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3. L’ATTIVITÀ DI PESCA 3.1

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3.

L’ATTIVITÀ DI PESCA

3.1

Introduzione

La pesca professionale in Toscana, risale a qualche secolo fa e l’impulso iniziale fu fornito certamente dalla pesca artigianale. Quest’attività ha trovato da sempre nella regione un ambiente più che adatto, che ancora oggi caratterizza e condiziona la tipologia delle marinerie toscane.

Sulla base dei dati forniti dall’Archivio licenze di pesca, nel 2003, la flotta da pesca toscana contava circa 670 battelli, il 4,3% della flotta italiana. Negli anni 2000-2003, il settore peschereccio è stato interessato da un sostenuto ridimensionamento strutturale: i battelli sono diminuiti del 16%. La contrazione della flotta non ha alterato però le caratteristiche principali del comparto regionale; infatti, così come avviene per tutte le regioni tirreniche, il settore della pesca regionale è fortemente connotato dalla presenza di imbarcazioni della piccola pesca (74%), nonostante la presenza di importanti marinerie dedite alla pesca a strascico nei compartimenti di Livorno, Viareggio, Piombino, Castiglione della Pescaia, Porto Santo Stefano e Porto Ercole (24%) e a quella a circuizione nel compartimento di Portoferraio(2%) (dati arsia, 2003).

Il rapporto tra i pescatori e la risorsa disponibile permetteva un tempo, maggiori disponibilità di prelievo; oggi però, l’eccessivo sfruttamento e i danni arrecati dall’uomo all’ecosistema marino, hanno ridotto gli stock ittici, così che anche in Toscana (come in molte altre parti d’Italia), si è registrata una diminuzione degli sbarchi. Le imprese del settore risultano così impoverite, comportando, tra le altre cose, una limitazione nell’ammodernamento della flotta peschereccia. In ogni modo, gli operatori della piccola pesca attuano già una sorta di “autogestione”, seguendo le variazioni stagionali dell’abbondanza delle specie ittiche e utilizzando attrezzi adatti a differenti periodi.

Secondo stime ISTAT di alcuni anni fa, le imbarcazioni toscane hanno una stazza media di 12,5 TSL (tonnellate di stazza lorda), leggermente sotto la media nazionale di 14,3 TSL; per quanto riguarda la potenza motrice media, invece, appaiono superiori (116 HP) rispetto alla media nazionale (102,8 HP). Queste informazioni possono dare una sommaria indicazione sul tipo di pesca che viene svolta da queste marinerie: lungo le coste della Toscana e dell’Arcipelago Toscano hanno un notevole sviluppo i fondali della piattaforma continentale,

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che consentono la pesca anche a gran distanza dalla costa. È quindi necessario disporre di imbarcazioni relativamente grandi, in grado di rimanere sulle zone di pesca anche per più giorni e di imbarcare notevoli quantità di pescato, spinte da motori potenti e veloci per raggiungere in breve tempo anche i banchi più distanti (e.g. l’isola di Pianosa o la piattaforma continentale sardo-corsa) e dotate di sofisticate attrezzature tecnologiche per navigare e operare in alto mare. Contemporaneamente alla presenza di una flottiglia peschereccia caratterizzata in buona parte da un notevole livello d’organizzazione industriale, si è affermato un consistente numero di piccole imprese artigianali che operano con imbarcazioni di ridotte dimensioni (in media <5 tonnellate di stazza lorda) e utilizzano mestieri più selettivi, rappresentati per lo più da numerose versioni costruttive di reti da posta. Lo scarso uso, lungo le coste toscane, di draghe idrauliche per la cattura dei molluschi bivalvi, può essere messo in relazione con la tipologia dei fondali della zona e la modesta presenza di specie commerciabili disponibili alla cattura con questo mestiere (arsia, 2003).

L’attività peschereccia ha una enorme importanza sociale ed occupazionale: solo in Toscana il personale impegnato nell’attività di cattura (a cui bisognerebbe aggiungere quello che poi lavora e vende il prodotto), è costituito da 1.240 persone circa. Per questo motivo e per l’importanza che i prodotti ittici rivestono nell’alimentazione umana, il comparto necessita di essere tutelato.

3.2

Tecniche di pesca

3.2.1

La piccola pesca

La pesca artigianale è stata, ed è, quell’attività produttiva che più rispecchia le abitudini locali. Le pesche speciali ne sono una chiara testimonianza. In passato ciò era ancor più accentuato e la diversità di attrezzi a di attività era molto maggiore. La presenza di diversi tipi di fondo ha favorito nell’area il diffondersi di numerosi sistemi di pesca di tipo artigianale (o piccola pesca) che sono variamente distribuiti lungo tutta la costa e che possono essere globalmente divisi in tre gruppi: reti da posta fisse (tramagli e reti a imbrocco), palangari e piccola circuizione (cianciolini o lamparelle e sciabichetta o sciabichella).

Questa tipologia di pesca, pur producendo un impatto ambientale minore (incide solo per il 12% sulle catture totali), rispetto alle altre forme di prelievo, è stata la prima a risentire dell’impoverimento delle risorse e della gestione non ottimale delle aree di pesca.

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• Reti da posta fisse: a questa categoria appartengono i tremagli e le reti a imbrocco, cioè reti che, benché possano trovarsi sul fondo oppure a mezz’acqua, vengono ancorate in modo fisso al fondo marino con ancore o pesi. I pesi o le ancore vengono segnalati in superficie da galleggianti muniti di bandierine gialle di giorno, e luci gialle di notte per renderne possibile l’individuazione al momento del recupero. Queste reti, una volta calate, vengono lasciate in posizione per un certo periodo di tempo, in genere una notte, in modo tale da renderle ancora più invisibili al pesce, e poi recuperate. Normalmente, nell’intervallo fra l’operazione di cala e quella di salpata la barca rientra in porto.

Il tremaglio (o tramaglio) è formato da tre pezze di rete sovrapposte e collegate lungo il loro lato maggiore (Figura 12). Le due esterne, dette maglione, sono a maglie più grandi di quella interna, e fanno si che il pesce, da qualunque parte provenga, può agevolmente superarle ma, entrato a contatto con la seconda, trova in questa una specie di sacca e, nel tentativo di sfuggire, si impiglia sempre di più. La dimensione delle maglie esterne va da 160 a 180 mm, mentre le maglie interne sono comprese tra 60 e 70 mm. Viene calato a una profondità che varia tra i 2 e i 40 m e la zona di pesca varia con la stagione, come le principali specie bersaglio (seppie, triglie, orate, occhiate, scorfani ecc...). Quando la maglia interna è più piccola (45 mm), si parla di tramaglino: mirato alla pesca delle triglie, viene impiegato specialmente nelle zone di secca da fine primavera a inizio autunno; quando invece le maglie sono più grandi (200 mm quelle esterne e 60-90 mm quelle interne), si parla di tramaglione, che è diretto alla pesca delle aragoste e viene calato a 50-100 m, soprattutto in primavera-estate.

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Le reti a imbrocco (Figura 13) invece, sono reti di nylon trasparente alte 3-4 m e formate da un solo panno, disposte verticalmente nell’acqua. Hanno praticamente una cattura monospecifica e monotaglia che dipende dalla misura della maglia con cui è armata. In questo caso infatti, la cattura avviene per imbrocco: il pesce, una volta entrato nella maglia della rete, non riesce più ad andare né avanti né indietro. Se la maglia fosse più piccola non riuscirebbe a penetrare con la testa nella maglia stessa, se d’altra parte fosse più grande passerebbe tutto intero dalla parte opposta, evitando in ambedue i casi la cattura. Se impiegate per la cattura di sogliole, vengono calate in genere a una profondità di 15-50 m, sia su fondali duri che sabbiosi o vicino ad afferrature; le maglie del panno hanno una dimensione di 70-80 mm. Se usate per la cattura di naselli (reti “nasellare”), triglidi di grosse dimensioni e sugarelli, vengono calate a una profondità che varia tra i 90 e i 300 m; in questo caso la dimensione delle maglie del panno varia tra 52 e 58 mm; le reti a maglia grande (330-400 mm ed oltre) sono specifiche per la cattura dei pesci spada.

Figura 13: Schema di una rete a imbrocco (dal sito della federcoopesca).

• Palangari (o Palamiti): sono composti da una serie di lenze (braccioli) di cui una estremità termina con un amo e l’altra è collegata ad un cavo (trave) lungo anche diversi chilometri. I braccioli vengono legati al trave ad intervalli regolari, pari a circa 2 volte la loro lunghezza. Questo attrezzo può essere considerato fra i più selettivi tra tutti i sistemi di pesca, ma attualmente non trova ampia diffusione fra le marinerie toscane, probabilmente anche per il costo e il tempo necessario alla messa in opera del mestiere. Al variare della specie bersaglio può operare sia sul fondo (palamito fisso) sia in superficie (palamito derivante).

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I palangari fissi (Figura 14), possono essere usati sia per la pesca ai naselli sia per la pesca del pesce bianco. I palangari per naselli hanno una trave che varia tra i 2.000 e i 4.000 m, la lunghezza del braccio varia tra 1,5 e 2,0 m, e sono distanziati tra loro 4 - 6 m. L’esca è costituita da sardine, e sono usati saltuariamente d’estate a una profondità che varia tra 100 e 500 m. I palangari per pesce bianco invece, hanno una trave lunga tra 2.000 e 3.000 m, i bracci misurano 1 - 1,5 m, e sono distanziati da 5 a 15 m. Utilizzati più saltuariamente, sono posizionati a profondità che non superano mai i 50 m.

Figura 14: Schema di un palangaro fisso o da fondo (dal sito della federcoopesca).

I palangari derivanti (Figura 15), sono utilizzati nei mesi estivi/autunnali per la pesca del pesce spada. La trave è lunga tra i 5.000 e i 35.000 m, i bracci tra 5 e 10 m, e sono distanziati di 30-50 m. Gli ami sono innescati con sgombri congelati.

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• Piccola circuizione: alcuni equipaggi delle imbarcazioni della pesca artigianale, nel periodo invernale, sospendono la loro attività e si dedicano a lavori alternativi; altri (almeno venti tra Livorno, Vada e Piombino) si dedicano alla pesca del rossetto (il gobide Aphia minuta), una pesca speciale disciplinata con Decreto Ministeriale. Si tratta di una pesca, prevalentemente diurna, di una specie particolarmente apprezzata dai consumatori locali ed esportata in grandi quantità in Liguria. Il rossetto viene pescato con la

sciabichella, una rete a circuizione che, una volta calata sul banco di pesce individuato con

metodi elettroacustici, con una complessa procedura viene recuperata direttamente dalla barca per mezzo di un verricello meccanico. La rete, nella zona del corpo e del sacco, presenta maglie che generalmente hanno dimensioni da 3 a 7 mm.

Le nasse, piccole trappole, sono attrezzature artigianali, di solito costruite dagli stessi pescatori, con caratteristiche diverse in base alle specie bersaglio. In genere hanno una forma cilindrica o a tronco di cono e presentano una o due bocche e sono costruite in maniera tale da consentire la fuoriuscita dei pesci che rimangono intrappolati. Usate solo da pochi pescatori su base stagionale, hanno come specie bersaglio polpi di scoglio, seppie, aragoste e tanute.

Figura 16: Schema di vari tipi di nasse (dal sito Mare in Italy).

3.2.2

La pesca a strascico

Le origini della pesca con reti a strascico in Toscana, risalgono agli inizi del secolo, quando un nucleo di pescatori provenienti da San Benedetto del Tronto a bordo dei trabaccoli (imbarcazioni con vela latina adattate allo strascico) si insediarono nella zona di Viareggio, che ha fondali molto simili a quelli dell’Adriatico. A quei tempi si pescava in coppia, con la speranza di trovare sempre il favore del vento. Oggi le cose sono molto cambiate, e ai primi pescatori adriatici si sono aggiunti quelli provenienti dal sud Italia e insieme hanno dato vita a un settore produttivo importante nell’economia nazionale. Anche il ceppo di origine della

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marineria livornese a strascico proviene dall’Adriatico, e più precisamente da Ancona. Era il periodo del dopoguerra e la città di Livorno, semidistrutta, tentava di risollevarsi investendo soprattutto nell’area portuale. Il mare doveva essere ripulito dagli ordigni inesplosi, ma occorrevano mezzi e persone esperte. Gli anconetani, forti dell’esperienza maturata in Adriatico, facevano perfettamente al caso.

L’unica marineria che può essere considerata originaria della Toscana è forse quella di Porto Ercole. Circa dieci anni fa in questo porto era ancora ormeggiato il peschereccio che per primo in Toscana adottò il motore. Benché attualmente a Porto Santo Stefano risieda una marineria peschereccia molto importante, inizialmente le abitudini marinare erano quelle legate a lunghi imbarchi su navi commerciali. Oggi i porti dell’Argentario (Porto Santo Stefano e Porto Ercole) sono quelli dove sono concentrati il maggior numero di natanti da pesca di grossa stazza. Motopescherecci di questo tipo si trovano anche nei porti di Piombino e Castiglione della Pescaia. Altre località di minore importanza sono Marina di Carrara, Marina di Pisa e Marina di Cecina, dove è dislocato un numero molto ridotto di queste imbarcazioni (Figura 17a).

Figura 17: a) Peschereccio a strascico al lavoro nelle acque dell’Isola d’Elba; b) schema di una rete a strascico (dal sito della federcoopesca).

Lo strascico è un tipo di pesca attiva, in cui cioè la rete viene attivamente spostata da un peschereccio, in genere di grandi dimensioni, lungo da 10 a più di 60 metri.

Giunti sul punto di pesca, una rete a tronco di cono o di piramide con sacco terminale e una porta che per il modo in cui è costruita e montata sulla rete, tiene la bocca della rete aperta durante i suoi movimenti nell’acqua, viene calata mentre l’imbarcazione inizia ad avanzare; in questo modo la rete viene trainata catturando tutto ciò che incontra sul suo cammino e intrappolandolo poi nel sacco (Figura 17b). Esistono reti differenti che servono per pescare su fondali differenti (sabbiosi o rocciosi) e che possono arrivare al fondo o stare sollevate a circa 1 m. Comunque la legge vieta l’utilizzo di questo metodo entro le tre miglia dalla costa e/o su fondali inferiori ai 50 metri. Questo tipo di pesca viene effettuata durante tutto l’anno e

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consente la cattura di numerose specie quali scampi, gamberi, naselli, polpi, triglie, totani, ecc…

3.2.3

La pesca a circuizione

La terza attività di pesca, la cosiddetta “pesca a circuizione” è importante solo in alcune realtà locali e negli ultimi vent’anni si è ridotta notevolmente fino a subire una profonda crisi che ha portato il numero dei natanti ai limiti minimi. Quest’attività trova il suo naturale collocamento dove i fondali presentano subito grandi profondità e dove esistono fenomeni di risalita di nutrienti che favoriscono la presenza di pesce pelagico come acciughe, sardine, lacerti ecc… Anche in questo caso la Toscana è in grado di fornire ambienti idonei e questi sono individuabili soprattutto a nord dell’isola d’Elba fino a Viareggio. Portoferraio è il compartimento marittimo che più si caratterizza per la presenza di questi pescherecci e Piombino è stato da sempre il più importante punto di sbarco di pesce azzurro.

La rete circuitante è una rete che viene calata a cerchio allo scopo di imprigionare un banco di pesci piuttosto compatto o che viene fatto compattare in qualche modo (Figura 18). Queste reti hanno la forma di un grande lenzuolo: la base superiore viene armata con una lima munita di numerosi galleggianti per tenerla in superficie mentre la base inferiore, armata con una lima munita di piombi, mantiene la rete distesa nel senso verticale. Su quest’ultima lima sono sistemate, a intervalli regolari, delle bretelle che hanno, alla loro estremità, degli anelli in ferro. Attraverso questi anelli passa un cavo di acciaio grazie al quale si effettua la chiusura della rete. A fine cala, questo cavo viene recuperato per primo trasformando la rete in un sacco, dal quale il pesce non può più scappare. Le reti utilizzate hanno una lunghezza che va da qualche centinaio di metri fino a un chilometro e l’altezza può raggiungere anche i 300 metri. Quest’ultima è limitata dalla profondità del fondale su cui si opera, al fine di evitare che si ammucchi sul fondo e si danneggi. La larghezza e l’altezza sono comunque correlate fra loro: infatti una rete molto lunga ma poco alta assumerebbe appena calata la forma di un cilindro che non potrebbe essere chiuso da sotto come è necessario fare.

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Figura 18: Schema di una rete a circuizione (dal sito della Environmental Justice foundation).

Tra le varie tecniche che sfruttano le reti circuitati, c’è quello denominato lampara, in cui l’addensamento del pesce avviene ad opera di potenti fonti luminose, e che quindi viene effettuata solo di notte e in assenza di luna piena affinché la luce artificiale abbia un effetto maggiore sui pesci che, in queste ore, si avvicinano alla superficie. Molte specie di piccoli pesci pelagici si indirizzano verso la fonte luminosa per esplorarla, poiché lì possono trovare il plancton aggregato di cui si nutrono e la loro aggregazione in banchi può a sua volta attirare pesci più grandi.

Per la pesca, almeno tre barche a remi sono calate in acqua, una munita di lampada a luce intensa, mentre ciascuna delle altre due tiene una delle estremità della corda a cui è attaccata la rete che è stata calata in modo da recingere uno specchio d’acqua nel cui centro si pone la barca con la lampada. Se l’imbarcazione madre è molto grande, le barche a remi con la luce possono essere più di una e vengono disposte a una certa distanza fra loro in modo da attirare, singolarmente, quanto più pesce possibile. In seguito si avvicinano tra loro lentamente, al fine di accumulare il pesce in un unico branco. Quindi le altre barche si allontanano a luci spente. Quando un buon numero di pesci si è raccolto sotto la luce, la rete viene chiusa attorno al banco e, con l’ausilio di un potente verricello posto in alto (power block), inizia il recupero della rete. In questa fase le imbarcazioni più piccole agevolano il salpamento della rete, mantenendo la lima dei sugheri sempre in superficie per impedire qualsiasi fuga. La rete viene recuperata fin quando il sacco non viene a trovarsi al di sotto della fiancata dell’imbarcazione madre e il pesce è, a questo punto, portato a bordo per mezzo di grandi “volighe” che convogliano il pescato direttamente alle celle di refrigerazione o ai contenitori con acqua di mare e ghiaccio.

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Questo tipo di pesca viene effettuata principalmente nei mesi che vanno da marzo a novembre ed è rivolta sia verso il pesce azzurro (acciughe, sardine, sgombri, sarde, ecc…) che verso pesce “bianco”(ricciole, dentici, ecc…). Il pesce catturato tramite lampara ha una qualità molto elevata, perché, in tutte le diverse fasi, il pescato non è soggetto ad alcun tipo di stress meccanico e non viene in alcun modo manipolato.

3.3

Tipologia di pescato

Vediamo ora brevemente quali sono le principali specie bersaglio della pesca toscana.

3.3.1

Molluschi

Le reti consentono la cattura dei soli cefalopodi, i molluschi più evoluti, che devono il loro nome alla presenza di tentacoli attaccati alla testa. A differenza degli altri appartenenti al phylum, hanno subito numerose variazioni anatomiche in adattamento al loro stile di vita: il piede si è trasformato in un sifone che consente di compiere rapidi scatti e quindi la cattura di prede anche piuttosto veloci; la conchiglia è molto ridotta o del tutto assente; il sistema circolatorio è chiuso; gli occhi sono strutturalmente simili a quelli dei vertebrati e gli organi di senso sono assai evoluti.

La seppia (Sepia officinalis) (Figura 19a) e la seppiolina (Sepietta oweniana) (Figura 19b), appartengono all’ordine dei Decapoda, essendo dotate di otto braccia e due tentacoli più lunghi, retrattili e con la parte terminale ricca di ventose. Dotate di ottime capacità mimetiche, sono in grado di cambiare colore in brevissimo tempo. All’interno del corpo (nel mantello) possiedono una sacca piena di inchiostro che espellono nelle situazioni di pericolo.

Sebbene si tratti di specie con posizioni tassonomiche vicine, hanno sviluppato un adattamento ad ambienti molto diversi: la seppia comune è costiera e non si spinge oltre i 100 metri di profondità, vive sui fondali costieri sabbiosi o melmosi e sulle praterie di Posidonia. In primavera ed autunno si avvicina alle coste per riprodursi. I primi ad arrivare sono i maschi, solo in seguito arrivano anche le femmine che, avvenuto l’accoppiamento cercano un substrato per deporre le uova dalle quali, dopo un periodo più o meno lungo a seconda della temperatura delle acque, nascono i piccoli.

La seppiolina invece si concentra in massima parte oltre i 300 m e solo in minima parte a profondità minori. Diffusa soprattutto su fondali melmosi, spesso depone le uova su organismi sedentari come le ascidie e le spugne.

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Questi animali possono essere catturati sia con reti a strascico che con reti da posta e nasse.

Figura 19: a) Sepia officinalis; b) Sepietta oweniana.

Tra gli Octopoda, finiscono nelle reti sia a strascico che da posta soprattutto il polpo e il moscardino, poiché il loro areale va da pochi metri a 90 m per il moscardino e 200 m per il polpo.

Il polpo (Octopus vulgaris) (Figura 20a) è una specie bentonica, che vive nelle vicinanze della costa adattandosi a diversi tipi di ambienti: rocce, barriera corallina o su fondali popolati da piante marine. Possiede otto tentacoli muniti di ventose, di cui uno viene chiamato ectocotile e assolve alla funzione di organo copulatore. Il polpo è un predatore che si nutre di molluschi e crostacei che cattura negli anfratti rocciosi. Come le seppie, possiede cromatofori che gli consentono di assumere i colori del substrato in cui si trova per mimetizzarsi e in caso di pericolo può gettare una nuvola di inchiostro per confondere il predatore. Compie migrazioni stagionali ritirandosi più in profondità d’inverno. La femmina depone le uova sul fondo e cessa di nutrirsi per prendersene cura fino alla schiusa, ma spesso non sopravvive al lungo digiuno. I giovani trascorrono un periodo nel plancton poi migrano sul fondo, loro habitat definitivo. In Mediterraneo si hanno due periodi in cui la deposizione è più attiva, Aprile-Maggio ed Ottobre.

Il moscardino (Eledone moschata) (Figura 20b) assomiglia ad un piccolo polpo, dal quale differisce per la presenza sui tentacoli di un’unica fila di ventose. Il colore è marroncino con riflessi grigio-brunastri, e appena pescato emana un caratteristico odore di muschio, da cui deriva il nome. Vive su fondali sabbiosi e fangosi nutrendosi di molluschi bivalvi e crostacei per un massimo di due anni. Tra Gennaio e Maggio, le femmine depongono circa 500 uova da cui nasceranno dei piccoli polpi, bentonici come gli adulti.

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Figura 20: a) Octopus vulgaris; b) Eledone moschata.

Tra i Teuthida, le principali specie commerciali sono il calamaro mediterraneo e il totano, che spesso vengono confusi.

Il calamaro mediterraneo (Loligo vulgaris) (Figura 21a), vive in mare aperto tra i 20 ed i 250 m, raggiungendo anche i 500 m nel tardo autunno. È provvisto di otto braccia corte e non retrattili che portano due file di ventose e due tentacoli più lunghi con estremità a forma di clava e 4 file di ventose, di cui le due centrali più grandi. Nei maschi, una delle braccia ha le ventose modificate in papille e viene utilizzata come organo copulatorio. Sul dorso del mantello sono presenti cromatofori, che vengono utilizzati per la trasmissione di segnali comportamentali (lotta tra maschi, corteggiamento, ecc…). La colorazione è quindi variabile, con diverse sfumature, che vanno dal rossiccio-rosato al bruno. Si nutre prevalentemente durante le ore notturne e nel periodo estivo. Raggiunta la maturità, i maschi producono spermatofore che introducono nel corpo della femmina tramite un braccio modificato. Queste producono una notevole quantità di uova, che vengono deposte in tubi gelatinosi attaccati a supporti solidi. Le larve schiudono dopo circa 25 giorni, ma l’incubazione dipende dalla temperatura dell’acqua. Nel Mediterraneo, questa specie si riproduce durante gran parte dell’anno ed in misura maggiore all’inizio della primavera e dell’autunno. Gli adulti si nutrono preferibilmente di pesce, ma anche di molluschi, crostacei e policheti; i giovani invece, mangiano larve di crostacei. È piuttosto comune anche il cannibalismo. La specie è oggetto di pesca professionale con reti a strascico, a circuizione (non in Toscana), con numerosi attrezzi da posta, ami ed esche artificiali.

Il totano (Illex coindetii) (Figura 21b) può essere facilmente confuso con il calamaro, dal quale differisce per grandezza ed inserzione delle pinne, che, in questo caso si dividono ai lati partendo dall’estremità del corpo, mentre nel calamaro occupano metà della lunghezza del mantello. Ha una colorazione marroncino arancio e vive al largo tra 100 e 600 m di profondità.

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In genere si sposta in banchi con numerosi individui, compiendo migrazioni giornaliere: risalgono in superficie durante la notte a caccia dei pesci e dei crostacei di cui si nutrono, e tornano in profondità nelle ore diurne. Le uova vengono deposte tra maggio e settembre e tenute assieme in ammassi gelatinosi galleggianti che fluttuano nei pressi della superficie o cadono sul fondo. Si pesca con reti a strascico o con lenze con fonti luminose per richiamarlo in superficie durante la notte. Le carni leggermente dure, lo rendono meno pregiato del calamaro.

Figura 21: a) Loligo vulgaris; b) Illex coindetii.

3.3.2

Crostacei

I Crostacei costituiscono una classe del phylum Arthropoda comprendente quasi esclusivamente animali acquatici marini, sebbene siano ampiamente rappresentati anche nelle acque dolci e sia nota qualche specie terrestre. Nella maggior parte dei crostacei, il torace e il capo sono fusi assieme a costituire un cefalotorace ricoperto da un piastrone, detto carapace, reso più rigido dalla deposizione di carbonato di calcio. Spesso gli occhi si trovano all’estremità di appendici modificate. I crostacei sono i soli artropodi con due paia di antenne, con funzione sensoriale. Il primo paio di appendici toraciche è spesso trasformato in chele, con funzione prensili.

Numerose sono le specie di importanza commerciale che vengono catturate dai pescherecci toscani.

L’aragosta (Palinurus elephas) (Figura 22a) può raggiungere dimensioni attorno ai 50 cm (comunemente si trovano esemplari di 20 - 40 cm) ed un peso di 8 kg. Il corpo è provvisto di tredici paia di appendici cinque delle quali vengono usate per camminare, e un paio è costituito

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da caratteristiche antenne, lunghe più del corpo. Non possiede chele. Il corpo è cosparso di spine e tubercoli e la colorazione è rosso violacea con macchie più chiare. Vive abitualmente su fondali rocciosi o ghiaiosi, raramente la si può trovare su fondi sabbiosi, a profondità comprese tra 20 e 70 m, ma può raggiungere i 200 m. Predilige fondali ricchi di anfratti dove si colloca facendo sporgere le antenne. Alterna nel corso della vita comportamenti solitari e di gruppo ed è presente a profondità minori da marzo a novembre, mentre migra a profondità maggiori nella restante parte dell'anno. Durante la muta l’animale è più debole perché rimane privo della corazza di protezione; il suo aspetto non cambia ma il corpo è molle e facilmente attaccabile, si ritira così in una tana dove passa la giornata mangiando conchiglie di molluschi che le consentono di acquisire i sali minerali necessari per la nuova corazza. Il periodo riproduttivo è variabile, ma nel Mediterraneo occidentale è Settembre - Ottobre. In questo periodo i maschi attaccano le spermatofore sul ventre delle femmine e, al momento dell’emissione delle uova, avviene la fecondazione. Le femmine portano le uova aderenti all’addome anche per mesi, ossigenandole con il movimento degli arti natatori, fino alla schiusa. Le larve sono planctoniche e raggiungono il fondo, loro habitat definitivo, attraverso una crescita caratterizzata da diversi stadi durante i quali si nutrono di plancton. Questo animale si pesca con reti da posta, tremagli e con grandi nasse, e viene in genere mantenuto vivo fino al momento della vendita.

Figura 22: a) Palinurus elephas; b) Squilla mantis.

La canocchia (Squilla mantis) (Figura 22b), è un crostaceo di medie dimensioni con corpo allungato, depresso e con evidenti creste mediane longitudinali lungo il torace e l’addome. Ai lati della testa, sono presenti due pseudochele costituite ciascuna da un articolo mobile esterno munito di 6 spine e di una parte interna con presenza di piccoli denticoli. Il telson è munito di dentelli e di due grosse macchie centrali violacee, circondate da una anello biancastro, simili a

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occhi. La colorazione del corpo è bianco-giallastra con sfumature violacee. La lunghezza massima raggiunta da questa specie è di 20 cm, comuni sono individui di 12-18 cm. Vive su fondi sabbiosi o fangosi a profondità compresa tra 20 e 200 m, ma più comune a profondità minori di 50 m. Animale solitario, vive durante il giorno in gallerie scavate nel fondo, da cui esce, durante la notte per andare alla ricerca di cibo o per scopi riproduttivi, ma anche a causa di forti mareggiate che ne distruggono la tana. La riproduzione avviene in primavera con fecondazione interna: i maschi infatti fecondano le femmine introducendo nel corpo i gameti mediante arti modificati in strutture filamentose (3° paio di pereiopodi). Nelle femmine, la maturazione delle uova è visibile dall’esterno, poiché l’ingrossamento delle uova è chiaramente distinguibile sul dorso in trasparenza. Dopo la schiusa delle uova, le larve conducono breve vita planctonica per poi mutare e prendere contatto con il fondo. La canocchia si nutre di piccoli pesci che cattura principalmente durante le ore notturne. È oggetto di pesca professionale essenzialmente con reti a strascico. Le catture sono più abbondanti nelle ore notturne e dopo un periodo di cattivo tempo.

Le mazzancolle (Penaeus kerathurus) (Figura 23a) appartengono ai crostacei comunemente noti come gamberi. Può raggiungere dimensioni massime attorno a 20 cm, ma comunemente la si trova di dimensioni comprese tra i 12 e i 15 cm. La colorazione è variabile e dipendente dal sesso: i maschi sono chiari con macchie rossastre sull’addome, mentre le femmine tendono verso il giallo verde o giallo grigio con bande verdi o brune. Il margine del telson presenta una tipica banda bluastra. Il capo è munito di un corto rostro, che supera appena gli occhi ed è dotato di un caratteristico dente sul bordo inferiore e una decina di denti sul bordo superiore, che raggiungono la metà del carapace. Da questo punto la carena rostrale si sdoppia formando un profondo solco che giunge fino al bordo posteriore. Il primo paio di appendici del capo è costituita dagli occhi molto complessi, il secondo e terzo paio di appendici cefaliche sono costituiti, rispettivamente, dalle antenne primarie (antennule) e dalle antenne secondarie. I successivi 3 pereiopodi sono differenziati e specializzati nella presa del cibo e nella masticazione. Delle restanti 5 coppie di appendici toraciche, le prime 2 terminano a pinza, mentre le altre hanno, invece, funzione deambulatoria. Le 5 paia di appendici addominali sono modificate in arti appiattiti deputati al nuoto. Nei maschi le parti basali del primo paio di pleopodi sono trasformate in un organo copulatore, detto petasma, tramite cui i maschi trasferiscono spermatofore all’interno di una sorta di tasca ventrale delle femmine, detta thelycum , che funge da ricettacolo seminale. La femmina, al contrario della maggior parte dei crostacei che portano le uova sulle appendici addominali, le depone sul fondo immerse in una

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sostanza gelatinosa. Dopo solo qualche ora, dall’uovo esce una larva planctonica lecitotrofica che si sposta in superficie, dove è più abbondante il fitoplancton necessario agli stadi successivi. L’habitat di questa specie è compreso tra i 20 e i 100 m di profondità, dove vive sepolta durante il giorno nei fondali sabbiosi, per uscire di notte ad alimentarsi. Essendo una specie eurialina non è difficile trovarla in acque costiere, e alle foci dei fiumi. Gli adulti della specie necessitano di una dieta ricca di proteine e si nutrono in genere di molluschi, crostacei e policheti e resti organici, mentre la dieta dei giovanili è dominata da crostacei Misidiacei; prede occasionali sono costituite da foraminiferi, nematodi e ofiuroidei. Reperibile sui mercati italiani per tutto l’anno, la mazzancolla viene pescata soprattutto con reti a strascico.

Il gambero rosa (Parapenaeus longirostris), è un crostaceo abbastanza comune distribuito nell’intero bacino Mediterraneo e nell’Atlantico. Sul carapace, in corrispondenza del quale l’esoscheletro è più calcarizzato ed ispessito, è presente a livello della regione gastrica un caratteristico dente che permette di distinguere facilmente il gambero rosa dalle altre specie della famiglia Penaeidae. La sua colorazione è rosa-arancio tendente al rosso-violaceo sul carapace e sul rostro. Nelle femmine la colorazione delle gonadi varia dal bianco al verde in funzione dello stadio di maturità sessuale, rendendo possibile osservare in trasparenza gli ovari maturi. Questa specie presenta dimorfismo sessuale con le femmine che sono più grandi dei maschi e possono raggiungere i 19 cm. Il gambero rosa popola i fondali da 20 a 700 m di profondità risultando però più abbondante su fondi sabbio-fangosi tra 100 e 400 m. Generalmente gli esemplari di dimensioni minori si rinvengono a profondità ridotte (massimo 200 m), mentre gli individui più grandi appaiono molto più abbondanti oltre i 200 m. La fase riproduttiva inizia di preferenza nel periodo primaverile, e le uova raggiungono la piena maturità tra l’autunno e l’inverno, momento in cui schiudono, liberando le piccole larve planctoniche che andranno incontro a una serie di mute, fino a diventare simili all’adulto in primavera, quando raggiungono i fondali della platea continentale per cominciare la fase di vita bento-pelagica. Il gambero rosa presenta uno spettro alimentare piuttosto ampio: alterna fasi di predazione attiva in cui si ciba di cefalopodi, pesci e crostacei di piccole dimensioni, ad altre in cui invece si limita a setacciare il fondale in cerca di prede più facili come bivalvi, policheti, gasteropodi ed echinodermi. Pescato principalmente con reti a strascico, rappresenta un’importante specie commerciale, anche se il suo valore economico è inferiore rispetto ad altri peneidi come la mazzancolla.

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Figura 23: a) Penaeus kerathurus; b) Maja squinado.

La granseola (Maja squinado) o grancevola (Figura 23b), è un granchio che può raggiungere dimensioni notevoli: il corpo può misurare fino a 25 cm di lunghezza e 18 di larghezza. Il corpo è a forma di cuore e bombato con dentellature lungo il margine laterale che terminano con due denti cuneiformi più sporgenti nella parte anteriore. La superficie del dorso è inoltre tubercolata, spinosa e cosparsa di peli uncinati. Ha quattro paia di zampe lunghe e arcuate che terminano a punta e sono anch'esse cosparse di peli ispidi e pungenti. Le chele sono lunghe, sottili, apparentemente delicate, ma in realtà robuste e temibili negli esemplari più grandi. Il dorso è inoltre ricoperto spesso da corpi estranei, come piccole alghe e insediamenti di parassiti che, sul fondo del mare, contribuiscono a rendere particolarmente efficace il suo mimetismo, davvero sorprendente. Il suo colore varia dal giallo rossastro, al roseo, al rosso, al rosso castano, a seconda dei luoghi in cui vive e a seconda degli esemplari. Si nutre di una grande varietà di organismi: preferibilmente alghe e molluschi in inverno, e echinodermi, come ricci e oloturie, in estate. I sessi sono separati ed il maschio è più grande della femmina. Solitamente vive su fondali sabbiosi e detritici fino a 100 m di profondità dove si mimetizza rimanendo immobile, ma è facile trovarlo anche a profondità inferiori su fondali rocciosi , nei quali si nasconde in mezzo alla vegetazione o nelle fessure. Questa specie viene pescata con reti a strascico, ma soprattutto tremagli.

Lo scampo (Nephrops norvegicus) è un crostaceo bentonico di medie dimensioni che può raggiungere una lunghezza totale massima di 24 cm, ma in genere è comune da 10 a 20 cm. Ha un corpo robusto, allungato e tubolare. Il cefalotorace è protetto da un robusto carapace fortemente calcificato munito di numerose spine e tubercoli, e provvisto di tredici paia di appendici ambulatorie. Il primo paio è modificato in grandi e robuste chele munite di più file parallele di dentelli, deputate alla cattura delle prede. Anche il secondo e il terzo paio di appendici, molto più sottili del primo, terminano in piccole chele, mentre le restanti 5 paia

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hanno funzione natatoria. Tutte queste diverse appendici fanno dello scampo un buon camminatore, ma anche un discreto nuotatore. La colorazione è prevalentemente arancio-rosata dorsalmente e biancastra nella parte ventrale. La distribuzione batimetrica dello scampo varia notevolmente, a seconda delle zone, ma in generale lo si trova dai 200 agli 800 metri; tuttavia, come indica il nome (norvegicus), la specie è tipica di climi freddi, per cui in Mediterraneo frequenta preferibilmente fondali a profondità comprese tra 150 e 400 metri. La distribuzione dipende però anche dalla natura del fondale, poiché vive su fondali sabbiosi e/o fangosi, in cui scava gallerie lunghe e complesse, dove rimane nascosto durante il giorno e dalle quali esce all’alba e al tramonto alla ricerca di cibo, oppure durante il periodo riproduttivo. La sua dieta è piuttosto generalista, e comprende numerosi crostacei (anche della sua specie) e policheti. Animale piuttosto longevo, presenta una crescita lenta, anche se nei maschi le dimensioni raggiunte e il ritmo di accrescimento sono più elevati. L’accoppiamento avviene nel periodo primaverile-estivo, e le femmine conservano le uova attaccate ai pleopodi addominali per un periodo molto lungo compreso tra i 6 e i 9 mesi, durante il quale permangono all’interno delle proprie tane. Dalle uova esce una larva che, dopo 6 - 8 settimane di vita planctonica e dopo quattro mute, assume la conformazione di un adulto e passa alla vita bentonica. La cattura avviene essenzialmente con reti a strascico all’alba e al tramonto, quando cioè gli animali escono dalle tane.

Figura 24: Nephrops norvegicus

3.3.3

Pesci

I pesci sono il principale bersaglio della pesca commerciale, soprattutto per l’elevato numero di specie considerate commestibili. Descriverle tutte, quindi, diventa assai impegnativo. Per

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questo motivo ho cercato di raggrupparle in categorie più ampie che consentano comunque di farsi un’idea sulle caratteristiche delle specie.

L’espressione pesce azzurro è una denominazione di uso generale e non corrisponde ad un gruppo scientificamente definito di specie. Si riferisce a quei pelagici di piccole dimensioni, che hanno una colorazione del corpo verde-azzurro sul dorso e bianco-argento sul ventre. Questa colorazione consente a questi animali di essere difficilmente individuati sia dal basso che dall’alto, ma non è loro esclusiva: molte altre specie hanno una colorazione simile (il tonno, il pesce spada, l’alallunga, ecc…), ma comunemente non ricadono in questo gruppo. Si tratta solitamente di specie gregarie che compiono migrazioni orizzontali e verticali a scopo alimentare o riproduttivo. Durante la notte si disperdono a mezz’acqua alla ricerca del nutrimento (la loro attività è particolarmente intensa all’inizio e alla fine della notte) e all’alba si riuniscono in banchi che si muovono verso il basso avvicinandosi al fondo nel mezzo della mattina; qui rimangono per il resto della giornata, in attesa del tramonto; solo dopo il calare del sole risalgono nuovamente in superficie e si disperdono durante la notte. Le specie appartenenti a questo gruppo abbondano nei nostri mari, di conseguenza, risultano solitamente molto economici.

All’ordine dei Clupeiformes appartengono le acciughe o alici (Engraulis encrasicolus) (Figura 25a), le sardine (Sardina pilchardus) e le salacche (Alosa fallax nilotica) che per buona parte dell’anno vivono vicino alla costa soprattutto durante il periodo riproduttivo (Aprile-Settembre), mentre nelle stagioni fredde si spostano a profondità maggiori.

L’acciuga è un pesce pelagico di piccole dimensioni (generalmente di 12 - 15 cm), che si muove in branchi molto numerosi che si avvicinano alle coste nelle stagioni calde, attirati dalla presenza di plancton di cui si nutrono. Il pigmento che ricopre il corpo, coperto da squame iridescenti, dà all’insieme del branco una luce azzurro-argentea caratteristica. Si adatta bene a sbalzi di salinità dell’acqua e per questo spesso la troviamo anche nelle lagune, negli stagni salmastri o negli estuari.

La sardina ha forma slanciata e snella e squame abbastanza grandi e pinna caudale appiattita con biforcazione pronunciata. Presenta inoltre la mascella inferiore leggermente più sporgente di quella superiore e lungo i fianchi possono essere presenti alcune macchiette nerastre. La riproduzione avviene tutto l’anno, ma l’intensità massima si verifica in inverno. Si nutre generalmente di plancton, piccoli molluschi e uova di altri pesci. Nel Mediterraneo raramente supera i 20 cm di lunghezza, quelle comunemente pescate si aggirano attorno ai 15 cm. Si trova fino a 180 m di profondità, ma vive generalmente tra i 25 e i 35 m.

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L’ordine dei perciformes comprende la maggior parte dei pesci marini, dotati quasi sempre di pinne ventrali e di due dorsali di cui la prima con raggi spiniformi. La famiglia scombridae annovera pesci buoni nuotatori, la cui forma del corpo dà l’idea della velocità e dell’idrodinamismo.

Le forme giovanili delle sarde o palamite (Sarda sarda) (Figura 25b) si nutrono di zooplancton, quelle adulte cacciano Clupeidi, giovani cefali, aguglie e costardelle. Essendo predatori hanno denti appuntiti. La riproduzione avviene in primavera ed in estate e la maturità sessuale è raggiunta a due anni di età. La palamita può raggiungere gli 80 cm di lunghezza e 10 Kg di peso, ma è frequente sui mercati attorno ai 2 Kg. Abita in tutti i mari italiani e forma grandi banchi che nuotano presso la superficie ed in genere non vanno oltre i 200 m di profondità.

Lo sgombro (Scomber scombrus (Figura 25d), Scomber colias (Figura 25c)), è un pesce azzurro di medie dimensioni dal corpo fusiforme. La colorazione di base sul dorso è blu-verde, con linee trasversali di andamento irregolare e di colore nero marcato. È una specie gregaria, ma spesso caccia individualmente; in primavera si nutre di pesci e cefalopodi, durante il periodo riproduttivo, da Maggio a Luglio, digiuna per successivamente iniziare nuovamente a nutrirsi di piccoli pesci, specialmente di sardine e spratti. Raggiunge la lunghezza di 50 cm, ma le dimensioni degli sgombri pescati variano tra i 20 e i 40 cm.

Il sugherello (Trachurus trachurus), appartiene alla famiglia dei carangidi ed è un vorace predatore che si ciba di crostacei, piccoli pesci e cefalopodi che preda indistintamente senza particolari preferenze. Vive in branchi a profondità variabili da 50 a 500 m, si riproduce durante tutto l’anno ma in prevalenza nel periodo estivo vicino alla costa. I giovani sono soliti nascondersi fra i tentacoli delle grandi meduse come il polmone di mare per proteggersi dai predatori. In inverno si allontana dalla costa e scende oltre i 500 m di profondità. Può raggiungere i 50 cm di lunghezza , ma più comunemente lo si trova di dimensioni comprese tra 15-30 cm.

Le boghe (Boops boops), appartengono alla famiglia degli Sparidi e come molte altre specie di questa famiglia, sono ermafrodite: prima è femmina poi diventa maschio e raggiunge la maturità a circa 12 cm di lunghezza, raggiungendo al massimo i 36 cm. Si nutre di crostacei, alghe e piccoli pesci. Comunissimo nei nostri mari, si riunisce in branchi in zone sabbiose, lungo la costa rocciosa e sulle praterie di fanerogame marine. Durante la notte vive in prossimità della superficie, mentre di giorno resta più vicina al fondo mai oltre i 250 m.

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Infine tra i blenoiformes troviamo la costardella (Scomberesox saurus) che deve il suo nome alla presenza di pinnule dietro alla pinna dorsale e anale, caratteristica tipica degli sgombridi. Ha una forma molto allungata, così come la mascella e la mandibola che si prolungano in una sorta di becco. Forma branchi che cacciano piccoli pesci e molluschi immediatamente sotto la superficie dell’acqua. Si avvicina alle coste solo in autunno per riprodursi.

Il pesce azzurro, proprio per la sua abitudine di spostarsi in superficie durante la notte e per le abitudini gregarie, viene catturato soprattutto dalle reti a circuizione, anche se qualche esemplare può restare intrappolato anche nelle reti da posta.

Figura 25: immagini di alcune specie di pesce azzurro; a) Engraulis encrasicolus; b) Sarda sarda; c) Scomber colias; d) Scomber scombrus; e) giovani di Trachurus trachurus nascosti tra i tentacoli di una Rhizostoma pulmo;

f) Boops boops.

Nel complesso si possono dividere i pesci in due grandi gruppi in base all’habitat in cui vivono: pelagici e bentonici.

I pesci pelagici sono animali che non hanno colori vistosi, e hanno una forma allungata, idrodinamica. Depongono di regola un gran numero di uova in rapporto alla mancanza di cure parentali. Conducono tutta la loro esistenza nell’ambiente pelagico, e se certe specie hanno contatti col fondo, si verificano solo per un determinato periodo in rapporto soprattutto alla deposizione. Anche il pesce azzurro, che abbiamo precedentemente visto, è composto da specie pelagiche.

Tra le specie di questo gruppo, quelle commercialmente più importanti sono: il nasello, la ricciola e il pesce spada.

a) b) c)

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La ricciola (Seriola dumerilii) (Figura 26a)è una grande nuotatrice e un abile predatore grazie ai movimenti veloci e fulminei e all’apparato boccale, particolarmente grande. Vive in piccoli branchi e si ciba di pesci e molluschi. Può raggiungere la dimensione record di 2 m, ma comunemente si trova intorno ai 50 – 80 cm. Gli adulti si muovono in mare aperto, mentre i giovani vivono nei pressi della costa. Giovani e adulti differiscono nell’aspetto tanto che sono stati considerati due specie diverse per lungo tempo: i giovani sono di colore giallo, con macchie verticali scure che dal dorso scendono lungo i fianchi, gli adulti hanno il dorso grigio con riflessi azzurri, più sbiadito sui fianchi.

È un pesce assai curioso e viene catturato principalmente con reti a circuizione e l’ausilio delle lampare.

Il pesce spada (Xiphias gladius) (Figura 26b), è un pesce pelagico di notevoli dimensioni, può infatti raggiungere i 4 m e mezzo di lunghezza e i 500 Kg di peso, anche se nei nostri mari raggiunge al massimo i 3 m di lunghezza (esclusa la spada) e un peso di 350 Kg. La “spada” è il prolungamento della mascella superiore, ha bordi taglienti ed è circa 1/3 della lunghezza totale; viene usata come arma di difesa e come mezzo per procacciarsi il cibo. È un pesce solitario che si trova difficilmente in coppie e di rado in piccoli gruppi. Caratteristica è la pinna caudale a mezzaluna, molto robusta ed adatta al nuoto veloce. Si nutre soprattutto di cefalopodi e pesci e compie grandi migrazioni. Durante il periodo riproduttivo, che in Mediterraneo ha luogo tra giugno e agosto, si avvicina alla costa. È questo il principale periodo in cui viene catturato in Toscana con i palangari derivanti. Il suo carattere fiero e aggressivo richiede a volte una vera lotta per riuscire a issarlo a bordo dell’imbarcazione.

Il nasello (Merluccius merluccius) (Figura 26c), è anche noto come merluzzo. È un è un predatore molto vorace dotato di denti aguzzi e taglienti. La dieta cambia con l’età: gli adulti si nutrono principalmente di pesci (soprattutto acciughe, clupeidi e gadidi) e calamari, mentre i giovani preferiscono i crostacei (decapodi, eufasiacei e anfipodi). In caso di scarsità di prede, alcuni giovani hanno mostrato fenomeni di cannibalismo. Nel Mediterraneo può raggiungere gli 80 cm di lunghezza, ma in Atlantico può superare il metro. Si riproduce per tutto l’anno con un picco in inverno in zone ben definite e comunque sempre in acque profonde tra i 100 e i 300 metri. La specie è considerata un depositore parziale, poiché le femmine emettono 4 o 5 volte consecutive. È in realtà una specie necto-bentonica, presente in tutti i mari italiani, dove vive a profondità variabili da 70 a 700 m, ma la distribuzione batimetrica del nasello cambia in relazione all’alimentazione ed alla riproduzione.

La specie è sottoposta a un intenso sfruttamento e vengono catturati soprattutto gli individui più giovani con le reti a strascico, perché gli adulti si trovano a maggiori profondità.

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Figura 26: a) Seriola dumerilii; b) Xiphias gladius; c) Merluccius merluccius.

I pesci bentonici vivono in stretta relazione con il fondale, o semplicemente per il tipo di alimento (nuotano sempre in prossimità del fondale, cibandosi di animali bentonici), oppure possono essersi adattati al substrato che non viene mai lasciato (vivono poggiati sul fondale mimetizzandosi con esso). Quelli che vivono su fondi molli spesso hanno una forma appiattita per nascondersi sotto la sabbia; le specie di fondi duri vivono nascoste in anfratti o si confondono con l’habitat circostante e possono perciò avere una colorazione molto vivace ma mimetica.

I pleuronectiformes sono teleostei caratterizzati dall’avere il corpo asimmetrico e gli occhi su un solo lato. A questo gruppo appartengono i rombi e le sogliole (Figura 27). Sono più di una le specie commerciali e hanno abitudini simili, ma la classificazione e la distinzione delle specie di sogliola non è ancora completamente definita. Questi animali trascorrono gran parte del giorno mimetizzandosi con il fondo sabbioso, in cui rimangono infossati immobile per sfuggire ai predatori, divenendo però nelle ore notturne un attivo cacciatore. Il suo spettro alimentare è piuttosto ampio e contempla piccoli pesci, policheti, molluschi e crostacei.

La sogliola è oggetto di intensa pesca professionale, e viene catturata con reti a strascico, ma soprattutto con attrezzi da traino. In Toscana però le catture avvengono principalmente in inverno, durante la stagione riproduttiva, con reti a imbrocco.

Figura 27: Una delle specie commerciali di rombo ( a) Bothus podas) e di sogliola ( b) Solea solea).

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La rana pescatrice (Lophius piscatorius) e gli scorfani (Scorpaena porcus, Scorpaena scrofa, Helicolenus dactylopterus, rispettivamente scorfano nero, rosso e di fondale) (Figura 28), sono tutti predatori per lo più all’agguato: attendono nascosti che una preda si avvicini per poi catturarla con un rapido scatto. La rana pescatrice utilizza anche una sorta di esca: il primo raggio della pinna dorsale dotato di un ciuffetto lobato. Essa predilige habitat sabbio-fangosi e detritici, mentre gli scorfani vivono preferibilmente su fondali rocciosi dove possono efficacemente mimetizzarsi con l’ambiente circostante. Il diverso habitat comporta che la prima venga catturata preferibilmente con le reti a strascico, i secondi con i tremagli.

Figura 28: a) Lophius piscatorius b) una delle specie di scorfano commerciali Scorpaena scrofa.

Il dentice (Dentex dentex) ha una caratteristica peculiare, cioè avere 4 grossi canini ben evidenti su entrambe le mascelle. È infatti un predatore che si nutre di molluschi cefalopodi e di pesci. Può raggiungere il metro di lunghezza e i 12 Kg di peso, ma comunemente si pescano individui di circa 30 cm. La riproduzione avviene in primavera tra marzo e maggio. Pesce solitario vive in prossimità della costa su fondi rocciosi, sabbiosi e in praterie di Posidonia, a profondità variabili dai 15 ai 160 m; solo allo stadio giovanile vive in gruppi preferibilmente su fondi molli e ricchi di alghe. Fa parte dei cosiddetti pesci bianchi, quelli cioè che vengono definiti “pregiati” per la delicatezza delle carni e il basso contenuto lipidico, e viene catturato con reti da posta e palangari.

Le triglie di fango (Mullus barbatus) e di scoglio (Mullus surmuletus) (Figura 29), con i barbigli forcuti protesi in avanti e provvisti di organi gustativi e tattili, cercano muovendo il fondo, molluschi, crostacei e vermi; i giovani invece si nutrono di piccoli invertebrati bentonici. Possono raggiungere i 40 cm anche se in genere si trovano individui più piccoli, e raggiungere i 400 m di profondità. Pescate sia con reti a strascico che da posta, le triglie di scoglio sono in genere più apprezzate.

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Figura 29: a) Mullus barbatus; b) Mullus surmuletus.

3.4

Interazioni tra la pesca e i cetacei

I primi incontri tra l’uomo e i cetacei, si perdono nella notte dei tempi: la prima raffigurazione artistica di un cetaceo è l’antica immagine di un’orca scolpita nella roccia sulla costa della Norvegia settentrionale, circa 9.000 anni fa. Nei secoli successivi, le balene sono diventate nell’immaginario comune dei mostri spaventosi, probabilmente a causa delle loro dimensioni, mentre i delfini hanno suscitato sempre maggiore simpatia. Su di loro sono state scritte leggende, gli sono state attribuite qualità divine ed è stata riconosciuta loro una intelligenza quasi umana. I greci avevano dei delfini una stima così grande che ucciderli equivaleva a uccidere un uomo ed entrambi i crimini erano puniti con la morte (Carwardine et al., 1999). In seguito però le cose cambiarono decisamente e, anche se non si conoscono le origini dell’attività baleniera in occidente, le prime cacce su larga scala risalgono al 1200 ad opera dei Baschi. Le antiche popolazioni dell’Alaska invece, cacciano balene addirittura da più di 2.000 anni. Gli odontoceti, ad eccezione del capodoglio, non sono mai stati oggetto di sfruttamento intensivo in Europa, ma in Giappone e nelle Isole Fær Øer, dove la caccia al Globicefalo risale al 1584, le catture continuano ancora oggi (Carwardine et al., 1999).

Anche le interazioni cetacei-pescatori, sembrano discendere da ere lontane: in Mauritania ancora oggi gli Imragen, vivono quasi esclusivamente di pesce, spostandosi di continuo a seconda dei banchi di cefali. Quando ne viene avvistato uno, tutta la tribù inizia a battere l’acqua con dei bastoni. I delfini percepiscono il segnale e arrivano in gran numero incalzando i cefali verso riva dove si ammassano e vengono facilmente catturati con le reti. Questa tecnica, in base ai ritrovamenti archeologici, risale al 3000 a.C. Anche nell’antica Grecia, i delfini inseguivano i pesci fino a spingerli nelle reti e nel 1734 Charles d’Aigrefeuille racconta

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nel suo “Historie de la ville di Monpellier” della lunga collaborazione tra cetacei e uomini lungo le coste francesi. Ancora oggi nell’Amazzonia brasiliana, lungo il corso del fiume Tepegos, i pescatori chiamano con un fischio il boto (Inia geoffrensis) che localizza i banchi di pesce nelle acque limacciose aiutando gli uomini a catturarli (Augier, 2000).

Questa collaborazione non si ritrova solo in posti lontani e remoti, anche i pescatori di Ischia Ponte e di Forio testimoniano una cooperazione nella pesca che non si è ancora persa nei ricordi: il delfino comune o “fera bbona” era distinto dalla “fera malamente” (Stenella) e dal “ferone” (Tursiope), ed era prescelto dai pescatori per la sua abilità nella pesca alla costardella, che ancora oggi accerchia e raduna in palle fittissime prima di attaccare e inghiottire fulmineamente. I pescatori, approfittando della situazione, stendevano la rete a cerchio e raccoglievano il frutto delle fatiche dei delfini che venivano poi ricompensati con una manciata di pesce (Mussi et. al. 2003). Questo tipo di interazione tra delfino comune e pesca locale è stata registrata nel Golfo di Napoli sin dagli inizi del XX secolo (Brunelli, 1932; Police, 1932), e lo stesso vale per la Toscana.

Nell’ articolo del 1932 di Brunelli infatti, è scritto che, nel Golfo di Napoli, esistevano due tipologie di delfini: le fere (Delfino comune), che aiutavano i pescatori nelle fasi di pesca, spingendo i pesci nelle reti e i feroni (Tursiope), che mangiavano nelle reti dei pescatori rompendole in modo irreparabile. Attualmente, la principale interazione tra la pesca e questi animali sembra essere proprio l’alimentazione opportunistica sulle reti, che viene chiamata

depredation. Il problema, come dimostra l’articolo di Brunelli, risale agli inizi del Novecento,

ma le testimonianze degli operatori della pesca, indicano che questo comportamento è sempre più diffuso, tanto da essere diventato un problema serio. Il numero di ricerche volte alla comprensione del fenomeno infatti, sono in aumento. Le implicazioni che muovono gli studiosi spaziano dallo studio dei motivi che inducono i mammiferi marini ad adottare questo comportamento alimentare (e.g. l’impoverimento degli stock ittici per eccessiva pressione di pesca), alla valutazione del danno economico sofferto dagli operatori della pesca. Il problema non è solo italiano, ma è diffuso ormai in tutti i mari del mondo (Silvani et al.,1992, Broadhurst, 1998; Casale et al.,1999).

Nel Mediterraneo la specie che più spesso sembra essere coinvolta è il Tursiope, a causa delle sue abitudini costiere e della dieta generalista. La specie infatti ha una distribuzione cosmopolita e le sue prede cambiano in relazione alla disponibilità dell’area che frequenta, così come le tecniche di caccia. Ciò comporta che spesso le sue prede sono specie demersali, che sono anche l’obiettivo della pesca. La dieta del Tursiope è prevalentemente ittiofaga

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(cefali, anguille, acciughe, sardine, sgombri, aringhe, triglie, ecc…), ma anche calamari, seppie, polpi e all’occorrenza crostacei e altri invertebrati del benthos.

Gli attrezzi che subiscono maggiormente il saccheggio da parte dei delfini sono le reti da posta (tremagli e reti a imbrocco) (ICRAM). La diminuzione del pescato, e del guadagno, è dovuta a più cause concomitanti:

• il prelievo del pesce ammagliato;

• il danneggiamento del pescato sulla rete: la mutilazione dei pesci, rende la cattura non più commerciabile; ciò si traduce, quindi, in un mancato guadagno per il pescatore alla pari del caso della sottrazione degli esemplari interi (Figura 30);

• la creazione di buchi che consentono la fuga dei pesci;

• la presenza dei delfini in prossimità della rete; la vicinanza dei predatori farebbe infatti allontanare le prede (obiettivo anche della pesca); pur difficilmente dimostrabile e quantificabile, questa causa può essere reale e contribuire ad inasprire i conflitti.

Figura 30: Due immagini di pescato danneggiato dai Tursiopi (da Lauriano et al., 2004)

Mussi e Miragliuolo nel 2003 hanno osservato i Tursiopi dell’Isola di Ischia avvicinarsi a turno alla rete, incuranti del disturbo arrecato dall’osservatore in acqua, e afferrare il pesce già ammagliato; quindi si avvitavano rapidamente sul proprio asse, riuscendo a strappare la preda che veniva infine inghiottita insieme a brandelli di rete. Casale nel 2001 ha stimato che in Adriatico, nella pesca alle sogliole, in presenza di danni alle reti c’è una diminuzione del 65,4% delle catture e una conseguente perdita economica stimata in 9.000 € per imbarcazione, escluso il costo di manutenzione della rete.

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Poiché la piccola pesca è quella che registra i maggiori disagi, gli studi si sono concentrati su di essa e meno sulle altre tecniche che comunque non sono risparmiate. Lo studio di Casale (2001) infatti, ha dimostrato anche che nel 72,5% delle cale con reti a strascico era presente T. truncatus, che sembrava interessato a una preda in particolare: il moscardino (Eledone moschata). Le catture di questo cefalopode infatti, diminuiscono drasticamente in presenza dei delfini. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che, secondo quanto documentato da Broadhurst (1998), i Tursiopi che si alimentano sulle reti a strascico, una volta raggiunto il fondo nuotano nei pressi dell’estremità del sacco e, usando il rostro, forzano le maglie allargando i fori senza peraltro rompere la rete, sfilando così la preda. L’operazione è maggiormente facilitata nella cattura dei molluschi cefalopodi che possono già sporgere dal sacco con i tentacoli e, grazie al loro corpo molle, essere agevolmente sfilati tra le maglie della rete. Il fatto che raramente questo tipo di rete catturi un delfino, avvalora la tesi che l’attività alimentare si compie prevalentemente nei pressi del sacco terminale e non presso l’apertura della rete.

Gli animali per tutta la durata della cala, effettuano immersioni prolungate, presumibilmente per andare a catturare le prede in prossimità del fondo. Durante le operazioni di recupero della rete poi, l’intero branco si mantiene nelle sue vicinanze, fino ad arrivare a breve distanza dal peschereccio in attesa che lo strascico venga nuovamente calato e il banchetto possa ricominciare (Casale, 2001) (Figura 31).

Figura 31: Tursiopi in attesa nei pressi di un peschereccio a strascico che ha appena recuperato il sacco.

Per la circuizione, infine, non ci sono dati sull’effetto della depredation. I pescatori toscani però hanno riscontrato un aumento dei danni subiti dalle reti, oltre a denunciare un calo delle

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catture dovuto alla dispersione del pesce faticosamente raggruppato sotto le luci, ad opera dei delfini che si buttano nel banco.

La pesca risulta essere ancora oggi per i cetacei, una delle principali cause di morte legate all’attività umana. Il problema è dovuto al bycatch: la cattura accidentale nelle reti che può impedire agli animali di tornare in superficie a respirare e causarne così la morte per annegamento; in altri casi la rete può avvolgersi intorno al corpo ostacolando i movimenti e quindi l’alimentazione.

Il problema ha raggiunto l’apice verso la fine degli anni Ottanta con la diffusione delle reti derivanti pelagiche dette “spadare”, che garantivano alte rese economiche. Queste reti, come si intuisce dal nome, servivano alla cattura del pesce spada, particolarmente apprezzato dai consumatori, anche per il basso contenuto in grassi e la digeribilità. Le caratteristiche strutturali e funzionali proprie di questo attrezzo da pesca, sono le cause principali dell’elevato impatto sui cetacei:

• sono collocate nello strato superiore del mare che i delfini devono attraversare per poter emergere a respirare;

• si spostano in base alle correnti, risultando così molto instabili: si possono improvvisamente spostare e catturare un delfino che si trova nelle vicinanze;

• sono lunghe mediamente 12 - 15 Km fino ad un massimo di 40.

Le preoccupazioni per gli elevati livelli di cattura, stimati dall’International Whaling Commission (1990) in circa 8.000 esemplari l’anno, raggiunsero oltre che gli studiosi del settore, anche l’opinione pubblica. Forte preoccupazione fu espressa dall’IWC per i tassi di cattura della Stenella e del Capodoglio, ritenuti insostenibili per la sopravvivenza delle popolazioni.

In Italia il primo atto legale che cercò di affrontare il fenomeno del bycatch, è stata l’emissione del Decreto della Marina Mercantile del 18 luglio 1990, che istituiva una zona di tutela biologica nel triangolo Antibes, Capo Corso e Punta del Mesco e vi vietava l’uso delle reti pelagiche derivanti a tutte le imbarcazioni battenti bandiera italiana. In seguito le spadare sono state vietate a partire dal 2002 in tutto il Mediterraneo da un decreto europeo. Oggi, quindi, il problema delle catture accidentali di cetacei in attrezzi da pesca è stato fortemente ridotto nel Mar Mediterraneo, ma non è ancora scomparso del tutto. Il problema riguarda infatti, anche se in maniera molto meno grave, altri tipi di reti derivanti sia in Mediterraneo che al di fuori,

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tanto che la Commissione Europea, ha decretato che tutte le reti da posta derivanti, andranno gradualmente riducendosi a partire dall’1 gennaio 2005 fino al divieto totale entro l’1 gennaio 2008.

Anche in altri attrezzi da pesca possono accidentalmente restare catturati dei cetacei, sebbene con frequenze più basse. Magnaghi e Podestà (1987) riportano il caso di 8 Stenelle rimaste intrappolate in una rete a circuizione per tonni (tonnara volante) nel Mar Ligure, e sottolineano come l’evento sia abbastanza frequente, soprattutto in oceano. Van Waerebeek et al. nel 1994, hanno pubblicato uno studio nel quale analizzavano il tasso di mortalità di alcune specie di piccoli cetacei a causa di catture volontarie e involontarie con tremagli, tonnare volanti e arpioni. Lo studio di Lopez (2003) nelle acque della Galizia, infine, ha messo in evidenza la presenza di un pericolo reale che viene sia dalle reti da posta, che da quelle a strascico. La ricerca si è basata anche sull’analisi degli individui ritrovati spiaggiati, di cui il 22% circa mostrava chiari segni di catture in una rete.

Una verifica sugli spiaggiati fatta nelle acque italiane, ha messo in evidenza che, anche da noi, tra le cause note di spiaggiamento, la pesca è al primo posto (Podestà & Bortolotto, 2001). Capire cosa ha portato un cetaceo alla morte non è facile, perché questi animali vanno in contro a decomposizione molto rapidamente, ma collegare la loro morte agli attrezzi da pesca è piuttosto semplice. In genere le reti o gli ami dei palangari in cui restano impigliati, vengono ritrovate ancora addosso all’animale, oppure si vedono chiaramente i segni che lasciano sui loro corpi (Figura 32a); anche individui ritrovati con amputazioni delle pinne, possono essere ricondotti alla cattura in un attrezzo da pesca, poiché i predatori si nutrono delle carni, mentre i pescatori quando ritrovano un animale nelle loro reti, spesso sono costretti a tagliarli le pinne per riuscire a liberarli e recuperare il loro strumento di lavoro (Figura 32b). Spesso poi, praticano un lungo taglio nella regione ventrale, in modo da favorire l’affondamento dell’animale e impedire così che venga recuperato. A volte addirittura viene legato un peso alla coda, per avere un ulteriore garanzia che il corpo si inabissi. Infine, vengono ricondotti alla pesca anche i cetacei morti a causa di un foro di proiettile, di un arpione o di una fiocina. I pescatori, spesso, vedono i delfini come dei competitori che, oltre a rubar loro il pesce dalle reti, le danneggiano anche in modo grave. Così a volte, esasperati, probabilmente in un eccesso d’ira, cercano di farsi giustizia da soli e di risolvere il problema in questo modo.

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Figura 32: Un esemplare di Tursiope spiaggiato con chiari segni di una cattura in reti da pesca (a) e con i lobi caudali amputati (b).

Figura

Figura 12: Schema di un tremaglio (dal sito della federcoopesca).
Figura 13: Schema di una rete a imbrocco (dal sito della federcoopesca).
Figura 15: Schema di un palangaro derivante o di superficie (dal sito della federcoopesca)
Figura 16: Schema di vari tipi di nasse (dal sito Mare in Italy).
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