando sul profilo del dedicatario dell’opera, John Strange, e su quelli di William Parsons e Hester Thrale Piozzi, i curatori della Florence Miscellany, attraverso cui poté circolare oltremanica, seppur in modo limitato, la traduzione delle ottave finali del poema (la sola approntata in lingua inglese).

Dopo la prima impressione veronese del 1782, la Gibilterra Salvata conobbe solamente un’altra edizione a Venezia l’anno successivo, alla quale l’autore apportò “assai cambiamenti” che non riuscirono però a soddisfarlo, portandolo pochi anni dopo al rifiuto dell’opera.1 Come già accennato, il poema, in cui vengono a intrecciarsi realtà storica e personaggi mitologici, narra gli eventi relativi alla decisiva battaglia che nel 1782 pose fine al lungo assedio a cui Francia, Spagna e Olanda sottoposero la rocca inglese di Gibilterra per quattro anni, rendendolo uno dei più lunghi della storia. Grazie alla scrupolosa consultazione dei più recenti resoconti dello scontro, avvenuto solo tre mesi prima della pubblicazione, l’autore dà puntualmente conto degli eventi che si susseguirono durante la battaglia, permettendo così al lettore di immergersi interamente nella storia: viene descritto l’impiego delle nuovissime navi nate dal genio ingegneristico

1 Lettera di Ippolito Pindemonte a Paolina Secco Suardo datata 5 aprile 178: Cfr: Giovanni Labus, Lettere di illustri letterati scritte alla celebre poetessa Paolina Grismondi nata contessa Secco-Suardo fra le arcadi Lesbia Cidonia, Dalla Stamperia Mazzoleni, Bergamo, 1833, p.80.

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del signor d’Arçon; il triste episodio che vide gli alleati dar fuoco alle proprie navi a causa ormai dell’inevitabile sconfitta; ancora, la magnanimità del generale Elliot salvatore di tanti nemici; infine, il felice arrivo dell’ammiraglio Howe che con una vitale scorta di rifornimenti portò gli inglesi alla vittoria. Se da un lato questa descrizione realistica offre al lettore un resoconto approfondito della vicenda, dall'altro abbassa inevitabilmente i toni poetici dell’opera, soprattutto in certe sezioni caratterizzate da una prevalenza di riferimenti bellici, a cui l’autore cerca di sopperire tramite l’inserimento di episodi mitologici. Ercole, Nettuno e Giove sono infatti solo tre delle divinità classiche presenti nel poema, le quali, secondo i dettami della tradizione epica, interferiscono con le vicende degli umani, parteggiando chi per una fazione chi per l’altra.

Dalla lettura della Gibilterra Salvata emergono le note posizioni filoinglesi di Pindemonte, riscontrabili non solo per le esplicite lodi indirizzate alla vecchia Albione o per il riconoscimento del suo predominio nell’arte del commercio e della guerra, ma anche per la dedicatoria a Strange, residente britannico a Venezia, naturalista e personalità eclettica con il quale l’autore intrattenne un proficuo rapporto, di cui però, ad oggi, sono ancora poche le informazioni in nostro possesso. Basti pensare che la corrispondenza intercorsa fra Pindemonte e Strange ci è nota solo per le missive edite da Francesco Vaglione in appendice al suo Dell’amicizia di Ippolito Pindemonte con un naturalista

inglese, l’unico contributo critico specificamente dedicato alla questione.

Analogamente, mancano anche studi critici incentrati sul testo della Gibilterra Salvata. Per questo motivo, lo studio vuole costituire un utile punto di partenza per un’analisi più approfondita dell’opera e del suo contesto di composizione, a partire dal varo dei documenti archivistici pindemontiani conservati presso la Biblioteca Civica di Verona.

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Pindemonte e il suo tempo

1. Ippolito viaggiatore: da Verona all’Europa

Il ’700! Ma certo! Secolo della corruzione e dei cicisbei, della cipria e dei balletti, d’amori frivoli e di canzoni, d’accademia e d’arcadia. Si dimenticano troppo facilmente tutti gli uomini che vissero in quest’epoca, piena, se si vuole, di decadenza e difetti; ma alla fin fine credo che questa decadenza e questi difetti valgano sino ad un certo punto senza contare poi che, (come in ogni uomo a qualità buone stanno le cattive), sono cose esterne e troppo sovente, portate in altro campo, esagerate. In questo secolo, e cioè il ’700, ogni raffinatezza ebbe il suo culto: smalti, miniature, maioliche variopinte, statuine d’avorio, profumi, gioielli, merletti, seterie, furono i pezzi staccati che composero la vita di quel tempo. Una atmosfera velata di epicurea giocondità si diffuse in tutti i salotti; si danzava alle note del Pergolesi, dello Jommelli, del Paisiello; nelle camere si sonavano i minuetti del Boccherini, le gavotte del Lulli e dello Scarlatti; nei giardini si passeggiava romanticamente sotto verdi cupole, al mormorio di discrete cascatelle. Si dipingeva imitando ora Watteau, ora Bucher; ed artisti come Piranesi, Canaletto e Morghen, incidevano i loro rami; gli affreschi del Tiepolo, gli smalti di Peregrino da Cesena, le miniature di Rosalba Carriera ornavano quelle case. Tempo passato; gli anni sbiadirono il ricordo di giorni così felici, cantati dagli arcadi di tutte le colonie. 2

Così Emanuelli presenta, non senza una velata nota di fastidio, una sintesi di quello che nell’immaginario comune è il Settecento, deplorando che troppo spesso gli uomini vissuti in quest’epoca siano stati dimenticati. La figura di Ippolito Pindemonte tuttavia, anche se troppo spesso confinata ad una posizione di secondo piano, si deve ugualmente collocare nel novero dei grandi letterati del secolo. Emanuelli, in apertura del suo lavoro, fornisce una chiara motivazione della sua scelta di scrivere proprio una biografia del Cavaliere, fra tutti i grandi autori del secolo: “Narrando la sua vita, la vita cioè di un uomo poeta e ballerino, elegante ed innamorato, dal vivere tranquillo e sereno, avrei narrata una vita tipicamente di quel tempo”.3

Da quello tramandato dalle principali biografie sembra che la vita di Ippolito Pindemonte sia trascorsa all’insegna dell’agio e della tranquillità.4 Come si evince inoltre dall’incipit dell’estesa opera di Montanari, la famiglia Pindemonte fu non soltanto una della più influenti e ricche di Verona, ma anche “quella che diede un maggior numero di scrittori” alla città, seconda solo ai Maffei, coi quali peraltro Pindemonte era imparentato. La madre

2 Enrico Emanuelli, Uomo del 700 (Ippolito Pindemonte), Emiliano degli Orfini, Genova, 1933, pp.

48-49.

3 Ivi, p. 13.

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d’Ippolito infatti, Dorotea, era la nipote del celebre Scipione, e il padre Luigi, fu uno dei suoi discepoli.5 Di certo l’ambiente l’altolocato in cui Pindemonte nacque gli permise di essere, sin da bambino, circondato da figure di letterati, nobiluomini e gentildonne che influenzarono e plasmarono le sue passioni e a tal proposito non si potrebbero non menzionare le persone di Giuseppe Torelli e Michele Enrico Sagramoso che, amici intimi del padre, per volere di quest’ultimo divennero i suoi principali educatori.6 Dopo gli studi e le frequentazioni colte di cui aveva potuto godere nella prima giovinezza, Pindemonte viaggiò moltissimo in tutta Italia e anche all’estero, seguendo i percorsi tradizionali del

Grand Tour. Una delle esperienze più importanti per la crescita dell’autore fu proprio il

viaggio europeo effettuato tra il 1788 e il 1791, periodo durante il quale Pindemonte maturò riflessioni che andarono poi a influenzare il suo futuro pensiero e le sue opere.7 La prima tappa del suo lungo viaggio fu la Svizzera, luogo di cui Pindemonte riportò impressioni particolarmente vivide sul piano paesaggistico e naturalistico:

Quanto offrir può la Natura, così nell’ameno e ridente, come nel selvaggio e nel grande, tutto qui vedi in breve spazio ristretto; non fai quattro passi senza che un lago o un bosco o un Fiume o un Torrente non ti fermi per via; gli opposti più sorprendenti e le combinazioni più difficili son qui frequentissime; le collinette s’addensano spesso alle gran montagne, ed incontri spesso il facile coll’alpestre, il fiorito col nudo, il gentile coll’orrido, e sempre il vario, il mirabile, il romanzesco.8

Pindemonte giunse poi in Francia, dove fu spettatore, insieme ad Alfieri, degli eventi principali della Rivoluzione Francese, compresa la convocazione degli Stati Generali: nonostante i fervori di quelle vicende abbiano aumentato l’ardore dei suoi sentimenti rivoluzionari, l’autore, pochi anni più tardi, abbandonò, oltre agli ideali massonici, anche quelli più radicali. Dopo la tappa francese, allietata dalla frequentazione del salotto della contessa d’Albany, l’autore arrivò a Calais e da lì salpò per Dover da cui poi raggiunse immediatamente Londra. La permanenza nelle terre d’oltremanica rese più intensa l’ammirazione di Pindemonte per quella nazione, di cui già ben conosceva la letteratura e in parte anche la lingua che aveva iniziato a studiare; inoltre, proprio in Inghilterra trovò

5 Benassù Montanari, Della vita e delle opere d’Ippolito Pindemonte, Paolo Lampato, Venezia, 1834, p.3. 6 Corrado Viola, Ippolito Pindemonte, in «Dizionario biografico degli italiani», 83, 2015. (Treccani online).

Ivano Caliaro, Renzo Rabboni, «’A tuoi verdi anni…». Sui viaggi e le memorie di Pindemonte, in Helmut Meter, Furio Brugnolo (a cura di), «Vie Lombarde e Venete. Circolazione e trasformazione dei saperi letterari nel Sette-Ottocento fra l’Italia settentrionale e l’Europa transalpina», De Gruyter, Berlin, 2011, pp.169-190, alla p. 172.

7 Delle opere più importanti relative al viaggio europeo si accennerà al capitolo successivo.

8 Estratto da Memorie sopra alcuni suoi viaggi. Cfr: Eros Maria Luzzitelli, Ippolito Pindemonte dalla loggia alla selva, in «Studi Storici Luigi Simeoni», XL, 1990, pp.133-171, alla p.154.

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l’ambiente più congeniale al suo spirito (ricordato dai contemporanei per la sua profonda inclinazione alla melanconia), divenendo per lui, come testimoniano anche le pagine dell’Abaritte, un luogo d’elezione, contraddistinto dalla perfezione e dalla felicità:

This period sealed Pindemonte’s love of England. He had found the life he liked, the countryside and gardens which appealed to him deeply, and, perhaps above all, the kind of society which he understood and appreciated. His notebook makes very clear that wherever he went, especially in London and Bath, he met men and women of distinction and intelligence. He made acquaintances among the aristocracy, in the world of art and letters, in the cosmopolitan and ambassadorial circles […].9

Infine, l’autore attraversò la Germania e, dopo aver sostato sia a Berlino che a Francoforte, si recò a Vienna e quindi a Marsiglia prima di rientrare in Italia. Dalle esperienze odeporiche nacquero alcune delle sue opere più famose, riflesso non solo del percorso reale, ma anche di quello intellettuale: l’Abaritte, la Dissertazione sui giardini

inglesi, il poemetto La Francia, il sermone I Viaggi.

L’esperienza che invece portò Pindemonte alla stesura dell’opera principale trattata in questa tesi fu il viaggio compiuto in Italia prima del Grand Tour. L’autore infatti soggiornò in molte città italiane prima di raggiungere Malta, destinazione finale e sede dell’Ordine Gerosolimitano che doveva conferirgli la carica di Cavaliere. Pindemonte prima di approdare sull’isola effettuò un breve soggiorno romano, nel corso del quale – vale la pena ricordarlo – fu accolto in Arcadia con il nome di Polidete Melpomenio, e declamò per l’occasione un poemetto indirizzato a Paolina Secco Suardo, tra gli Arcadi Lesbia Cidonia, più tardi e con più successo celebrata anche da Lorenzo Mascheroni. Il componimento di Pindemonte comunque fu alquanto apprezzato e fu infatti proposto all’autore di pubblicarlo subito; ma egli, nonostante la lusinga nata dalla proposta, preferì differire la stampa e sottoporre intanto i suoi versi ad un altro suo grande maestro, Girolamo Pompei, figura, insieme a Scipione, centrale nel suo sviluppo artistico:10

Ho recitato, l’altro giorno in Arcadia alcune stanze molto applaudite, e che voglion qui persuadermi di dare alla stampa. Io però, quantunque ne sia persuasi, non tanto per la voglia di porle in luce quanto pel comodo di poterne così far parte agli amici, vi domando prima, siccome a mio maestro, licenza, e ve le spedisco espressamente perché me ne diciate con prontezza e sincerità parer vostro.11

9 Edward Thorne, English friends and influences in the life of Ippolito Pindemonte, in «Italian Studies. An

annual Review», XXII, 1967, pp. 62-77, alla p.68.

10 Lesbia Cidonia altro non è che l’intima amica di Pindemonte Paolina Secco Suardo Grismondi. 11 Benassù Montanari, Della vita e delle opere d’Ippolito Pindemonte, cit., pp. 30-31.

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Oltre all’importante tappa nella capitale, Pindemonte soggiornò anche a Napoli e qui ebbe la possibilità di frequentare assiduamente l’amico paterno Sagramoso e di stringere rapporti con il ‘fratello’ Aurelio de’ Giorgi Bertola. Dalla città partenopea l’autore salpò per la Sicilia e da lì prese il mare per giungere a Malta: proprio durante queste tappe nacquero i due famosi poemi la Fata Morgana e la Gibilterra Salvata, quest’ultima, forse, composta proprio sulle galere con le quali solcava il Mediterraneo.

2. Pindemonte e i rapporti massonici

Un aspetto della vita di Pindemonte che spesso non viene trattato adeguatamente nelle biografie è quello relativo alla sua adesione alla massoneria che, istituzionalizzata nel 1717, con la fondazione della Gran Loggia di Londra, contava al tempo molti adepti anche tra i letterati e gli accademici. Le due figure che abbiamo già citato come particolarmente importanti nella formazione di Pindemonte, Torelli e Sagramoso, erano entrambe legate alla libera muratoria. Giuseppe Torelli, anch’egli discepolo di Scipione Maffei ed erede della sua anglofilia, non solo la trasmise al Pindemonte, ma avviò anche quest’ultimo allo studio delle scienze naturali e dell’astronomia. Il balì Sagramoso, per parte sua, lo guidò (forse più di tutti, come si evince dall’Abaritte) nel suo percorso massonico. Entrambi i veronesi erano del resto, a loro volta, intimamente legati a Scipione Maffei.12 Studioso e grande mecenate, uno dei massoni più influenti dell’Italia settecentesca, che durante i suoi viaggi, soprattutto in Europa tra il 1732 e il 1736, aveva avuto l’occasione di frequentare molte autorevoli personalità, e durante il soggiorno parigino, oltre al re Luigi XV, aveva incontrato anche i fratelli illuminati Voltaire e Montesquieu.13 Importante però per l’approfondimento delle sue

conoscenze, ed evidentemente centrale per lo sviluppo della sua nota anglofilia, fu più che altro il soggiorno inglese: fu infatti a Londra che il Maffei conobbe Desaguliers, al tempo Gran Maestro della Gran Loggia, Martin Folkes, vicepresidente della Royal Society e il duca di Montagu, uno dei pionieri del 1717.14

12 Il Bertola affermò che il Sagramoso fu l’allievo prediletto del maestro e che andava non altrimenti che vada un figlio al padre. Cfr: Eros Maria Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la fratellanza con Aurelio de’ Giorgi Bertola. Tra Scipione Maffei e Michele Enrico Sagramoso, Bastogi, Foggia, 1987, p.18.

13 Renata Targhetta, La massoneria veneta dalle origini alla chiusura delle logge (1729-1785), Del Bianco

Editore, Udine, 1998, p.38.

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In ragione di quanto appena accennato, è ovvio che già la formazione di Pindemonte sia stata influenzata sia dal profondo e documentato interesse di Maffei per la cultura inglese che dalla sua appartenenza massonica: se infatti opere come la poesia dedicata a Parsons, la Gibilterra Salvata o la Dissertazione sui giardini inglesi e sul merito in ciò dell’Italia rispecchiano in parte l’anglofilia dell’autore è anche vero che molti lavori pindemontiani, quali le poesie sulle varie parti del giorno presenti all’interno di Poesie campestri e i due perduti drammi I fratelli nemici e Geta e Caracalla offrono dei buoni esempi della rifunzionalizzazione tipicamente massonica dei rispettivi generi letterari.15

Nonostante l’appartenenza alla massoneria della maggior parte delle personalità cui Pindemonte fu legato e nonostante, come accennato, alcune opere dell’autore siano facilmente ascrivibili al filone della “letteratura massonica”, nelle numerose biografie del poeta non si trovano informazioni in proposito: nessuna fa riferimento, se non con un veloce accenno all’Abaritte, che tratta della scoperta degli ideali massonici e rivoluzionari, inizialmente caldamente abbracciati e poi rifiutati, nessuna appunto accenna davvero alla questione della massonicità pindemontiana.

2.1. Pindemonte tra Sagramoso e Bertola

A fronte della cautela mostrata dai biografi, soprattutto ottocenteschi, a gettare un po’ di luce su alcune delle frequentazioni massoniche di Pindemonte provvedono i suoi scambi epistolari. Infatti, se fu Verona la città nella quale Pindemonte scoprì la massoneria e si avvicinò ad essa, cruciali nello sviluppo della sua cultura latomistica e necessari all’approfondimento della sua filosofia furono i rapporti che il Cavaliere instaurò a Napoli. Durante il viaggio in Italia accennato in precedenza, già “punteggiato d’incontri massonici”, Pindemonte soggiornò a lungo nella città partenopea dove, durante le riunioni nelle ville di Antonio di Gennaro duca di Belforte a Mergellina e Posillipo, ricordate anche dal Montanari, il Cavaliere ebbe modo di incontrate eminenti personalità massoniche partenopee e viaggiatori e letterati provenienti da tutta Europa che ivi si riunivano.16 Due però furono le relazioni a Napoli che ebbero una centrale importanza nel percorso latomistico del Pindemonte, ovvero l’intima amicizia stretta col Bertola e

15 Francesca Fedi, Comunicazione letteraria e «generi massonici» nel Settecento italiano, in Gian Mario

Cazzaniga (a cura di), «Storia d’Italia», XXI, La massoneria, Einaudi, Torino, 2006, pp.50-89, alle pp. 60, 72.

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l’approfondimento della conoscenza del Sagramoso. Nell’apertura del quinto capitolo dell’opera del Montanari, dedicato al soggiorno napoletano, viene raccontato che fu attraverso il Sagramoso che il Pindemonte conobbe il Bertola, anche se da una lettera di quest’ultimo, il fatto non sembra essere poi così certo:

Non so bene se io mi debba l'amicizia del Sagramoso al Cavaliere Ippolito Pindemonte, o se l'amicizia di questo a quello: certo intorno all'anima soavemente quel giorno del 1779, quando entrambi con isquisita cortesia soddisfecero alla mia impazienza di conoscerli di persona.17

Indipendentemente da queste inesattezze di poco conto (chi presentò chi a chi non è certo di primaria importanza in questo contesto), se è vero che molte informazioni ci sono giunte sul rapporto tra Pindemonte e Bertola, non si può dire lo stesso per quanto riguarda il legame col Sagramoso anche se, a conferma dell’intimità presente tra i due, all’inizio del diciassettesimo capitolo dell’Abaritte viene espresso tutto il profondo sentimento che lega i personaggi Abaritte-Pindemonte e Achàr-Sagramoso, a riflesso del reale dolore dovuto dalla perdita del maestro:

Ma il momento della separazione de’ due amici era sopravvenuto. L’uno ritornar dovea alla sua patria, e l’altro dalla Tartaria passare nella Siberia. I loro congedi furono pieni d’una melanconica tenerezza; ed Abaritte gli sparse di qualche lagrima. Mi pare, gli dicea Achàr, che le cose comincino ad apparirvi d’un colore alquanto diverso da quello, con cui testè vi danzavano davanti agli occhj, e forse più differenti ancora vi appariranno al termine del vostro viaggio. Abaritte non rispose nulla: avea la mente troppo confitta in chi gli parlava, onde poter bene ciò intendere, ch’egli diceva.18

Le notizie che sono pervenute sino a noi non sono infatti relative al rapporto latomistico fra i due autori; ma è proprio questo, ovvero la loro assenza, che avalla l’ipotesi di una chiara fratellanza massonica, ovviamente necessariamente tenuta segreta. L’opportunità di passare sotto silenzio la natura del legame con Sagramoso, conosciutissimo ed influente massone, e addirittura di distruggere eventuali prove, trapela da uno scambio di lettere col Bertola. L’autore riminese infatti dopo la morte del Sagramoso iniziò a scriverne una biografia e chiese al Cavaliere parte del carteggio col maestro, sperando di ricavarne notizie o curiosità utili per poter delineare un ritratto il più preciso possibile del personaggio. Il Pindemonte tuttavia, in risposta a questa richiesta dichiarò di aver conservato solo poche lettere e che anche quelle poche “non sarebbero da pubblicarsi”,

17 Eros Maria Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la fratellanza con Aurelio de’ Giorgi Bertola., cit., p.18. 18 Ippolito Pindemonte, Abaritte, Londra, 1790, p. 97.

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andando così a sottolineare l’importanza della segretezza alla quale i ‘fratelli’ erano vincolati.19 Come già accennato, durante la permanenza nella città partenopea il Cavaliere fu quasi sempre in compagnia del Bertola, con il quale condivise il fascino offerto dal paesaggio naturale campano, essendo come lui molto sensibile alle bellezze della natura. Del rapporto di amicizia che si venne a creare fra i due offre una chiara immagine il Montanari, che scrive:

Volle fortuna, la quale per verità alla vita d’Ippolito non poco arrise, ch’egli in Napoli ritrovasse un egregio concittadino, il baly Sagramoso, uom di mondo, e gran viaggiatore […]. Questi presentollo ben tosto ad Aurelio Bertola, che in Napoli dimorava, e che prontamente il novello amico in prosa ed in versi encomiò alle stampe.20

E più avanti:

Quante volte, o Bertola, il tuo cuore guidato avrà la tua mano a ricercar con impeto la mano del Pindemonte senza proferire accento! […] Ma l’ebbrezza della tua anima e della sua, che contemplavano unite lo spettacolo della natura, l’hai tu dipinta! Ma l’elogio di quel soave autore l’abbiamo dalla tua penna!21

Bastano queste poche righe per delineare l’immagine dell’affinità che legava i due poeti, sentimento che durò per tutta la vita. La relazione che Pindemonte strinse col fratello è infatti documentata dalle molte lettere che i due si scambiarono e fornisce informazioni utili alla valorizzazione di alcune ipotesi riguardo la sua affiliazione. Un buon esempio è offerto da questa lettera del 16 giugno 1788, che allude chiaramente ad un codice comune simbolico-massonico:

Se, come ho detto, non avessi bisogno di voi, in verità che vorrei ridermi alquanto di voi, e farvi vedere come mostrate in questo proposito d'esser totalmente separato dalla luce, e molto allontanatovi dal Principio buono: e non meraviglia, giacché anche voi vi siete smarrito andando dal quattro al nove, e non si sa quando ritorneremo dal nove al quattro; legge terribile, ma ch'è un gioco in confronto di quella del numero cinquantasei, necessaria a subire da chiunque vuol giungere al sessantaquattro. Basta, ricordatevi che in è tre in uno, ma che non vi può essere uno in tre; e che la terra non è più vergine, e quindi si trova esposta a tutti que' mali che la perdita della Verginità porta seco.22

19 Nonostante Pindemonte fosse reticente a fornire dati sulla relazione con Sagramoso, alla fine donò

comunque al Bertola alcune lettere, solo tre per l’esattezza. Cfr: Maria Eros Luzzitelli, Ippolito Pindemonte

e la fratellanza con Aurelio de’ Giorgi Bertola., cit., p.38.

20 Benassù Montanari, Della vita e delle opere d’Ippolito Pindemonte, cit., p. 35. 21 Ivi, p.36.

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Il carteggio con il riminese è fondamentale perché fornisce inoltre informazioni non di poco conto che hanno portato Luzzitelli ad avanzare l’ipotesi, ormai ampiamente riconosciuta, che il viaggio che Pindemonte intraprese in Europa fu effettuato non solo per piacere, ma anzi, in primis, per allontanarsi dall’ambiente veneto dove sembra che l’Inquisizione fosse sulle tracce del poeta proprio a causa del suo legame con l’associazionismo muratorio. La massoneria infatti era già stata dichiarata illegale dal 1738, quando Papa Clemente XII aveva emanato la bolla In eminenti apostolatus specula, primo documento ufficiale che condanna l’associazione e causa la scomunica dei suoi aderenti e che ironicamente, con un gioco di parole, denuncia l’odio massonico nei confronti della luce:

Tali Società, con stretto giuramento preso sulle Sacre Scritture, e con esagerazione di gravi pene, sono obbligate a mantenere un inviolabile silenzio intorno alle cose che esse compiono segretamente. Ma essendo natura del delitto manifestarsi da se stesso e generare il rumore che lo denuncia, ne deriva che le predette Società o Conventicole hanno prodotto tale sospetto nelle menti dei fedeli, secondo il quale per gli uomini onesti e prudenti l'iscriversi a quelle Aggregazioni è lo stesso che macchiarsi dell'infamia di malvagità e di perversione: se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce.23

La bolla comunque aveva avuto ben scarsi effetti a breve termine visto che molti stati si rifiutarono di registrarla appellandosi alla libertà interna all’associazione e al fatto che non avrebbe dovuto essere sottomessa all’autorità ecclesiastica.24 In generale, tanto poca fu la risonanza di quel primo provvedimento che, per sottolineare nuovamente l’illegalità della massoneria (evidentemente ancora attiva nel rilasciare patenti per formare logge e nell’acquisire adepti), venne emanata dal papa Benedetto XIV un’altra bolla contro l’associazione nel 1751, la Providas Romanorum Pontificium: questa, riaffermando tutti i punti della precedente fu ampiamente discussa e criticata, anche a causa delle voci circolanti sulla possibile affiliazione del papa stesso.25

Ma ritornando a Pindemonte, l’ipotesi di Luzzitelli circa le vere motivazioni del suo viaggio trova riscontro nell’incipit della lettera precedentemente citata, del giugno 1788:26

23 Tullio di Fiore, Massoneria e chiesa cattolica. Dall’incompatibilità alle condizioni per un confronto,

Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2013.

24 Carlo Francovich, Storia della massoneria in Italia. I Liberi Muratori italiani dalle origini alla Rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze, 1975, p.73.

25 Ivi, pp.121-122.

26 Eros Maria Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la fratellanza con Aurelio de’ Giorgi Bertola., cit.,

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11 Pregovi di conservare su quanto vi scrivo il silenzio più rigoroso. Io son per fare un viaggio in Francia ed in Inghilterra; ma prima ho nell’animo di passar nella Svizzera qualche tempo. E già intendete perché vi scrivo, cioè che per la Svizzera appunto desidero da voi qualche lettera. Io non ho detto nulla di ciò né a Verona né a Venezia, volendo che questo mio viaggio si renda noto ad alcune persone così a poco a poco e secondo che andrò facendo; ed è per ciò che vi raccomando la secretezza”27

Inoltre, il Pindemonte nelle lettere alla sua intima amica Isabella non fece nessun riferimento al viaggio imminente che invece, semplicemente con un accenno, le comunicò quasi due mesi dopo, il 9 agosto:28

Chi v’ha detto prima di tutto ch’io viaggerò per due, per tre, per quattro anni? Non mi ricordo d’avervi scritto che “il termine del mio viaggetto non è lontano”: ma non potrei avere inteso del mio viaggetto a Piacenza? […]. Non vi nego che non coltivassi sempre il progetto d’un viaggio, ma vi giuro che non fu il piacer di viaggiare, che mi fece risolvere in questo momento.29

Le reticenze sul viaggio europeo, osservate anche nelle comunicazioni con l’amica Isabella, altro non sono che una conferma della segretezza che il Pindemonte intendeva mantenere in vista della sua partenza. Il viaggio segreto del Cavaliere inoltre si ricollega intimamente al suo rapporto col Sagramoso, che fu probabilmente colui che ne suggerì le tappe e che consigliò al poeta le persone da incontrare, in modo che il giovane potesse approfittare della lontananza dall’Italia per approfondire le sue conoscenze latomistiche in Europa. 30

È importante poi ricordare come il tour europeo compiuto dall’autore fu effettuato solo un anno dopo quello che fece l’amico Bertola, a cui sicuramente chiese indicazioni e consigli.31 Il viaggio del fratello riminese inoltre è categorizzabile, a riflesso di quello pindemontiano, come un vero e proprio tour massonico, le cui esperienze furono ricordate dall’autore nell’opera Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni.

27 Ivi, p.94.

28 Ippolito Pindemonte, Lettere a Isabella, (a cura di) Gilberto Pizzamiglio, Olschki, Firenze, 2000, p.33. 29 Ivi, p.35.

30 Ivi, p.18.

31 Ivano Caliaro, Renzo Rabboni, «’A tuoi verdi anni…». Sui viaggi e le memorie di Pindemonte., cit.,

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2.2. L’incerta iniziazione

Sull’affiliazione massonica di Pindemonte non è stata ancora fatta chiarezza, anche se grazie a vari studi, che comunque necessitano di approfondimenti e riscontri certi, alcune ipotesi sono ormai state tracciate. Due sono secondo Luzzitelli i momenti in cui potrebbe avere avuto luogo l’iniziazione: durante il soggiorno a Napoli nel 1779 o, più probabilmente, già a Verona, grazie alla mediazione del maestro Torelli. Nonostante Luzzitelli sembri più propenso a riconoscere nell’opzione veronese quella più corrispondente alla realtà, a mio avviso la succitata lettera al Bertola, dove viene fatto riferimento alla perdita della luce e al passaggio tra diversi gradi massonici, dovrebbe portare a considerare con più attenzione l’opzione napoletana.

Se nella lettera sopra citata i numeri ai quali Pindemonte fa riferimento possono essere presumibilmente identificati con gradi massonici, allora l’unico rito ben conosciuto nell’Italia del XVIII secolo che riconoscesse un numero di gradi così alto era il rito egizio tradizionale.32 Questo infatti, diversamente dal rito scozzese e dalla classica massoneria azzurra, presenta un numero di gradi che arriva fino al novantesimo e si sviluppò a partire dal 1747, periodo di molto antecedente al soggiorno partenopeo del Pindemonte che quindi, si può facilmente affermare, entrò sicuramente a contatto con alcuni degli adepti.33 Relativamente all’affiliazione dell’autore bisogna comunque ricordare che la partecipazione a qualsiasi rito massonico non può essere effettuata senza aver prima ricevuto l’iniziazione alla massoneria azzurra, ovvero la “classica” di stampo inglese. Per questo motivo, anche se fosse dimostrata l’adesione di Pindemonte a questo rito, è vero che l’opzione del latomistico battesimo veronese potrebbe comunque essere valida. A mio avviso sarebbe interessante un approfondimento sulla questione relativa al rito egizio poiché potrebbe fornire nuovi indizi riguardanti la contesa che vuole l’autore veronese iniziato a Verona o a Napoli.

32 “[…] voi vi siete smarrito andando dal quattro al nove, e non si sa quando ritorneremo dal nove al quattro;

legge terribile, ma ch'è un gioco in confronto di quella del numero cinquantasei, necessaria a subire da chiunque vuol giungere al sessantaquattro”.

33 Carlo Francovich, Storia della massoneria in Italia., cit., pp.449-450.

Eros Maria Luzzitelli, Il viaggio d’Ippolito Pindemonte verso la “virtù” ed i suoi esiti moderati: i rapporti

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Tra inglesità e massoneria: due opere pindemontiane

1. Pindemonte e l’anglomania

Il termine “anglomania”, entrato a far parte dell’esteso vocabolario italiano già a partire dalla seconda metà del Settecento, iniziò ad essere usato per definire i contorni di quella generale fascinazione verso l’inglesità che caratterizzò arte, filosofia e pensiero politico nel XVIII secolo. Arturo Graf nel suo ampio lavoro Anglomania italiana nel Settecento fornisce un’analisi del fenomeno esaminandone, anche specificatamente, molte sfaccettature e l’opera, nonostante si presenti ormai come molto datata, risulta ancora fondamentale per la comprensione di quel periodo. La curiosità verso la realtà inglese si manifestò in larga parte d’Europa e varie furono le imitazioni nei campi più svariati che, talvolta esagerando un desiderio di emulazione, si spinsero fino a sfiorare il ridicolo:

L’imitazione fu ristretta da prima agli originali che più cadeano sott’occhio, cioè a certa soda eleganza in diversi lavori delle arti meccaniche, a certe regole e usi marinareschi: indi si passò a certe costumanze domestiche; e si cominciò a dar nel comico. […] Predice i passi giganteschi dell’Anglomania; e vedutala poi negli ultimi suoi anni intesa unicamente alle frascherie più insensate, solea dire [Sagaramoso] scherzando, non esservi scena d’eroe così grave, che appoggiata a un cattivo attore non possa comparir d’arlecchino.34

Come ormai unanimemente riconosciuto, l’anglomania si affermò prima che in Italia nella più vicina Francia, da sempre una delle nazioni di riferimento per la moda europea. I fautori di questa nuova “corrente anglofila” in Francia furono due dei più importanti protagonisti del Settecento europeo: Voltaire e Montesquieu.35 Quest’ultimo nelle sue

Notes sur l’Angleterre affronta temi quali la realtà sociale, lo spirito liberale, gli

ordinamenti giuridici e politici, il pensiero filosofico e le più semplici realtà quotidiane dell’Inghilterra, mentre Voltaire nelle Lettres sur les Anglais, poi Lettres philosophiques, tratta “l’histoire d’un peuple si extraordinaire”, fornendo un’ampia descrizione di quella gente che ricorda essere “n’est pas seulement jaloux de sa liberté; il l’est encore de celle des autres ”.36

34 Aurelio de’ Giorgi Bertola, Vita del Marchese Michele Enrico Sagramoso Balì del S.M. Ordine di Malta. Parte I., Galeazzi, Pavia, 1793, p. 88.

35 Arturo Graf, L’Anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Ermanno Loescher, Torino,

1911, p.33.

36 Voltaire, Lettres ecrites de Londres sur les Anglois et autres sujets, Jaques des Bordes, London, 1735,

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L’idea generale che era andata formandosi del popolo e del mondo inglese fu anche il frutto di un’elaborazione dell’esperienza diretta di coloro i quali, come i succitati filosofi, soggiornarono brevemente in Inghilterra o impararono a conoscere quella nazione tramite le opere dei suoi scrittori. Oltre a coloro che indirettamente conobbero le sfaccettature della realtà britannica o che considerarono l’Inghilterra come una semplice meta da visitare, più o meno lungamente, durante il Grand Tour, ci fu chi trascorse in Inghilterra lunga parte della propria vita e non mancò di rivelare anche gli aspetti più scomodi di quel mondo che agli occhi dei più appariva, in quel momento, come un modello da imitare:

Questi e mill’altri sono i begli effetti delle tanto vantate leggi inglesi e delle tanto sperticate ricchezze d’Inghilterra, che muovono l’invidia di chi le sente commendare dagli scrittori di Francia, i quali leggono i britannici libri e li traducono, e danno e fanno lor dare molto più fede che non meritano quando si tratta di questi punti; che gl’Inglesi sono perpetui lodatori del loro sistema politico ed ecclesiastico, e sempre vilipendono l’altrui. E noi siamo i be’ gonzi a credere che la libertà, di cui la nazione inglese mena tanto vanto, renda quel popolo il più dovizioso, il più gioioso e il più avventuroso di tutti i popoli.37

Molti dei letterati e politici più in vista nella Repubblica veneta subirono una fascinazione verso la terra d’Oltremanica e tra coloro che manifestarono poi un particolare interesse per questa nazione e la sua realtà, ritroviamo Scipione Maffei. Il veronese fece infatti dell’Inghilterra una tappa del suo lungo viaggio in Europa e anche se il soggiorno fu solamente di tre mesi, tessé in quel periodo importanti rapporti e ne approfondì altri, entrando in contatto anche con illustri esponenti della massoneria, affiliati alla Gran Loggia di Londra, e frequentando la Royal Society di cui divenne membro.38 Prendendo spunto dal viaggio europeo e una volta tornato in Italia, Maffei pubblicò il Consiglio

politico finora inedito presentato al governo veneto nell’anno 1736 dove, descrivendo le

principali caratteristiche e i vari ordinamenti politici dei maggiori paesi visitati, trattò ovviamente anche dell’Inghilterra, riconoscendo nella sua forma di governo la realtà più conforme ai principî di quella Roma repubblicana a cui auspicava si potesse ispirare la sua Repubblica di Venezia.39

37 Lettera di Baretti del 29 agosto 1760, Cfr: Matteo Ubezio, L’Inghilterra vista da vicino. Note barettiane ad uso dei connazionali, in «ACME», LXIII, II, 2010, pp.171-211, alla p.184.

38 Il viaggio di Maffei durò dal maggio all’agosto del 1736. Cfr: Maria Eros Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la fratellanza con Aurelio de’ Giorgi Bertola., cit., p.33.

39 Gian Paolo Romagnani, Scipione Maffei, in «Dizionario biografico degli italiani», 67, 2006, (Treccani

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Oltre a Maffei, sulla cui anglofilia non è il caso d’insistere ulteriormente in questa sede, merita ricordare tra i letterati più decisamente aperti alla cultura inglese anche Melchiorre Cesarotti, uno dei più importanti traduttori dei Canti di Ossian e, come Pindemonte, protagonista anch’egli della discussione sui giardini inglesi all’Accademia di Padova. A questo proposito poi non possono mancare i riferimenti a Giuseppe Torelli (allievo di Maffei, colui che più di tutti avviò Pindemonte allo studio delle “cose” inglesi), e ad Antonio Cocchi che, affascinato dall’Inghilterra, così ne scriveva ad un amico:40

Non so però scacciare le tentazioni di ritornare in Inghilterra; io procuro di sopprimerle col rifletter che qua sono amato, vivo comodamente, e più tosto con qualche poco di gloria, essendo quasi da tutti conosciuto e qui e in Firenze, e conoscendo io pochissimi, anzi facendo il prezioso: e pure elle ritornano ad ogni poco, di tal maniera che s’ella m’invitasse a ritornar tra ‘l fumo e ‘l fango, massime tra un anno o due […] io credo che non saprei resistere. Non si può più stare giocondamente altrove: tutto par sudiciume, vanità, ignoranza, angustie, calamità, schiavitudine. Non letto, non tavola, non casa, non città, non popolo mancano mai di rammentarvi quell’isola fortunata.41

Infine, si riportano di seguito i versi relativi alla vecchia Albione di Alfieri che nella sua

Satira nona esplicita l’ammirazione nei confronti di quella terra:

... approdo

Un’altra volta al libero paese:

Cui vieppiù sempre bramo e invidio e lodo, Viste or tante altre carceri Europée,

Tutte affamate e attenebrate a un modo. Venalitade, e vizj, e usanze ree,

Io già nol niego, hanno i Britanni anch’essi; Ma franca han la persona, indi le idee. Finch’altro Popol nasca, e l’Anglo cessi, Questo (e sol questo) s’ami e ammiri e onori, Poich’ei non cape nè oppressor nè oppressi.42

Non solo circondato ma soprattutto avviato allo studio da maestri che riconoscevano nella realtà inglese un esempio a cui ispirarsi, Pindemonte fu in questo un perfetto figlio

40 Per i rapporti tra Cocchi e il mondo inglese, si rimanda a: A.M. Megale Valente, Il viaggio europeo di A.C. attraverso le sue “Effemeridi”, in «Miscellanea di storia delle esplorazioni», V, 1980, pp.77-146. 41 Lettere inedite d’illustri italiani che fiorirono dal principio del secolo XVIII fino ai tempi nostri., Società

tipografica del Classici Italiani, Milano, 1835, pp.111-112.

42 Vittorio Alfieri, Satire, (a cura di) Gabriella Fenocchio, Mimesis, Milano, 2017, p.209. Inoltre, per un

approfondimento sul tema della fascinazione esercitata dal mondo inglese su Alfieri si rimanda a: Francesca Fedi, Alfieri and the “English Republic”: Reflections on an Elective Affinity, in P. Bianchi e K. Wolfe (a cura di), «Turin and the British in the Age of the Grand Tour», University Press Cambridge, Cambridge, 2017, pp. 378-92.

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dell’anglomania del suo tempo. Ciò non significa, tuttavia, che questo atteggiamento si sia manifestato come una forma maniacale di “traviamento”, nonostante il giudizio in merito espresso da Saverio Pieri.43 Anzi, le opere in cui l’atteggiamento filo-inglese di Pindemonte si manifesta in maniera esplicita sono tutto sommato poche nella sua produzione. Uno dei lavori che riflette chiaramente quest’interesse, riscontrabile tra l’altro anche in varie corrispondenze epistolari dove l’autore accenna spesso all’inglesità, è ad esempio la raccolta delle Prose e Poesie Campestri dove si possono notare alcuni passi decisamente frutto di un approfondito studio di alcuni autori inglesi. Zanella, per esempio, propose a suo tempo d’interpretare i seguenti versi pindemontiani de La Sera come una diretta riscrittura della Ode to Evening di William Collins:44

Ma o sia che rompa d’improvviso un nembo Che a te spruzzi il bel crin, la Primavera; O il sen nudo, e alla veste alzando il lembo L’Estate incontro a te mova leggera, O che Autunno di foglie il casto grembo Goda a te ricolmar, te dolce Sera, Canterò pur, s’io mai potessi l’ora Tanto o quanto allungar di tua dimora

While Spring shall pour his showers, as of the wont, And bathe thy breathing tresses, meekest Eve! While Summer loves to sport

Beneath thy lingering light,

While sallow Autumn fills thy lap with leaves.45

Se l’eco dell’interesse per il mondo inglese si può riscontrare più o meno velatamente in alcune opere – si ricordi anche la dedica a Strange nella Gibilterra Salvata –, l’anglofilia venne davvero manifestata dall’autore nell’Abaritte, romanzo autobiografico in cui esprime la sua predilezione per quella nazione. Quest’opera, insieme alla Dissertazione

sui giardini inglesi e il merito in ciò dell’Italia, costituisce uno dei lavori più famosi

ispirato dalle esperienze vissute durante il Grand Tour compiuto tra il 1788 e il 1791. Del suo viaggio europeo Pindemonte ha lasciato, sparse su diversi fogli, fugaci annotazioni che talvolta interpolate da scritti più ponderati, registrano eventi, momenti e

43 “Egli [Pindemonte] più che giudizi proprii esprimeva quelli di altri: inoltre l’anglomania aveva preso

anche lui e lo faceva traviare, come la francomania aveva fatto traviare tutta Italia”. Cfr. Saverio Pieri,

Isotta Pindemonte – Landi e Ippolito Pindemonte a Piacenza, Ed. Spoerri, Pisa, 1991, p. 40. Cfr:

Anna-Vera Sullam Calimani, Ippolito Pindemonte e la lingua inglese, in «Quaderni veneti», 34, 2001, pp.179-198, alla p.180.

44 Giacomo Zanella, Ippolito Pindemonte e gli Inglesi, in «Paralleli letterali», 1881, pp.22-39, alla p.37. 45 William Collins, Ode to Evening, in «Odes on Several Descriptive and Allegoric Subjects», London,

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persone incontrate dall’autore veronese durante i suoi spostamenti.46 Grazie all’intervento di Don Cesare Cavattoni, bibliotecario della Comunale di Verona che nel 1869 fu incaricato di sistemare il catalogo delle opere di Pindemonte, i fogli dell’autore relativi al viaggio ci sono pervenuti sotto forma di una raccolta, sebbene non molto cronologicamente attendibile, con il titolo Memorie sopra alcuni suoi viaggi.47 Saverio Pieri nel 1950 trascrisse poi i fogli relativi al soggiorno inglese dell’autore e la Calimani, pochi anni fa, ha invece analizzato la presenza di termini inglesi in quelle pagine, dimostrando come molti anglicismi entrati nel vocabolario italiano anni dopo la morte di Pindemonte fossero già stati introdotti in Italia dall’autore.48

Un’ultima opera a cui si fa spesso riferimento trattando dell’anglofilia del veronese è il sermone I viaggi che, scritto nel 1793, descrive fra i molti luoghi visitati anche il Regno Unito e racconta curiosità e caratteristiche di quella terra e quel popolo.49 Infine, un ulteriore esempio dell’ammirazione pindemontiana nei confronti dell’Inghilterra si evince anche dalla seguente lettera spedita all’amico Bertola, dove già si accenna a Tasso e al giardino di Armida di cui Pindemonte tratterà nella futura Dissertazione sui giardini

inglesi:

Or non è egli vero che l’Europa non fu mai così commossa e agitata, come ora è? Giacchè in alcune parti, ove nulla accade, v’ha però il timore non sia per accader qualche cosa, e quest’Isola è forse la sola parte veramente tranquilla, senza moti presenti, e libera dal timor de’ futuri. Io però dico che questo è il porto del mondo, come dice il Tasso dell’Isoletta d’Armida.50

2. La moda inglese dei giardini nella seconda metà del Settecento

Le novità giunte dall’Inghilterra durante il XVIII secolo si diffusero capillarmente in Europa, interessando anche aspetti non solo strettamente correlati alla letteratura ma all’arte nelle sue molteplici sfaccettature, come ad esempio, nell’architettura, la composizione dei giardini. In tutto il continente si sviluppò quindi una nuova moda, quella

46 “Il conte Ippolito è stato conosciuto in Inghilterra, e ci ha lasciato un nome caro”, veniva scritto nel 1808

da Francesco Panati. Cfr: Edward Thorne, English friends and influences in the life of Ippolito Pindemonte, cit., p.71.

47 Caliaro Ivano, Rabboni Renzo, «’A tuoi verdi anni…». Sui viaggi e le memorie di Pindemonte, cit., p.177.

In appendice (a) sono state trascritte alcune parti delle Memorie relative al soggiorno inglese, per fornire al lettore, a puro titolo di esempio, un’indicazione del genere di appunti di cui è qui discusso.

48 La trascrizione di Pieri riporta spesso degli errori di riscrittura. Cfr: Anna-Vera Sullam Calimani, Ippolito Pindemonte e la lingua inglese, 2001.

49 Ippolito Pindemonte, Sermoni d’Ippolito Pindemonte veronese, Dalla Società Tipografica, Verona, 1819. 50 Lettera di Pindemonte a Bertola del 16 novembre 1789. Cfr: Edward Thorne, English friends and influences in the life of Ippolito Pindemonte, cit., p.67.

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del “giardino inglese”, detto anche “informale” o “di paesaggio”: il Landscape Garden. La principale caratteristica di questo stile, che mirava ad un “ordine nel disordine”, era riscontrabile nella presenza di un’organizzazione più libera e vicina alla tipica disomogeneità che si ritrova in natura, caratteristica assente invece nei giardini dallo stile “all’italiana” che ormai: “con la loro struttura geometrica sembravano mortificare la spontaneità del mondo naturale esaltata dai filosofi, poeti ed artisti, non trovavano più corrispondenza nel pubblico, affascinato dal pittoresco e dall’esotico”.51

Nonostante durante la seconda metà del Settecento fosse ormai unanimemente riconosciuto che i maggiori esperti nell’arte dei giardini fossero gli Inglesi, furono invece contrastanti le posizioni riguardo all’origine di questo genere. Ci fu infatti chi rivendicò per l’Inghilterra anche il merito di avere “inventato” un nuovo stile di giardino (come ad

esempio affermò Walpole nel suoEssay on Modern Gardening); ma anche chi riconobbe

l’Italia come la patria del genere, o ancora chi vide la sua origine nella lontana Cina, stando a quanto riportato ad esempio dall’architetto William Chambers, nel suo A

Dissertation on Oriental Gardening.52 Ovviamente il dibattitto rimase aperto vista l’impossibilità di decretare con certezza quale fosse stato il popolo pioniere di questo genere; ma è molto probabile che un influsso da Oriente si sia intrecciato con l’abilità degli architetti di oltremanica, così come è deducibile dalla coniazione del termine “jardins anglo-chinois”.53

Come ricordato da Cazzaniga, soprattutto, una delle caratteristiche del Landscape Garden fu quella di chiudere con la tradizione del classico hortus conclusus e fornire invece uno spazio, fisico sì, ma di riflesso mentale e spirituale, che si potesse aprire maggiormente alla natura, permettendo all’io che fruiva del giardino di uscire, metaforicamente, dal proprio recinto.54 Due modelli di architettura definiti “giardino di natura” e “giardino di memoria” si delinearono inoltre all’interno del nuovo Landscape Garden dove, si ricorda, non si riscontrava più una struttura organizzata: la composizione del primo mirava alla

51 Gian Mario Cazzaniga, Giardini settecenteschi e massoneria: il giardino di memoria, in «Storia d’Italia»,

XXI, La massoneria, Einaudi, Torino, 2006, pp.120-138, alla p. 125.

Maria Rosaria Iacono, La storia del giardino inglese. Il “bello” e l’”utile” secondo i dettami del Settecento, in «Bollettino d’arte», VII, 15, 2012, pp.121-140, alla p.122.

52 Francesca Orestano, Melchiorre Cesarotti, tra Inghilterra e Italia: la traduzione infedele e l’invenzione del giardino, in «Melchiorre Cesarotti e le trasformazioni del paesaggio europeo», Edizioni Università

Trieste, Trieste, 2010, pp.91-99, alla pp. 92-93.

53 Antonella Pietrogrande, L’idea di giardino nel dibattito padovano di fine Settecento e nelle Operette di varj autori intorno ai giardini inglesi ossia moderni, in «Operette di varj autori intorno ai giardini inglesi

ossia moderni. Con l’aggiunta del discorso accademico sul giardino di Vincenzo Malacarne», Edizioni Università Trieste, Trieste, 2009, pp.7-44, alla p. 17.

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creazione di un giardino che si mimetizzasse all’interno di un paesaggio più ampio, facendone armoniosamente parte; l’architettura del secondo invece, caratterizzata da piccole costruzioni evocative a volte di culture lontane nel tempo e nello spazio (tempietti, pagode ecc.), aspirava a proiettare l’uomo in un percorso denso di storia e richiami intellettuali: questo fu il tipo di giardino a cui guardò il mondo latomistico.55 Inoltre, fra le teorie alla base della progettazione di un giardino emerse anche quella visione altruistica che lo vedeva come un “oggetto sociale”: la sua realizzazione infatti mirava alla modificazione della natura per renderla utile all’intera società: concetto questo, ancora una volta, collegato ad uno dei principi chiave dell’ideologia massonica.56 Alla luce di queste considerazioni è importante quindi sottolineare che il fascino verso il

Landscape Garden, inizialmente un semplice riflesso della più diffusa anglomania,

divenne poi punto di partenza per riflessioni filosofiche anche sul rapporto tra uomo e natura.

2.1. Ippolito Pindemonte e la Dissertazione sui giardini inglesi

Proprio per le sue più profonde implicazioni filosofiche la realtà del nuovo Landscape

Garden fu anche discussa all’interno dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Padova.

Il dibattito che si sviluppò negli anni Novanta vide tra le varie personalità coinvolte anche Pindemonte, il quale espresse le sue idee sul tema nel Saggio sopra i giardini inglesi scritto nel 1792 e pubblicato dall’Accademia nel 1809: contributo che poi, rivisto ed ampliato dall’autore, venne dato alle stampe a Verona all’interno della raccolta Operette

di varj autori intorno ai giardini inglesi ossia moderni nel 1817 con il nuovo titolo Dissertazione sui giardini inglesi e il merito in ciò dell’Italia.57

Il Saggio venne ideato durante il soggiorno dell’autore in Inghilterra quando, potendo ammirare i famosi giardini “moderni” di cui era “almost obsessed”, raccolse le idee per comporre un’opera il cui soggetto principale fosse la combinazione di due dei suoi maggiori interessi: la natura e l’“inglesità”.58 Conservati alla biblioteca civica di Verona tra gli appunti che – come sappiamo – Pindemonte stese durante il soggiorno inglese, si trovano annotazioni dell’autore che, con il titolo Memorie per giardini inglesi, dovevano

55 Ivi, p. 126.

56 Francesca Orestano, Melchiorre Cesarotti, tra Inghilterra e Italia., cit., p.97.

57 Antonella Pietrogrande, La percezione del paesaggio che emerge dal dibattito padovano sui giardini inglesi di fine Settecento, in «Il bianco e il nero», 12, Forum, Udine, 2010, pp.29-40, alla p.34.

Antonella Pietrogrande, L’idea di giardino nel dibattito padovano di fine Settecento., cit., p.11.

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fungere da base per la stesura di un testo tra il saggistico e il romanzesco sul tema generale dei giardini. Pindemonte decise infine di non scrivere l’opera, nonostante ne avesse ben chiara la struttura, probabilmente a causa della scelta di concentrarsi invece sull’Abaritte, come si evince dalla seguente lettera inviata a Bettinelli:59

Posso dire di avere i materiali per un’opera ch’io meditava, sopra i Giardini, nella quale io voleva trattare di tali erudite delizie per via di dialogo, facendo che uno degl’interlocutori celebrasse il giardino italiano o francese, un altro l’inglese, l’olandese un altro, e va discorrendo, ed ornando il tutto con erudizione antica e moderna, ed anche inserendo nella trattazione una storiella o romanzo perché i dialoghi che durerebber più giorni, dovrebber tenersi in casa d’un’illustre donna, che avesse una bella ed amabile figlia, il che renderebbe più interessante l’opera, che sarebbe ancora, s’io non m’inganno, d’un genere nuovo. Ma vedendo poi che questa materia de’ giardini non è in Italia né conosciuta molto, né molto gustata, io lasciai quel lavoro, e mi contentai di scriver solamente una dissertazione sopra i Giardini inglesi, che mandai all’accademia di Padova e che manderò anche a lei che val per me quanto un’accademia, se le piacesse vederla.60

Tra le Memorie per i giardini inglesi di particolare importanza risulta il seguente passo che riflette – a questa altezza cronologica – una visione del giardino concepito come possibile rappresentazione del tipico percorso massonico di progressivo avvicinamento alla perfezione virtuosa:

Bel pensiero d’un giardino morale: due porte: entrando per l’una si trova tutto bello e fiorito nel principio, e poi viene a poco a poco il selvaggio l’orrido ec. Entrando per l’altro è il contrario: comincia l’alpestre e faticoso, e poi viene il facile e il bello. Una è la porta del vizio, l’altra della virtù. E forse in luogo di due giardini e strade, potrebbe bastare una sola, solo ce si cominciasse dall’una parte una volta, e dall’altra parte un’altra. Forse anche alcuni altri simili morali e istruttivi giardini inventar si potrebbero. Colpisce molto un vero, benchè comune, presentato in tal modo.61

Nonostante i richiami al mondo latomistico siano presenti nella Dissertazione sin dall’incipit, dove l’autore cita un passo dell’opera Of Gardens di Bacone, filosofo vicino alla dottrina dei Rosacroce, bisogna ricordare che durante gli anni successivi, e all’epoca della stesura definitiva di questo lavoro, Pindemonte si era già allontanato dagli ideali massonici:

59 Antonella Pietrogrande, La percezione del paesaggio., cit., p.34.

60 Lettera di Pindemonte a Bettinelli, non è indicato l’anno ma verosimilmente è il 1792. Cfr: Benassù

Montanari, Vita di Ippolito Pindemonte, cit., pp. 124-125.

61 Estratto da Memorie per giardini inglesi. Cfr: Eros Maria Luzzitelli, Ippolito Pindemonte dalla loggia alla selva., cit., p.145.

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21 Un giardino, scrive Bacone di Verulamio, è il più puro de’ nostri piaceri, e il ristoro maggiore de’ nostri spiriti, e senza esso le fabbriche ed i palagi altro non sono, che rozze opere manuali: di fatto si vede sempre, che ove il secolo perviene al ripulimento ed alla eleganza, gli uomini si danno prima, a fabbricare sontuosamente, e poi a disegnar giardini garbatamente, come e quest’arte fosse ciò che avvi di più perfetto.62

All’interno dell’opera infatti l’autore non riconosce tanto nel giardino una sorta di “Eden ritrovato”, quanto piuttosto, come esaustivamente dimostrato da Luzzitelli, una realtà che pone l’uomo di fronte all’eterna oscillazione tra le antitesi del mondo, tra vizio e virtù, rispecchiando quindi l’impossibilità umana del raggiungimento della perfezione.63 Subito dopo l’incipit l’autore dichiara che fu l’Italia “la prima a coltivare, come gli altri studj, quello ancora delle amenità villerecce” e solamente in seguito a questa premessa viene presentato il vero protagonista del trattato: il giardino inglese. Dopo aver accennato all’impossibilità di descrivere perfettamente questo nuovo stile, data la sua costante evoluzione, l’autore delinea brevemente quelle che sono le caratteristiche del Landscape

Garden, soffermando l’attenzione sulla vastità del terreno occorrente per la sua

realizzazione e ricordando quanto “abbiano del ridicolo certe imitazioni dell’Inghilterra, che si veggono in più parti d’Europa” 64. Una delle novità del giardino inglese, presente all’interno del “giardino di memoria”, furono le cosiddette fabriques, costruzioni il cui scopo mirava, oltre ad accentuare la bellezza del giardino, a stimolare il visitatore all’introspezione, chiamandolo ad una riflessione storica.65 Tra le fabriques si ricorda la presenza di edifici dai richiami orientaleggianti che Pindemonte non sembrò particolarmente apprezzare e che, anzi, risultarono per lui ridicole considerata la loro estraneità al contesto europeo: “E que’ tempietti Cinesi? Come se colonie venute fossero in Francia, o in Germania di Cinesi uomini, che lasciati ci avessero, ed anche ottimamente conservati, i lor monumenti”.66

Dopo l’iniziale descrizione di questa moda e delle sue caratteristiche l’autore cambia tono soffermandosi sugli aspetti meno evidenti relativi all’ideazione di un giardino e, seppur brevemente, indaga sul piacere scaturito dalla visione campestre, affermando in conclusione quanto un luogo bucolico sia tanto più emozionante quanto meno la mano

62 Ippolito Pindemonte, Dissertazione sui giardini inglesi e il merito in ciò dell’Italia, in «Operette di varj

autori intorno ai giardini inglesi ossia moderni. Con l’aggiunta del discorso accademico sul giardino di Vincenzo Malacarne», Edizioni Università Trieste, Trieste, 2009, pp.56-71, alla p.56.

63 Eros Maria Luzzitelli, Ippolito Pindemonte dalla loggia alla selva, cit., p.154. 64 Ippolito Pindemonte, Dissertazione sui giardini inglesi., cit., p.56, 58.

65 Antonella Pietrogrande, L’idea di giardino nel dibattito padovano di fine Settecento., cit., p.15. 66 Ippolito Pindemonte, Dissertazione sui giardini inglesi., cit., p.58.

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dell’uomo l’abbia modificato.67 Per questo motivo molti furono coloro che preferirono lo stile inglese a quello italiano e Pindemonte a questo riguardo, come ricorda Pietrogrande, concordò con la posizione sulla questione espressa da Delille nella sua opera Les Jardins

ou l’art d’embellir les paysages: opera che l’autore veronese “traduce quasi alla lettera”

in certi passi.68 Infatti, in un accenno ai giardini più strutturati, affermò che:

Perché, avendo due piaceri, rimaner vorremo con uno solo? Due piaceri che per l’opposizione, in cui son tra loro, s’aguzzano scambievolmente, e del minor de’ quali potrò almeno servirmi per tornagusto. Perché, godendo delle bellezze naturali, non godrò ancora di veder gli alberi e le acque, di veder la stessa natura dall’uom sottomessa, e a’ suoi capricci ubbidiente, ammirando il poter dell’uomo, e il mio amor proprio rallegrando con tale ammirazione?69

Il dibattito sul nuovo stile e il confronto tra le opinioni dei principali studiosi dell’argomento portarono alla luce due linee di pensiero: ci fu chi riconobbe la necessità di attribuire all’architettura dei giardini una dignità di “produzione artistica” come affermò il letterato Luigi Mabil nel suo Saggio sopra l’indole dei giardini moderni; e chi, come Pindemonte, sostenne invece l’impossibilità di affiancare il giardinaggio alle arti della scultura, della pittura e della scrittura.70 Il concetto base che costituiva il fondamento della visione pindemontiana era quello relativo al medium con cui, secondo, l’autore doveva essere imitata la natura: esso doveva differenziarsi dall’essenza di cui la natura stessa era composta: conseguentemente si poteva imitare la natura con la pittura, con dei versi o con la scultura, ma non la si poteva riprodurre utilizzando altra natura, ovvero materia naturale quali gli elementi che componevano un giardino:

L’artista, qualunque siasi, che prende a imitar la natura, ha una materia sua propria, di cui si vale per le sue imitazioni. Una tela, o tavola, o altro di superficie piana con alquante terre colorite è la materia del pittore: un pezzo di marmo quella dello statuario. E tanto importa la considerazione di questo materiale, che da esso principalmente quel piacer deriva, e quello stupore che tali arti producono in noi; dal veder cioè, che l’artista con una materia tra le mani indocile oltre modo e ritrosa, seppe nondimeno, senza mai cambiarla,

67 Riguardo a questa chiara divisione all’interno del saggio Throne afferma: “when he turns to questioning

whether such activity can properly be called an art, since the raw materials are not the designer’s alone, his style becomes as flat as it nearly always does when he writes formally on abstract themes”. Cfr: Edward Throne, English friends and influences in the life of Ippolito Pindemonte, cit., p.74.

68 Antonella Pietrogrande, L’idea di giardino nel dibattito padovano di fine Settecento., cit., p.15. 69 Ippolito Pindemonte, Dissertazione sui giardini inglesi., cit., p.60.

70 Mabil fu l’autore di Arte dei giardini, opera che, guardando a Theorie der Gartenkunst di Hirschfeld, era

considerata il più importante compendio sui giardini scritto in Italia. Cfr: Gian Mario Cazzaniga, Giardini

settecenteschi e massoneria, cit., p. 122.

Il saggio di Mabil, discusso prima a Padova nel 1796 e poi pubblicato a Venezia nel 1798, venne inserito all’interno della raccolta Operette di varj autori intorno ai giardini inglesi ossia moderni.

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23 modificarla così, che tanto rassomigliasse all’originale da lui tolto a imitare, quanto non si sarebbe creduto, che rassomigliare potesse. Di fatto mettiamoci a riunire quelle due arti, e coloriamo una statua: cresce l’imitazione, e ciò non ostante l’effetto scema. […] Non può dunque l’arte de’ giardini Inglesi essere imitativa, e tra le arti, che chiamano con tal nome, venir collocata.71

Mabil, come accennato, diversamente da Pindemonte, affermò invece che la nuova tecnica di costruzione aveva il diritto di essere considerata una forma d’arte per il semplice motivo che essa non mirava a riproporre le mere sembianze della natura quanto piuttosto il suo atteggiamento, la sua essenza:

Il nostro artista, quando pianta ed alleva un boschetto, non si propone d’imitare gli alberi, che lo compongono, ma bensì le sue forme, i caratteri proprj, e persino que’ felici accidenti, che contrassegnano sì evidentemente i boschetti, che crescono spontanei sotto la mano dell’artefice natura; che il suo modo d’imitare non prende di mira il soggetto, ossia l’essenza di quello, ma piuttosto la disposizione, la fisionomia, l’atteggiamento, ch’esso aver deve per generare un grato equivoco, una deliziosa dubitazione, se natura od arte abbia creato quella scena, preparata quella sorpresa, delineato quel quadro; che finalmente avendo in natura ogni piaggia, ogni sito la sua fisionomia il suo carattere distinto, che è il risultato della maniera di essere di tutto ciò, che lo compone, questa maniera appunto è quella, che il nostro artista si prende ad imitare, questa è lo scopo de’ suoi pensieri, de’ suoi tentativi, dell’arte sua.72

Un altro dei temi trattati nella Dissertazione è quello relativo al dibattitto riguardo la genesi del Landscape Garden che vide Pindemonte il maggiore sostenitore dell’opzione “tassiana”, contrariamente a chi, come Walpole, voleva attribuire quella nascita a Milton e al suo Paradise Lost:

Ma ciò che l’ingegnoso autore [Walpole] ha detto del Milton, a me pare, che assai più convenevolmente si sarebbe pronunziato d’un nostro Italiano, cioè dell’immortale Torquato Tasso.73

Secondo il veronese infatti, proprio all’interno della Gerusalemme Liberata si trova una precisa descrizione di quello che è il giardino inglese:

Poiché lasciar gli avviluppati calli, In lieto aspetto il bel giardin s’aperse Acque stagnanti, mobili cristalli, Fiori varj, e varie piante, erbe diverse,

71 Ippolito Pindemonte, Dissertazione sui giardini inglesi., cit., pp.58-59.

72 Luigi Mabil, Saggio sopra l’indole dei giardini moderni, in «Operette di varj autori intorno ai giardini

inglesi ossia moderni. Con l’aggiunta del discorso accademico sul giardino di Vincenzo Malacarne», Edizioni Università Trieste, Trieste, 2009, pp.72-81, alla p.80.

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