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Trattamento del dolore nelle patologie ortopediche

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie

in Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN

MEDICINA E CHIRURGIA

TESI DI LAUREA

“Il trattamento del dolore nelle patologie ortopediche”

Relatore:

Prof. Michelangelo Scaglione

Candidato:

Abdullah Koudsi

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INDICE

Introduzione……….………..pag. 2

Capitolo 1: Il dolore

Generalità……….……….………pag. 3

Epidemiologia………...……pag. 4

Excursus normativo………..pag. 5

Classificazione………..pag. 8

Anatomia del sistema algico……….pag. 9

Capitolo 2: Clinica………pag. 18

Capitolo 3: Diagnosi……….pag. 20

Capitolo 4: Farmaci analgesici

Fans………. .pag. 25

Oppioidi………pag. 27

Anestetici locali………...….pag. 35

Farmaci adiuvanti……….pag. 39

Capitolo 5: Il Trattamento del dolore ortopedico……….pag. 41

Gestione del dolore acuto……….pag. 42

Gestione del dolore post-operatorio in chirurgia ortopedica…………pag. 46

Gestione del dolore cronico……….……….pag. 50

Conclusioni………....pag. 55

Bibliografia ………pag. 56

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INTRODUZIONE

Il dolore è una sensazione spiacevole che abbiamo provato tutti almeno una volta nella vita, sia da giovani quando subiamo un lieve trauma contusivo che da anziani con la classica lombalgia. Nonostante sia il sintomo che più frequentemente porta il paziente dall’ortopedico, risulta spesso essere sottotrattato e sottovalutato sia per la mancanza di una cultura medica specifica, sia per una tendenza dei pazienti stessi a considerare il dolore come un mezzo di espiazione, oppure come se fosse parte integrante e imprescindibile dell’essere anziani. L’insieme di questi fattori, in varia misura, non è solo causa di sofferenza per il paziente, ma spesso di disabilità, fino al danno economico e sociale. La Joint Commission International ha infatti affermato che il dolore non trattato è uno dei principali responsabili degli effetti avversi sia fisici che psicologici1 e per questo motivo è arrivata a considerare il dolore come “quinto segno vitale” dopo la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la temperatura e la frequenza respiratoria.

Nell’ambito della terapia antalgica, il problema in Italia è rappresentato principalmente dalla bassa prescrizione di oppioidi che sono il gold standard nel dolore grave e/o cronico e al posto dei quali vengono preferiti gli antinfiammatori, che invece sono meno efficaci e gravati da maggiori effetti collaterali e tutto ciò si traduce in una terapia spesso inappropriata.

Negli Stati Uniti, non alleviare il dolore del paziente è considerato “malpractice”, cioè pratica medica scorretta, per la quale un medico può essere condotto in tribunale e contro la quale i professionisti USA si tutelano con robuste assicurazioni.

D’altronde è riconosciuto come la scienza medica non può e non deve trascurare lo stato di sofferenza dei malati e, per quanto possibile, dovrebbe perseguire il suo contenimento, perché il principale obiettivo della medicina è il ripristino ed il mantenimento dello stato di salute del paziente, intesa non solo come l’assenza di malattia, bensì uno stato di benessere fisico, mentale e sociale, nonché un diritto umano fondamentale.

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CAPITOLO 1

IL DOLORE

Generalità

Il dolore rappresenta il mezzo fisiologico con cui l'organismo segnala un danno tissutale ed è perciò utile per permettere all’individuo di difendersi o allontanarsi dalla sorgente dello stimolo doloroso o potenzialmente nocivo.

Secondo la definizione della IASP (International Association for the Study of Pain - 1986) e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, il dolore “è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno”2.

Esso non è solo un fenomeno sensoriale, ma è composto da:

- una parte percettiva, ovvero la nocicezione: è quella componente oggettiva che costituisce la modalità sensoriale che permette la ricezione ed il trasporto al sistema nervoso centrale di stimoli nocivi o potenzialmente lesivi per l’organismo tramite meccanismi di trasduzione, conduzione e percezione.

- una parte esperienziale: è la componente soggettiva; è lo stato psichico collegato alla percezione di una sensazione spiacevole, quindi l’esperienza globale di dolore e sofferenza.

Essendo il risultato di una serie di interazioni complesse e specifiche (sistema nervoso, risposte metaboliche, immunologiche, ecc…) e modulato da diversi fattori (ambientali, culturali, fisici, affettivi, ecc…), ciascun individuo prova un dolore con caratteristiche specifiche che lo rendono unico per ognuno di noi.

Il dolore si riscontra in diverse situazioni cliniche e, fra tutti i sintomi di una malattia, è quello che determina maggiormente un’alterazione della qualità di vita del paziente non solo in termini fisici ma anche psicologici, rappresentando quindi una delle manifestazioni più importanti di una malattia, talvolta divenendo esso stesso un morbo.

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Epidemiologia

Il dolore, sotto le sue diverse forme, è stato spesso un problema sottovalutato per diversi motivi, per cui è utile parlare dell’epidemiologia al fine di dare il giusto peso a un problema così rilevante e diffuso ma che purtroppo viene spesso trascurato.

Per quanto riguarda il dolore acuto, nell’U.O. di Ortopedia e Traumatologia a Pisa, solo nel 2011 sono state trattate 319 fratture di polso, 231 lussazioni maggiori, 256 fratture diafisarie di femore, 265 fratture isolate di gamba e infine sono stati gestiti 806 eventi “maggiori”.

Per la valutazione epidemiologica del dolore cronico invece, di fondamentale importanza è stato lo studio Pain in Europe3, la più grande indagine mai intrapresa sul dolore che raccoglie dati da più di 46000 interviste effettuate in 16 paesi europei e Israele, effettuate esclusivamente su persone adulte (>18 anni) che soffrono di dolore cronico da almeno 6 mesi e di intensità maggiore di 5 nella scala di valutazione NRS. Gli obiettivi principali dello studio era quello di stimare la prevalenza del dolore cronico in Europa, quantificarne le cause e conoscere il trattamento effettuato o in corso, esplorando allo stesso tempo l’impatto sulla qualità di vita dei sofferenti.

Dall’indagine si ricava che il dolore affligge il 19% della popolazione europea (una percentuale che corrisponde a circa 75 milioni di persone), due terzi dei quali soffrono di dolore cronico moderato (NRS pari a 5-6-7), mentre il terzo restante ha provato dolore grave (NRS pari a 8-9-10); in particolare risulta più colpito il sesso femminile (56% dei casi), nella maggior parte dei casi intorno alla quinta decade d’età.

Andando ad analizzare la situazione italiana, si ricava che un italiano su quattro (circa il 26% dei casi) soffre di dolore cronico e di questi il 58% erano donne: l’Italia purtroppo si rivela essere il paese a maggior prevalenza di dolore cronico in Europa, subito dopo la Norvegia e la Polonia. Per quanto riguarda la durata del dolore, risulta che in media è di circa 7 anni e quasi 1/5 degli intervistati ha convissuto con il dolore per oltre vent’anni. Il dolore veniva descritto come costante nel 32% dei pazienti e più della metà ne soffriva quotidianamente (59%).

Le cause più frequenti di dolore cronico4, 5 erano l’artrite (34%), l’ernia discale (15%), i traumi (8%) e l’artrite reumatoide (8%), mentre la localizzazione più frequente era il rachide.

I dati riportati sono confermati da una più recente survey europea del 20086, da cui emerge che il dolore più frequentemente riferito dai pazienti è a carico della colonna vertebrale toraco-lombare (65%), seguito dal dolore alle articolazioni (52%) e dalla cervicalgia (32%).

Invece, nella valutazione dell’impatto che il dolore ha sulla vita lavorativa e di relazione, dallo studio3 è risultato che: circa 1/5 degli intervistati ha perso o cambiato il lavoro a causa del dolore; al 22% è stata fatta diagnosi di depressione per il dolore; oltre il 40% dice che il dolore influisce sulle

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attività quotidiane, per cui anche semplici azioni come dormire o fare le pulizie possono risultare molto complicate. Per quanto riguarda le modalità di trattamento, dall’indagine si evince che in Italia il dolore cronico è sottotrattato: oltre la metà dei pazienti italiani non pratica alcuna terapia contro il dolore rispetto al 31% di quelli europei. Inoltre in Italia risulta un utilizzo sproporzionato dei FANS che venivano prescritti dai nostri medici nel 68% dei casi, rispetto al 44% dei loro colleghi europei;

la somministrazione di farmaci oppioidi deboli invece risultava essere pari al 9% contro il 18% della media europea, mentre quelli forti in Italia non venivano assunti affatto o assai raramente. Questa situazione nel complesso manifesta un’inadeguata gestione del dolore cronico, non solo perché i FANS sono insufficienti a controllare un dolore di intensità moderata/grave (soprattutto se di origine non infiammatoria), ma anche perché aumentano gli effetti collaterali di tali farmaci7, 8 in misura proporzionale alla durata del trattamento: infatti l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) nella Nota 669, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n° 197 del 24-8-2012, ne consiglia l’utilizzo alla dose minima efficace e per il periodo più breve possibile.

Excursus normativo

L’utilizzo limitato dei farmaci oppioidi non era dovuto solo agli aspetti culturali (in parte tutt’ora presenti), ma anche alle restrizioni legislative, che fino a poco più di dieci anni fa rendevano la loro somministrazione assai poco agevole. Dal punto di vista legislativo infatti, le limitazioni erano molte: fino al 2001, gli oppiacei usati nella terapia del dolore ricadevano nella stessa disciplina degli altri stupefacenti, erano pertanto dispensabili utilizzando un speciale ricetta ministeriale valida per 10 giorni, che dava la possibilità di prescrivere una sola preparazione o un dosaggio per la cura di durata non superiore agli 8 giorni. Inoltre, in caso di errori erano previste sanzioni penali. Per colpa di questo ricettario complicatissimo e per l’eccessiva rigidità delle disposizioni normative, i medici prescrivevano con difficoltà gli oppiacei e con troppa facilità gli altri farmaci analgesici10. I primi passi per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppioidi nella terapia del dolore furono fatti con la legge n.12 dell’8 febbraio 2001, “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici

oppiaciei nella terapia del dolore”11, che attuava delle sostanziali modifiche al Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (DPR 309/90)12, grazie alle quali veniva agevolato l’impiego di farmaci oppiacei: bisogna ricordare che il mercato farmaceutico in Italia, all’epoca della pubblicazione della nuova legge, era segnato dall’assenza di alcuni principi attivi (idrocodone, ossicodone, idromorfone, ossimorfone) disponibili all’estero ma non in commercio nel nostro

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paese. In seguito a questa legge, successivi decreti e circolari ne hanno arricchito il testo originario, a dimostrazione del fatto che in Italia si è iniziato a prendere coscienza del problema “dolore”. Un’ulteriore agevolazione per i pazienti è arrivata con la legge n.405 del 16 novembre 2001, che ha concesso l’uso di farmaci analgesici nell’ambito dell’assistenza domiciliare integrata.

Fino a quel momento dunque, i cambiamenti normativi portavano a una situazione che era la seguente:

- i farmaci oppiacei potevano essere consegnati anche dagli operatori sanitari al domicilio del paziente dietro dichiarazione sottoscritta dal medico di Medicina Generale che ne specificava la posologia e l’uso nell’assistenza domiciliare;

- Le ricette, sebbene fossero sempre a ricalco, da compilare in duplice copia per i farmaci non forniti dal SSN e in triplice copia per quelli forniti dal SSN, permettevano di prescrivere più oppiacei e di allungare la durata della terapia da 8 a 30 giorni;

- I medici dovevano tenere un registro delle prestazioni effettuate con tali farmaci, di cui si potevano approvvigionare mediante autoricettazione per uso professionale urgente, una copia della quale doveva essere conservata per due anni;

- I pazienti in dimissione dal ricovero ospedaliero potevano ricevere direttamente dalla struttura sanitaria i farmaci necessari per il primo ciclo di terapia di 30 giorni in regime di fornitura a carico del SSN.

Il 24 maggio 2001, con un accordo sancito fra il Ministero della Sanità, le Regioni e le province autonome, veniva varato il progetto “Ospedale senza Dolore”, che si proponeva di promuovere un cambio di mentalità con la promulgazione di Linee Guida che le Regioni dovevano applicare. In particolare, esse dovevano consentire la realizzazione a livello regionale di progetti indirizzati al miglioramento del processo assistenziale rivolto al dolore, modificando attitudini e comportamenti con le seguenti finalità: coinvolgere il personale predisposto all’assistenza nelle strutture sanitarie italiane affinché mettesse in atto tutte le misure possibili per contrastare il dolore di qualsiasi tipo, indipendentemente dalle cause che lo determinavano; eseguire una misurazione costante del dolore, al pari degli altri parametri vitali; provvedere all’educazione e alla formazione continua del personale sanitario sui principi di trattamento, sull’uso dei farmaci e sulle modalità di valutazione del dolore.

Tuttavia, a due anni dall’approvazione della legge n.12, la prescrizione degli oppiacei era rimasta invariata e l’Italia rimaneva in coda agli altri Paesi europei per il più basso tasso di prescrizione degli oppiacei registrato. Da questa realtà però era stato fatto un ulteriore passo avanti, in termini normativi, con il Decreto del Ministero della Salute del 4 aprile 2003 che aveva facilitato ulteriormente la prescrizione degli oppiacei, in quanto eliminava l’obbligo di indicare l’indirizzo di

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residenza del paziente e, per il prescrittore, di conservare per sei mesi la copia della ricetta a sé destinata. Grazie a questi cambiamenti, le quantità di analgesici oppioidi erano aumentate del 33% in un anno. In una comunicazione della redazione del sito del Ministero della Salute del 24 maggio 2004 si leggeva che “…l’aumentata prescrizione di morfina era da considerarsi confortante,

poiché il suo consumo pro-capite è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità un indicatore primario della qualità della terapia del dolore”.

Un altro progresso normativo fondamentale per la tutela della salute in Italia è stato fatto in seguito con l’emanazione della legge n.38 del 15/03/2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore13

, considerata la più evoluta d’Europa nel suo genere.

Con questa legge innovativa infatti, viene superata la posizione di sostanziale ambiguità nella quale la legislatura italiana aveva tenuto fino ad allora la prescrizione di oppioidi forti a scopo antalgico e riporta l’Italia in linea con gli altri paesi europei, posizionando il nostro paese tra quelli più avanzati in questo ambito assistenziale10. Di seguito riporto gli aspetti più rilevanti del testo legislativo: - Nell’articolo n.1 viene garantito e tutelato l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato “al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso dell’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze”13

. Inoltre, con encomiabile anticipo rispetto alle normative del resto del mondo, la legge introduce il diritto per i pazienti minori di 18 anni a ricevere a livello domiciliare assistenza relativa alle cure palliative e alla terapia del dolore, primo provvedimento di questo genere a livello mondiale.

- Nell’articolo n.4 si promuovono campagne informative per i cittadini sulle modalità e sui criteri di accesso alle prestazioni e ai programmi di assistenza per le cure palliative e la terapia del dolore, con l’obbiettivo di favorire il superamento del pregiudizio relativo all’utilizzazione dei farmaci oppioidi.

- Nell’articolo n.7 viene sancito l’obbligo di registrare all’interno della cartella clinica “le caratteristiche del dolore rilevato e della sua evoluzione nel corso del ricovero, nonché la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, i relativi dosaggi e il risultato antalgico”13.

- Nell’articolo n.10 infine, vengono attuate delle modificazioni al DPR n.309 del 1990 grazie alle quali viene consentita la prescrizione dei farmaci oppioidi non iniettabili sul ricettario semplice del SSN, al posto di quello speciale in triplice copia, coerentemente all’ordinanza ministeriale del 16 giugno 2009.

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Classificazione

 Temporale:

Acuto: corrisponde ad un danno tissutale in atto o recente; rappresenta quindi un sintomo utile che si risolve con la risoluzione della patologia di base. Ha una durata limitata nel tempo e si accompagna a risposte neuroendocrine, e motive e comportamentali (es. riflesso di allontanamento). Cronico: è il dolore che persiste dopo che si è risolta la causa scatenante, oppure quando dura più di sei mesi14. Si tratta di un dolore la cui utilità biologica è venuta meno e quindi la sintomatologia dolorosa diviene una patologia vera e propria, con pesante impatto sulla vita di relazione e sugli aspetti psicologici e sociali caratteristici della persona. Il dolore infatti diventa patologico quando si automantiene, perdendo il significato iniziale e diventando a sua volta una malattia15. Si accompagna a scarse risposte neuroendocrine, ma ha importanti conseguenze psichiche; la sua presenza continua, infatti, determina l’instaurarsi di un circolo vizioso di depressione, ansia e altri stimoli principalmente emotivi.

 In base ai meccanismi d’insorgenza:

Nocicettivo: compare in seguito ad un evento lesivo che ha determinato la stimolazione delle terminazioni periferiche dei nocicettori. Può essere meccanico-strutturale, quando origina dai nocicettori sottoposti a stimoli di elevata intensità (sopra la soglia), per esempio nel caso di nocicettori sottoposti al carico in segmenti articolari molto compromessi, altrimenti si parla di dolore nocicettivo infiammatorio, che invece è causato da una sensibilizzazione dei nocicettori periferici da parte dei mediatori del processo flogistico, i quali rispondono, in questo caso, a stimoli di bassa intensità (sotto soglia), o addirittura in assenza di stimoli.

Neuropatico: è caratterizzato da un danno o da una disfunzione del sistema nervoso centrale o periferico che provoca stimolazioni nervose croniche. Può comparire in maniera ritardata rispetto alla lesione (ad esempio la compressione di un nervo) e spesso è accompagnato da disestesie e parestesie. Il dolore neuropatico16 può manifestarsi in assenza di stimoli, oppure come conseguenza di stimoli molto lievi che normalmente risultano innocui (allodinia) o poco dolorosi (ipersensibilità). Esempi ne sono il dolore post-erpetico, il dolore da arto fantasma che può insorgere dopo un'amputazione e il dolore nelle neuropatie periferiche, quali si hanno nel diabete o nell'AIDS. Le caratteristiche di questo dolore variano da paziente a paziente, ma in genere si hanno sensazioni di bruciore continuo o di scosse elettriche.

Psicogeno: è un dolore di origine psichica che si può riscontrare soprattutto in soggetti molto ansiosi o che vivono situazioni di stress; alcune di queste persone non presentano nessuna malattia

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organica sottostante. Sono dolori che spesso si presentano con un’intensità e un’invalidità sproporzionate rispetto alla causa somatica identificabile.

 Sulla base del luogo d’insorgenza:

Somatico: quando origina da cute e sottocute è detto somatico superficiale; si parla invece di dolore somatico profondo quando proviene dalle fasce muscolari, dal periostio, dalle capsule articolari, dai tendini e dai legamenti, e anche da peritoneo parietale e diaframma. Il dolore somatico superficiale è ben localizzato ed è accompagnato da una reazione di allontanamento dallo stimolo lesivo, mentre in quello profondo il dolore è un po’ più vago, accompagnato da una reazione di immobilizzazione. Viscerale: si tratta del dolore originatosi dagli organi interni. Può essere diretto, cioè avvertito nello stesso organo da cui origina, oppure riferito, quando il dolore proveniente da un determinato organo viene riferito a una parte somatica del corpo non in rapporto con la sede primaria di insorgenza. Ad esempio il dolore a livello cardiaco in genere viene spesso riferito all’arto superiore sinistro.

Anatomia del sistema algico

I nocicettori

Gli stimoli esogeni, come una forte sollecitazione meccanica, temperature >45°C o <5°C, alcune sostanze chimiche oppure i metaboliti algogeni endogeni prodotti dal danno tissutale, sono in grado di eccitare l'estremità distale del nocicettore. Quest’ultimo converte lo stimolo in attività elettrica per cambiamenti ionici intra- ed extracellulari, mediati principalmente dall’apertura dei canali del Na+, che generano il potenziale d’azione il quale si propaga nella fibra nervosa: questo processo fisiologico di conversione dell’energia dello stimolo è noto come “trasduzione”17.

È chiaro dunque che non esiste uno stimolo specifico responsabile del dolore ma sono diversi gli stimoli che, se sufficientemente intensi, possono generare dolore e quindi potenzialmente in grado di danneggiare i tessuti: è proprio per il loro livello di soglia più elevato che si contraddistinguono dagli altri tipi di recettori sensitivi. I nocicettori sono costituiti dalle terminazioni periferiche libere di neuroni sensitivi primari, che sono presenti in gran numero nella giunzione dermo-epidermica, ma anche nel muscolo, nel periostio, nella capsula degli organi interni e sulle parete dei vasi e degli organi cavi.

Si distinguono due tipi di nocicettori, in base al tipo di fibra di cui sono costituiti: i nocicettori che fanno capo a fibre Aδ e quelli che conducono l’impulso tramite fibre C.

Fra i nocicettori di tipo Aδ si distinguono quelli unimodali meccanici e quelli che rispondono a stimoli meccanici e termici: sono responsabili del dolore rapido che si avverte immediatamente

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dopo lo stimolo e che risulta essere ben definito e localizzato (dolore epicritico); conducono l’impulso attraverso fibre mieliniche che hanno una velocità di conduzione di 20 m/s circa e vanno incontro a rapido adattamento, per cui questa tipologia di dolore si estingue rapidamente. Il dolore rapido inoltre, origina solo da strutture somatiche e sierose parietali e viene trasportato all’interno del fascio neospinotalamico.

Il secondo tipo di nocicettori trasmette perlopiù il dolore lento che insorge 1-2 secondi dopo lo stimolo e che risulta essere non ben localizzato, diffuso e sordo (dolore protopatico).

Questi nocicettori conducono l’impulso tramite fibre C, che sono amieliniche e perciò hanno una velocità minore (2 m/s circa); in questo caso inoltre, si tratta di recettori polimodali, nel senso che rispondono anche a stimoli termici e chimici oltre che a quelli meccanici intensi.

I recettori per il dolore lento inoltre, non vanno incontro a fenomeni di adattamento per cui la percezione del dolore permane fintanto che non si allontana la fonte dello stimolo stesso.

Il dolore lento può originarsi sia da strutture somatiche sia da quelle viscerali e viene trasportato sia dal fascio paleospinotalamico sia dal fasciospinoreticolare.

Nel caso specifico del dolore ortopedico, esso può originare da strutture ossee e/o articolari. Nelle lesioni ossee il dolore inizialmente è provocato dalla lesione e dalla distensione del periostio, l’unica struttura innervata. Successivamente, a seguito dell’ematoma che si sviluppa, si innescano i meccanismi dell’infiammazione che

sostengono il perdurare del dolore, così come ogni micromovimento che stimola nuovamente il periostio. Nelle lesioni articolari invece, sono le capsule articolari ad essere fortemente innervate e la loro distensione oltre i limiti fisiologici provoca dolore acuto; oltre a ciò, il mantenimento del dolore può derivare dalla presenza di un versamento che sostiene una stimolazione continua della capsula articolare a causa della sua distensione. Nei traumi articolari inoltre si possono avere lesioni più o meno gravi delle strutture capsulo-ligamentose e meniscali, con conseguente sviluppo dell’infiammazione.

Il fatto che i nocicettori siano terminazioni nervose libere permette il contatto diretto con sostanze chimiche presenti nel liquido extracellulare, dette “sostanze algogene” e ciò sta alla base del meccanismo di trasduzione degli stimoli nocivi.

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Mediatori del dolore

Le sostanze algogene sono capaci di attivare direttamente i nocicettori. Esse derivano dalle cellule lesionate, oppure possono essere rilasciate da mastociti e piastrine, ma anche liberate dallo stesso stimolo nocicettivo. La loro attività fa sì che la durata del dolore sia maggiore di quella effettiva dello stimolo e infatti vanno a costituire la componente del dolore cosiddetto “lento”.

Fra le sostanze algogene si riconoscono:

- Prostaglandine: non causano dolore, ma sono responsabili della sensibilizzazione dei nocicettori all’azione di altre sostanze algogene quali la bradichinina e la serotonina; inoltre stimolano il rilascio della sostanza P dalle fibre nocicettive. Si comprende dunque l’azione analgesica dei FANS che ne inibiscono la sintesi.

- Istamina: viene liberata dai mastociti sotto stimolo dell’ IL-1 e della sostanza P e ad alte concentrazioni è in grado di generare dolore.

- Bradichinina: viene prodotta in condizioni di lesione tissutale da una proteina precursore presente nel plasma, mediante scissione proteolitica. È in grado di stimolare direttamente i nocicettori e ha effetti pro-infiammatori.

- Sostanza P: è prodotta dalla cellula nervosa e agisce sia a livello periferico, promuovendo l’infiammazione e il rilascio di altre sostanze algogene da parte di mastociti e piastrine, sia a livello centrale, dato che è uno dei principali neurotrasmettitori del dolore.

- Serotonina: è rilasciata dalle piastrine e dai mastociti nel sistema nervoso periferico e sensibilizza i nocicettori all’azione della bradichinina. A livello centrale però rappresenta uno dei neurotrasmettitori del sistema inibitorio discendente e perciò ha azione inibente sulle corna posteriori del midollo.

- Ioni H+ e K+: sono rilasciati dalle cellule danneggiate insieme ai radicali dell’O2 e determinano sia la stimolazione della terminazione nervosa sia il rilascio di mediatori dell’infiammazione.

- Citochine: IL-1, IL-2, IL-6, TNF

- Fattori di crescita nervosa: sono prodotti dai tessuti periferici, soprattutto durante l’infiammazione, e fanno parte dei sistemi di sensibilizzazione allo stimolo dolorifico.

Vie del dolore

La trasmissione del dolore inizia con la trasduzione del segnale a livello dei nocicettori che sono rappresentati dalle terminazioni periferiche dei neuroni sensitivi primari. Questi ultimi hanno il pirenoforo nei gangli nelle radici dorsali e nelle corrispondenti strutture dei nervi cranici, ovvero il ganglio semilunare di Gasser per il nervo trigemino e quello petroso di Andersch per il nervo glossofaringeo18. Le branche centrali dei neuroni sensitivi primari, una volta penetrate all’interno

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del midollo spinale, si dividono a T estendendosi per alcuni segmenti spinali in corrispondenza del solco laterale posteriore, in un ramo ascendente e in uno discendente, dai quali poi originano ulteriori rami che penetrano della sostanza grigia del midollo spinale. Questo raggruppamento di fibre nervose, che si forma tra solco laterale posteriore e l’apice del corno posteriore, prende il nome di “fascicolo dorsolaterale di Lissauer”18. Dato che ciascun nervo spinale si distribuisce, oltre che sul proprio territorio d’innervazione, anche su quello delle radici vicine, si evince che per ottenere analgesia su un determinato dermatomero non è sufficiente l’analgesia della sua radice spinale, ma anche di quelle limitrofe.

Bisogna tenere presente che, mentre il dolore somatico viene condotto al sistema nervoso centrale dai nervi spinali e da quelli encefalici, quello viscerale è condotto dai nervi del sistema nervoso autonomo. Più precisamente, i nervi viscerali, fusi in un’unica struttura anatomica coi nervi simpatici, sono responsabili della conduzione degli impulsi dolorifici afferenti dai visceri toraco-addominali attraverso le radici dorsali dei segmenti spinali compresi tra il primo toracico e il secondo lombare; invece, gli impulsi dolorifici afferenti dagli organi pelvici profondi e da quelli a monte della linea del dolore toracico (passa all'incirca per la carena e lo sfintere esofageo) sono condotti lungo le fibre del parasimpatico.

Tuttavia i nervi viscerali si distinguono da quelli del sistema nervoso autonomo, sia perché un sistema è afferente e l’altro è efferente, sia per il fatto che i nervi viscerali hanno il pirenoforo nel ganglio della radice dorsale, mentre i nervi simpatici post-sinaptici ce l’hanno nella catena paravertebrale del simpatico. Comunque sia, entrambe i tipi di nervi, somatici e viscerali, entrano a far parte della radice dorsale del midollo spinale, quindi sui neuroni spinali convergono input sia dalle strutture somatiche sia da quelle viscerali e si ritiene che ciò possa essere alla base del “dolore riferito”, secondo cui l’attività indotta nei neuroni spinali, da stimoli provenienti da strutture viscerali, viene riferita in un’area che è perlopiù sovrapponibile alla regione superficiale innervata dal medesimo segmento spinale.

All’interno della sostanza grigia, il prolungamento centrale del neurone sensitivo primario sinapta con i neuroni sensitivi secondari e con diversi tipi di interneuroni, per esempio quelli implicati nel circuito del riflesso di allontanamento.

I neuroni sensitivi secondari si distinguono in due tipi: quelli specifici che ricevono afferenze esclusivamente dolorifiche dalle fibre Aδ e C e sono principalmente localizzati nella lamina I e nella parte esterna della lamina II di Rexed; quelli ad ampio spettro dinamico che ricevono afferenze sia dalle fibre nocicettive Aδ e C sia dalle fibre Aβ, comprendendo perciò un più ampio spettro di informazioni e si trovano principalmente nella lamina V di Rexed.

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I neuroni sensitivi secondari decussano i loro assoni sul piano mediano a livello della commussura anteriore, raggiungendo l’antimero controlaterale del midollo spinale, e si portano rostralmente per giungere in diverse strutture dell’encefalo e del tronco encefalico. Un piccolo numero di fibre tuttavia rimane omolaterale: eseguendo infatti una commessurotomia si ha una persistenza della sensibilità dolorifica, seppur attenuata.

La via nocicettiva afferente primaria è costituita dai fasci spinotalamico, spinoreticolare e spinomesencefalico, che insieme formano la via lemnisco spinale, detta anche sistema anterolaterale proprio per la posizione del fascio nel contesto del midollo spinale.

Il fascio spinotalamico è costituito dai fasci neospinotalamico e paleospinotalamico.

Il fascio neospinotalamico è posto lateralmente nel quadrante anterolaterale del midollo spinale, ha i suoi neuroni d’origine nelle lamine I e V e termina nel nucleo ventroposterolaterale del talamo. Ha un’origine filogeneticamente recente e presenta una precisa organizzazione somatotopica: ciò significa che ogni parte della corteccia sensitiva riceve le proiezioni da una precisa porzione del corpo e sono impiegati più neuroni dove è necessaria una sensitività maggiore, come nelle labbra o nelle dita; nell’ambito di questa organizzazione, le informazioni provenienti dalle parti più basse del corpo si trovano nella parte più laterale, mentre quelle provenienti dalle parti più alte si trovano più medialmente. Il fascio neospinotalamico è dunque responsabile nella conduzione della componente epicritica del dolore, quindi del dolore cosiddetto rapido.

Il nucleo talamico ventroposterolaterale a sua volta proietta alla corteccia cerebrale, principalmente all’area somestesica primaria ipsilaterale. Quest’ultima è responsabile delle capacità discriminative quali la localizzazione, l’intensità e la durata di uno stimolo nocicettivo; ciò è possibile proprio grazie all’organizzazione somatotopica della proiezione nocicettiva all’area sensitiva primaria, soprattutto per quanto riguarda la localizzazione, mentre l’intensità e la durata sono codificate rispettivamente dalla frequenza di scarica del neurone sensitivo primario e dalla durata dell’impulso elettrico.

Il fascio paleospinotalamico invece, è posto medialmente nel quadrante anterolaterale del midollo spinale e ha i suoi neuroni d’origine nei nuclei proprio (lamine IV, V, VI) e intermedio (lamine VII, VIII). Esso costituisce il contingente di fibre più numeroso del fascio spinotalamico ed è la via filogeneticamente più antica, responsabile della conduzione protopatica del dolore, quindi del dolore lento. Le sue fibre terminano principalmente nei nuclei talamici intralaminari e dorsomediale, che a loro volta proiettano in maniera diffusa verso la corteccia cerebrale, in particolare verso aree associative dei lobi frontali e verso il sistema limbico: ciò implica che il dolore lento non gode di una localizzazione così specifica come quella che si ha per il dolore rapido. Esso infatti è prevalentemente responsabile sia della componente affettiva-emozionale del

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dolore, ovvero quella percezione del dolore come una sensazione spiacevole, da evitare, sia della componente cognitiva-comportamentale.

Quindi, mentre il fascio neospinotalamico è responsabile della capacità sensoriale e discriminativa dello stimolo nocicettivo, quello paleospinotalamico è responsabile della componente esperienziale, soggettiva del dolore.

Le altre due componenti del sistema anterolaterale sono il fascio spinoreticolare e il fascio spinomesencefalico.

Il fascio spinoreticolare origina dai neuroni posti nel nucleo intermedio del midollo spinale, i cui assoni decorrono nella parte più mediale del fascio spinotalamico, in parte decussandosi sulla linea mediana e in parte rimanendo omolaterali. Alcune fibre sinaptano con la formazione reticolare, mentre le altre si distribuiscono all’ipotalamo e ai nuclei intralaminari del talamo. Questo fascio può mediare alcuni aspetti delle reazioni vegetative del dolore, come ad esempio la secrezione di ormoni (adrenalina, glucagone, cortisone) in risposta allo stimolo dolorifico.

Il fascio spinomesencefalico è costituito dagli assoni dei neuroni situati nelle lamine I e V e termina principalmente nella sostanza grigia periacqueduttale e nei tubercoli quadrigemini superiori che a loro volta proiettano al talamo mediale. Dal punto di vista funzionale, il fascio spinomesencefalico, oltre a condurre gli stimoli dolorifici, può determinare un’inibizione della via discendente inibitoria tramite la sinapsi con la sostanza grigia periacqueduttale, favorendo così la trasmissione dell’informazione dolorifica. I tubercoli quadrigemini superiori, dal canto loro, sono in grado di attivare un arco riflesso in grado di orientare la testa e gli occhi verso la sorgente dello stimolo doloroso, e in aiuto a questa funzione vi giungono anche afferenze uditive e visive.

Oltre alla via lemnisco spinale, che rappresenta la via nocicettiva afferente primaria, c’è una via extralemniscale costituita dal sistema ascendente multisinaptico e ulteriori vie “accessorie”, costituite dal fascio spinocervicale, dal sistema dei cordoni posteriori e dal tratto di Lissauer.

Il sistema ascendente multisinaptico è costituito da una catena di brevi neuroni che, collegati in polisinapsi longitudinali, hanno il corpo cellulare nella parte mediale delle lamine più profonde del corno dorsale del midollo e nella lamina X. Queste cellule ricevono l'input da nocicettori profondi, in particolare dalle strutture mediane del corpo, e inviano brevi assoni che, percorsi uno o due metameri, rientrano nelle medesime lamine ad un livello superiore per collegarsi ad altri neuroni, i quali ripetono lo stesso schema anatomico e proiettano infine sulla formazione reticolare. Da questa sede la via extralemniscale proietta sul sistema limbico, sui nuclei intralaminari del talamo e sui corpi mammillari, da dove origina il fascio mammillotalamico.

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Modulazione del dolore

Nonostante l’importanza degli stimoli dolorifici, in alcuni casi questi devono essere inibiti. Infatti, quando un dolore è molto intenso può inibire alcune facoltà, come il movimento o l’attenzione selettiva, che possono risultare fondamentali al fine di permettere di eseguire le azioni necessarie per ridurre un danno potenziale o persino di salvarsi la vita in circostanze di forte pericolo, come un incidente stradale o dopo aver subito un’aggressione, ma anche nelle situazioni di forte stress. La modulazione del dolore tuttavia è a doppio senso, nel senso che si può avere sia analgesia, sia intensificazione della stimolazione dolorosa. È esperienza comune il fatto che stati psicologici particolari, come ansia e depressione, siano in grado di mantenere ed esaltare le sensazioni dolorose, specialmente quelle croniche. Lo stress in particolare, regola la percezione del dolore in due fasi: inizialmente si ha un’ innalzamento della soglia, poi col perdurare della stimolazione si ha un abbassamento della soglia, minore anche del livello primitivo.

Un importante ruolo nella modulazione del dolore è svolto dai peptidi oppioidi endogeni, che sono prodotti dal sistema nervoso in particolari situazioni psico-fisiche, come forti emozioni o durante l’attività sportiva, e dei quali se ne conoscono tre famiglie: le encefaline, le endorfine e le dinorfine. Le strutture che fanno parte del sistema di inibizione del dolore sono ricche di recettori per queste sostanze e inoltre rispondono anche all’azione degli oppioidi esogeni.

Si distinguono due meccanismi di controllo del dolore: uno centrale e uno periferico.

Quello periferico si attua a livello spinale secondo la teoria del cancello, proposta la prima volta da Wall e Melzak nel 1965, secondo cui ci sono interneuroni inibitori posti nella sostanza gelatinosa di Rolando (lamina II) che ricevono afferenze collaterali eccitatorie da parte di fibre Aβ e inibitorie dalle fibre C e Aδ. Quindi le fibre Aβ, che veicolano informazioni tattili e propriocettive, chiudono il “cancello”, mentre invece le fibre che veicolano il dolore lo aprono, proprio perché fanno in modo che la conduzione dello stimolo dolorifico non venga inibita. Tutto ciò si traduce in un’attenuazione del dolore se l’area d’origine dello stimolo è soggetta anche a lievi percezioni meccaniche (come quando si soffia sulla ferita oppure quando si effettua un massaggio locale), ma anche elettriche, come avviene nella terapia tramite stimolazione elettrica transcutanea (TENS). Su questo principio inoltre si basa anche l’agopuntura.

Il meccanismo centrale di controllo del dolore è costituito da diverse regioni corticali e subcorticali che danno origine al cosiddetto “sistema di controllo discendente”.

Questo sistema può essere attivato da stress psico-fisici, stimoli elettrici e farmaci oppioidi.

Le principali aree deputate al controllo discendente si trovano a livello della corteccia orbitofrontale e nell’amigdala. Da queste aree originano fibre discendenti che raggiungono il grigio periacqueduttale, il quale circonda l’acquedotto di Silvio decorrendo per tutta la lunghezza del

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mesencefalo e da cui originano fibre eccitatorie che terminano in parte nel nucleo magno del rafe e in parte nel nucleo laterale tegmentale del ponte, dove c’è il locus coeruleus.

Dal nucleo magno del rafe origina una via serotoninergica, mentre dal locus coeruleus una via noradrenergica, ed entrambe terminano a livello delle corna posteriori del midollo spinale, in particolare nelle lamine I, V e nella sostanza gelatinosa di Rolando, dove sono presenti interneuroni inibitori in grado di diminuire o bloccare il segnale nocicettivo afferente.

La modulazione del dolore in senso opposto, quindi facilitatorio, avviene tramite il fenomeno della sensibilizzazione, che può svilupparsi sia a livello periferico che centrale e che si manifesta clinicamente con due fenomeni fisiopatologici: l’iperalgesia, ovvero la percezione esagerata di dolore in seguito ad uno stimolo doloroso lieve, e l’allodinia, cioè la sensazione di dolore in seguito ad uno stimolo innocuo, come ad esempio lo sfioramento della cute affetta da un eritema solare. La sensibilizzazione periferica riguarda i nocicettori ed è dovuta all’azione di mediatori come la bradichinina e le prostaglandine, che agiscono sulle terminazioni nervose diminuendone la soglia di attivazione, riducendone il tempo di latenza e aumentando l’espressione dei recettori a livello della membrana neuronale. Tutte queste modificazioni sono temporanee e si traducono con un aumentata intensità di risposta anche per gli stimoli più lievi.

La sensibilizzazione centrale invece si manifesta quando la stimolazione è ripetuta o particolarmente forte, per cui i neurotrasmettitori liberati determinano l’attivazione di ulteriori recettori che causano precise alterazioni biochimiche cellulari, funzionali e strutturali mediante la traduzione di geni silenti e con conseguente riduzione della loro soglia di stimolazione17.

Fra i segnali neurochimici coinvolti nella sensibilizzazione centrale vi è certamente il fattore di crescita neuronale: quest’ultimo agisce su neuroni nocicettivi afferenti inducendo un’aumentata espressione di determinati geni, fra cui quelli che codificano per i peptidi che costituiscono i recettori e i canali implicati nella trasduzione e nella trasmissione del segnale dolorifico. Queste modificazioni aumentano l’eccitabilità elettrica, la chemiosensibilità e il contenuto di peptidi e, oltre a ciò, viene promossa la formazione di contatti sinaptici, facilitando ulteriormente la trasmissione sinaptica. Una volta che si sono instaurati, questi cambiamenti persistono anche se si abolisce la causa scatenante e conducono ad una trasformazione ed esaltazione dell’informazione nocicettiva, risultando una delle basi fisiopatologiche del dolore cronico19.

Un esempio di sensibilizzazione centrale è il cosiddetto “fenomeno del wind-up”20, 21che vede coinvolti i recettori NMDA22. Quest’ultimi presentano un blocco voltaggio-dipendente da parte di uno ione Mg2+ che impedisce il passaggio di altri ioni. L’attivazione continua e ripetuta delle afferenze nocicettive aumenta la depolarizzazione post-sinaptica dei neuroni spinali, a causa della sommazione dei potenziali post-sinaptici nella membrana cellulare dei neuroni stessi, determinando

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l’estrusione dello ione Mg2+

, così che gli ioni Ca2+ e Na2+ possano attraversare il canale producendo ulteriore depolarizzazione della membrana, che a sua volta rimuove gli ioni Mg2+ dai canali ionici dai recettori NMDA limitrofi.

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CAPITOLO 2

CLINICA

Il dolore si manifesta in una situazione di alterata omeostasi dell’organismo e per ristabilirla vi è una risposta neurovegetativa che rappresenta il tentativo di adattamento all’evento nocivo. Naturalmente la risposta dell’organismo allo stress è proporzionale a ciò che lo ha causato e perciò è particolarmente evidente nel dolore acuto post-operatorio, specialmente se non trattato.

Con la trasmissione del messaggio dolorifico vengono attivate dall’ipotalamo una serie di reazioni a carattere endocrino-metabolico che, nel complesso, determinano l’instaurarsi di uno stato ipermetabolico dato dall’aumento della secrezione degli ormoni catabolici quali cortisolo, catecolamine, angiotensina II, ADH, GH e glucagone; quelli anabolici invece, fra cui testosterone e insulina, vengono inibiti e la loro secrezione ridotta. Tutto ciò si traduce a livello idroelettrico con ritenzione di sodio e acqua e un aumento dell’escrezione di potassio, mentre a livello metabolico si ha iperglicemia, insulino-resistenza, aumento del catabolismo proteico e della lipolisi, che a loro volta determinano un aumento del consumo di ossigeno e portano a una negativizzazione del bilancio azotato.

A livello cardiocircolatorio si ha un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca che determinano un aumento del lavoro cardiaco il quale, associato all’aumentato consumo miocardico di ossigeno, aumenta la possibilità di ischemia miocardica.

Nel sangue si instaura uno stato ipercoagulativo, con un aumento del fibrinogeno e dell’attivazione piastrinica: questo è importante perché espone il paziente a un rischio tromboembolico, soprattutto nei casi sottoposti a chirurgia maggiore (come negli interventi all’anca o al ginocchio) che sono costretti a rimanere a letto, con conseguente stasi venosa predisponente. Inoltre, la riduzione del flusso sanguigno periferico mediata dalle catecolamine ritarda la cicatrizzazione delle ferite, con un conseguente aumento della morbilità.

A livello polmonare si ha riduzione dei volumi polmonari e accumulo di liquidi nell’interstizio che determinano ipossiemia, la quale può aggravarsi con la formazione di aree atelettasiche in conseguenza della depressione del riflesso della tosse, per cui viene favorita la ritenzione di catarro e l’insorgenza di infezioni polmonari.

A livello gastroenterico, l’iperattività del sistema simpatico riduce la motilità della muscolatura liscia gastrointestinale determinando ileo postoperatorio e ritardando così la ripresa della nutrizione enterale. L’inibizione della motilità della muscolatura liscia dell’apparato genitourinario, invece, determina ritenzione urinaria che a sua volta predispone al rischio di infezioni.

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Infine il dolore può essere accompagnato da processi psicopatologici come insonnia, ansia, paura e depressione che favoriscono la percezione dolorifica, abbassando la soglia del dolore e di conseguenza la qualità di vita del paziente.

Tutta questa moltitudine di eventi avversi correlati al dolore ha delle conseguenze a livello pratico: - aumento della morbilità e mortalità post-operatorie.

- ritardo nella mobilizzazione e prolungamento del tempo di riabilitazione.

- aumento dei tempi di ospedalizzazione, quindi dei costi sia diretti, ovvero quelli sostenuti dal Sistema Sanitario, sia indiretti, in termini di giornate lavorative perdute.

È logico pensare dunque che trattare il dolore è importante non solo per motivi etici e per il benessere del paziente, ma anche per le problematiche e le relative complicanze ad esso correlate.

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CAPITOLO 3

DIAGNOSI

Nella gestione del dolore sono importanti l’anamnesi e l’esame obiettivo, nei quali si ricercano tutte le informazioni riguardanti il dolore del paziente che possano aiutarci a capirne la patogenesi, a formulare una diagnosi corretta e quindi a trattare il dolore in maniera efficace in base all’origine

(nocicettiva meccanico-strutturale, nocicettiva infiammatoria, neuropatica), alle sue caratteristiche e anche in ragione dell’intensità del dolore23

.

L’anamnesi è la prima fonte di informazioni ed è sempre importante, sia perché il paziente esprime la propria sofferenza e il proprio dolore con le sue parole, sia perché aiuta a consolidare il rapporto medico-paziente, che è molto importante soprattutto nella gestione del dolore cronico24.

Si esegue dunque la valutazione delle seguenti caratteristiche del dolore25: - sede

- estensione (circoscritto, diffuso, irradiato) - localizzazione spaziale (superficiale, profondo)

- discriminazione spaziale (grado preciso, medio, scarso)

- qualità (tensivo, pulsante, gravativo, puntorio, trafittivo, urente, crampiforme) - intensità

- modalità d’insorgenza (improvvisa, progressiva, spontaneo, provocato) - andamento nel tempo (intermittente, remittente, continuo)

- segni neurovegetativi (nausea, pallore, sudorazione, vertigini, stanchezza, etc…)

L’intensità, essendo il dolore una sensazione soggettiva, è un parametro che ha bisogno di essere oggettivato al fine di permettere di eseguire un confronto delle terapie, con un riferimento diretto al paziente, e per favorire una valutazione omogenea qualitativa e quantitativa dell’assistenza al paziente utilizzando un “linguaggio comune” tra operatori sanitari24. Infatti, la misurazione del dolore permette di analizzare non solo il livello di dolore attuale, ma anche il suo andamento nel tempo, in modo tale da essere in grado di optare l’approccio analgesico più adeguato, monitorando successivamente gli effetti del trattamento scelto.

Per misurare l’intensità del dolore sono state create delle scale di valutazione che possono essere di due tipi: unidimensionali o multidimensionali.

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Scale unidimensionali

Misurano esclusivamente l’intensità del dolore e sono quelle maggiormente utilizzate nella pratica clinica per la maggiore semplicità e praticità d’uso rispetto a quelle multidimensionali, soprattutto quando si tratta di dolore acuto.

a) Scala analogica visiva (VAS)

Consiste in una linea graduata di 10 cm dove il punto d’inizio è contrassegnato con “assenza di dolore” e la fine con “peggior dolore mai provato” oppure “dolore atroce”, quindi si chiede al paziente di quantificare l’intensità del proprio dolore posizionando l’indicatore di intensità sull’apposito strumento.

Ha il vantaggio di avere un’alta sensibilità ed è facilmente ripetibile, ma necessita di un supporto cartaceo e non può essere utilizzata nei pazienti con disturbi visivi oppure determinati deficit fisici o cognitivi.

b) Scala di valutazione numerica (NRS)

In questa scala ci sono una serie di numeri ordinati da 0 a 10 in una retta in cui il punto d’inizio e quello di fine rappresentano rispettivamente “nessun dolore” e “dolore insopportabile”. Il paziente dunque esprimerà un numero in base al dolore percepito.

Spesso è confusa con la VAS e teoricamente è meno precisa26, 27, ma ha il vantaggio di essere pratica, tant’è che può essere utilizzata anche per via telefonica, per esempio in caso di assistenza domiciliare.

c) Scala di valutazione verbale (VRS)

È caratterizzata da 5 descrittori di intensità e prevede di chiedere al paziente di descrivere l’intensità del dolore percepito scegliendo tra: nessun dolore, molto lieve, lieve, forte, molto forte. Questa è la scala più comprensibile, ma presenta una bassa sensibilità.

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d) Facies Pain Scale (FPS)

È usata nei bambini che sono invitati ad individuare l’espressione più corrispondente al proprio dolore.

Il problema della valutazione del dolore si pone nel momento in cui le persone che assistiamo non sono in grado di comunicare con il personale sanitario, come nel caso di pazienti sedati o incoscienti. Fino a poco tempo fa, per la valutazione del dolore in questa categoria di pazienti venivano utilizzati degli indicatori fisiologici, come l’alterazione dei parametri vitali (aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della frequenza respiratoria), ma secondo recenti studi28, 29 non sono strumenti specifici e affidabili per discriminare il dolore dalle altre forme di stress, perciò attualmente viene utilizzata la Behavioral Pain Scale (BPS)30. Si basa sulla somma di punteggi relativi all’osservazione di 3 specifici comportamenti: le espressioni facciali, il movimento degli arti superiori e la compliance con la ventilazione meccanica. Ogni sezione prevede un punteggio che varia da 1 a 4, per un punteggio totale possibile compreso fra 3 e 12, dove 3 rappresenta l’assenza di dolore e 12 è il massimo dolore possibile. Un limite di questo strumento è il suo campo di applicazione, la BPS infatti non può essere utilizzata per tutte le persone sedate o incoscienti: esclude infatti le persone che non sono sottoposte a ventilazione meccanica, tetraplegiche, curarizzate o con neuropatie periferiche.

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Scale multidimensionali

In questo tipo di misurazione, oltre all’intensità del dolore, viene presa in considerazione anche l’impatto che il dolore ha sulla vita quotidiana, soprattutto quando si tratta di dolore cronico che, come si può ben immaginare, ha un impatto non indifferente nella vita di tutti i giorni.

a) McGille Pain Questionnaire (MPQ)

Permette di valutare il dolore come un’esperienza tridimensionale: emotiva, affettiva e sensoriale (qualità del dolore). È costituita da 11 categorie sensitive e da 4 categorie emotive utilizzate per descrivere il dolore. Al paziente viene chiesto di fornire un punteggio da 0 a 3 per ciascuna categoria. Sommando i punteggi ottenuti vengono calcolati tre punteggi: componente sensitiva, componente emotiva e score globale. I pazienti inoltre indicano il loro dolore attuale su una VRS o su una VAS, indicandone la localizzazione su un disegno del corpo umano visto davanti e dietro. Una versione simile ma semplificata del McGille Pain Questionnaire è il Questionario Italiano del Dolore (QUID).

b) Brief Pain Inventory (BPI)

Quantifica sia l’intensità del dolore con una NRS sia la disabilità che esso provoca nel paziente. Il dolore cronico è caratterizzato da una intensità variabile nell’arco della giornata e per questo motivo nel BPI è prevista una valutazione dell’intensità del dolore attuale, del più intenso, meno intenso e dell’intensità media nelle ultime 24 ore. Vengono inoltre registrate la localizzazione del dolore e le sue caratteristiche. La seconda parte del BPI ha l’obiettivo di valutare quanto il dolore interferisca con le attività quotidiane del paziente. Inoltre viene richiesto al paziente quale sia il beneficio offerto dai farmaci analgesici assunti.

In seguito alla raccolta di tutte le informazioni dall’anamnesi, si procede con l’esame obiettivo31

, che ci risulta utile sia per valutare la soglia algica, sia per distinguere il dolore nocicettivo da quello neuropatico. Già con l’anamnesi siamo già indirizzati per l’uno o l’altro tipo di dolore sulla base di precise informazioni, come per esempio un dolore causato da una malattia nota che riporta a una lesione del sistema nervoso e/o una distribuzione del dolore che coincide con il territorio di innervazione di un determinato nervo e/o caratteristiche del dolore riferite dal paziente come sensazione di scossa elettrica, di bruciore, di puntura di spillo31.

Per escludere del tutto un dolore neuropatico quindi, si procede nella valutazione dell’integrità delle fibre del sistema somato-sensoriale mediante tre test, il cui tempo di esecuzione non va oltre pochi

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minuti e presuppone l’utilizzo di un semplice strumentario costituito da un batuffolo di cotone (es. cotton fioc), uno spillo e una provetta riempita di acqua calda: questi ci consentono di valutare rispettivamente le fibre Aβ responsabili del tatto e della conduzione (cotton fioc), le fibre Aδ responsabili del dolore rapido (puntura di spillo) e le fibre C responsabili della percezione termica (caldo e freddo)31. Se il risultato dei tre test è negativo, e quindi il paziente non presenta alterazioni della sensibilità, si ha la certezza che le vie di conduzione sono integre e quindi ci si trova di fronte a un dolore nocicettivo e in questo caso si procede allo studio della soglia algica per distinguere il dolore nocicettivo meccanico-strutturale da quello infiammatorio. Se invece il risultato è incerto, verranno richiesti esami più approfonditi presso un ambulatorio specialistico. Se infine il risultato dei tre test è positivo, allora sappiamo certamente che il dolore è di tipo neuropatico e quindi è consigliabile utilizzare farmaci che agiscono a livello di canali ionici e sulla ricaptazione di neurotrasmettitori.

Per studiare la soglia algica invece, si somministrano al paziente stimoli adeguati al tipo di dolore che si intende verificare (superficiale o profondo) nell’area in cui il paziente riferisce dolore, confrontandoli con la somministrazione degli stessi nella corrispondente area sana. Più in particolare, nello studio del dolore evocato superficiale si possono somministrare sia stimoli sottosoglia come lo sfioramento, sia stimoli sovrasoglia come il pizzicotto o la puntura; nello studio del dolore evocato profondo invece, gli stimoli sottosoglia possono essere una lieve pressione o un movimento, oppure una pressione elevata o un movimento forzato per quelli sovrasoglia. Il test è negativo se lo stimolo risulta indolore o doloroso in uguale misura in zone topograficamente simmetriche. Se invece gli stimoli risultano dolorosi nella zona riferita come dolente dal paziente e non lo sono invece nell’area controlaterale simmetrica (dove il paziente non riferisce dolore), allora il test risulta positivo e dunque la soglia algica è ridotta31. Questo significa che vi è un processo infiammatorio che ha indotto una sensibilizzazione dei nocicettori e quindi risulta utile la somministrazione dei FANS, eventualmente da associare con un analgesico centrale; in caso contrario, cioè quando la soglia algica è normale, il loro utilizzo risulta inefficace e perciò non deve essere preso in considerazione. In questa situazione infatti, si devono prescrivere analgesici come il paracetamolo e/o gli oppiacei che agiscono a livello centrale.

Questi ulteriori approfondimenti diagnostici quindi, hanno un preciso significato perché orientano nella scelta della terapia più adeguata per controllare il dolore.

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CAPITOLO 4

FARMACI ANALGESICI

Al fine di comprendere il motivo di determinate scelte terapeutiche nei vari tipi di dolore, è utile discutere prima delle principali classi di farmaci utilizzati nella gestione antalgica del paziente, ovverosia i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), gli oppioidi e gli anestetici locali. Ciascuno di essi presenta determinate caratteristiche, meccanismi d’azione ed effetti collaterali che vanno presi in considerazione nell’impostare una terapia antalgica in base alla valutazione del paziente. In associazione ad essi, si possono utilizzare i farmaci chiamati “adiuvanti” perché ad azione sinergica e complementare nel controllo del dolore, ma principalmente non di utilizzo analgesico.

Farmaci anti-infiammatori non-steroidei (FANS)

Sono tra i farmaci più utilizzati in terapia a livello mondiale, molti dei quali ormai sono da banco e quindi acquistabili senza ricetta, disponibili in varie formulazioni (gel, compressa, iniezione…)32. Ognuno di noi ne ha sentito almeno una volta il nome, come Diclofenac, Ibuprofene, Ketoprofene, Indometacina, Ketorolac e l’aspirina, considerato l’archetipo di questa classe farmaceutica.

Nonostante siano eterogenei per struttura chimica, hanno più o meno gli stessi effetti, in quanto condividono lo stesso meccanismo d’azione: i FANS infatti, sono in grado di inibire le ciclo-ossigenasi (COX), enzimi regolatori della degradazione dell’acido arachidonico, con conseguente inibizione della formazione dei sui prodotti, ovverosia prostaglandine e trombassani. Si spiegano perciò i loro principali effetti terapeutici, cioè anti-infiammatorio, analgesico e antipiretico.

Nell’infiammazione, infatti, le prostaglandine determinano vasodilatazione, che indirettamente favorisce la formazione di edema facilitando l’azione di altri mediatori come l’istamina, che aumenta la permeabilità delle venule post-capillari. Quindi una loro diminuzione porta a una ridotta vasodilatazione e, indirettamente, a un edema più contenuto, spiegando l’effetto anti-infiammatorio. Bisogna dire comunque che questa classe di farmaci non ha alcun effetto su altri aspetti dell’infiammazione, come la diapedesi, il rilascio degli enzimi lisosomiali o delle specie reattive dell’ossigeno, che contribuiscono al danno tissutale tipico delle condizioni di infiammazione cronica33.

L’effetto antipiretico è dovuto alla riduzione delle prostaglandine generate nell’ipotalamo in risposta all’interleuchina-1 (prodotta da vari tipi di cellule del sistema immunitario, soprattutto in

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risposta alle infezioni) e responsabili dell’elevazione del valore predeterminato nel meccanismo ipotalamico di controllo della temperatura.

Le prostaglandine inoltre, sensibilizzano i nocicettori all’azione delle sostanze algogene, come la bradichinina: una loro diminuzione quindi sta alla base dell’effetto analgesico.

L’inibizione della sintesi di trombassano nelle piastrine spiega l’attività antiaggregante utilizzata soprattutto con l’acido acetilsalicilico, un FANS che a differenza degli altri lega l’enzima COX irreversibilmente. A bassi dosaggi quindi viene utilizzata nella prevenzione della trombosi arteriosa e degli eventi cardiovascolari associati32.

L’enzima COX possiede due diverse isoforme, denominate COX-1 e COX-2, la prima delle quali è presente costitutivamente nella maggior parte dei tessuti ed è coinvolta nell’omeostasi tissutale, regolando la sintesi di prostaglandine in condizioni fisiologiche come quelle implicate nella protezione gastrica, nell’autoregolazione del flusso sanguigno renale oppure nell’aggregazione piastrinica. La COX-2, invece, viene prodotta prevalentemente nelle sedi in cui si verifica un’infiammazione ed è ritenuta responsabile della produzione di prostanoidi, mediatori dell’infiammazione.

La maggior parte dei FANS tradizionali inibisce entrambe gli isoenzimi, perciò i loro effetti indesiderati sono per la maggior parte dovuti all’inibizione di COX-1. Fra questi si riscontrano: - disturbi gastrointestinali: le prostaglandine favoriscono la protezione gastrica tramite la promozione della secrezione di muco e bicarbonato a livello della mucosa, l’inibizione della secrezione acida e l’azione sinergica con il fattore di crescita epiteliale (EGF) e favorendo la vasodilatazione così da ostacolare la retrodiffusione degli H+. L’inibizione delle prostaglandine perciò favorisce la formazione di ulcere sia a livello gastrico che duodenale, eventualmente complicate da sanguinamento e perforazione. L’insorgenza dell’ulcera peptica non sembra correlata con la durata del trattamento, anche se trattamenti di durata superiore ai 3 mesi possono aumentare il rischio34. Fattori che aumentano il rischio possono essere: l’età avanzata, l’associazione con altri farmaci gastrolesivi (i cortisonici in particolare), la presenza di malattie gastrointestinali in atto o recenti, l’assunzione di alcool e il fumo35

. Nei casi a rischio si possono utilizzare gli inibitori di pompa protonica come omeprazolo o pantoprazolo.

- nefropatia: le prostaglandine sono coinvolte nel mantenimento del flusso ematico renale, in particolar modo nella vasodilatazione compensatoria che si instaura in risposta all’azione dell’angiotensina II e dell’adrenalina. Un utilizzo prolungato dei FANS quindi, può portare all’insufficienza renale36

, soprattutto nei pazienti suscettibili come quelli anziani, così come i pazienti con malattie cardiache , epatiche e renali o con un ridotto volume di sangue circolante. - reazioni cutanee: eritema, prurito e aumentata fotosensibilità.

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Dati gli effetti collaterali, dovuti soprattutto all’inibizione dell’enzima COX-1, sono stati prodotti nuovi composti denominati COXIB33 (celecoxib, etoricoxib, parecoxib, etc…) caratterizzati da un’azione selettiva su COX-2, così da non perturbare l’azione fisiologica dell’enzima costitutivo COX-1. Nonostante la minore incidenza di effetti collaterali gastrointestinali37, dopo anni di uso clinico si è scoperto che i COXIB aumentano il rischio di malattie cadiovascolari, con un incremento dell’incidenza di eventi trombotici indipendentemente dalla durata del trattamento38.

PARACETAMOLO (Efferalgan®, Tachipirina®, Perfalgan®)

Il paracetamolo merita una menzione a parte, non solo perché è uno dei farmaci analgesici più utilizzati nel dolore lieve-moderato, ma anche perché differisce dagli altri FANS per la mancanza dell’effetto antinfiammatorio, permanendo però l’azione antipiretica e soprattutto analgesica. Somministrabile per via orale, endovenosa e rettale, raggiunge la concentrazione massima nel plasma dopo 30-60 minuti e ha un’emivita di 2-3 ore, mentre il dosaggio per via orale varia dai 500 mg ai 1000mg.

Agisce inibendo la produzione di prostaglandine a livello centrale e perciò non condivide con gli altri FANS le azioni gastrolesive e di inibizione dell’aggregazione piastrinica. Dosaggi superiori a 4 g al giorno possono determinare un’epatotossicità seria per depauperamento del glutatione, necessario a inattivare gli intermedi tossici derivanti dal metabolismo epatico del paracetamolo. Perciò bisogna essere cauti e utilizzare dosi inferiori nei pazienti epatopatici, come gli alcolisti per esempio. In caso di bisogno, e se l’intervento è tempestivo, è possibile prevenire i danni epatici somministrando agenti che aumentano il glutatione come l’acetilcisteina, ma non oltre 12 ore dall’intossicazione da paracetamolo33

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OPPIOIDI

Il termine “oppioide” fa riferimento a tutti quei composti chimici, sia endogeni che esogeni, che producono effetti simili alla morfina, l’alcaloide più abbondante contenuto nell’oppio, e va perciò distinto dal termine “oppiaceo” che invece si può considerare un sottoinsieme degli oppioidi in quanto esclude le sostanze endogene, scoperte solo recentemente intorno alla metà degli anni 70. Le sostanze oppioidi naturali sono ricavate dalla resina essiccata della capsula immatura del

Papaver Somniferum, e venivano già utilizzate dall’uomo migliaia di anni fa per le loro proprietà

analgesiche e antidiarroiche, oltre che per gli effetti euforizzanti. L'invenzione della siringa, da parte dell'ortopedico francese Charles Gabriel Pravaz nel 1852, e l’uso esteso che si faceva durante la guerra civile americana, rappresentarono le basi che resero evidente come la dipendenza da

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oppioidi poteva essere una piaga sociale, per cui nel 1914 gli Stati Uniti d’America resero illegale l’uso non clinico degli oppioidi e presto furono seguiti da molti altri paesi in tutto il mondo.

La scoperta della struttura chimica della morfina, nel 1902, rese possibile successivamente lo studio di diversi composti: alcuni semisintetici, ottenuti cioè dalla modificazione della struttura della morfina, e altri completamente sintetici.

I principali effetti farmacologici degli oppioidi sono mediati da tre recettori diversi, denominati μ (mu), δ (delta) e κ (kappa), con un effetto complessivo di tipo inibitorio. L’effetto analgesico e alcuni dei più importanti effetti collaterali, come depressione respiratoria e dipendenza, sono mediati soprattutto dai recettori μ. Anche i recettori δ contribuiscono all’effetto analgesico, ma in misura minore e solo a livello periferico, mentre i recettori κ agiscono prevalentemente a livello spinale e causano relativamente pochi effetti collaterali.

Tutti i recettori oppioidi sono accoppiati a proteine G e a livello cellulare determinano:

- Inibizione dell’adenilato ciclasi: la conseguente diminuzione di cAMP riduce il numero e l’attività delle proteine chinasi, per cui nel complesso la trasduzione del segnale è ostacolata. - Inibizione dell’apertura dei canali del Ca2+: a livello pre-sinaptico si traduce con un rilascio diminuito di neurotrasmettitori, e quindi un’inibizione nella trasmissione del segnale antalgico.

- Facilitazione dell’apertura dei canali del K+: ne consegue un’iperpolarizzazione di membrana, per cui aumenta il livello di soglia del neurone post-sinaptico che fa scattare il potenziale d’azione e la risultante è una diminuita eccitabilità neuronale.

I recettori oppioidi sono diffusamente distribuiti nel sistema nervoso e si trovano anche nel tratto gastrointestinale. In relazione alle vie nocicettive, sono numerosi sia a livello centrale che periferico: a livello centrale si trovano principalmente nelle regioni deputate al controllo del dolore, quindi nel grigio periacqueduttale, nel nucleo magno del rafe e nel sistema limbico.

L’azione periferica degli oppioidi invece, si manifesta sia sulla trasmissione del dolore a livello delle corna dorsali sia sulla trasduzione del segnale che avviene nelle terminazioni periferiche dei neuroni nocicettivi.

Effetti farmacologici

- Analgesia: ha un effetto sia sovraspinale che spinale, con un’inibizione della trasmissione del segnale nocicettivo sia presinaptica sia postsinaptica.

- Euforia: induce un senso di felicità e benessere grazie al rilascio di dopamina a livello del sistema limbico; ciò contribuisce a diminuire la componente emotiva spiacevole legata al dolore perché riduce l’ansia e l’agitazione associate a lesioni dolorose. Nei pazienti

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