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UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di laurea in Giurisprudenza
Studio sulla tortura: dall’analisi della norma
all’individuazione delle responsabilità statali.
In specie il caso Regeni.
Il Candidato Il Relatore
Caterina Pistolesi
Prof.ssa Francesca Martines
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Indice
Introduzione ……… pag. 7 Capitolo 1- Le fonti internazionali che vietano la tortura……… pag. 13
1.1- Le fonti internazionali pattizie……….…..…. pag. 13
1.2- La natura consuetudinaria della norma…... pag. 29
1.3- Il carattere di jus cogens e la natura erga omnes della norma che vieta la tortura……...….……….... pag. 32
Capitolo 2- La norma contro la tortura……..….……..… pag. 36 2.1- Il problema della definizione di tortura, trattamenti
inumani e trattamenti
degradanti………..…..….... pag. 36 2.2- Gli elementi costitutivi………... pag. 43 2.3- Il reato di tortura nell’ordinamento italiano... pag. 50 Capitolo 3- Illeciti e responsabilità………..….. pag. 60 3.1- Considerazioni introduttive………. pag. 60 3.2- I presupposti della responsabilità: l’elemento oggettivo..…... pag. 64 3.3- L’elemento soggettivo………….………...……. pag. 67 3.4- Le conseguenze della condotta illecita di uno Stato………....…… pag. 75
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3.5- Le contromisure………...…………... pag. 79 3.6- Gli strumenti di garanzia previsti negli accordi
internazionali contro la
tortura………...……. pag. 80 Capitolo 4- Il caso di Giulio Regeni……….…..….… pag. 86 4.1- I fatti………...…….….. pag. 87 4.2- Le reazioni………... pag. 95
4.3- Ipotesi di responsabilità
dell’Egitto…..……….…..….…... pag. 98 4.4- Le reazioni di altri Stati ed organizzazioni…… pag. 105 4.5- L’individuazione dello Stato leso e le conseguenze giuridiche……….…....………. pag. 109 4.6- La responsabilità dell’Egitto e l’immunità statale……….………...……. pag. 112 4.7- Il diritto alla verità………...……… pag. 116 Conclusioni………....…..…… pag. 119 Bibliografia………..……….… pag. 123 Documenti Internazionali……….……... pag. 130 Giurisprudenza………...… pag. 133 Ringraziamenti……… pag. 137
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Introduzione
Jean-Paul Sartre, nella sua “Prefazione a La tortura di Herni Alleg” affermava che:
«La “tortura” non è nulla di inumano, è soltanto un crimine ignobile e lurido, commesso da uomini contro altri uomini, e che altri uomini ancora possono e debbono reprimere. L'inumano non esiste, se non negli incubi generati dalla paura. Basta il calmo coraggio di una vittima, la sua modestia, la sua lucidità, per liberarci dalla
mistificazione.»1
Gran parte del mondo utilizza ancora oggi la tortura sia come strumento di punizione che per estorcere informazioni, così come denunciato da varie associazioni che si occupano della
difesa dei diritti umani, prima fra tutte Amnesty International.2
1 Jean-Paul Sartre, Prefazione a La tortura di Herni Alleg.
2 Amnesty International è un’organizzazione non governativa
indipendente, che si pone a difesa dei diritti umani. L'associazione è stata fondata nel 1961 dall'avvocato inglese Peter Benenson, che lanciò una
campagna per l'amnistia dei prigionieri di coscienza. Ad oggi, Amnesty International comprende oltre sette milioni di persone che
svolgono campagne affinché i diritti umani siano riconosciuti. Ci sono rapporti di Amnesty relativi alla lotta alla tortura, come vedremo nello specifico nel capitolo dedicato al caso Regeni.
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In passato, sia il regime nazista che quelli sudamericani ne hanno fatto abbondante uso, mentre ad oggi la tortura viene ancora ampiamente utilizzata all'interno dei gulag, nei confronti degli oppositori al regime coreano che vengono qui
segregati. Nella stessa Italia era diffuso sino a cinquant'anni fa il "letto di
contenzione" come mezzo di punizione dei carcerati che venivano legati in costante trazione attraverso mani e piedi ad
un tavolo per tutto il periodo di punizione. Grandi polemiche hanno di recente sollevato le torture inflitte
dal personale militare degli Stati Uniti d'America presso la prigione di Abu Ghraib in Iraq nel 2003 con i sospetti che trattamenti assimilabili alla tortura siano applicati dagli americani anche in altre situazioni, come ad esempio nel carcere di Guantanamo Bay, una base militare statunitense in territorio cubano.
Sono spiacevolmente noti, anche in Italia, degli episodi di tortura: il più famoso alle cronache è sicuramente il caso della caserma Diaz (del quale parleremo in seguito) dove funzionari dello Stato italiano si macchiarono di gravi violazioni dei diritti umani; ma di casi simili nel nostro Paese ne esistono, purtroppo,
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Rientrerebbero nella stessa categoria il caso Aldrovandi, così come il caso Bianzino ed il caso Uva: in tutti e tre i casi, il decesso
è avvenuto in seguito ad un fermo della polizia. Si possono anche ricordare il caso del giovane 22enne di origine
africana Emmanuel Bonsu o il più famoso caso di Stefano Cucchi. Quelli citati sono casi in cui ci sono forti sospetti che le persone
sopra ricordate sono state oggetto di episodi di violenza che ne hanno causato la morte e che possono considerarsi – secondo le definizioni accolte nell’ordinamento internazionale di cui
parleremo - torture. Per l’episodio relativo ai fatti della scuola Diaz, come
analizzeremo nel paragrafo dedicato all’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per la mancanza, nell’ordinamento interno, di leggi adeguate a punire tale reato.
Questo elaborato intende analizzare la disciplina internazionale
relativa al divieto di tortura. L’obiettivo è quello di individuare il contenuto e la natura degli
obblighi che le norme del diritto internazionale pongono agli
Stati. Una volta individuati questi obblighi, si procederà a valutare le
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conseguenze che derivano proprio dalla violazione di tali norme.
L’analisi prenderà origine da una ricognizione delle fonti internazionali pattizie che vietano la tortura ed i trattamenti
disumani e degradanti. Come vedremo, il divieto è contenuto sia in accordi volti alla
tutela dei diritti dell’uomo, sia in accordi di diritto umanitario,
applicabili in situazioni di conflitto armato. Come è noto, la tortura può costituire un crimine contro
l’umanità e come tale è contemplata anche nello Statuto della
Corte penale internazionale. La tesi si soffermerà anche sulla questione del carattere
consuetudinario del divieto di tortura. Si considererà, quindi, ed inoltre, la natura di jus cogens del
divieto e la questione della natura erga omnes degli obblighi posti dalla norma consuetudinaria e dalle norme pattizie che vietano la tortura
L’analisi si concentrerà, a questo punto, sulla nozione di tortura e sui suoi elementi costitutivi.
Una volta affrontato il problema della definizione, si analizzeranno gli obblighi principali posti dalle convenzioni che vietano la tortura, in particolare, oltre all’obbligo di
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prevedere il reato di tortura, l’obbligo di protezione nei confronti di atti di tortura posti in essere da privati, l’obbligo di inchiesta e quello di risarcimento.
A conclusione, si analizzerà il tema delle conseguenze della
violazione delle norme internazionali sopra menzionate. Più precisamente, si procederà, in primo luogo, all’applicazione
delle regole del diritto internazionale in tema di responsabilità, nell’ipotesi, cioè, di violazione del divieto di tortura da parte di
uno Stato. In secondo luogo si esamineranno gli eventuali rimedi previsti
dalle norme pattizie e gli strumenti a disposizione degli individui nel caso in cui essi siano stati oggetto di atti di tortura da parte di uno Stato diverso da quello di cui hanno la cittadinanza.
Quest’ultima analisi sarà svolta con particolare riferimento al caso di Giulio Regeni.
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Capitolo 1
Le fonti internazionali che vietano la tortura
Paragrafo 1- Le fonti internazionali pattizie
A livello internazionale sono diversi i documenti che vietano agli Stati la commissione di atti di tortura.
Non possiamo non prendere le mosse dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel dicembre del 1948, dove si sancisce all’art. 5 che:
“Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o
a punizioni crudeli, inumani o degradanti.” Infatti, questo strumento, pur non avendo un carattere giuridico
vincolante, da oltre mezzo secolo rappresenta un modello di riferimento sia per le norme a tutela dei diritti umani elaborate negli ordinamenti giuridici degli Stati che per gli strumenti pattizi sui diritti umani conclusi dopo la Seconda Guerra Mondiale.
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Filiberto Trione, nel suo elaborato ‘Divieto e crimine di tortura
nella giurisprudenza internazionale’, sviluppa il tema.3 Egli afferma: “Sulla pietra angolare posta dall’art.5 della Dichiarazione Universale nasce la Convenzione per l’abolizione della tortura e dei trattamenti o delle punizioni crudeli, inumani o degradanti adottata nel 1984 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Allo stesso modo nell’art.5 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo trovano la loro matrice prima di riferimento sia il divieto di tortura contenuto nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che l’art. 3 della Convenzione europea di Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del Consiglio d’Europa, che, inoltre, la Convenzione europea per la prevenzione della tortura del 1987.”
Si ispirano alla Dichiarazione Universale, la Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei prigionieri di guerra (1949), la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (1950), la Convenzione Onu contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (1984), nonché lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del 1998, e, solo più di recente, la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea (2000).
3 “Divieto di crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale”,
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Per rendere, però, la trattazione più chiara ed esaustiva possibile, è necessario distinguere, all’interno delle fonti pattizie, diverse categorie.
Una prima categoria riguarda la materia dei diritti umani, ed è composta da tutti quei trattati che contengono un espresso
divieto di tortura. Faremo, inoltre, riferimento ad altri strumenti che contengono
un cenno al divieto di tortura, ma che non sono vincolanti. Rientra tra i primi, ad esempio, la Carta africana dei diritti
dell’uomo e dei popoli4, approvata nel 1981 in Gambia dai Paesi membri dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), la quale afferma, sempre all’art. 5 che:
“Ciascun individuo deve avere il diritto al rispetto della sua dignità in quanto essere umano ed al riconoscimento del suo status legale. Tutte le forme di prevaricazione e mortificazione dell’uomo e particolarmente la schiavitù e la sua tratta, la tortura, le pene ed i
trattamenti crudeli, disumani o degradanti, dovranno essere proibite.”
4 La Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli venne approvata nel
1981 dall'OUA (Organizzazione dell’Unione africana) ed entrò in vigore nel 1986 dopo aver raggiunto il numero di ratifiche necessario. I diritti umani riconosciuti dalla Carta africana sono di quattro tipi: civili, politici, economici e sociali.
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L’articolo 5 della Dichiarazione Universale, di cui abbiamo detto sopra, ha costituito, inoltre, il modello di riferimento anche per il divieto di tortura contenuto nella Convenzione
americana dei diritti dell’uomo. L’articolo 5, paragrafo 2, recita quanto segue:
“Nessuno sarà sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Tutti coloro privati della libertà saranno trattati con il rispetto dovuto alla dignità inerente di persona umana.” La Carta Araba dei diritti dell’uomo è un documento adottato nel
1994 dalla Lega degli Stati Arabi.5 Anche qui, si legge all’art. 13, primo comma, un divieto assoluto
di compimento di tortura e di qualsiasi atto che sia inumano o degradante.
“Gli Stati Parti della presente Carta proteggono tutti gli individui che si trovano sul loro territorio dalla tortura fisica o morale, nonché dai trattamenti crudeli inumani o degradanti. Essi adottano misure efficaci per prevenire tali atti e considerano tali pratiche o la
partecipazione a tali pratiche sanzionabili penalmente.” Quest’ultimo enunciato merita un’osservazione più
5 Venne adottata il 15 settembre 1994 con Risoluzione n. 5437 dal Consiglio
della Lega degli Stati Arabi, o Lega Araba.
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approfondita in quanto sussiste un obbligo, all’interno della norma pattizia, relativo proprio alle azioni di prevenzione e
punizione dei responsabili. Possiamo fare, infatti, riferimento al Protocollo del 2002 alla
Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, dove si prevede un Sottocomitato di prevenzione, tra i cui compiti, come si legge all’articolo 11, rientrano proprio:
“…iii) consigliare e assistere i meccanismi nazionali di prevenzione nel valutare le esigenze e i mezzi necessari a rafforzare la protezione delle persone private della libertà rispetto alla tortura e alle altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti;
iv) rivolgere raccomandazioni e osservazioni agli Stati Parti al fine di rafforzare le capacità e le funzioni dei meccanismi nazionali di prevenzione della tortura e delle altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti;
v) cooperare per la prevenzione della tortura in generale con gli organi e i meccanismi pertinenti delle Nazioni Unite, nonché con le istituzioni o organizzazioni internazionali, regionali e nazionali che lavorano per il rafforzamento della protezione di ogni persona contro
la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.” Ai fini della comprensione e dell’analisi del caso Regeni è
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necessario sottolineare la mancata ratifica da parte dell’Egitto di questo Protocollo.
La Cedu o Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è una convenzione nata
grazie al lavoro del Consiglio d’Europa.6
La Convenzione, firmata a Roma nel 1950, ha costituito un modello di riferimento nel quadro europeo, per l’attività dei
membri del Consiglio d’Europa. Il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante,
sancito dall'art. 3 della Convenzione europea, costituisce ad oggi uno dei traguardi più importanti per la moderna società. Esso infatti è l’unico strumento che non prevede deroghe al divieto neanche in casi eccezionali quali la lotta al terrorismo o
alla criminalità organizzata.7
6 La Cedu rappresenta il testo fondamentale in materia di protezione dei
diritti dell’uomo; questo meccanismo di tutela ha un carattere permanente ed è rappresentato dal ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo.
7 Vedi Chahal c. Regno Unito (07.07.1996, riferimento n. 22414/93, §79 e
19 Vi si legge:
“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”
Un ultimo cenno merita il Patto delle Nazioni Unite per i diritti
civili e politici8, il quale prevede all’articolo 7:
“Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico.”
8 La Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (meglio noto
come Patto internazionale sui diritti civili e politici), è un trattato delle Nazioni Unite nato ispirandosi alla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo, adottato nel 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo del 1976. Tutte le nazioni firmatarie sono tenute a rispettarla.
La Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici viene controllata dal Comitato per i Diritti Umani che esamina tutte le relazioni che vengono inviate dagli Stati membri relative all’osservanza o meno del trattato. I componenti del Comitato sono 18 e vengono eletti dagli Stati membri delle Nazioni unite, ma non rappresentano alcuno Stato. La Convenzione contiene due "protocolli facoltativi". Il primo protocollo facoltativo pone un regolamento per i reclami individuali mentre il secondo protocollo facoltativo alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici abolisce la pena di morte. Viene data facoltà agli Stati firmatari di aggiungere una riserva riguardante l'uso della pena di morte per gravi reati di natura militare commessi in tempo di guerra.
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Come visto, quindi, tutti questi trattati internazionali prevedono uno specifico articolo che va a proibire categoricamente qualsiasi atto di tortura o trattamento inumano o degradante e che è imposto ad ogni individuo.
In riferimento agli strumenti con carattere giuridico non vincolante, possiamo innanzitutto guardare alla Dichiarazione del Cairo sui diritti dell’uomo nell’Islam adottata dalla IX Conferenza islamica dei Ministri degli Affari Esteri al Cairo nel
1990.
Tale Carta recita un eguale divieto di tortura. Si legge all’articolo 20:
“Non è consentito arrestare illegalmente un individuo o restringere la sua libertà, esiliarlo o punirlo. Non è consentito assoggettarlo a tortura fisica o psicologica o a qualsiasi forma di umiliazione, crudeltà o indegnità. Non è consentito sottoporre un individuo ad esperimenti medici o scientifici senza il suo consenso o a rischio della sua salute o della sua vita. Né è consentito promulgare leggi di emergenza che prevedano interventi d'autorità per tali azioni.”
Si può poi accennare alla Carta di Parigi per una nuova Europa (o semplicemente Carta di Parigi); questo strumento venne adottato dalla maggior parte degli stati firmatari degli Accordi
21 Si può leggere:
“Affermiamo che, senza discriminazioni, ogni persona ha il diritto: alla libertà di pensiero, coscienza e religione o credo, alla libertà di espressione, alla libertà di associazione e di riunione pacifica, alla libertà di movimento; nessuno sarà arbitrariamente arrestato o detenuto, sottoposto a tortura o ad altri trattamenti o pene crudeli,
inumani o degradanti.” Per tutti i documenti analizzati sin qui, siano essi trattati
internazionali o strumenti a carattere regionale, il divieto di tortura appare espresso in maniera esplicita ed assoluta: è un divieto che non può in alcun caso e per nessuna condizione essere derogato.
Esaurita l’analisi di questa prima categoria, possiamo procedere
individuandone una seconda, relativa però al diritto umanitario. In questo caso, il documento cui fare riferimento sono le quattro
Convenzioni di Ginevra del 1949 e i due protocolli aggiuntivi, del
1977. Le quattro Convenzioni hanno un articolo comune che è
l’articolo 3 relativo ai ‘conflitti armati a carattere non internazionale’, che si verificano nel territorio di uno degli stati
contraenti. Questo articolo contiene un insieme di divieti inderogabili,
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anche qui, in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza. Esso vieta, infatti:
a. La violenza contro la vita e le persone; b. La cattura di ostaggi;
c. L’oltraggio alla dignità personale, e in particolare i trattamenti umilianti e degradanti;
d. L’emissione di sentenze di condanna e le esecuzioni
effettuate senza regolare processo.
In questo caso, appare evidente come anche il diritto umanitario si preoccupi di tutelare tutti quei diritti inderogabili, soprattutto
nelle situazioni di emergenza. Si vuole in tal modo rendere fermo il fatto che questi diritti
appartengono in maniera indissolubile all’uomo e sono, pertanto, intrinseci nella natura umana, tanto da non poter
essere sacrificati neanche in particolari situazioni di emergenza. Infatti, lo sviluppo applicativo dell’art.3 della Convenzione è
risultato nel corso degli anni sempre più complesso ed articolato, andando a toccare tutti quei profili che potrebbero
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essere interessati dalla norma, come ad esempio lo stato di
guerra.9
9 Articolo 3. “Nel caso in cui un conflitto armato che non presenti carattere
internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti in conflitto sarà tenuta ad applicare almeno le
disposizioni seguenti:
1. Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri di Forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità, senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole basata sulla razza, il colore, la religione o la credenza, il sesso, la nascita o il censo, o altro criterio analogo. A questo scopo, sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei
confronti delle persone sopra indicate:
a) le violenze contro la vita e l'integrità corporale, specialmente l'assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi;
b) la cattura di ostaggi;
c) gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti;
d) le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito che offra le garanzie giudiziarie
riconosciute indispensabili dai popoli civili.
2. I feriti e i malati saranno raccolti e curati.
Un ente umanitario imparziale, come il Comitato internazionale della Croce
Rossa, potrà offrire i suoi servigi alle Parti in conflitto.
Le parti in conflitto si sforzeranno, d'altro lato, di mettere in vigore, mediante accordi speciali, tutte o parte delle altre disposizioni della presente Convenzione.
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Gli atti di tortura integrano quindi la violazione delle norme e delle consuetudini di guerra, oltre che, come abbiamo visto, di specifici articoli delle Convenzioni e dei loro Protocolli.
Il carattere assoluto del divieto di tortura, del resto, è espressamente confermato dall'articolo 2, paragrafo 2, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ai sensi del quale:
“No exceptional circumstances whatsoever, whether a state of war or a threat or war, internal political instability or any other public emergency, may be invoked as a justification of torture”.
Se ponessimo, invece, l’attenzione esclusivamente ai conflitti armati, si potrebbe arrivare a negare la rilevanza delle norme appena citate sulla base dell’assunto per cui:
L'applicazione delle disposizioni che precedono non avrà effetto sullo statuto giuridico delle Parti in conflitto.”
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‘la tutela della persona umana è affidata esclusivamente alle norme disciplinanti la condotta delle ostilità, concepite al solo scopo di
fronteggiare la particolare situazione di emergenza’.10 Infatti, in caso di conflitti, i principali trattati per la tutela dei
diritti umani disciplinano espressamente gli effetti di un conflitto armato rispetto all’applicazione delle regole
convenzionali. La sospensione di dette regole, tuttavia, è ammessa soltanto a
determinate condizioni e non può riguardare un nucleo di
disposizioni fondamentali, fra cui il divieto di tortura. Quello di tortura è, come detto, un divieto non derogabile
neanche in caso di emergenze nazionali che si potrebbero venire a creare ad esempio in una situazione di terrorismo.
L'ultima categoria cui si può fare riferimento è quella del diritto internazionale penale, una tipologia di diritto nata con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, quando sono state
10 Muskat, “The Development of International Humanitarian Law and the
Law of Human Rights, in GYIL, 1978, p. 150 ss..
Pictet, “Le droit humanitaire et la protection des victimes de la guerre, Leiden, 1973, p. 13.
Suter, An Enquiry into the Meaning of the Phrase “Human Rights in Armed Conflicts”, in RDPMDG, 1976, p. 393 ss.
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rese note le atrocità commesse ai danni della popolazione ebrea e la comunità internazionale sentì maggiormente l’esigenza di
punire i gerarchi nazisti per i crimini commessi. Va però sottolineato che il tribunale di Norimberga era
competente per diversi crimini, come i crimini contro la pace, l’umanità ed il genocidio.
Il diritto internazionale penale ha previsto dei tribunali ad hoc, quali il Tribunale per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, proprio al fine di svolgere il compito di punire i trasgressori delle norme
a tutela dei diritti considerati facenti parte della natura umana. Nella carta istitutiva di un’altra corte si rinviene un ulteriore
fondamento del carattere assoluto del divieto di tortura ed è lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del
1998. Tale strumento recita all’articolo 5:
“La competenza della Corte è limitata ai crimini più gravi, motivo di allarme per l'intera comunità internazionale. La Corte ha competenze, in forza del presente Statuto, per i crimini seguenti:
a) crimine di genocidio;
27 c) crimini di guerra;
d) crimine di aggressione.
Nonostante la tortura sia inserita tra i crimini contro l’umanità, essa, come gli altri atti elencati nell’articolo 7, è da considerarsi tale solo se commessi “nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco”.
Si specifica, poi, all’articolo 8:
“Atti di violenza contro la vita e l'integrità della persona, in particolare tutte le forme di omicidio, le mutilazioni, i trattamenti
crudeli e la tortura. ...violare la dignità personale, in particolare trattamenti umilianti e
degradanti.”
A conclusione di questo paragrafo vale la pena porre nuovamente e definitivamente l’attenzione su due delle categorie di diritti qui analizzate, per spiegarne la natura: il diritto umanitario da una parte e la dottrina dei diritti umani
dall’altra. L’obiettivo di entrambe queste discipline è ovviamente comune
e riguarda la tutela della persona umana, ma il più eclatante punto di differenza tra le categorie sta nel fatto che il diritto dei
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diritti umani si rivolge agli Stati, fissando un minimo di trattamento che essi devono garantire agli individui; il diritto umanitario si rivolge sempre agli Stati, ma questione diversa si pone, invece, per le norme che vietano certi crimini di cui sono destinatari gli individui.
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Paragrafo 2 – La natura consuetudinaria della norma
Come abbiamo evidenziato, il divieto di tortura è previsto da un rilevante numero di trattati internazionali, quasi a dimostrazione del fatto che tale divieto, non avendo la natura di una norma di diritto internazionale generale, debba essere
previsto in appositi strumenti pattizi. Si potrebbe comunque considerare la circostanza per cui la
suddetta norma sia contenuta in un così elevato numero di trattati allo scopo di esprimere la convinzione degli Stati in merito al suo carattere obbligatorio, indipendentemente dalla
sua natura anche consuetudinaria. La conferma della natura consuetudinaria di tale norma la si
ricava, comunque, valutando diversi elementi. Esaminiamo i più significativi.
Partiamo dalla Convenzione del 1984, aperta alla firma e alla ratifica degli Stati, solo in seguito alla risoluzione
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
Si legge, in tale risoluzione, che scopo dell’accordo è quello di “Realizzare una più efficace attuazione del divieto già esistente della tortura.”
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Pertanto non di proibire in primis la tortura, ma di rafforzarne
la proibizione.11
Altro fattore da considerare riguarda l’ampio numero di ratifiche della Convenzione stessa (per la Repubblica italiana la Convenzione ha efficacia dall'11 febbraio 1989, avendo l’Italia depositato alle Nazioni Unite il relativo strumento di ratifica il 3 novembre 1988), così come il breve tempo trascorso tra l’apertura della Convenzione alla ratifica ed il raggiungimento del numero di ratifiche necessario per la sua entrata in vigore. Ultimo elemento da considerare ci viene fornito dalla
giurisprudenza internazionale. Nel caso Filartiga contro Pena-Irala (630 F.2d 876) del 1980, la
famiglia Filartiga denunciò il rapimento e la tortura fino alla morte del loro figlio di diciassette anni, in conseguenza delle idee politiche e delle convinzioni religiose del padre, ad opera dell’ispettore generale di polizia della capitale del Paraguay
dove la famiglia aveva dimora. L’ispettore venne giudicato in America dove si era illegalmente
11 La risoluzione n.39/46, approvata dall’AG per consensus il 10 dicembre
1984, sostiene la necessità di “a more effective implementation of the existing prohibition under international and national law of the practice of torture”.
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rifugiato, e condannato poiché la tortura compiuta sul giovane
rappresentava una chiara violazione del diritto delle genti. Questa sentenza di un giudice interno è indicativa di come il
divieto di tortura venga considerato un “diritto delle genti”, una effettiva norma consuetudinaria che le fonti pattizie prevedono solo allo scopo di ribadirne il carattere di assoluta inderogabilità
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Paragrafo 3- Il carattere di ius cogens e la natura erga
omnes della norma che vieta la tortura
Sappiamo che le norme pattizie di diritto internazionale, aventi carattere di ius cogens, sono consuetudinarie e poste a tutela di determinati valori considerati fondamentali e pertanto inviolabili: lo ius cogens, infatti, come è noto, è disciplinato sia
nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 196912 che nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati tra Stati e organizzazioni internazionali o tra organizzazioni internazionali del
1986. La natura consuetudinaria del divieto di tortura è inoltre
riconosciuta nel Restatement (Third) of the Foreign Relations Law of the United States, sezione 702.
12 L’art. 53 della Convenzione afferma quanto segue: “E' nullo qualsiasi
trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale. Ai fini della presente Convenzione, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un'altra norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”.
L’art. 64 invece afferma che: “Qualora sopravvenga una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale, qualsiasi trattato esistente che contrasti tale norma diventa nullo ed ha termine.”
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Per la natura ricoperta dalla norma contro la tortura, questa
pone degli obblighi erga omnes. Considerando le norme sui diritti umani come istituenti vincoli
solidali, ovvero che esistono nei confronti di tutta la comunità internazionale nel suo insieme o nei confronti di tutti gli Stati parte di un trattato, quindi una sorta di diritti solidali e a vocazione pubblicistica, diritti, cioè, di tutti, in ogni tempo e spazio, gli obblighi che vengono posti si muovono in due direzioni: erga omnes partes, nei confronti delle altre parti del trattato, ed erga omnes, nei confronti dei membri della comunità
internazionale. Secondo Picone, gli obblighi erga omnes sono «obblighi derivanti
da una particolare categoria di norme primarie (…) che, per tutelare determinati beni, valori e/o interessi della Comunità internazionale “nel suo insieme”, attribuiscono almeno in principio a tutti gli Stati, operanti uti universi per conto della medesima, e quindi in una posizione “superiore” rispetto ai singoli Stati, il compito e il correlativo potere di garantirne collettivamente l’attuazione (in via diretta, o tramite reazioni successive allo loro eventuale
violazione)».13
13 Picone, “Capitalismo finanziario e nuovi orientamenti dell’ordinamento
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Sono quindi obblighi che si pongono nei confronti di tutta la
comunità internazionale: sono obblighi non sinallagmatici. Nel caso Furundzija (IT-95- 17/1), si rende evidente come la
sentenza sia stata pronunciata partendo dalla considerazione della natura di jus cogens della norma e dal fatto che questa ponga in essere obblighi erga omnes, in quanto l’ex comandante dell’esercito paramilitare croato, viene processato per le gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, tra i quali figuravano la tortura e l’oltraggio alla dignità personale, incluso lo stupro. Il carattere di norma di ius cogens riguarda anche il valore, ovvero la forza di resistenza della norma che infatti non può essere derogata da un trattato, in quanto pone queste norme in una posizione gerarchicamente superiore rispetto alle altre
norme che invece tale carattere non lo possiedono. La nozione di norma che pone obblighi erga omnes riguarda poi
la struttura della norma stessa: essa pone obblighi nei confronti
di tutti gli Stati. L’elemento comune è quello di rispecchiare l’esistenza di valori
universali che sono comuni a tutti. Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, partendo
quindi dalla consapevolezza che la proibizione della tortura fosse norma di ius cogens, è arrivato a sostenere una
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responsabilità diretta dello Stato anche nel caso di mancato adeguamento interno agli obblighi punitivi internazionalmente
imposti. Afferma infatti:
“…has evolved into a peremptory norm or ius cogens, that is, a norm that enjoys a higher rank in the international hierarchy than treaty law and even ‘ordinary’ customary rules.”
Secondo, poi, la giurisprudenza della Corte europea di
Strasburgo14 l’articolo 3 della Convenzione europea prevede un obbligo considerato fondamentale: questa norma prevede un contenuto che ha un carattere universale ed imperativo per tutta la comunità.
Gli articoli 2 (2) e 2 (3) della Convenzione contro la tortura, nel prevedere che nessun ordine superiore possa essere invocato a giustificazione del mancato rispetto di tale divieto, ne consacrano il carattere di assoluta validità nei confronti di tutti i soggetti.
Ovviamente insieme al divieto di tortura, che rientra nella categoria dei diritti alla sicurezza esistono tutta una serie di altri diritti, come ad esempio il diritto alla libertà o all’integrità fisica.
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Capitolo 2
La norma contro la tortura
Paragrafo 1- Il problema della definizione di tortura,
trattamenti inumani e trattamenti degradanti
Come accennato in precedenza, la tortura è un metodo di coercizione fisica o psicologica imposta al fine di punire o di estorcere delle informazioni o delle confessioni; molte volte è accompagnata dall'uso di strumenti particolari, che hanno lo
scopo di infliggere punizioni corporali. La tortura lede quei diritti imprescindibili di ogni individuo che
vanno a costituire la categoria dei diritti umani. Le definizioni date dagli studiosi sono varie e guardano ad
aspetti diversi dello stesso fenomeno. Per Henkin i diritti umani sono “quelle libertà, immunità e benefici
che, secondo i valori contemporanei accettati, tutti gli esseri umani dovrebbero essere capaci di pretendere, come diritti veri e propri, dalla
società in cui essi vivono”;15
15 Henkin, L., Human Rights, in Enc. Publ. Int. Law, 2, Amsterdam, 1995,pag.
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Zanghì li vede come “diritti fondamentali ed essenziali della persona che sono, quindi, imprescrittibili, inalienabili, irrinunciabili ed
universali”.16 Per Focarelli possono costituire, inoltre, “un livello minimo
invalicabile per ogni essere umano che il diritto deve proteggere a
qualsiasi costo”.17
Si potrebbe anche andare a ricercare una nozione dell’istituto affrontando diverse considerazioni: per esempio, in senso letterale, si potrebbe parlare di torsione del corpo umano, con riferimento al tormento corporale che si infliggeva nel Medioevo all'imputato, affinché confessasse così un delitto o rivelasse il nome dei complici, e anche, ma meno
frequentemente, ai testimoni per farli parlare. Oppure si potrebbe fare riferimento alle sofferenze di qualsiasi
tipo e alle violenze, fisiche o psicologiche o, magari, ancora, farmacologiche, inflitte a spie o prigionieri per ottenere informazioni di interesse giudiziario o militare; infine, e quindi
16 Zanghì, C., La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, II ed., Torino,
2006,pag. 5.
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per estensione, si può pensare ad ogni forma di costrizione fisica o morale ai danni di qualcuno al fine di estorcergli qualche cosa o per pura crudeltà.
Vale la pena ricordare, come accennato precedentemente, che fra tutti gli strumenti internazionali vincolanti che si occupano di questa materia, solo la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 e la Convenzione inter-americana per prevenire e punire la tortura si preoccupano di fornire una nozione autonoma del
concetto di tortura. Si legge all’ articolo 1 del primo strumento menzionato:
“For the purposes of this Convention, torture means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or a confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to lawful sanctions.”
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Questo strumento di coercizione si articola in tre fasi che seguono una scala crescente di intensità:
1. Il trattamento degradante;
2. Il trattamento inumano;
3. La tortura.
Come è noto, anche il sistema penale italiano utilizza delle ‘scale di gravità’ al fine di individuare statisticamente la criminalità del reo, la quale può essere classificata in:
1. Bassa;
2. Media;
3. Alta;
4. Totale.
Tale previsione di pericolosità consente di inquadrare il comportamento per adeguare, così, la risposta punitiva.
La giurisprudenza internazionale ha comunque tenuto distinte, in chiave generale, le tre fasi di sviluppo prevedendo, in ogni caso, una sorta di vulnus al principio fondamentale del rispetto della dignità umana: a parere della Corte europea, (parere che si è sviluppato seguendo un percorso interpretativo della corte di Strasburgo) infatti, necessariamente una condotta che integra
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il crimine di tortura contiene in sé tutti gli elementi del trattamento inumano oltre, chiaramente, un elemento in più che sia idoneo ad elevare la violazione al grado superiore di tortura: così anche ogni trattamento inumano contiene in sé gli elementi del trattamento degradante, e, al contrario, la configurazione di un trattamento degradante non è detto che abbia in sé tutti gli
elementi necessari ad integrare un trattamento inumano. La Corte Europea ha previsto, pertanto, il parametro della
cosiddetta soglia minima di gravità per consentire l’applicazione
dell’art. 3 della Convenzione.18 Il criterio della soglia minima di gravità elaborato dalla Corte
europea non solo individua e circoscrive il focus applicativo dell’art.3 della Convenzione, ma rileva anche ai fini della distinzione nell’ambito delle tre condotte illecite contemplate dal medesimo articolo:
18 Nel ricorso n. 9870/04, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricordato
che un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità ai fini dell'applicabilità dell'articolo 3 della Convenzione. Per valutare tale minimo di gravità è necessario prendere in considerazione alcuni dati tra i quali: la durata del trattamento, i suoi effetti psichici e mentali nonché, a volte, il sesso, l'età e lo stato di salute della vittima.
Nella sentenza sul caso Idalov v. Russia (5826/03), la Corte ha ribadito come ogni atto di tortura sia anche allo stesso tempo un trattamento disumano e degradante.
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• Trattamento degradante come soglia minima; • Trattamento inumano come soglia intermedia; • Tortura come soglia superiore.
Le tre soglie di gravità non sono previste da un riferimento normativo fisso, ma hanno un carattere mobile, da valutare perciò caso per caso. Per "degradante" la Corte intende un trattamento che sia in grado di causare nella vittima paura, angoscia e umiliazione e portarla
così ad agire contro la propria volontà e coscienza. Così il Fornari si esprime in merito:
"Una volta stabilito che un determinato trattamento supera la soglia minima di sofferenza, il grado di intensità costituirà il criterio per distinguere un trattamento inumano o degradante da un atto di
tortura". E ancora:
“...nella giurisprudenza della Corte, la tortura non risulta essere una fattispecie autonoma, ma viene definita in relazione alle altre due categorie di reato. In particolare, la tortura è un trattamento disumano
o degradante che causa sofferenze più intense". Si potrebbe, allora, concludere come ogni atto di tortura sia
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degradante.19 L’analisi della definizione ha preso origine da due casi in
particolare: il caso Irlanda c. Regno Unito (no. 5310/71, ECHR ,18 Gennaio 1978) ed il caso Greco (n. 3321/67, 3322/67,
3323/67 e 3344/67, 1969). Grazie a queste due sentenze la Corte ha individuato il criterio
della soglia minima di gravita, o threshold of severit utilizzato per distinguere le categorie di trattamento.
19 Matteo Nicola Fornari “L'art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani”,
in AA.VV. La tutela internazionale dei diritti umani, a cura di L. Pineschi, Giuffrè, Milano, 2006, p. 353.
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Paragrafo 2- Gli elementi costitutivi
A primo impatto, quindi, la tortura appare un trattamento inumano molto grave che viene inflitto con l’intenzione di
raggiungere un obiettivo. Va, però, notato che non esistendo una definizione univoca del
termine o, meglio, esistendone molteplici a seconda del documento internazionale cui si fa riferimento,
l’interpretazione del trattamento può variare. Come detto a conclusione del paragrafo precedente, è stata
individuata la soglia minima di gravità del dolore al fine di catalogare tali atti: è innegabile, però, che non possa essere fatta una distinzione basandosi esclusivamente su di una misura
approssimativa statica. È necessario ricorrere all’analisi della struttura del reato per
individuarne gli elementi costitutivi. Gli elementi che devono essere individuati sono due: l’elemento
oggettivo e l’elemento soggettivo. L’elemento oggettivo del reato di tortura può essere costituito secondo il già citato articolo 1 par.1 della Convenzione Onu contro la tortura del 1984 da:
“…severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted on a person for such purposes as obtaining from
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him or a third person information or a confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. It does not include pain or suffering arising only from,
inherent in or incidental to lawful sanctions.” L’elemento soggettivo, invece, è costituito dall’atteggiamento
psicologico del soggetto agente richiesto dall’Ordinamento per la commissione di un reato: tale elemento, (richiamato anche dall’art. 27 della Costituzione italiana) può assumere solo ed ovviamente la forma del dolo ed è considerato criterio
principale per la commisurazione della pena. Quest’ultimo elemento richiede che il soggetto ottenga dalla
persona sottoposta a tortura o da una terza persona, delle informazioni, una confessione, oppure la volontà di infliggere una punizione per comportamenti che egli o una terza persona ha commesso o è sospettato di aver commesso, di intimidirlo o fare pressioni su di lui o su una terza persona, o, infine, per qualunque altro motivo fondato su di una discriminazione di
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Infliggere dolore e sofferenze, perciò, deve essere perciò
intenzionale.
Ci sono svariate sentenze cui possiamo fare riferimento.20 Nella sentenza Ilhan v Turkey, la corte Europea dei diritti umani affermò che:
“Any use of force must be no more than “absolutely necessary” for the achievement of one or more of the purposes set out in sub-paragraphs (a) to (c).”
Nella sentenza Salman v Turkey si condanna la violazione dell’articolo 5 (Diritto alla libertà e alla sicurezza) in seguito ad
un’istanza del Tribunale penale di Ardahan. Nel caso Bati e altri v Turkey, la denuncia dei tredici ricorrenti
di maltrattamenti subiti dalla polizia turca fu avvalorata nella sentenza della Corte, la quale affermo:
“In that connection, the Court notes at the outset that the Istanbul Assize Court classified the treatment to which Bülent Gedik and Devrim Öktem were subjected as torture, in view of the severity of the acts in question and the fact that the treatment was intentionally inflicted on themby State agents acting in the course of their duties in
20 Vedi Ilhan v Turkey, no. 22277/93, ECHR, 27 Giugno 2000, §85.
Salman v Turkey, no. 21986/93, ECHR, 27 Giugno 2000. Bati e altri v Turkey, no. 57834/00, ECHR, 3 Giugno 2004.
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order to extract confessions or obtain information from them on offences they were alleged to have committed”.
La giurisprudenza, sia europea che internazionale, ha quindi affrontato molteplici casi nei quali si è trovata a condannare organismi statali per aver posto in essere atti annoverabili nelle
suddette categorie, nei confronti di singoli cittadini. Nel caso Al-Saadoon e Mufdhi vs. Regno Unito
(61498/08,03/07/2009) la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il governo del Regno Unito, nel rimpatriare nel proprio Stato di appartenenza i due cittadini Faisal Al Saadoon e Khalaf Mufdhi, consapevole della condanna alla pena capitale che avrebbero qui scontato, ha di fatto violato l’Articolo 3. Afferma la Corte:
“The deliberate and premeditated destruction of a human being by the state authorities, causing physical and psychological suffering intense pain for the fact of knowing in advance the date of his death, can be considered as inhuman and degrading, and contrary to Article 3”. La Corte interamericana dei diritti umani, relativamente al problema postosi nel rapporto tra pena di morte e tutela dei diritti umani, si è basata sull’Articolo 4 della Convenzione americana e sull’Articolo 5, i quali recitano rispettivamente:
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“Everyone has the right to respect for his integrity, physical, mental and moral.”
“No one shall be subjected to torture or cruel treatment or punishment, inhuman or degrading. All persons deprived of their liberty must be treated with respect for the inherent dignity of the human being”.
Sono posti in capo agli Stati tutta una serie di obblighi, primo
fra tutti quello di prevenzione. Nel caso A c. Regno Unito (no. 25599/94, 23 Settembre 1998), si
afferma che:
“The obligations on High Contracting Parties under Article 1 of the Convention to secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in the Convention, taken together with Article 3, requires States to take measures designed to ensure that individuals within their jurisdiction are not subjected to torture or inhuman or degrading treatment or punishment, including such ill-treatment
administered by private individuals.” La Convenzione contro la tortura specifica inoltre che per
qualificare un comportamento come inumano o degradante o per farlo rientrare nella tortura, l’atto deve essere posto in essere con il consenso di un pubblico ufficiale: si aprirebbe qui il
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problema degli atti compiuti da un organo de iure o da un
organo de facto. Viene da chiedersi fino a che punto lo Stato sia responsabile per
l’attività di tali organi. Generalmente, lo Stato è sempre responsabile, e lo diventa
ulteriormente per gli atti di tortura posti in essere da privati, qualora, a monte, abbia fallito nel prevedere una norma e degli
strumenti di repressione adeguati. Nel caso El-Masri contro The former Yugoslav Republic of
Macedonia (Application no. 39630/09), Khaled El-Masri, un cittadino tedesco di origini libanesi, venne arrestato al confine
con la Macedonia a bordo di un autobus. In seguito all’arresto, viene interrogato per 23 giorni da
probabili agenti inglesi della CIA, per un’accusa di terrorismo. Gli agenti che hanno proceduto all’interrogatorio lo
sottopongono a violenze, anche sessuali, prima di metterlo a bordo di un aereo e di trasportarlo in una destinazione
sconosciuta dove viene rinchiuso in una cella. La Corte Europea dei diritti dell’uomo condanna gli agenti sia
per la reiterata violazione dell’articolo 3, sia per gli atti di
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Lo Stato fallisce proprio nel non aver previsto misure adeguate. L’obbligo di provvedere è direttamente collegato ad un altro
obbligo che è quello di protezione che ogni Stato deve fornire ai
propri cittadini. Con sentenza del 20 luglio 2012, nel caso Belgio c. Senegal (ICJ
Reports 2012, pag. 422 ss., par.99), la Corte internazionale di giustizia ha accertato la responsabilità internazionale del Senegal per aver violato gli articoli 6.2, ovvero l’obbligo di attivare un’inchiesta preliminare (come spiegheremo meglio in seguito) e 7.1, cioè l’obbligo di sottoporre il caso di fronte alle autorità giudiziarie, della Convenzione contro la tortura nella vicenda relativa al caso Hissène Habré, già dittatore del Chad tra il 1982 e il 1990.
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Paragrafo 3- Il reato di tortura e l’ordinamento italiano
La tortura è un crimine contro la dignità umana, anche se non
ovunque e non sempre è proibita. In seguito ai fatti dell’11 settembre del 2001 ci si è spinti fino a
sostenere la legittimità del suo utilizzo, perlomeno in certi casi
limite. Gli Stati che sottoscrivono la Convenzione contro la tortura,
devono adeguare la propria legislazione interna al fine di prevedere una norma ad hoc che vieti tale crimine; tale norma
deve prevedere una precisa definizione del reato. Nella questione posta dal caso Akkoç v Turkey (nos. 22947/93
e 22948/93, ECHR, 10 Ottobre 2000), ad essere condannata è la condotta omissiva dello Stato turco, il quale nonostante fosse a conoscenza delle minacce di morte subite dal marito della
ricorrente, non si è adoperato per proteggere la vittima. Come abbiamo accennato, la Corte Europea ha più volte
condannato l’Italia proprio per l’assenza di tale norma. Poiché sono stati fin qui esaminati sia il carattere che gli
elementi costitutivi della norma, vediamo adesso il lavoro svolto dall’ordinamento italiano per adeguare la propria
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In Italia il dibattito sull'introduzione del reato di tortura
nell'ordinamento penale italiano è stato sempre acceso.
L’art. 13, 4 comma, della nostra Costituzione21 ed i relativi obblighi internazionali in materia, prevedono una introduzione di tale reato ma nonostante ciò, nel codice penale persiste
l’assenza di un’apposita norma repressiva. Nella Costituzione italiana, come detto sopra, l'art. 13 stabilisce
il principio secondo cui "E' punita ogni violenza fisica e morale sulle
persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Inoltre, anche la Convenzione delle Nazioni Unite contro la
tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o
21 L’art. 13 della Costituzione italiana recita: “La libertà personale è
inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
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degradanti, che vige per la Repubblica italiana dall'11 febbraio 1989, dopo il deposito dello strumento di ratifica del 12 gennaio del medesimo anno, ha come obiettivo la previsione di una norma ad hoc contro tale crimine, all’interno di tutti gli Stati firmatari.
Tanto è vero che la legge di autorizzazione del 3 novembre 1988 conteneva l'ordine di esecuzione d'uso per le norme della Convenzione, così direttamente introdotte nell'ordinamento italiano.
Tale ordine di esecuzione prevedeva l'obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura fosse previsto come reato.
Inoltre, il secondo paragrafo dell'art.4 della medesima Convenzione prevede l'obbligo per ogni Stato parte di stabilire senz'altro per il reato stesso delle pene adeguate in
considerazione della sua gravità. Non v'è, però, tuttora traccia nel diritto penale italiano, di
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Ad oggi è però presente un disegno di legge previsto dall’ Atto
della Camera 2168-A22, che introduce il delitto di tortura nell'ordinamento italiano (“Introduzione del delitto di tortura
nell'ordinamento italiano"). Il testo è arrivato in commissione Giustizia del Senato il 22
luglio 2013 ed è stato votato dall'Assemblea di Palazzo Madama
il 5 marzo 2014. Dopo il voto dell’Assemblea, il testo di legge è arrivato alla
Camera, dove è rimasto in commissione dal 6 maggio 2014 fino
al marzo 2016. Nella seduta dell’Assemblea numero 660 del 14 luglio 2016, la
maggior parte degli emendamenti presentati è stata respinta
dalla maggioranza dei votanti. Il Senato ha quindi deciso di sospendere la discussione del ddl
fino a data da destinarsi. La sospensione arrivata da Palazzo Madama ha visto il favore
degli oppositori al disegno di legge.
22 Proposta di legge: S. 10-362-388-395-849-874. - Senatori Manconi ed altri;
senatori Casson ed altri; senatore Barani; senatori De Petris e De Cristoforo; senatori Buccarella ed altri; senatore Torrisi: "Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano" (approvata, in un testo unificato, dal Senato) (2168).
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Il testo è stato infatti rinviato alle commissioni grazie all’opposizione di Forza Italia, Lega nord, Nuovo centro destra e Conservatori riformisti: la proposta di legge non prevede per la contestazione del reato né le reiterate violenze, né il dolo intenzionale, legando così “le mani” alle forze dell’ordine che, secondo Alfano si troverebbero esposte a “denunce strumentali
da parte dei professionisti del disordine e dei criminali incalliti”. Durante i lavori sono intervenuti, inoltre, singoli cittadini con
richieste di petizioni e organizzazioni quali Amnesty
International.23 Con il testo proposto dalla Commissione giustizia si
introdurrebbero nel codice penale gli articoli 613-bis, che disciplina il delitto di tortura, e 613-ter, che incrimina la condotta del pubblico ufficiale che istiga altri alla commissione
del fatto. Secondo l’articolo 1 «chiunque, con violenza o minaccia ovvero con
violazione dei propri obblighi di protezione, di cura o di assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche al fine di ottenere, da essa o da un terzo,
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informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose, è
punito con la reclusione da quattro a dieci anni». Sono previste anche delle aggravanti: se a commettere il fatto è
un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio «con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, si applica la pena della reclusione da cinque a dodici anni», ma solo se la sofferenza inflitta è «ulteriore» rispetto «all’esecuzione delle legittime misure privative o limitative dei diritti». Se dal fatto deriva una lesione personale le pene sono aumentate di un terzo se la «lesione personale è grave»; della metà «in caso di lesione personale gravissima». Se dal fatto deriva la morte «quale conseguenza non voluta», la pena è la reclusione a trent’anni. Se la morte è causata da un atto volontario, la pena è
l’ergastolo. Si è optato per l'introduzione di un reato comune, connotato da
dolo generico, con un catalogo di circostanze aggravanti: un esempio è rappresentato dal reato commesso da un pubblico ufficiale e che dalla condotta derivino gravi conseguenze
(lesioni personali o morte).
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commettere tortura: si prevede che se un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio istiga un collega, la pena è stabilita con la reclusione da sei mesi a tre anni e questo indipendentemente dal fatto che il reato di tortura venga poi
effettivamente commesso. Inoltre, le dichiarazioni ottenute attraverso il delitto di tortura
non sono utilizzabili in un processo penale. I termini di prescrizione, infine, per il delitto di tortura sono
raddoppiati. Si stabilisce anche che «in nessun caso può disporsi l’espulsione o il
respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali o oggetto di tortura, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione o dalla tortura
ovvero da violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani». Non può essere riconosciuta l’immunità diplomatica «ai
cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per
il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale».
In assenza di una norma ad hoc, Zagrebelsky24fa notare come
24 Vladimiro Zagrebelsky, estratto da un articolo su La Stampa del luglio
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il dibattito sulla mancanza in Italia di una norma che vieti la tortura abbia preso origine dalla sentenza della Cassazione in
merito al caso Diaz25 (Sentenza 38085/12). Nella sentenza la Cassazione aveva parlato di «tradimento della
fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile» e di «enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli
occhi del mondo intero». Prosegue Zagrebelsky,
“I fatti sono noti. Per giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai manifestanti che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme, furono arrestati. E’ noto anche che costoro furono minacciati ed umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due furono in pericolo di vita. Le imputazioni hanno riguardato la calunnia nei confronti degli
25 Le motivazioni della sentenza n. 38085/12 della Cassazione, Quinta
sezione penale, depositata il 2 ottobre, descrivono “violenza di gravità inusitata in danno di persone inermi e sistematico e ingiustificato uso della forza, odiosità del comportamento dei vertici delle forze dell’ordine impegnate nell’operazione, discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero, nel confermare le condanne inflitte agli uomini della polizia che presero parte e organizzarono l’intervento nella scuola che ospitava i manifestanti”.
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arrestati, la falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone hanno dato luogo ad imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti, funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di prescrizione.”
Non soltanto la Cassazione si è pronunciata: la Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 6884 del 2011 ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, presente ai fatti accaduti nella scuola, in merito alla violazione dell’articolo 3 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha prima sottolineato la lacuna dell’ordinamento
italiano che infatti non prevede un articolo ad hoc per simili casi, condannando poi il nostro Paese per aver eseguito il blitz con “intento punitivo, di rappresaglia, per provocare l’umiliazione e
la sofferenza psichica e morale delle vittime”. L’ordinamento italiano ha disciplinato determinati casi di
tortura come se si fosse stati in presenza di lesioni personali:
poste in questo modo, le questioni cadevano in prescrizione. Guardando agli altri Paesi dell’Unione, possiamo fare un