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L'uso dei tempi verbali italiani da parte di studenti di madrelingua giapponese

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Academic year: 2021

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Indice Introduzione ... 2 CAPITOLO 1 Il tempo nell’apprendimento dell’italiano ... 3 1. L’espressione della temporalità ... 4 1.1 Tempo verbale ... 6 1.2 Aspetto verbale ... 9 1.3 Aktionsart ... 12 1.4 Avverbi di tempo ... 15 1.5 Le particelle di tempo ... 16 1.6 Principi del discorso ... 16 2. La temporalità nell’italiano e nel giapponese ... 18 2.1 La temporalità nella lingua italiana ... 18 2.1.1 Le fasi di apprendimento del sistema verbale italiano ... 20 2.2 La temporalità nella lingua giapponese ... 24 2.2.1 L’apprendimento dell’italiano da parte di madrelingua giapponesi ... 28 3. Corpus ICoN ... 30 3.1 Codifica XML ... 31 3.2 READ-IT ... 35 CAPITOLO 2 L’uso dei tempi verbali italiani: Analisi del sotto-corpus giapponese .... 39 1. L’uso dei tempi verbali nel sotto-corpus dei madrelingua giapponesi ... 42 1.1Errori di aspetto perfettivo/imperfettivo ... 44 1.2 Errori nell’uso di forme di passato perfettivo ... 52 1.3 Sovraestensione intraparadigmatica (errori di numero) ... 60 1.4 Sovraestensione del presente ... 64 1.5 Elaborazione autonoma di forme ... 67 1.6 Omissione ... 70 1.7 Errori nell’uso del congiuntivo e condizionale (aspetto non fattuale) ... 71 1.8 Errori nell’uso dei verbi ausiliari essere e avere ... 74 1.9 Errori nell’uso dell’infinito ... 75 1.10 Formazioni analitiche ... 76 2. Considerazioni sui risultati dell’analisi ... 77 CAPITOLO 3 L’uso del presente storico: Confronto dei testi italiani e giapponesi ... 79 1. L’uso del presente storico nel sotto-corpus giapponese ... 81 2. L’uso del presente storico nel sotto-corpus italiano ... 90 3. Confronto dei due sotto-corpora ... 102 Conclusioni ... 104 Riferimenti bibliografici ... 105

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Introduzione

L’espressione della temporalità è una caratteristica trasversale ai linguaggi e alle culture: tutte le lingue naturali condividono la presenza di elementi e marche temporali, indispensabili non solo per il racconto di fatti o eventi, ma anche per l’espressione di opinioni, previsioni o ipotesi.

Ogni lingua, tuttavia, utilizza modi diversi per esprimere la temporalità, e spesso questi non possono essere “tradotti” direttamente da una lingua all’altra, generando non poca confusione in chi tenta di apprendere una lingua che presenta un sistema temporale differente dal proprio.

Scopo principale di questa tesi è, quindi, l’analisi dell’uso di espressioni della temporalità nei testi prodotti da apprendenti dell’italiano di madrelingua giapponese, in particolare in relazione al sistema dei tempi verbali, attraverso lo studio di una collezione di testi brevi realizzati da studenti giapponesi e il successivo confronto con un campione della stessa dimensione di testi prodotti da studenti di madrelingua italiana, per individuare eventuali interferenze della lingua madre nell’apprendimento del sistema temporale italiano. I testi analizzati sono stati realizzati nell’ambito del corso di Laurea ICoN (Italian Culture on the Net), rivolto a studenti stranieri o italiani residenti all’estero, e raccolti in un corpus attraverso un processo di codifica XML, permettendo quindi la successiva “etichettatura” di eventuali errori, deviazioni o altri fenomeni di rilievo.

Il primo capitolo di questa tesi presenterà innanzitutto lo stato dell’arte in riferimento all’espressione della temporalità, tratterà le caratteristiche peculiari del sistema temporale della lingua italiana e di quella giapponese, e si concluderà con la presentazione del Corpus ICoN e delle metodologie utilizzate per l’analisi; il secondo capitolo sarà dedicato interamente all’analisi dell’uso dei tempi verbali nel sotto-corpus giapponese; il terzo, infine, conterrà un confronto relativo all’uso del presente

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CAPITOLO 1

Il tempo nell’apprendimento dell’italiano

Scopo principale di questa tesi è l’analisi dell’uso dei tempi verbali italiani da parte di apprendenti di madrelingua giapponese. Pertanto, il primo passo da compiere è lo studio delle varie forme della temporalità, per comprendere come si collochino i tempi verbali delle due lingue all’interno del complesso sistema di espressioni temporali presenti in tutte le lingue naturali. La prima sezione di questo capitolo esplorerà quindi la sfera dell’espressione della temporalità nel linguaggio, presentando le classificazioni proposte da Harald Weinrich e Wolfgang Klein.

Nella seconda sezione, l’attenzione verrà posta sulle due lingue in esame, l’italiano e il giapponese, per evidenziarne somiglianze e differenze, e mettere in luce gli elementi potenzialmente più problematici per l’apprendimento della lingua italiana da parte di madrelingua giapponese e i possibili fenomeni di interferenza della lingua nativa. In particolare, il tema dell’apprendimento dell’italiano verrà affrontato prendendo come riferimento gli studi riportati dalla linguista italiana Anna Giacalone Ramat nel libro “Verso l’italiano. Strategie di acquisizione”.

Infine, verrà presentato nel dettaglio l’oggetto di studio dell’analisi, ovvero due collezioni di testi brevi, estratti dal Corpus ICoN e realizzati in ambito accademico rispettivamente da studenti di madrelingua giapponese e studenti di madrelingua italiana, e verranno poi descritti gli strumenti impiegati nell’analisi, ovvero la codifica XML, utilizzata sia per la raccolta e l’archiviazione dei testi, sia per la segnalazione di errori e particolari usi dei tempi, e il software READ-IT, impiegato per la tokenizzazione e lemmatizzazione dei due sotto-corpora.

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1. L’espressione della temporalità

Il tempo è un elemento fondamentale dell’esperienza umana, e come tale si manifesta universalmente, seppure attraverso differenti forme linguistiche, in tutte le lingue naturali. Il linguista francese Émile Benveniste affermava che “È attraverso la lingua che si manifesta l’esperienza umana del tempo”, evidenziando lo stretto e complesso rapporto che lega il tempo linguistico al tempo cronico1.

Il concetto di tempo è, in molti casi, tanto radicato nel linguaggio da non essere distinto lessicalmente dalle forme verbali che svolgono la funzione di “descriverlo”, i tempi verbali appunto; e questi stessi tempi verbali vengono indicati con nomi che fanno riferimento alle tre dimensioni temporali: passato, presente e futuro (Weinrich 1978). In molte lingue, l’espressione della temporalità è resa obbligatoria proprio dal legame strutturale che si ha all’interno del verbo tra la descrizione di una situazione e il suo posizionamento nel tempo: in italiano, ad esempio, una frase come [*Mario essere felice], in cui è presente la descrizione di una situazione ma non la sua collocazione temporale, non è corretta, e solo una forma che fornisca un’indicazione temporale, come Mario È felice o Mario ERA felice può essere accettabile. In altre lingue, come per esempio il cinese, le marche temporali non sono insite nel verbo, e l’espressione della temporalità avviene attraverso l’utilizzo di locuzioni o particelle di tempo (Klein 2009).

Wolfgang Klein, linguista tedesco e direttore dell’Istituto di Psicolinguistica del Max Planck, si è dedicato allo studio dell’espressione linguistica della temporalità sin dagli anni ’90, ponendo una particolare attenzione sulle relazioni temporali che si instaurano nell’atto enunciativo e sugli strumenti linguistici utilizzati per manifestarle. Tradizionalmente, per collocare un evento nel tempo, si fa riferimento a tre momenti (Banfi e Bernini 2003: 73-74):

• il momento dell’enunciazione, ovvero il momento in cui l’enunciato viene prodotto;

1 Con tempo cronico Benveniste intende “la continuità nella quale si dispongono in serie quei blocchi

distinti che sono gli avvenimenti” (2009: 39), che può essere oggettivato attraverso un sistema di “calendarizzazione” basato su tre condizioni: la condizione stativa, ovvero la scelta di un momento assiale (ad esempio la nascita di Gesù Cristo), la condizione direttiva, ovvero l’opposizione prima/dopo in relazione all’asse di riferimento (A.C. e D.C.), e la condizione misurativa, ovvero la definizione di unità di misura per descrivere gli intervalli costanti in cui “scandire” il tempo (anno, mese, giorno e così via).

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• il momento dell’avvenimento, ovvero il momento in cui ha luogo l’avvenimento descritto o raccontato nell’enunciato;

• il momento di riferimento, l’ancora temporale che viene presa come riferimento rispetto a cui collocare l’avvenimento.

Klein (1994, 2009), tuttavia, evidenzia come tanto il momento dell’avvenimento quanto quello di riferimento non siano di fatto dei “momenti”, degli istanti, bensì degli archi di tempo di durata più o meno ampia, suggerendo quindi di definire questi archi come “tempo della situazione” (situation time) e “tempo dell’argomento” o “di validità dell’asserzione” (topic time). Nella frase “Alle cinque Maria era partita”, il momento dell’enunciazione è quindi quello in cui la frase viene pronunciata; il tempo della situazione è quello della partenza di Maria e precede il tempo dell’argomento, espresso esplicitamente dall’avverbiale alle cinque.

Le espressioni utilizzate per la codifica del tempo sono invece analizzate da Klein nell’articolo “How time is encoded” (2009) e sono riconducibili a sei strumenti linguistici: il tempo verbale, l’aspetto verbale, l’aktionsart, gli avverbi di tempo, le particelle di tempo e i principi del discorso (41-46).

Lo studioso di linguistica testuale Harald Weinrich distingue invece due categorie: i segni “ostinati", che stanno a indicare le forme linguistiche incluse nei verbi, raccogliendo circa le prime tre categorie individuate da Klein, e i segni “non ostinati”, che fanno riferimento alle locuzioni temporali e vanno a coprire all’incirca la quarta e la quinta categoria di Klein. La terminologia proposta da Weinrich, presa in prestito dal concetto di “ostinato” in musica, deriva dalla caratteristica di alcuni elementi linguistici (come ad esempio le forme temporali nei verbi) di avere un indice di ricorrenza molto alto, di circa un segno per riga all’interno di un testo scritto, a differenza di altri segni (indicazioni di luogo e data in una lettera, avverbi e locuzioni avverbiali in un racconto ecc.) che appaiono invece con frequenza decisamente minore (Weinrich 1978: 19).

Le classificazioni proposte da Klein e Weinrich verranno presentate nel dettaglio nei prossimi paragrafi.

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1.1 Tempo verbale

Il “tempo” è una categoria grammaticale del verbo che nella sua accezione tradizionale indica la relazione temporale tra la situazione descritta dalla frase e il momento dell’enunciazione, che pone quindi il tempo presente come ancora attorno a cui si collocano gli altri tempi verbali. La realtà ovviamente è più complessa, poiché i tempi verbali non sono limitati a tre (passato, presente e futuro), e possono essere utilizzati per indicare relazioni ben più articolate del semplice prima/dopo (Klein 2009: 43-52):

• in italiano, esiste una distinzione tra passato prossimo e passato remoto, in cui il primo indica un avvenimento collocato nel passato, ma non da molto, e che quindi continua ad avere un effetto anche sul presente, mentre il secondo fa riferimento a un evento collocato in un passato lontano, che non ha più conseguenze o influenze dirette sul presente;

• il tempo futuro viene utilizzato in molte lingue (e in particolare nel tedesco) con valore prevalentemente modale, e non temporale: ad esempio, nella frase Hans wird schlafen, “Hans dormirà”, il verbo al tempo futuro può essere interpretato nel senso classico di “Hans dormirà in un certo momento nel futuro”, ma frequentemente e quindi con maggiore probabilità è usato per intendere “È probabile che Hans stia dormendo in questo momento”;

in inglese, è il past tense a poter assumere un significato diverso da quello tradizionale, ed è infatti usato, in assenza del modo congiuntivo, per esprimere l’irrealtà, come ad esempio nella frase If they were here, “Se fossero qui”.

Altri usi non canonici dei tempi verbali descritti da Klein sono il presente narrativo, utilizzato per coinvolgere l’interlocutore durante il racconto di qualche avvenimento passato; il “viaggio nel tempo” e l’”imagine prefixing”, utilizzati per immergere l’interlocutore (nel primo caso, più comunemente il lettore) in una situazione fittizia altrimenti troppo lontana; il praesens tabulare, utilizzato per presentare una serie di fatti storici; l’”epic preterite”, utilizzato nella narrazione letteraria; il “re-telling”, usato per raccontare quanto è avvenuto in un film o un racconto (es: “Nella scena successiva, Charlie si guarda intorno”); l’uso del passato misto al presente nella descrizione di immagini (es: “Questa è Eva quando aveva quattro anni. Sembra molto allegra, vero?”), e infine il “backchecking”, ovvero l’uso

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del passato all’interno di brevi conversazioni per richiamare o controllare informazioni (es: “Scusi, qual era il suo nome?”).

L’analisi di Klein si realizza, in conclusione, in un’elencazione di esempi di fenomeni linguistici devianti rispetto all’interpretazione tradizionale del concetto di tempo verbale, classificati attraverso molte etichettature in classi ben distinte.

Harald Weinrich, al contrario, concentra la sua attenzione sui tempi verbali nel loro insieme, individuandone due macro-categorie: i tempi narrativi e i tempi commentativi (Weinrich 1978: 23-27). Partendo da un’analisi della novella di Pirandello Le tre carissime, Weinrich giunge alla conclusione che i tempi verbali non si distribuiscono in modo omogeneo all’interno del testo, ma compaiono seguendo uno schema e una combinazione ben definiti. Nei passi di un testo dedicati all’esposizione narrativa, sono predominanti l’imperfetto, il passato remoto, il trapassato prossimo e i due condizionali (tempi narrativi), mentre nei passi caratterizzati da un’interruzione del racconto, un commento o un’interferenza dell’autore, i tempi dominanti sono il presente, il passato prossimo e il futuro (tempi commentativi).

La classificazione operata da Weinrich ricorda in questo senso la teoria dell’enunciazione di Benveniste, e in particolare la dicotomia che individua tra i sistemi temporali della “storia” e del “discorso” (Benveniste 1959, citato in Manetti 2008). Con “storia” Benveniste intende l’enunciato, il racconto, con un sistema temporale completamente scorrelato dal contesto enunciativo, e caratterizzato quindi dall’assenza di forme deittiche, dall’uso del tempo passato2 come punto di riferimento (attorno a cui si collocano il prospettivo, “futuro del passato” e il trapassato, che indicano rispettivamente un momento successivo e precedente), e dall’esclusione delle forme pronominali, che si realizza nell’uso esclusivo della terza persona. Il “discorso” è invece il tempo dell’enunciazione, in cui il punto di riferimento temporale è il presente (attorno a cui si collocano il futuro semplice e il passato prossimo), e il rapporto tra enunciatore ed enunciatario è reso manifesto attraverso l’uso di forme pronominali (l’opposizione io/tu) e deittiche.

I due sistemi temporali, tuttavia, non si differenziano solamente per l’utilizzo di diversi tempi verbali, ma anche per le altre forme di riferimento temporale. Infatti,

2 Benveniste parla in realtà dell’aoristo, tempo della narrazione per eccellenza, che non indica

necessariamente un’azione collocata nel passato, ma viene generalmente tradotto in questo modo nelle lingue che non prevedono questa particolare forma verbale, come ad esempio l’italiano, che tende a

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nel passaggio da discorso a storia, a causa dello spostamento del momento assiale dal presente dell’enunciazione a un passato (o tempo indefinito) dell’enunciato, i concetti di contemporaneità, anteriorità e posteriorità vengono resi con locuzioni diverse. Riferimento al tempo del Discorso (Enunciazione) Riferimento al tempo della Storia (Enunciato) Contemporaneità ora, adesso in questo momento oggi allora in quel momento lo stesso giorno Anteriorità ieri l’anno scorso un mese fa da qualche tempo recentemente il giorno precedente l’anno precedente un mese prima qualche tempo prima poco prima Posteriorità domani il mese prossimo tra due anni d’ora in poi prossimamente l’indomani il mese seguente due anni dopo d’allora in poi poco dopo Tabella 1. Relazioni temporali nel Discorso e nella Storia (Manetti 2008)

A differenza di Benveniste, tuttavia, Weinrich dedica molti dei suoi studi sulla linguistica testuale non tanto all’enunciazione in sé, quanto all’effetto di questa sull’enunciatario (inteso prevalentemente come lettore). Il linguista tedesco nota, infatti, che l’utilizzo di tempi commentativi o narrativi determina nel lettore uno stato rispettivamente di tensione o distensione: i tempi del mondo commentato richiamano l’attenzione del lettore poiché, ponendo come punto di riferimento temporale il presente, attualizzano la situazione comunicativa (l’esempio di Weinrich, tratto dalla novella di Maupassant Le Testament, è, infatti, una scena di dialogo molto vivace presentata quasi interamente al tempo presente); i tempi del mondo narrato, viceversa, allontanando l’ancora temporale, permettono al lettore di allentare la propria forza di concentrazione (Weinrich 1978: 45-49). In ogni testo, pertanto, si può ritrovare una predominanza dell’uno o dell’altro gruppo di tempi in base allo scopo che il testo stesso si prefigge: i tempi commentativi sono dominanti nella lirica,

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nel dramma, nel dialogo, nel saggio e nella prosa scientifica o filosofica, nonché in ogni forma di discorso rituale, formalizzata o performativa; i tempi narrativi prevalgono nella novella, nel romanzo e in ogni tipo di racconto (56).

1.2 Aspetto verbale

Come il tempo, anche l’aspetto è una categoria grammaticale del verbo, ma a differenza di questo non svolge la funzione di esprimere una relazione temporale, bensì quella di presentare la situazione descritta dalla frase da una particolare prospettiva. In generale, le prospettive presentate possono appartenere a tre categorie:

• opposizione tra punto di osservazione esterno o interno alla situazione,

• opposizione tra situazione/azione presentata con o senza i suoi limiti temporali,

• opposizione tra situazione/azione conclusa o non conclusa (o in atto)

Un punto di vista esterno presenta la situazione nella sua globalità, come un unico processo, mentre un punto di vista interno permette di osservare una situazione in qualunque fase del suo svolgimento; allo stesso modo, è possibile presentare una situazione esplicitandone il momento di inizio e di fine, oppure lasciare che queste informazioni rimangano implicite o totalmente assenti.

La distinzione più comunemente riscontrata nelle lingue naturali, tuttavia, è quella, evidenziata al terzo punto, tra il cosiddetto aspetto “imperfettivo” e “perfettivo”, che indicano rispettivamente se una situazione sia in atto o conclusa: in Eva stava chiudendo la porta la situazione [Eva chiudere la porta] viene indicata come in atto, mentre in Eva chiuse la porta la situazione è conclusa. Questa distinzione è particolarmente marcata nella lingua russa, che presenta una complessa combinazione di tempi e aspetti, ed è comune alla maggior parte delle lingue slave (Klein 2009: 14).

I due aspetti si suddividono inoltre in sottocategorie: l’imperfettivo include l’aspetto continuo, abituale e progressivo; il perfettivo include l’aoristico, il compiuto e l’ingressivo (Grandi 2010).

L’aspetto continuo presenta la situazione nella sua totalità, ma con un senso di indeterminatezza: verbi che possono essere sostituiti con le perifrasi non fare altro

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che + infinito, continuare a + infinito, andare + gerundio appartengono a questa tipologia.

L’aspetto abituale presenta l’occorrenza ripetuta e regolare di un’azione, situazione o processo, eventualmente circoscritta a particolari circostanze (es: “Quando piove, Marco va al lavoro in tram”). I verbi di aspetto abituale si accompagnano generalmente ad avverbiali come spesso, abitualmente, di frequente, (per) X volte al giorno/mese/anno e così via.

L’aspetto progressivo, invece, presenta la situazione colta nel suo svolgimento, considerata come singola e specifica occorrenza3 (a differenza dell’aspetto abituale), e da un punto di vista interno (a differenza dell’aspetto continuo: appartengono a questa tipologia verbi che possono essere sostituiti con la perifrasi stare + gerundio o combinati con l’avverbiale da X tempo. Imperfettivo Continuo Abituale Progressivo Durante la festa, Eva correva / andava correndo / non faceva altro che correre dappertutto Prima di andare al lavoro, Eva corre / è solita correre Quando l’ho chiamata, Eva correva / stava correndo da 20 minuti Tabella 2. Aspetto imperfettivo

L’aspetto aoristico si realizza generalmente nelle forme verbali non composte di valore perfettivo (in italiano: presente, passato remoto e futuro semplice) e presenta la situazione “colta nel suo singolo manifestarsi”, senza riferimenti alla durata o agli effetti dell’azione.

L’aspetto compiuto si ritrova più spesso nelle forme verbali composte (in italiano: passato e trapassato prossimo, futuro anteriore) e presenta la situazione come risultato di un’azione compiuta in precedenza: un esempio pratico di aspetto

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compiuto sono tutte quelle forme verbali che si combinano con avverbiali come già oppure da X tempo. L’aspetto ingressivo è una specificazione delle forme verbali con valore aoristico, che descrive però la fase iniziale di un processo: l’esempio più chiaro di forme verbali con valore ingressivo sono le locuzioni iniziare/cominciare a + infinito. Perfettivo

Aoristico Compiuto Ingressivo

Sconvolta dalla notizia, Eva corse via. Eva è già corsa / è corsa un’ora fa a prendere il treno Eva iniziò a correre per arrivare in orario a lavoro. Tabella 3. Aspetto perfettivo

Ulteriori forme aspettuali, scendendo nel dettaglio ma comunque riconducibili alle categorie di aspetto perfettivo e imperfettivo:

• l’aspetto prospettivo indica una situazione in procinto di accadere, ed è reso in italiano da locuzioni del tipo stare per + infinito (es: Eva sta per partire);

• l’aspetto telico indica un’azione che terminerà in un risultato (es: Eva prepara/sta preparando una torta);

• l’aspetto cessativo indica la fine di un’azione o situazione, e si può ritrovare nelle locuzioni del tipo smettere di + infinito (es: Ha appena smesso di piovere);

• l’aspetto pausativo si distingue dal cessativo in quanto indica un’interruzione temporanea e presenta generalmente informazioni circa la durata di questa interruzione (es: Ha smesso di piovere per due ore), implicandone il valore non definitivo;

• l’aspetto resumente indica il ricominciare di un’azione o situazione dopo un’interruzione (es: Eva ha ripreso a studiare);

• l’aspetto durativo indica un’azione o situazione dalla durata definita (es: Eva ha studiato tutta la mattina);

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• l’aspetto protrattivo indica un’azione o situazione dalla durata indefinita, ma che si protrae nel tempo, ed è reso in italiano dalla locuzione andare + gerundio (es: Il prezzo del petrolio va salendo sempre di più). 1.3 Aktionsart L’aktionsart (definito anche “azione” o “azionalità”) è una categorizzazione dei verbi in base alle proprietà temporali delle situazioni che descrivono. A differenza di quanto accade per tempo e aspetto verbale, questa categorizzazione si basa prevalentemente sul significato lessicale del verbo: vi sono verbi che descrivono eventi, come ad esempio “esplodere”, altri che descrivono azioni, come “parlare”, e altri ancora che descrivono stati, come “sperare”.

Da Aristotele in poi, molti studiosi del linguaggio hanno provato a fornire una classificazione e descrizione completa di queste tipologie, e i risultati di questi tentativi hanno messo in luce delle caratteristiche temporali comuni, da tenere in considerazione come base per la categorizzazione:

A. il cambiamento qualitativo, ovvero l’opposizione tra verbi che indicano un cambiamento di stato e verbi che descrivono una situazione “immutata”;

B. la presenza di confini temporali (“boundedness”), ovvero l’opposizione tra verbi che descrivono azioni delimitate da un inizio e una fine e verbi privi di questa connotazione;

C. la durata, ovvero l’opposizione, nel caso dei verbi che fanno riferimento ad azioni delimitate da un inizio e una fine, tra verbi che descrivono azioni puntuali (di breve durata) e non puntuali (di lunga durata);

D. la “quantificazione interna” (“inner quantification”), ovvero l’opposizione tra semelfattività (eventi o processi che accadono una sola volta) e iterazione (eventi o processi che si compongono di ripetuti sotto-eventi o sotto-stati); E. la fase, ovvero l’opposizione tra verbi che fanno riferimento alla sotto-fase

iniziale, centrale o finale di un processo.

Una classificazione molto chiara e completa, presa a modello ancora oggi da molti ricercatori, è quella proposta da Zeno Vendler negli anni ’50, che si compone di quattro categorie verbali: verbi di attività, di compimento, di stato e di realizzazione. I verbi di attività e di stato si possono inoltre considerare, facendo riferimento all’opposizione descritta al punto B, come verbi non telici (privi di un punto

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culminante), mentre i verbi di compimento e di realizzazione appartengono alla classe dei verbi telici (che terminano in un climax).

Vendler distingue innanzitutto i verbi che possiedono tempi continui da quelli che non prevedono queste forme, portando come esempio il diverso comportamento del verbo to run, “correre” e to know, “conoscere”/ “sapere”: alla domanda “Cosa stai facendo?”, la risposta “Sto correndo” (o “mangiando”, o “scrivendo”) ha perfettamente senso, mentre “Sto sapendo (qualcosa)” suona innaturale e intrinsecamente sbagliata (Vendler 1957: 144-145).

Questa differenza di comportamento suggerisce che verbi come correre e scrivere esprimano processi che si sviluppano nel tempo, composti da una serie di fasi in successione, mentre verbi come conoscere e amare facciano riferimento a situazioni “fisse”, non in evoluzione. Al primo gruppo appartengono i verbi di attività e di compimento, al secondo quelli di stato e di realizzazione.

È importante notare, a questo punto, che un verbo appartenente al primo gruppo può assumere il valore di attività o di compimento in base al contesto d’uso: nella frase “Eva ha corso per mezz’ora” il verbo correre è usato con valore non telico, in quanto l’azione si svolge in modo omogeneo per tutta la durata descritta dall’avverbiale per mezz’ora (ovvero: ogni fase del processo è della stessa natura del processo nel suo insieme), ed è quindi un verbo di attività, mentre nella frase “Eva ha corso un chilometro”, il verbo correre è usato con valore telico, in quanto la frase risulta vera solo al raggiungimento del chilometro, ed è quindi un verbo di compimento.

Per quanto riguarda il secondo gruppo, la distinzione si basa invece sulla durata: i verbi di stato indicano situazioni, disposizioni d’animo, abilità ecc. che perdurano nel tempo, mentre i verbi di realizzazione descrivono dei singoli momenti, ben definiti; in generale, per i verbi di stato ha senso la domanda “Per quanto tempo?”, mentre per i verbi di realizzazione la domanda corretta è “Quando?”4 (146-147). Verbi come amare, odiare, credere, avere, volere o desiderare appartengono manifestamente alla categoria dei verbi di stato; tuttavia, la situazione si fa più complicata quando si considerano espressioni come essere sposato, essere presente o assente, sano o malato. Sebbene sposarsi, presenziare o ammalarsi siano delle azioni, il

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risultato di queste azioni è di fatto uno stato, e come tale si comporta dal punto di vista linguistico: la frase [*Sto essendo sposato] non ha alcun senso, dal momento che non si tratta di un processo, bensì di una situazione in corso (“Sono sposato”).

Allo stesso modo, anche i verbi che indicano abitudini o occupazioni fanno parte a pieno diritto della categoria dei verbi di stato: la domanda “Tu fumi?” non fa riferimento a un’attività (“Stai fumando in questo momento?”), bensì a uno stato (“Sei un fumatore?”); scrivere un libro è un compimento, ma uno scrittore che afferma di scrivere libri sta facendo riferimento alla sua occupazione generale, e non necessariamente ad un processo in atto in quel momento (Vendler 1957, Klein 2009). I verbi di realizzazione, d’altra parte, possono talvolta essere confusi con i verbi di compimento, quando vengono usati in forme come “Ho impiegato due ore per raggiungere la vetta” o “Ha trovato la soluzione in cinque minuti”; tuttavia, è possibile distinguerli con una discreta facilità se si considera la natura dei verbi appartenenti alle due categorie: i verbi di realizzazione indicano il momento esatto del raggiungimento, e durante il periodo di tempo che precede questo raggiungimento non è possibile affermare di “stare raggiungendo” l’obiettivo (es: “Sto raggiungendo la vetta”, “Sto trovando la soluzione”); i verbi di compimento, viceversa, indicano un processo, e in ogni momento che precede il termine di questo processo (ad esempio scrivere un libro o disegnare un cerchio) è comunque possibile dire che si sta compiendo l’azione che porterà al raggiungimento di quel risultato (es: “Sto scrivendo un libro”, “Sto disegnando un cerchio”). Verbi non telici Verbi telici

Attività Stato Compimento Realizzazione

Eva ha corso per mezz’ora Eva sta spingendo il carrello Eva ama correre Eva scrive per lavoro Eva ha corso un chilometro Eva sta scrivendo un libro / ha scritto un libro in sei mesi Eva ha vinto la corsa Eva ha raggiunto la cima in due ore Tabella 4. Verbi telici e non telici

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1.4 Avverbi di tempo

Gli avverbi di tempo costituiscono la più ricca classe di espressioni temporali e, a differenza di tempo e aspetto, si ritrovano in tutte le lingue naturali.

Le forme avverbiali presentate da Klein (2009: 26-27) sono essenzialmente tre: • gli avverbi semplici (ora, presto, spesso, mai)

• gli avverbi composti morfologicamente (rapidamente, successivamente)

• gli avverbi composti sintatticamente, definiti anche polirematiche (tanto tempo fa, dopo la guerra).

Questi ultimi rappresentano la classe più numerosa, e comprendono a loro volta tre costruzioni principali: i sintagmi nominali semplici (lo scorso autunno, tutto il giorno), i sintagmi preposizionali o postposizionali (tre ore fa, tre ore prima, per sette anni, dopo la lezione, in passato), e le proposizioni subordinate (prima che arrivasse mio padre, quando ero al liceo, ogni volta che mi chiami).

Si possono distinguere inoltre quattro categorie di avverbi temporali, sulla base della funzione svolta:

• gli avverbi di posizione indicano una relazione di anteriorità, posteriorità o simultaneità tra due momenti nel tempo: il “tema”, ovvero il momento in cui si posiziona una situazione, e il “relatum”, ovvero l’ancora in relazione a cui si posiziona il tema. Il relatum è spesso deittico, e coincide con il momento dell’enunciazione, ma vi sono altre due forme di relata: l’anaforica, che si riferisce ad un contesto precedente (es: allora, pochi minuti dopo), e la calendarica, che utilizza come riferimento temporale un evento storico, come ad esempio la nascita di Cristo (es: nel 1920, negli anni ’80);

• gli avverbi di durata indicano per quanto tempo occorre una determinata azione o situazione: questa indicazione può essere piuttosto vaga (per un po’) o estremamente precisa (per quindici minuti e quaranta secondi);

• gli avverbi di frequenza indicano la distribuzione di un evento nel tempo (spesso, talvolta, ogni tanto);

• gli avverbi di contrasto indicano un confronto tra due situazioni nel tempo e sono principalmente gli avverbi già e ancora, quest’ultimo da intendersi nel duplice significato di “ancora in atto” e “di nuovo/un’altra volta” (es: Eva è ancora a casa VS Eva è ancora in ritardo!).

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Infine, bisogna tenere conto della posizione dell’avverbio o della locuzione avverbiale nella frase, poiché – soprattutto in combinazione con determinate forme verbali – ne può determinare una variazione di significato: nella frase Maria era partita alle cinque, “alle cinque” indica il momento specifico della partenza, mentre in Alle cinque Maria era partita, lo stesso avverbiale indica un momento successivo alla partenza (Alle cinque Maria era già partita). L’effetto della posizione dell’avverbiale all’interno della frase, tuttavia, varia considerevolmente da lingua a lingua e pertanto non è possibile ricondurre questo comportamento ad una regola generale (29-31).

1.5 Le particelle di tempo

Le particelle di tempo sono strutture che seguono o precedono il verbo e svolgono la funzione di indicatori di tempo e di aspetto nelle lingue che non presentano questi elementi all’interno del verbo stesso, come ad esempio il cinese mandarino (Klein 2009: 31-32).

Il mandarino presenta quattro particelle di tempo principali, tre delle quali (le, guo, e zhe) seguono il verbo, e una (zai) lo precede. La particella le indica l’aspetto perfettivo, indipendentemente dal posizionamento della situazione nel tempo, zhe e zai indicano uno stato di “on-goingness”, situazione in atto, anche in questo caso indipendentemente dal tempo in cui svolge la situazione, mentre la particella guo indica che la situazione è già successa almeno una volta nel passato.

Nonostante la versatilità e l’efficienza consentite dall’uso di particelle di tempo – soprattutto in combinazione con gli avverbiali – sono molto poche le lingue che presentano un sistema temporale di questo tipo, e questo strumento linguistico non potrà purtroppo essere approfondito in questa sede, per mancanza di sufficiente materiale pertinente all’interno del corpus ICoN.

1.6 Principi del discorso

L’ultimo strumento linguistico individuato da Klein attiene prevalentemente al dominio della pragmatica e della linguistica testuale, in quanto non si colloca al livello del morfema, del sintagma o della frase, bensì al livello del testo. I principi del discorso sono infatti le “regole” che consentono al parlante di costruire e trasmettere il suo messaggio secondo una strategia comunicativa efficace ed efficiente.

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Per quanto riguarda l’espressione della temporalità, i principi fondamentali sono essenzialmente due: il Principio dell’Ordine Cronologico (Klein 2009) e il Principio di “Newsworthiness” – o “Notiziabilità” (Mithun 1987).

Il Principio dell’Ordine Cronologico afferma che “salvo indicato altrimenti, l’ordine in cui sono riportati gli eventi corrisponde all’ordine in cui questi sono avvenuti”; questo principio, evidente nei testi che presentano una narrazione, una sequenza di fatti collocati su una linea temporale, si può in realtà riscontrare anche in testi che non presentano una struttura temporale intrinseca, come ad esempio delle indicazioni stradali o la descrizione di uno spazio: in questo caso, il parlante deve ideare una struttura ragionevole su cui basare il proprio discorso (“Al primo semaforo gira a destra, continua dritto per circa 5 minuti, gira a sinistra e sei arrivato”) temporalizzando un’informazione statica (Klein 2009: 73).

Il principio di Newsworthiness, d’altro canto, afferma che sia l’informazione o argomento più recente a dover essere posto per prima, e, nel caso di due o più informazioni ugualmente nuove, si debba procedere considerando innanzitutto quelle che aggiungono maggiore contenuto al discorso, ovvero le più inaspettate, poiché hanno il potere di ribaltare quanto precedentemente conosciuto e concordato dagli

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2. La temporalità nell’italiano e nel giapponese

Gli strumenti linguistici individuati da Klein, fatta eccezione per le particelle di tempo5, caratteristiche delle lingue che non possiedono un sistema di tempi verbali, sono utilizzati ampiamente sia nella lingua italiana che in quella giapponese. In particolare, entrambe le lingue mostrano una netta opposizione tra i tempi verbali del passato e del presente (definiti in giapponese come passato e non-passato), mentre l’opposizione tra questi e il tempo futuro è presente nell’italiano, in cui è comunque molto comune l’uso del tempo presente per esprimere azioni future (es: “Domani vado al mare” anziché “Domani andrò al mare”), ma non in giapponese, in cui è il solo tempo presente, corredato opportunamente di avverbiali che indichino il contesto temporale dell’azione, a svolgere questa funzione (Mastrangelo 2016: 156).

2.1 La temporalità nella lingua italiana

La codificazione di tempo nel verbo italiano è realizzata dal componente morfologico tramite suffissi legati alla radice e/o verbi ausiliari, che tuttavia non si limitano a marcare esclusivamente la categoria temporale, ma indicano contestualmente anche le categorie di modo, aspetto e diatesi. L’italiano presenta un complesso sistema di tempi verbali, distinguendo ben cinque forme per indicare il passato e due per il futuro: Passato Presente Futuro Imperfetto: avevo Imperfetto progressivo: stavo avendo Presente: ho Futuro semplice: avrò Passato prossimo: ho avuto Trapassato prossimo: avevo avuto Presente progressivo: sto avendo Futuro anteriore: avrò avuto Passato remoto: ebbi Trapassato remoto: ebbi avuto Tabella 5. Sistema dei tempi verbali italiani 5 In giapponese esiste, in effetti, una particella di tempo: si tratta della particella ni (に), che

posposta al sintagma nominale indica un complemento di tempo determinato. Tuttavia, la stessa particella è utilizzata anche con il significato di “stato in luogo”, e pertanto non svolge funzione esclusivamente temporale, e può essere paragonata alle preposizioni italiane “in” e “a”.

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Il presente costituisce la categoria centrale del sistema temporale italiano; è morfologicamente non marcato, ed è usato prevalentemente per indicare la “coincidenza e simultaneità di un evento con il momento dell’enunciazione” (Banfi e Bernini 2003:75). Strettamente legata al momento dell’enunciazione è la forma progressiva del presente, formata dal presente indicativo del verbo “stare” in combinazione con il gerundio (Sto leggendo); tuttavia, il tempo presente può avere anche usi non deittici, come nel caso del presente abituale (Eva corre tutti i giorni) o il presente utilizzato per esprimere verità generali (La terra ruota attorno al sole). Inoltre, il presente può essere usato in italiano anche con funzione narrativa (“presente storico”) per fare riferimento a eventi anteriori al momento dell’enunciazione (Roggia 2011). Nel riportare fatti o avvenimenti storici, l’enunciatore ha quindi la possibilità di scegliere se utilizzare il tempo presente, attualizzando l’avvenimento per generare uno stato di tensione e interesse nell’interlocutore o lettore, oppure il passato remoto, collocando l’evento in un punto lontano rispetto al momento dell’enunciazione e creando quindi un senso di distensione. Gli effetti di questa scelta, tuttavia, non sono necessariamente noti all’enunciatore, e l’uno o l’altro tempo verbale vengono spesso usati indifferentemente, soprattutto all’interno di testi brevi e/o realizzati in ambito scolastico, l’oggetto di studio di questa tesi.

Per quanto riguarda il passato, si distinguono, in base all’aspetto, un passato perfettivo e uno imperfettivo: il passato perfettivo è rappresentato dal passato prossimo e dal passato remoto (e dai relativi trapassati), quello imperfettivo è rappresentato dall’imperfetto.

Passato prossimo e passato remoto si differenziano nuovamente sulla base dell’aspetto: il passato prossimo indica un evento anteriore al momento dell’enunciazione sotto l’aspetto compiuto o inclusivo, il passato remoto, viceversa, si riferisce ad un evento di carattere perfettivo-aoristico (Banfi e Bernini 2003: 76). La distinzione aspettuale tra i due tempi verbali si realizza nel diverso rapporto che questi instaurano con il momento dell’enunciazione. Nel caso del passato prossimo, l’autore del messaggio ha una percezione di vicinanza rispetto all’avvenimento descritto, poiché ritiene che questo abbia ancora degli effetti sul presente (Ho comprato questa casa trent’anni fa [e la posseggo ancora]), oppure a causa del suo coinvolgimento emotivo (Gli anni del liceo sono stati i migliori della mia vita!). Il

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passato remoto, viceversa, indica che l’avvenimento raccontato è percepito dall’autore del messaggio come lontano, slegato dal momento dell’enunciazione, sia da un punto di vista cronologico che da un punto di vista psicologico (Dante Alighieri nacque a Firenze nel 1265). È da notare, comunque, come il passato prossimo, nell’italiano neo-standard, venga sempre più spesso usato anche con funzione di passato aoristico (sostituendo il passato remoto), soprattutto in contesti comunicativi conversazionali, mentre nella comunicazione scritta, e in particolare nei testi narrativi, i due tempi verbali appaiono ancora ben distinti (Bertinetto 1991, citato in Wiberg 2011).

L’imperfetto, invece, è usato prevalentemente con funzione di sfondo a eventi presentati perfettivamente (mentre passeggiavo, ho incontrato Eva) o per descrivere eventi abituali (Eva correva tutti i giorni), stati (Eva era preoccupata) o qualità intrinseche (Eva era molto bella). Tuttavia, l’imperfetto può avere anche usi perfettivi, come ad esempio nell’indicare un evento appena concluso nel passato (Arrivava proprio in quel momento) o un evento posteriore al tempo di riferimento, in questo caso sostituendo la forma condizionale composta (Ho aspettato un po’ per vedere se arrivava / se sarebbe arrivata), e usi modali, soprattutto in contesti lievemente marcati verso il basso diafasicamente e diastraticamente (Se me lo dicevi, ti aiutavo [anziché “avrei aiutato”] volentieri).

I tempi futuri sono usati nella maggioranza dei casi con valore non deittico (77), per indicare previsione/dubbio (Che ne sarà di noi?), intenzione/volizione (Sarò molto chiaro), o congetture e inferenze sul presente (mediante il futuro semplice, es: “Marco sarà ancora a casa”) o sul passato (mediante il futuro anteriore, es: “Se sei passato da casa, l’avrai incontrato sicuramente”).

2.1.1 Le fasi di apprendimento del sistema verbale italiano

Il processo che guida l’avvicinamento alla lingua di arrivo, passando attraverso l’interlingua, si fonda principalmente su tre aspetti: la complessificazione dell’architettura nozionale del sistema verbale, la successione di sviluppo delle tre categorie semantiche della lingua di arrivo (aspetto, tempo, modo), le strategie di codificazione che appaiono nelle diverse fasi di sviluppo (Banfi e Bernini 2003:92).

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Il libro “Verso l’italiano”, a cura di Anna Giacalone Ramat, ripercorre il processo di apprendimento del sistema verbale italiano, riconoscendo una sequenza comune a tutti gli apprendenti dell’italiano: Presente (e Infinito) > (Ausiliare) Participio passato > Imperfetto > Futuro > Condizionale > Congiuntivo Questa sequenza ha valore implicazionale, e permette quindi di valutare il livello di competenza raggiunto da un apprendente nell’ambito del sistema dei tempi verbali: l’uso autonomo del futuro implica la padronanza di presente, participio passato (con o senza ausiliare) e imperfetto, ma non fornisce informazioni rispetto alla conoscenza del condizionale e del congiuntivo (90-91).

La complessificazione dell’architettura nozionale del sistema verbale indica il processo incrementale che porta all’organizzazione dei mezzi di espressione in sistemi orientati verso quello della lingua d’arrivo.

La fase iniziale del processo di apprendimento è caratterizzata dall’utilizzo di una forma base (in genere la 3° persona singolare del presente indicativo) con valore prettamente lessicale, priva di qualsivoglia significato grammaticale. La complessificazione avviene quindi ritagliando questo “spazio funzionale indifferenziato”, e, con l’aggiunta di nuove forme verbali, si assiste ad una riduzione delle funzioni attribuite inizialmente alla forma generica del presente, che giunge, nella quarta e ultima fase, a coincidere con il valore corrispondente nella lingua d’arrivo.

• Fase 1: Il presente indicativo (o infinito) è usato come forma base con valore esclusivamente lessicale.

• Fase 2: Viene introdotto il participio passato in qualità di passato perfettivo, mostrando come la prima opposizione appresa nell’acquisizione dei tempi verbali non sia basata sul tempo (presente vs passato), bensì sull’aspetto (non-perfettivo vs perfettivo), prova del fatto che la successione di sviluppo delle tre categorie semantiche dell’italiano avvenga effettivamente secondo la sequenza aspetto > tempo > modo.

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• Fase 3: In opposizione a presente e participio passato appare anche l’imperfetto, la prima forma verbale con valore temporale, che si presenta nell’interlingua con il verbo essere, e viene successivamente estesa a tutti gli altri verbi.

• Fase 4: Nell’ultima fase iniziano a comparire forme di futuro, sia con valore deittico che con valore non-fattuale, mostrando quindi una sovraestensione del tempo verbale che va a coprire le funzioni che nella lingua d’arrivo sarebbero svolte dal condizionale .

Fasi Presente Passato perfettivo Passato imperfettivo Futuro Non fattuale 1 Presente/ Infinito Presente/ Infinito Presente/ Infinito Presente/ Infinito Presente/ Infinito 2 Presente Participio passato

Presente Presente Presente

3 Presente (Ausiliare) Participio passato

Imperfetto Presente Presente

4 Presente (Ausiliare) Participio passato

Imperfetto Futuro Futuro

Tabella 6. Fasi di apprendimento del sistema verbale italiano (Ramat 2003: 93)

Nel passaggio da una fase all’altra – così come accade nel continuum dalla varietà prebasica a quella postbasica – gli apprendenti impiegano una varietà di strategie di codificazione del tempo, in particolare sotto il punto di vista dell’espressione morfologica. Innanzitutto è da notare come, a differenza di quanto avviene nell’apprendimento dell’inglese o del tedesco, negli apprendenti dell’italiano le forme verbali appaiano sempre complete morfologicamente: non vi sono omissioni di morfemi, come nel caso del suffisso –s nella terza persona singolare del presente inglese o delle desinenze verbali del tedesco; l’unico caso di omissione riscontrato negli apprendenti dell’italiano è quello degli ausiliari essere e avere nel passato prossimo.

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Le principali strategie di elaborazione morfologica impiegate nel processo di apprendimento dei paradigmi verbali della lingua d’arrivo sono quindi essenzialmente tre: sovraestensione, elaborazione autonoma di forme, formazione analitica.

La sovraestensione consiste nell’utilizzo di una stessa forma anche in contesti che non la richiedono, e può essere di tipo interparadigmatico, nel caso in cui la forma sia sovraestesa a diversi paradigmi di tempo e modo del sistema verbale, o di tipo intraparadigmatico, nel caso in cui la forma venga generalizzata solo alle altre persone del paradigma (100-101). Esempi di sovraestensione interparadigmatica sono l’uso del presente o dell’infinito nelle prime fasi del processo di apprendimento del sistema verbale, e l’uso del futuro con valore non-fattuale al posto del condizionale, forma padroneggiata solo dagli apprendenti più esperti. La sovraestensione intraparadigmatica, invece, si realizza nei casi in cui l’apprendente non dispone ancora di tutte le sei persone che compongono il paradigma, e si limita quindi a sovraestendere la forma conosciuta (in genere la 1° o la 3° persona singolare) all’intero paradigma.

L’elaborazione autonoma di forme è una strategia opposta alla precedente: se infatti con la sovraestensione l’apprendente sopperisce al suo deficit di mezzi espressivi sfruttando la forma (o le poche forme) di un lessema a sua disposizione e generalizzandola in ogni contesto, con l’elaborazione autonoma l'apprendente sfrutta la sua competenza morfologica per estrapolare i componenti dalle forme note e ricombinarli per crearne di nuove nel contesto appropriato (102-105). Ciò che è avviene è quindi una forma di “regolarizzazione”, in cui gli apprendenti applicano a tappeto le regole che riconoscono o inferiscono nelle forme note: si possono quindi avere esempi di presato o prenduto come participi passati del verbo prendere, derivanti da una regolarizzazione basata sulla formazione del participio di 1° coniugazione (cantato, amato) oppure di 2° (caduto, voluto). La regolarizzazione può essere prosodica, e realizzarsi quindi in un adeguamento della posizione dell’accento tonico, oppure riguardare il livello morfologico della parola, di cui possono variare sia le desinenze che la base lessicale. In questo caso, è degno di nota il fenomeno riscontrato da Berretta (1990) e riportato in “Verso l’italiano” (105) sulla reintroduzione della vocale tematica nella formazione del futuro (es: arrivarà anziché arriverà, ballarò anziché ballerò, accaderà anziché accadrà). Inoltre, bisogna

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ricordare che i processi di regolarizzazione tendono generalmente all’eliminazione dell’allomorfia della base lessicale e alla conseguente costruzione di paradigmi privi di irregolarità, com’è evidente nel già citato prenduto, in cui la base lessicale prend- viene conservata anche al participio passato.

Le formazioni analitiche prevedono, infine, la separazione del significato lessicale del verbo da quello grammaticale, affidato generalmente al verbo essere. Queste formazioni possono riguardare una vasta gamma di elementi, ma si possono ricondurre principalmente a tre categorie:

• formazioni composte da elementi verbali, come ad esempio nelle forme era si chiama (“si chiamava”), avevo credo (“credevo”), sono studiare (“studio”); • formazioni composte da elementi nominali, come ad esempio nelle forme

siamo partenza (“siamo partiti”) oppure sono pauro (“ho paura”);

• costruzioni verbali complesse, come ad esempio nelle forme sono sto facendo (“sto facendo”), o la negativa siamo non ha fatto (“non abbiamo fatto”).

In tutti questi casi, il ruolo grammaticale viene ricoperto dai verbi ausiliari – con una spiccata predilezione per il verbo essere sul verbo avere – poiché le prime forme flesse conosciute e riconosciute dall’apprendente sono proprio quelle dei verbi essere (prima) e avere (poi), che vengono quindi sfruttate per esprimere valori come il tempo o l’aspetto verbale, i cui mezzi morfologici presenti nella lingua d’arrivo non sono ancora stati appresi o adeguatamente sviluppati dall’apprendente.

2.2 La temporalità nella lingua giapponese

La lingua giapponese si caratterizza, rispetto all’italiano, per una maggiore componente “interpretativa” del linguaggio: ostentando un rifiuto verso qualsiasi forma di ridondanza, il giapponese delega spesso buona parte del significato del messaggio al contesto; il verbo giapponese, ad esempio, ha proprietà di tempo, modo, e diàtesi, ma si differenzia dall’italiano per l’assenza di persona e numero, proprietà che devono essere dedotte dagli altri elementi presenti nella frase oppure da fattori extralinguistici. Infatti, poiché in giapponese la struttura della frase segue l’ordine SOV, invece dell’italiano SVO, le forme verbali si trovano in genere nella parte finale dell’enunciato, quando il contesto della frase è già stato costruito e la comprensione del predicato può quindi essere più immediata.

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Il verbo giapponese è formato da una radice invariabile, cui è affidato il valore semantico, seguita da una desinenza, variabile o invariabile dipendentemente dalla categoria del verbo, e completata da suffissi verbali coniugati secondo modo, tempo e diàtesi (Mastrangelo 2016: 154-155).

Le categorie verbali giapponesi sono tre: ichidan (verbi di 1° grado), godan (verbi di 5° grado) e fukisoku (verbi irregolari). I verbi ichidan terminano, nella loro forma base, in –eru o –iru e mantengono la vocale tematica in tutti i paradigmi; i verbi godan, invece, terminano in –u nella loro forma base, ma in questo caso la desinenza è variabile. Vi sono infine i due verbi irregolari, する(suru, “fare”) e 来る(kuru, “venire”), che si comportano in modo simile ai verbi godan, ma non ne seguono esattamente le stesse regole, e presentano variazioni anche nella radice.

Un ulteriore elemento di cui tener conto nell’esposizione del sistema verbale giapponese è la distinzione di registro linguistico: in Giappone viene data molta importanza, infatti, alla distinzione tra registro formale e informale, e l’uso di quest’ultimo è consentito solo in contesti familiari, intimi o molto colloquiali. I verbi giapponesi possiedono quindi una forma piana (informale), che equivale alla forma base di cui sopra, e una forma cortese (formale), realizzata attraverso l’aggiunta del suffisso –masu, adeguatamente coniugato secondo tempo e modo, alla base del verbo (radice + desinenza).

Come già accennato, il giapponese presenta solo due tempi verbali, passato e non-passato, e le indicazioni di tempo relative a presente e futuro vengono quindi delegate agli avverbiali e ai sostantivi che costituiscono il contesto della frase (156). Il non-passato equivale nella forma piana alla forma base (es: taberu, “mangiare”; hanasu, “parlare”), mentre nella forma cortese si compone diversamente in base alla categoria del verbo: nei verbi ichidan cade la desinenza –ru e viene sostituita dal suffisso –masu (tabemasu), nei verbi godan la desinenza –u diventa –i e viene aggiunto il suffisso –masu (hanashimasu6), i verbi suru e kuru diventano

rispettivamente shimasu e kimasu.

La formazione del passato di forma piana si ottiene, per i verbi ichidan, sostituendo –ru con –ta (tabeta, “aver mangiato”), mentre è più complessa per i verbi

6 L’alfabeto giapponese non consente la formazione della sillaba si, e pertanto la combinazione dei suoni “s” e “i” viene resa con la sillaba shi (し). Allo stesso modo, la

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godan: in questo caso infatti, non è la sola vocale tematica ad essere modificata, ma è soggetta a cambiamento anche la consonante presente nella terminazione. Ad esempio, nel verbo kaku, “scrivere”, la vocale –u diventa –i, la consonante –k cade, e alla base kai- così ottenuta si aggiunge il suffisso passato –ta. La formazione del passato dipende quindi dalla sillaba di terminazione, come illustrato nella tabella 6. I verbi suru e kuru formano il passato aggiungendo il suffisso –ta alle radici shi- e ki- (shita, kita).

Per quanto riguarda la forma cortese, in tutt’e tre le categorie viene mantenuta la radice utilizzata per il non-passato, ma il suffisso –masu viene coniugato nella forma passata –mashita.

Non-passato Passato

Categorie Forma piana Forma cortese Forma piana Forma cortese Ichidan taberu tabemasu tabeta tabemashita Godan -su -ku -gu -mu -bu -nu -ru -u -tsu hanasu kaku oyogu nomu asobu shino kiru au motsu hanashimasu hanashita kaita oyoida nonda asonda shinda kitta atta motta hanashimashita Fukisoku suru kuru shimasu kimasu shita kita shimashita kimashita Tabella 7. Sistema dei tempi verbali giapponesi

Per quanto riguarda la distizione di aspetto, il giapponese distingue un passato perfettivo, coniugato come appena descritto e mostrato in tabella, e un passato imperfettivo, in cui tra la radice del verbo e il suffisso passato –ta viene inserite la particella –te (utilizzata anche in altri contesti, non necessariamente passati, per

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indicare un’azione in corso, uno stato o un’abitudine) e al suffisso viene aggiunta la vocale –i– (–ita) . Ad esempio, per il verbo taberu, “mangiare”, le due forme di passato sono: Forma piana Forma cortese Perfettivo (watashi wa) tabeta (io) ho mangiato (watashi wa) tabemashita (io) ho mangiato Imperfettivo (watashi wa) tabeteita (io) mangiavo (watashi wa) tabeteimashita (io) mangiavo Fa eccezione il verbo “essere”, iru, che presenta un’unica forma, ita, per entrambi gli aspetti: (Watashi wa) mikka kara itsuka made roma ni ita. (Io) sono stato a Roma dal giorno 3 al giorno 5. (Watashi wa) yokka niwa mada roma ni ita. Il giorno 4 (io) ero ancora a Roma. Il verbo giapponese si distingue quindi da quello italiano per tre fattori determinanti: l’assenza del tempo futuro, la presenza di un’unica forma di passato (distinto in passato perfettivo e imperfettivo dalla particella –te) e l’assenza di distinzione di numero e persona.

L’assenza del tempo futuro sembrerebbe la meno problematica dal punto di vista dell’apprendimento dell’italiano, dal momento che l’uso del tempo futuro con valore deittico è comunque molto raro in italiano; tuttavia, non bisogna dimenticare gli usi non deittici della forma verbale, che appare frequentemente con valore modale per esprimere dubbi o previsioni, e per questo, come si è notato precedentemente, viene spesso addirittura sovraestesa dagli apprendenti dell’italiano a tutti i contesti non-fattuali.

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Per quanto riguarda la presenza di un’unica forma di passato, invece, potrebbe risultare difficile il corretto uso delle varie forme verbali utilizzate nella realizzazione del passato perfettivo nella lingua italiana: passato prossimo, trapassato prossimo, passato remoto e trapassato remoto.

L’assenza di distinzione di numero e persona, infine, pur non pertinendo direttamente all’espressione della temporalità, può comunque rappresentare un ostacolo al corretto apprendimento del sistema verbale italiano, soprattutto per quanto riguarda le forme meno comuni nel parlato (ad esempio passato e trapassato remoto, oppure forme verbali di diatesi passiva), e potrebbe pertanto risultare in una sovraestensione intraparadigmatica.

2.2.1 L’apprendimento dell’italiano da parte di madrelingua giapponesi

Nel corso dell’ultimo secolo la cultura e la lingua italiana si sono gradualmente ritagliate uno spazio all’interno del sistema scolastico giapponese, a causa della forte attrattiva che da sempre l’Italia esercita sul popolo giapponese (Peruzzi 2009: 70). L’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo, fondato nel 1939 e ricostruito interamente vent’anni dopo a causa dei danni subiti durante i bombardamenti aerei nella Seconda Guerra Mondiale, ha visto a partire dal 1997 un’impennata degli iscritti ai corsi di lingua italiana, fino a raggiungere la cifra di 4000 iscrizioni all’anno.7

Questo forte incremento ha suscitato l’interesse di alcuni linguisti coinvolti nella ricerca sull’apprendimento dell’italiano come lingua straniera, e nel 2009 i docenti dell’IIC di Tokyo Federica Maggia e Antonio Quaglieri hanno svolto, sotto la supervisione di Paola Peruzzi, docente presso l’Università per Stranieri di Siena, un’indagine conoscitiva sull’apprendimento dell’italiano nei corsi di lingua dell’IIC di Tokyo. L’indagine è stata condotta somministrando un questionario a circa 500 studenti dell’Istituto di Cultura, escludendo i principianti dei corsi di livello A1, poiché non ancora in grado di fornire risposte soddisfacenti a molti dei quesiti. Il questionario proposto si compone di cinque sezioni, relative a: • gli stili di apprendimento • l’uso della L1

7Le informazioni riguardanti l’IIC Tokyo sono tratte dalla sezione “Storia” della piattaforma

online dell’Istituto, e disponibili all’indirizzo:

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• le dinamiche di classe

• l’atteggiamento nei confronti dell’errore • le difficoltà specifiche nello studio dell’italiano • le attitudini culturali e curiosità interculturali.

L’aspetto che ci interessa approfondire in questa sede è senz’altro quello analizzato nella quarta sezione, relativa alle difficoltà specifiche incontrate dagli apprendenti nello studio dell’italiano.

I risultati del questionario evidenziano, innanzitutto, come la scrittura sia considerata un’attività mediamente difficile dagli studenti giapponesi, collocandosi al quarto posto tra le abilità più difficili da padroneggiare (nell’ordine: ascoltare, raccontare qualcosa alla classe, dialogare con qualcuno, scrivere, riassumere, leggere, prendere appunti in italiano durante la lezione). In secondo luogo, chiamati a riordinare per difficoltà alcuni elementi della lingua italiana, gli studenti riconoscono come “osso duro” la grammatica, seguita dal lessico, dall’ordine delle parole, dall’ortografia e infine dalla pronuncia, considerata piuttosto semplice, data la forte somiglianza tra l’apparato fonetico italiano e quello giapponese. La terza domanda è quindi relativa a quali siano gli elementi della grammatica che risultano più difficili: al primo posto si collocano le preposizioni, al secondo la coniugazione dei verbi, seguono i pronomi, gli articoli, e la distinzione maschile-femminile, singolare-plurale. Per quanto riguarda la coniugazione dei verbi, particolarmente ostici risultano l’uso dei tempi verbali, le forme del congiuntivo e del condizionale, e l’uso dei verbi riflessivi. Questi risultati, oltre alle già evidenziate differenze tra le due lingue, portano a pensare che nei testi del sotto-corpus ICoN in esame si possano riscontrare alcuni fenomeni di interferenza della lingua L1 sull’apprendimento dell’italiano: Omissione • Omissione dell’ausiliare nel passato prossimo Sovraestensione • Sovraestensione interparadigmatica del presente • Sovraestensione del futuro (ipercorrettismo) • Sovraestensione intraparadigmatica Elaborazione autonoma di forme Formazioni analitiche Errori di aspetto del verbo (es: non fattuale, compiuto/non compiuto)

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3. Corpus ICoN ICoN (“Italian Culture on the Net”) è un consorzio interuniversitario fondato nel 1999 e composta da 19 università italiane, che si propone di “promuovere e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo” sfruttando i nuovi media e attraverso iniziative educative specifiche (Tavosanis 2014). Il Corpus ICoN è una raccolta di circa 12.000 elaborati realizzati nel corso di 13 anni dagli studenti del corso di Laurea Triennale di “Lingua e Cultura italiana per stranieri”, servizio erogato online a partire dal 2001, promosso da ICoN e rivolto a cittadini stranieri e a cittadini italiani residenti all’estero. Il Corpus si compone pertanto di due sotto-corpora: uno comprendente gli elaborati degli studenti che hanno l’italiano come lingua madre, e l’altro comprendente gli elaborati degli studenti stranieri, per i quali l’italiano è invece una seconda lingua. I criteri di ammissione al corso di laurea prevedono un livello di competenza linguistica dell’italiano pari a B2, secondo il Quadro Europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue, corrispondente al “Livello intermedio superiore”:

Comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti sia astratti, come pure le discussioni tecniche sul proprio campo di specializzazione. È in grado di interagire con una certa scioltezza e spontaneità che rendono possibile un'interazione naturale con i parlanti nativi senza sforzo per l'interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su un'ampia gamma di argomenti e riesce a spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro e i contro delle varie opzioni.

Il corso prevede, al termine di ogni insegnamento, una prova d’esame scritta, in cui gli studenti sono chiamati a produrre un elaborato di circa 300 parole riguardo a una vasta gamma di argomenti umanistici, dalla linguistica alla filosofia e dalla storia alla geografia.

Nel corso degli anni, queste prove d’esame sono state raccolte e archiviate, inizialmente in file separati per ogni singolo studente, e successivamente sono state inserite all’interno di un unico corpus, il Corpus ICoN. I due sotto-corpora contenti gli elaborati degli studenti di italiano L1 e di italiano L2 hanno una dimensione di circa 2 milioni di token ciascuno.

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