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La fattibilità economica delle soluzioni negoziali nel codice della crisi

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Academic year: 2022

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ANNA PAPPALARDO

La “fattibilità economica” delle soluzioni negoziali alla crisi nel codice del 2019

Sommario: 1. Introduzione. 2. Cenni sul controllo di legittimità e di merito nella Legge del 1942 e nella disciplina precedente. 3. Il divieto del controllo di merito e la latitudine del controllo di legittimità nella riforma 2006/2007. 4. Le Sezioni Unite n. 1521/13: la riesumazione del controllo di merito nell’ipotesi di abuso del diritto. 5. L’espansione del controllo di legittimità: soglia minima del 20% per i chirografari nel concordato preventivo liquidatorio (l. 6 agosto 2015 n.132). 6. Le soluzioni negoziali della crisi alla luce del Codice del 2019 ed il concetto di fattibilità economica. 7. La nozione di “fattibilità economica”. 8. Il problema di coordinamento con la direttiva europea 2019/1023. 9. Conclusioni.

1. Introduzione

Il concetto di “fattibilità economica” è nozione problematica, poiché il concetto non trova alcuna puntuale definizione all’interno del nuovo Codice del 2019 (d. lgs. 12 gennaio 2019, n.14). Il concetto non si rinveniva nella vecchia Legge fallimentare, che utilizzava casualmente la nozione in riferimento al concordato preventivo e, seppur con una terminologia formalmente diversa, ma nella sostanza di egual contenuto, agli accordi di ristrutturazione dei debiti. Neppure si poteva contare su un accenno nella legge sulle procedure di regolazione della crisi da sovraindebitamento (l. 27 gennaio 2012 n. 3), che pure utilizzava il termine “fattibilità” per indicare uno dei requisiti dell’accordo di composizione della crisi e del piano del consumatore.

Al contrario, e con una portata totalmente innovativa, il Codice richiama in molte norme la “fattibilità economica” o semplicemente la “fattibilità”, sempre con riguardo alle soluzioni negoziali; ma nonostante la frequenza nell’utilizzo del termine, non si preoccupa di fornirne una definizione (come pure avrebbe potuto nella norma definitoria generale, l’art. 2 del Codice).

Questo spunto critico deve essere sottolineato, poiché il legislatore ha assunto, oggi con portata generale, la fattibilità economica come requisito imprescindibile per l’ammissibilità e l’omologazione degli strumenti di regolazione negoziale della crisi dell’impresa e della crisi da sovraindebitamento, ma senza dare il benché minimo riferimento normativo su cosa, sul piano formale e positivo, voglia intendere.

Nella vigenza della Legge fallimentare, il termine “fattibilità” venne introdotto per la prima volta con l’entrata in vigore del d.l. 35/2005, poi convertito nella l. 14 maggio 2005, n.80, al terzo comma dell’art. 161 l.f., laddove si prevedeva che, unitamente alla proposta di concordato preventivo ed al relativo piano, dovesse accompagnarsi la relazione di un professionista (c.d. professionista attestatore) che ne certificasse “la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo”.

La stessa legge introdusse - seppur non utilizzando il termine “fattibilità” - anche l’art. 182 bis l.f., dedicato ai nuovi accordi di ristrutturazione dei debiti, stabilendo che l’accordo raggiunto con i creditori, ai sensi del citato

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art. 182 bis cit., dovesse essere depositato in Tribunale, per l’omologazione, “unitamente ad una relazione redatta da un esperto sull'attuabilità dell'accordo stesso”.

Al di là di questi due riferimenti, in nessun’altra norma della Legge fallimentare è mai più comparso il termine

“fattibilità” o “attuabilità”, o qualsiasi altro riferimento ad una loro definizione.

Partendo dall’art. 182 bis cit., si poteva pensare che la fattibilità (o attuabilità) fosse legata all’aspetto economico del piano, in quanto la stessa norma prevedeva, altresì, che questa dovesse essere valutata “con particolare riferimento alla sua (ndr dell’accordo) idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei”; si introduceva perciò, alla stregua di un giudizio sulle prospettive di buona riuscita dello strumento negoziale, nel senso di ritenere altamente o quasi certamente probabile che, così come congeniato, il programma di pagamento presentato dal debitore, ed approvato dai creditori, potesse essere correttamente adempiuto.

Proprio partendo da tale assunto, sia la dottrina, sia la giurisprudenza, elaborarono concetti del tutto similari (1), arrivando a definire la fattibilità del piano come un “giudizio prognostico sulla concreta realizzabilità della forma e della misura di soddisfacimento dei creditori individuata nella proposta di concordato preventivo”(2).

Di analogo avviso furono dottrina e giurisprudenza espressesi con riguardo all’”attuabilità” ex 182 bis cit., definendola in termini di concrete possibilità di far fronte alle obbligazioni assunte con l’accordo. Entrambi i concetti vennero, analogicamente, utilizzati successivamente anche nelle interpretazioni dei relativi termini per le procedure da sovraindebitamento.

Le elaborazioni concettuali proposte nel corso degli anni, si sono rivelate indispensabili, soprattutto a seguito delle riforme degli anni 2006/2007 che, com’è noto, hanno rivoluzionato gran parte dello storico assetto del diritto concorsuale. Tali interventi legislativi hanno tentato di privilegiare le soluzioni concordate della crisi, mediante una notevole contrazione della ingerenza del potere giudiziario nelle vicende contrattuali, nel segno di una maggiore prevalenza dell’autonomia privata delle parti, così cercando di relegare il fallimento ad extrema ratio: per ultimo e per forza, quando si è tentata ogni strada per risollevare l’impresa in crisi, prima della definitiva insolvenza.

La contrazione dei poteri, in particolare del Tribunale, si manifestava soprattutto nella soppressione del controllo obbligatorio di merito sul piano concordatario, al momento dell’omologazione, rimasto, dopo le riforme, soltanto eventuale, perché riferito a casi particolari. Il problema non si è posto per gli accordi ex art.

182 bis, dal momento che la stessa legge introduttiva della norma, era anche quella che soppresse il controllo

1 In dottrina, ex multis: MANZONETTO, Il nuovo diritto fallimentare. Commentario diretto da Jorio, Bologna, 2007, 2341;

PAJARDI, PALUCHOWSKY, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 830 ss. In giurisprudenza, fra i primi: Trib. Milano, 9 febbraio 2007, in Fall. 2007, 1218 e Trib. Bologna 17 novembre 2005, in G. mer. 06, I, 658.

2 AUDINO, Commentario breve alla Legge fallimentare, sub art. 161, a cura di Maffei Alberti, ed. VI, Padova, 2013, 1082

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obbligatorio di merito nel concordato.

Si sono dovute, però, attendere le Sezioni Unite (3) per ottenere, finalmente, una analitica definizione del concetto di “fattibilità”, addirittura con una distinzione interna tra “fattibilità giuridica” e “fattibilità economica”, oltre che una precisa delimitazione dei limiti al relativo sindacato del Tribunale.

Orbene, arrivati al 2019, con quasi quindici anni alle spalle di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, il legislatore del Codice, se da un lato ha recepito quelli che sono stati gli orientamenti consolidati della giurisprudenza in ordine all’ambito di controllo del Tribunale, dall’altro ha mancato di inserire, per l’ennesima volta, nel corpo normativo, una descrizione del concetto di “fattibilità”, talché l’interprete è costretto a rifarsi ancora alle elaborazioni del passato.

Con la differenza che, ad oggi, il termine “fattibilità” puramente e semplicemente, o “fattibilità economica”, o addirittura “fattibilità economica e giuridica”, viene utilizzato in molte disposizioni del Codice: all’art. 44, comma primo, lett. a) e l’art. 87, comma secondo, cod., dove si richiede l’attestazione del professionista sulla fattibilità del piano concordatario; gli artt. 47, comma primo, e 48, comma terzo, cod., dove si prevede che il Tribunale, rispettivamente in sede di ammissione ed in sede di omologa, valuti la fattibilità economica del piano; gli artt. 56, comma quarto e 57 comma quarto, cod., richiedono l’attestazione del professionista sulla fattibilità economica e giuridica del piano attestato di risanamento e degli accordi di ristrutturazione; l’art. 70, comma settimo, cod. prevede un controllo del Giudice monocratico sulla fattibilità economica del piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore, prima dell’omologa; all’art. 72, comma secondo, si prevede la revoca del suddetto piano qualora “sia divenuto inattuabile”; infine, l’art. 80, comma primo, cod., prescrive al Giudice la verifica della fattibilità economica del concordato minore.

Com’è evidente, il Codice utilizza svariate volte il concetto - latu sensu - di “fattibilità”, peraltro con diciture anche parzialmente diverse; il che non è di poco conto, visto che di nessuna di queste viene data una definizione che faccia, eventualmente, capire la ratio dietro cui si celano le diverse scelte terminologiche e, di conseguenza, il corretto significato da attribuire loro, anche per avere una chiara delimitazione dei nuovi limiti - se esistenti - di controllo da parte degli organi giudiziari.

All’interprete, quindi, oggi come in passato, il gravoso compito di ricercare il perimetro entro cui si estende l’ampio concetto di “fattibilità” del piano concordatario, anche quello minore, e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, anche del consumatore.

2. Cenni sul controllo di legittimità e di merito nella Legge del 1942 e nella disciplina precedente

3 Cass. SSUU, 23 gennaio 2013, n. 1521, in Riv. es., 2013, 2, 345

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Il ruolo del Tribunale in merito al sindacato sugli strumenti negoziali di regolazione della crisi è stato, nel tempo, oggetto di svariati cambiamenti ad opera del legislatore.

Nel Codice del Commercio del 1882, vi era la previsione del solo concordato incidentale e della c.d. “moratoria fallimentare”; quest’ultima era il solo strumento convenzionale che poteva essere esperito ancor prima della dichiarazione di fallimento, come si dirà meglio in seguito, ma anche successivamente. Si trattava, essenzialmente, di una richiesta del debitore di sospensione della esecutività della sentenza dichiarativa di fallimento - per una durata massima di sei mesi - che poteva essere concessa verificate talune condizioni in merito alle ragioni del dissesto economico del debitore ed accertato che l’attivo della massa fosse superiore alle passività, o che comunque venissero date idonee garanzie al riguardo, e purché il debitore provvedesse al deposito delle scritture contabili richieste (art. 819 cod. comm.). Attraverso tale strumento, il debitore aveva facoltà di procedere lui stesso alla liquidazione dell’attivo, sulla base di un’intesa con i rappresentanti dei creditori (c.d. commissione dei creditori, assimilabile all’odierno comitato dei creditori), sotto la vigilanza del Giudice delegato (art. 823 cod. comm.). Vi era, nel Codice, un’unica previsione espressa di controllo di natura formale, da parte del Tribunale, all’atto della presentazione della domanda, e cioè la verifica della allegazione dei libri contabili, del bilancio e dell’elenco completo dei creditori: si poteva parlare di una vera e propria fase di ammissione poiché, solo se il controllo avesse dato esito positivo, si procedeva alla convocazione dell’udienza per discutervi (art. 820 cod. comm.). È tuttavia da ritenersi che dovesse esercitarsi un controllo anche sugli altri requisiti richiesti dalla norma e che, per la natura degli elementi indicati, non poteva che essere di merito (in particolare, l’analisi delle cause del dissesto e della prevalenza dell’attivo sul passivo, o la concretezza delle garanzie eventualmente offerte, comportano per definizione di entrare nel merito delle vicende).

Inoltre, era prevista la possibilità che, in itinere, intervenisse un accordo fra debitore e creditori, destinato a soppiantare le precedenti modalità liquidatorie self - made; e questo, sia nel caso in cui la moratoria fosse stata chiesta prima della dichiarazione di fallimento (sistema che molto ricordava l’odierno concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti), sia che fosse stata chiesta successivamente (come nel concordato incidentale, ma a differenza di questo, doveva esaurirsi nel termine massimo di sei mesi). La moratoria, infatti, era l’unico rimedio che il debitore potesse utilizzare, prima che intervenisse la sentenza di fallimento, per avere una qualche autonomia nel definire la propria liquidazione, purché fossero integrate le condizioni, già esaminate, dell’art. 819 cod. comm. e, naturalmente, si trovasse in stato di crisi. Tuttavia, solamente qualora la moratoria fosse stata richiesta a fallimento già dichiarato, il Tribunale, di fronte ad un eventuale accordo tra debitore e creditori medio tempore intervenuto, doveva procedere ad omologarlo, senza, tuttavia, procedere a dei controlli sulla regolarità formale o sostanziale della proposta o sul merito della stessa (art. 825 cod. comm.).

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Quindi, veniva demandata ai creditori qualsiasi valutazione inerente al merito dell’accordo, mediante il vaglio dell’approvazione. Addirittura, nel caso di moratoria antecedente alla dichiarazione di fallimento, non era neanche necessaria una omologazione dell’eventuale accordo: semplicemente il Tribunale, all’atto della presentazione della domanda, verificata la sussistenza delle condizioni di cui al citato art. 819, e seguendo il procedimento di cui all’art. 820 cod. comm., con sentenza concedeva la moratoria, senza ulteriormente intervenire, poi, sulle modalità liquidatorie definite dal debitore, e senza omologare eventuali accordi raggiunti in corso di moratoria.

Per quanto concerne il concordato incidentale, addirittura non era fatta menzione di alcun controllo: in nessuna norma era richiesto che il Tribunale, o il Giudice delegato compissero controlli o accertamenti, anche se è da ritenere che dovessero quantomeno verificare il raggiungimento delle (alte) maggioranze previste per l’approvazione della proposta, giacché erano, dal Codice, richieste sotto pena di nullità (art. 836 cod. comm.).

L’intervento dell’Autorità giudiziaria si riduceva, alla fine, in una mera ratifica dell’accordo, che veniva omologato, unitamente alla definizione di eventuali opposizioni contestualmente proposte.

Per avere una più completa regolamentazione, si è dovuta attendere la l. 24 maggio 1903, n. 197, parzialmente modificata ed integrata poi dalla l. 10 luglio 1930, n. 995, che per la prima volta introdusse lo strumento del concordato preventivo, in sostituzione della vecchia moratoria fallimentare preventiva (anche in considerazione dello scarso successo che ebbe ad avere l’istituto), prevedendo un ruolo del Tribunale assai più esteso rispetto al passato. Questi, infatti, era tenuto ad effettuare un duplice controllo sulla proposta e sul piano, apparentemente analogo, sia in fase di ammissione sia in fase di omologa. La ragione di una simile previsione risiedeva nel fatto che, già a quel tempo, e probabilmente poiché si poneva come “rivisitazione” della vecchia moratoria preventiva, il concordato era concepito come una soluzione amicale all’alternativa fallimentare, da utilizzarsi, però, come strumento premiale per l’imprenditore che, colpito dalle incognite negative del mercato, era stato

“sfortunato, ma onesto”; sicché, nella logica di benefit, il concordato non poteva essere concesso con tanta leggerezza all’imprenditore che comunque si trovava in uno stato di dissesto economico e finanziario più o meno conclamato e che - proprio per questo, per definizione - doveva essere eliminato dal panorama economico (e quindi dichiarato fallito). Penetranti controlli erano all’uopo necessari.

La legge ribadiva la necessità di alcune condizioni di carattere personale del debitore (regolare tenuta delle scritture contabili e mancanza di colpa nelle cause del dissesto), e ne introduceva anche di carattere patrimoniale (attinenti alla proposta di concordato, diverse da quelle precedentemente richieste per la moratoria) in mancanza delle quali la procedura non poteva essere aperta. Nella fase di ammissione, quindi, era demandato all’Ufficio il compito di accertare la sussistenza di questi requisiti. Vennero per la prima volta inseriti limiti contenutistici al piano di concordato (in particolare, la garanzia del pagamento di almeno il 40%

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dei creditori chirografari, poi ripresa anche dalla Legge del 1942), che il Tribunale era tenuto a vagliare, come previsto espressamente, in sede di ammissione alla procedura (art. 3 l. 197/1903). Quanto al giudizio di omologa, si prevedeva che, sempre il Tribunale, verificasse l'osservanza delle formalità legali richieste per la regolarità del concordato e la c.d. meritevolezza dell’imprenditore, che aveva ad oggetto le sue condotte personali eventualmente in rapporto di causa - effetto con la decozione dell’impresa. Un controllo, questo, che ricordava, ancorché più ampio, quello che veniva svolto nell’ambito della fase di ammissione della moratoria fallimentare, con la differenza che, nel concordato preventivo, veniva espletato in sede di omologa. Un controllo del tutto similare, e fatto in sede di omologa, si ritrovava nelle previsioni del Codice del Commercio relative al concordato incidentale ancorché, in tale contesto, fosse prodromico ad ottenere la cancellazione del nome dell’imprenditore dal registro dei falliti, una volta che il concordato fosse stato correttamente adempiuto (art. 839 cod. comm.), e non già l’omologazione dello stesso.

Orbene, ad un primo sguardo, i controlli che il Tribunale doveva esperire in sede di omologa in relazione alle condizioni di regolarità (alias ammissibilità) del concordato, potevano apparire identici a quelli espletati in fase di ammissibilità: si parlava, infatti, genericamente di una verifica circa l'osservanza delle formalità legali necessarie ad ottenere il concordato. Non vi era - come non lo è stato con la legge del 1942 - una descrizione precisa su quali fossero i limiti del controllo esercitabile in questa sede. Ancora una volta, è stata la dottrina, insieme alla giurisprudenza, che ha tentato di dare delle risposte, così dando vita a due contrapposte teorie: una prima, secondo cui in sede di omologa il Tribunale poteva compiere un riesame completo delle condizioni personali e patrimoniali di ammissibilità alla procedura. In sostanza, ripetere daccapo tutti gli accertamenti già compiuti dallo stesso Tribunale - e non dal Giudice delegato- in fase di ammissione. Una seconda, al contrario, non riteneva possibile un riesame in sede di omologazione poiché, pur non formandosi il giudicato sul decreto di ammissione alla procedura, a seguito dell’approvazione da parte dei creditori, si sarebbe formata una sorta di preclusione che avrebbe impedito al Tribunale ogni altra verifica su condizioni ulteriori rispetto a quelle sufficienti al concordato. (4)

Questa seconda teoria si reggeva su di una interpretazione della legge - sia la 197/1903, sia la 995/1930 - nel senso che avesse voluto prevedere che in fase di ammissione il controllo del Tribunale avesse ad oggetto le soli condizioni di ammissibilità, mentre in fase di omologazione sarebbe stato consentito anche un controllo di merito, evitando un inutile doppio controllo sulle medesime questioni. E solamente tale assunto avrebbe potuto giustificare la presenza di due tipi di controllo assolutamente identici prima facie.

In ogni caso, per cercare di colmare la vaghezza normativa, venne proposta una distinzione tra i requisiti del

4 CARBONI, Il processo di omologazione del concordato preventivo, Padova, 1994, 157 ss.

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concordato: quelli “necessari", formali, attinenti alla persona dell’imprenditore ed alla regolarità dell’impresa, oltreché all’osservanza delle norme in materia di libri contabili, da valutarsi al momento dell’ammissione, e quelli “sufficienti”, di merito, afferenti alla proposta di concordato, e che indagassero anche sulle cause del dissesto e sulla situazione patrimoniale, da valutarsi solamente al momento dell’omologazione.

Probabilmente, la diversificazione dei presupposti, di matrice dottrinale, serviva anche per evitare che in una stessa sede - in particolare, quella dell’ammissione - venissero concentrati troppi controlli, troppi requisiti da valutare, che avrebbero certamente ritardato la decisione del Tribunale (5) (si pensi solo allo svolgimento di una istruttoria - seppur sommaria, trattandosi di rito camerale - avente ad oggetto la verifica delle garanzie offerte per il pagamento dei creditori chirografari). Era senz’altro più auspicabile una ripartizione tra giudizio di ammissione e giudizio di omologa.

Disciplina pressoché analoga si è avuta con la Legga fallimentare del 1942, che ha forse più mirato a riorganizzare la disciplina concorsuale, sparsa in varie legislazioni speciali, in un unico testo, senza tuttavia mancare, naturalmente, di apportare modifiche alle vecchie disposizioni, anche e soprattutto in ragione del mutato contesto politico - economico.

Il Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, venne approvato in pieno ventennio, dove faceva da sfondo una particolare tutela dell’economia nazionale, considerata alla stregua di un bene supremo.

In tale ottica, si è ancor di più accentuata l’idea che l’impresa decotta, o che lo sarebbe stata nel giro di poco tempo, dovesse a tutti i costi essere eliminata dal mercato, onde scongiurare il “rischio” di un contagio a catena.

Di conseguenza, il fallimento assunse la piena centralità nel diritto concorsuale, in cui il concordato - anche quello incidentale - era visto come una “grazia” che lo Stato concedeva all’imprenditore; una seconda chance che poteva aversi solo nel caso in cui la deficienza economica e finanziaria fosse dipesa da eventi assolutamente imprevedibili, dei quali il “bravo imprenditore” fosse rimasto vittima del tutto incolpevole, e purché comunque vi fossero concreti presupposti per ritenere altamente probabile la miglior soddisfazione per i creditori. Il tutto, seppur sempre in un’ottica eliminatoria dell’impresa, ma certo con conseguenze assai meno gravose per l’imprenditore, che ben sarebbe stato in grado di rimettersi nuovamente sul mercato in tempi brevi.

In virtù di questo, vennero dati al Tribunale forti poteri di controllo nel procedimento per la concessione del concordato, preventivo e fallimentare, sia in fase di ammissione che in fase di omologa.

Il vecchio art. 160 l.f. prevedeva, similmente alla l. 197/1903, come requisiti di ammissione al concordato preventivo, elementi di carattere soggettivo (propri dell’imprenditore/impresa, comma primo) ed oggettivo

5 Ne conveniva altresì la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “scopo evidente della legge è stato quello di scongiurare la jattura del fallimento di un’azienda momentaneamente colpita dal dissesto e di rendere possibile la continuazione quando sia meritevole di aiuto; e quella finalità sarebbe frustrata dalle inevitabili lungaggini delle istruttorie.”, Cass. 28 luglio 1930, in Foro it.

1930, I, 1218.

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(relativi alla proposta, comma secondo), in relazione ai quali il Tribunale, all’atto della presentazione della domanda, doveva esercitare un primo controllo. Tutti i requisiti dovevano contemporaneamente sussistere:

laddove anche un solo controllo avesse dato esito negativo, la domanda non poteva essere accolta.

Secondo le previsioni del comma primo, il Tribunale era chiamato a valutare se il debitore, imprenditore commerciale fallibile ai sensi dell’art. 1 l.f., in stato di insolvenza: a) fosse iscritto al registro imprese da almeno due anni o almeno dall’inizio dell’impresa se questa avesse avuto durata inferiore, ed avesse tenuto una regolare contabilità per la durata in questione; b) non fosse stato dichiarato fallito ovvero non fosse stato ammesso ad altra procedura concordataria nei cinque anni precedenti; c) non avesse riportato condanne penali per bancarotta ovvero delitti contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica, l’industria o il commercio. Al comma secondo, l’art. 160 cit., pur conoscendo esclusivamente forme di concordato liquidatorio, introduceva nel sistema due differenti modalità di realizzazione della finalità liquidatoria: tramite pagamento in percentuale (comma secondo, n. 1) e mediante cessione dei beni (comma secondo, n. 2). Quanto al primo, il Tribunale doveva verificare che la proposta prevedesse l’offerta di “serie garanzie reali o personali di pagare almeno il 40% dell’ammontare dei crediti chirografari entro sei mesi dalla data di omologazione” o, se si fosse prevista una durata superiore, che le stesse garanzie venissero offerte per il pagamento degli interessi sulle somme che sarebbero state pagate oltre i sei mesi. Quanto al secondo, si doveva, invece, verificare che la proposta prevedesse la cessione integrale dei beni aziendali e non, e purché, anche in questo caso, si potesse ragionevolmente presumere che i chirografari sarebbero comunque stati soddisfatti almeno per il 40% del proprio credito. In nessun caso erano ammesse falcidie di pagamento per i creditori privilegiati.

L’ambito di indagine del Tribunale, quindi, si conduceva sul piano della legittimità - formale e sostanziale - in relazione alle qualità dell’imprenditore proponente (art. 160, comma primo) e in relazione ai contenuti della proposta che non dovevano essere inferiori ad una certa soglia di soddisfacimento dei creditori chirografari (comma secondo, 160 cit.); non era, tuttavia, richiesto che il controllo si estendesse al piano della “fattibilità” o

“attuabilità” del piano, né che il controllo, in quella fase di ammissione, consentisse di valutare quale soluzione alternativa più favorevole ai creditori fosse preferibile (in particolare l’alternativa del fallimento).

V’è da osservare, però, che l’inciso contenuto nel comma secondo, n.2, secondo cui la valutazione dei beni che venivano integralmente ceduti dovesse fare “fondatamente ritenere che i creditori possano essere soddisfatti almeno nella misura indicata al n. 1 [ndr 40%]” integrasse una sorta di controllo anche in ordine alla attuabilità concreta del concordato; di fatti, se il Tribunale non fosse stato convinto che la proposta avrebbe potuto soddisfare realmente (l’avverbio “fondatamente” evocava la possibilità di una indagine approfondita e basata su

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elementi concreti, quali il reale valore dei beni al momento della presentazione della domanda (6)) i creditori almeno nella misura del 40 %, dichiarava inammissibile la domanda di concordato, dichiarando d’ufficio il fallimento del debitore.

Il procedimento di ammissione si svolgeva con il rito camerale c.d. puro, interamente mutuato dagli artt. 737 ss c.p.c., e si concludeva con decreto non reclamabile, sia in caso di accoglimento che di rigetto della domanda.

Ulteriori e più approfonditi controlli venivano svolti dal Tribunale al momento dell’omologazione del concordato, ai sensi dell’art. 181 l.f.

Una volta rimessa la causa per la decisione, dopo il raggiungimento delle maggioranze previste per l’approvazione della proposta (art. 180 l.f.), il Tribunale, prima di omologare o meno il concordato, doveva effettuare un triplice ordine di controlli, relativi: a) alla sussistenza delle condizioni di ammissibilità; b) alla regolarità della procedura; c) all’omogabilità del concordato in base ai requisiti richiesti dall’art.181 cit. È evidente che, in questa sede, il controllo si effettuasse sul piano tanto della legittimità (sub a e sub b) quanto del merito (sub c).

Quanto a questi ultimi, richiesti dal 181 cit, riguardavano, infatti:

• la convenienza economica del concordato, in relazione all’alternativa del fallimento;

• la serietà delle garanzie offerte o la sufficienza dei beni cedendi per il pagamento dei creditori;

• la meritevolezza del debitore, svincolata da parametri imposti dal legislatore, nell’accezione già propria del Codice del Commercio prima, e della legge 197/1903 poi.

Tutti i tipi di controllo venivano esercitati sempre, a prescindere dalla proposizione di eventuali opposizioni all’omologazione del concordato. Anche in quella sede, sarebbe bastato che soltanto una delle verifiche avesse dato esito negativo per respingere la proposta e dichiarare il fallimento dell’imprenditore.

Ancora una volta, non v’è traccia di alcun riferimento né alla fattibilità del piano né alla attuabilità. Compare, per la prima volta, l’elemento della “convenienza economica”, che non è affatto sinonimo di “fattibilità” o

“attuabilità”: si tratta, infatti, di una valutazione comparativa tra la proposta concordataria - da un punto di vista puramente economico - ed il presumibile risultato di una eventuale liquidazione fallimentare, e non già di un giudizio prognostico sulla concreta possibilità di corretto adempimento del concordato. In altre parole, il concordato era conveniente se avesse apportato un miglior soddisfacimento economico alle ragioni dei creditori - in particolare i chirografari, perché, si ribadisce, era preclusa qualsiasi falcidia ai crediti privilegiati - rispetto all’alternativa fallimentare; ma questa valutazione non si accompagnava ad una indagine circa le possibilità di concretizzare le previsioni del piano. Era un giudizio che si effettuava esclusivamente “sulla carta”, tenendo,

6 Così anche secondo la giurisprudenza di merito: Trib. Piacenza, 13 giugno 1989, Il fall, 89, 1251; App. Firenze, 19 marzo 1953, D.

fall., 53, II, 393.

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tuttavia, presente che questo si accompagnava alla valutazione dei beni ceduti (cfr. art. 160 comma secondo, nn.

2, 3 e art. 181, comma primo, n.3) che, mediante una analisi del loro valore economico allo status quo, era ciò che più si avvicinava ad un giudizio prognostico sul realizzo monetario ottenibile in adempimento del piano concordatario. Sicché, a voler combinare i due giudizi, poteva esserci un minimo di prognosi sulla riuscita del concordato, ma non era prescritto da alcuna disposizione normativa e, si tenga ben presente, restavano comunque due giudizi del tutto autonomi.

Dottrina e giurisprudenza giustificarono, ancora, il doppio controllo di ammissione e di omologa con ragioni di carattere squisitamente processuale. Come ricordato, infatti, in fase di ammissione il giudizio seguiva il rito camerale, concludendosi con decreto non soggetto a reclamo e non idoneo a raggiungere la stabilità del giudicato, con l’espletamento di una istruttoria sommaria e deformalizzata mentre, al contrario, il giudizio di omologa seguiva il rito ordinario di cognizione (espressamente previsto, art. 180, u.c., l.f.), con un’istruttoria piena. Si sosteneva, infatti, che sulle questioni già delibate in fase di ammissione, il Tribunale godesse dei più ampi poteri officiosi di riesame in sede in omologa, ben potendo estendersi a tutto l’iter procedimentale - ivi compresa la fase di approvazione della proposta - sia sotto il profilo processuale che sostanziale, come si legge in una delle più importanti massime della Cassazione “intervenuto il decreto d’ammissione alla procedura di concordato preventivo e la deliberazione favorevole dei creditori, spetta al Tribunale, in sede di omologazione, un autonomo ed ampio potere di controllo, di legalità e di merito, volto ad accertare sia la regolarità della procedura nelle varie fasi, sia la meritevolezza del debitore, sia la convenienza del concordato e l’idoneità delle garanzie offerte.”. (7) Come si vede, nonostante il diritto vivente si sia dedicato ad indagare e chiarificare gli spazi di manovra del sindacato giudiziale, non pervenne mai - se non dopo le grandi riforme - a porsi ed analizzare il problema della concreta riuscita del concordato e, quindi, a definire la fattibilità dello stesso.

Il tutto, neanche con riguardo alle previsioni del concordato fallimentare, che pure proponeva controlli pressoché analoghi a quelli del concordato preventivo; si è dovuto attendere, per un riferimento normativo al concetto, la prima delle grandi riforme del diritto fallimentare, ad opera del d.l. 35/2005, convertito poi in l. 14 maggio 2005, n. 80.

3. Il divieto del controllo di merito e la latitudine del controllo di legittimità nella riforma 2006/2007 Il preludio alla grande riforma della disciplina concorsuale si manifestò con l’entrata in vigore del d.l. 35/2005 sopra citato, il quale intervenne sulla disciplina del concordato preventivo, modificando sostanzialmente gli artt.

160, 161, 163 e 180 l.f.

7 Cass. 10 dicembre 1979, n. 6380, in Fall., 1980, 483.

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La profonda innovazione delle disposizioni sopra menzionate, si accompagnava altresì all’introduzione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, all’articolo 182 bis l.f., che proponevano un nuovo strumento di definizione negoziale della crisi dell’impresa.

Gli accordi di ristrutturazione si differenziavano, e si differenziano tutt’ora, dal concordato per essere stipulati tra il debitore ed una parte dei suoi creditori, rappresentanti almeno il 60% dei totali, senza particolari limitazioni contenutistiche. Il debitore, quindi, aveva la possibilità di raggiungere un accordo – protetto da eventuali successive azioni revocatorie - con una parte, più o meno ampia, dei propri creditori prevedendo per loro, in tal modo, un trattamento evidentemente differenziato rispetto a quello riservato ai creditori estranei al negozio – che venivano soddisfatti integralmente.

Negli accordi qualsiasi valutazione circa l’opportunità di un trattamento diverso era esclusivamente rimessa ai creditori che vi erano coinvolti; sicché, una volta che la proposta di accordo giungeva al vaglio del Tribunale, questi si limitava ad omologarlo (verificando, evidentemente, che fosse stato presentato il ricorso corredato dalla documentazione di cui all’art. 161 l.f., espressamente richiesto); solo in presenza di opposizioni, che potevano coprire qualsiasi tipo di doglianza (8), l’Ufficio era tenuto ad approfondire il giudizio e risolvere le opposizioni prima di omologare o meno l’accordo. In assenza di opposizioni, e di fronte alla regolarità della documentazione richiesta, quindi, l’omologazione si poneva alla stregua di un atto dovuto, previo controllo meramente formale sulla domanda. Tuttavia, gli accordi dovevano essere accompagnati dall’asseverazione di un professionista terzo circa la loro attuabilità (9), in particolare, a garantire “il regolare pagamento dei creditori rimasti estranei”. Una certificazione che garantisse la buona riuscita dell’accordo e sulla quale il Tribunale non aveva potere di sindacato, se non nel caso di una opposizione che lamentasse proprio la inattuabilità dell’accordo; tanto bastava per ottenerne l’omologa, salvo quanto ricordato nel caso di opposizioni.

Tornando alle modifiche apportate alle disposizioni sul concordato preventivo, per ciò che interessa in questa sede, l’attenzione è da porsi anzitutto sulla nuova formulazione dell’art. 160 l.f.

Le condizioni di ammissibilità, storicamente suddivise in requisiti di carattere personali, attinenti alla impresa ed alla persona dell’imprenditore, e di carattere patrimoniali, relativi, invece, ai contenuti della proposta, vennero abrogate e completamente riscritte.

Non era più richiesto alcuno dei vecchi requisiti di ammissione, tanto che gli unici sembravano essere lo stato di crisi e la qualità di imprenditore commerciale fallibile. L’elemento di maggior rottura col passato era

8 Si segnala, in particolare, PROTO, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Fall. 2006, 134, secondo cui l’opposizione può essere fondata “sia sul mancato deposito in tribunale del ricorso e della documentazione allegata, sia sul mancato raggiungimento della maggioranza del 60% dei crediti prevista per l’efficacia dell’accordo, sia sull’inattuabilità dell’accordo con particolare riferimento alla sua inidoneità ad assicurare il pagamento dei creditori estranei”.

9 Il legislatore utilizza in questa sede, per la prima volta, il termine “attuabilità”.

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rappresentato dalla totale liberalizzazione dei contenuti del piano concordatario, in quanto la norma legittimava il debitore a presentare un piano che prevedesse semplicemente la “ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma”, elencandone alcune, come l’accollo o la cessione dei crediti, a mero titolo esemplificativo.

Altro grande elemento di novità era la possibilità di suddividere i creditori in classi, per omogeneità di posizione giuridica e interessi economici.

Del vecchio art. 161 l.f. restava solo la forma del ricorso per la domanda introduttiva, prevedendo che a questa il debitore allegasse un serie di documenti idonei a mostrare la situazione economico-finanziaria dell’impresa.

Si badi che, a differenza del passato, si tratta di documentazione formata dallo stesso debitore, con valore autocertificativo. In questo contesto, per la prima volta nella Legge fallimentare, si fa riferimento alla relazione di un professionista terzo che attesti la veridicità dei dati aziendali e la “fattibilità del piano”, e che deve necessariamente accompagnare il ricorso.

In sede di ammissione il Tribunale procedeva esclusivamente alla verifica della completezza e regolarità della documentazione presentata; solo qualora fossero previste classi di creditori, il controllo si spostava sul piano della correttezza dei relativi criteri di formazione (163 l.f.).

Tuttavia, l’art..162, comma primo, l.f., nel prevedere un’interlocuzione tra il proponente e il Tribunale (“può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovo documenti”) impone di ricostruire il giudizio di ammissibilità non solo in termini di legittimità formale.

Infatti, la giurisprudenza (10) costruì un controllo di c.d. legittimità sostanziale, in pratica coincidente con quello di attuabilità in concreto della proposta concordataria, verificata già in sede di ammissione. Per quanto la lettera della norma non lo prevedesse, così entrò, come diritto vivente, il sindacato di attuabilità.

In conclusione, in sede di ammissibilità, il Tribunale, oltre ad una verifica di legittimità formale, procedeva ad un controllo di legittimità sostanziale, da intendere come verifica della seria attuabilità del piano concordatario.

Mutamenti sostanziali anche in sede di omologazione del concordato.

La disciplina del giudizio di omologa trasmigrò dal vecchio art. 181 l.f. all’art. 180 l.f., ma senza mantenerne

10 Ad esempio, emblematico Trib. Milano, sez. II, decreto 9 febbraio 2007, in Fall. 2007, 10, 1218, con nota di MANDRIOLI, Concordato preventivo: la verifica del tribunale in ordine alla relazione del professionista, che riconosce al Tribunale poteri valutativi in chiave di legittimità sostanziale. Parimenti, Trib. Pescara 20 ottobre 2005, in Fall. 2006, 2, 222; Trib. Salerno 3 giugno 2005, in Fall, 2005, 1297, con nota di FAUCEGLIA, Il ruolo del tribunale nella fase di ammissione del nuovo concordato preventivo, ove si evidenzia che, ai sensi dell'art. 162 l.f., il Tribunale deve procedere ad un controllo, sulla domanda di concordato, che comprenda un esame diretto, in primis, alla verifica della completezza dei dati contabili esposti, ma anche ad un giudizio prognostico in ordine alla concreta realizzabilità del piano.

Specularmente, Trib. Terni, 15 ottobre 2012, in Corti umbre 2013, 884, riconosce in capo al proponente una sorta di “diritto di regolazione” della proposta e del piano (nello specifico, la sentenza parla di regolarizzazione delle scritture contabili), a seguito dei rilievi avanzati dal Tribunale nell’ambito delle verifiche effettuate in sede di ammissione, giusta il principio del contraddittorio.

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intatto il contenuto: il Tribunale, ora, si muoveva in un più ristretto campo di manovra e gli unici controlli ex officio a lui demandati, afferivano esclusivamente alla regolarità formale dell’accordo.

Venne eliminato il controllo sulla meritevolezza del debitore.

Il Tribunale compiva, normalmente, solo delle verifiche in ordine alle condizioni di ammissibilità di cui all’art.

160 e 161 l.f. e, inoltre, una verifica sul corretto raggiungimento delle maggioranze (controllo di c.d. regolarità formale), nell’ipotesi in cui nessun creditore avesse formulato opposizione, poiché in tal caso il controllo confluiva nella verifica della c.d. legittimità sostanziale, ovvero nell’attuabilità in concreto del piano.

Il controllo di merito divenne conseguentemente eventuale, esercitabile solo in alcune ipotesi.

Due erano le doglianze sulle quali poteva fondarsi l’opposizione che apriva la strada ad un sindacato di merito, ovvero sulla convenienza. Il d.l. 35/05, aveva eliminato dalla Legge fallimentare qualsiasi riferimento a tale requisito, ma il suo significato, e quindi la possibilità di procedervi con una verifica, era stato recuperato nell’art. 177, comma secondo, l.f. (11) e da esso ulteriormente ripreso nell’art. 180, comma quinto, l.f., nella sola ipotesi di concordato c.d. pluriclasse, ove una o più avessero votato negativamente la proposta. Ugualmente quando l’opposizione fosse introdotta da un creditore privilegiato in caso di suo pagamento parziale contenuto nella proposta (art. 160, comma secondo, l.f.).

A tali ipotesi si è successivamente aggiunta, nel caso di mancata formazione delle classi, l’opposizione dei creditori dissenzienti che rappresentino almeno il 20% dei crediti ammessi al voto (previsione da ultimo inserita con la l.134/12).

Quanto alla fattibilità, ancora una volta, il legislatore propone interventi di riforma organici e complessi, ma si dimentica di inquadrare il concetto nell’ambito del sindacato giurisdizionale e laddove lo inserisce (art. 161 l.f., relativamente alla relazione dell’asseveratore) neppure offre una definizione del concetto di fattibilità.

Si è tuttavia fatta strada l’idea, come già evidenziato, che oggetto dell’opposizione tout court del creditore potesse essere anche la stessa fattibilità la quale, nel silenzio della legge, è accessibile da qualunque legittimato ad opporsi.

Si sviluppano, in questo periodo, teorie contrapposte: da un lato chi propende, in una accezione evidentemente estensiva del sindacato di legittimità, per ricomprendere la fattibilità tra i requisiti di ammissione alla procedura e, come tale, vagliabile dal Tribunale anche officiosamente sia in fase di ammissione che di omologa. A maggior ragione, se proposta come doglianza in opposizione all’omologazione. Lo scopo della verifica sarebbe quello di tutelare l’interesse della massa creditoria: un concordato ab origine inattuabile perché infattibile,

11 si leggeva che il Tribunale “può approvare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori, se la maggioranza delle classi ha approvato la proposta di concordato e qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”.

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senza dubbio darebbe luogo, in caso di omologa, alla sua risoluzione per inadempimento ex 186 l.f. Attraverso il controllo prima dell’omologazione, o addirittura nell’ammissione, il Tribunale potrebbe già sancire l’invalidità dell’accordo per impossibilità dell’oggetto (12).

Per contro, ed era la tesi maggioritaria, al Tribunale sarebbe sempre stato precluso, in assenza di opposizioni, procedere ad un controllo sulla fattibilità della proposta, giacché, alla luce delle riforme, si è dato al concordato un aspetto essenzialmente privatistico, ove sarebbero i creditori gli unici “giudici” in ordine alla prognosi di concreta attuabilità dell’accordo (13).

4. Le Sezioni Unite n. 1521/13: la riesumazione del controllo di merito nell’ipotesi di abuso del diritto Il punto di svolta arrivò con le Sezioni Unite, che intervennero in modo chiaro sulla delimitazione dei poteri di sindacato del Tribunale in relazione alla fattibilità del concordato.

Ciò si rese necessario poiché, per come concepito, dopo le riforme del 2006 e 2007, il concordato era diventato uno strumento che ben si prestava ad abusi: la liberalizzazione dei suoi contenuti, la ridotta ingerenza del potere giudiziario e la notevole autonomia complessiva riconosciuta ai creditori ed al debitore, prestava il fianco ad un utilizzo del concordato non tanto finalizzato a ristrutturare l’esposizione debitoria dell’imprenditore, quanto piuttosto ad assicurarsi lo scudo dell’improcedibilità di azioni esecutive o cautelari promosse dai propri creditori. Il tutto agevolato dalla introduzione, con il d.l. n. 83/2012, del c.d. concordato in bianco di cui all’art.

161, comma sesto, l.f.

Si verificò, in tal modo, una lunga stagione di concordati che recavano percentuali irrisorie di soddisfacimento per i creditori chirografari – giacché i prelazionati erano comunque garantiti nei limiti del valore del bene gravato.

Non aiutava, in questo contesto, la posizione assunta da dottrina e giurisprudenza (14) che, ciascuna al proprio

12 Ex multis, Cass. 15 novembre 2011, in Foro it., 2012, 136, secondo cui “nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, il potere di controllo del tribunale è preordinato a garantire sia il rispetto formale della procedura, sia la legittimità sostanziale della proposta e, conseguentemente, ferma l'esclusione della verifica d'ufficio della convenienza economica del piano concordatario, l'omologazione può essere negata, anche in difetto di opposizioni, qualora risulti che, a causa della non veridicità dei dati contabili, dell'inesatta rappresentazione delle attività e delle passività, ovvero dell'inattendibilità del valore attribuito ai beni, detta proposta non abbia alcuna probabilità di essere adempiuta”.

13 Cass., 23 giugno 2011, nn. 13817 e 13818, in Dir. Fall., 2001, 06, con nota di Bertacchini.

14 Fra i sostenitori della tesi restrittiva, secondo cui il Tribunale in assenza di opposizioni non aveva alcun potere di sindacare il merito, si veda GUGLIELMUCCI, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, 107; DEMARCHI, sub art.

180, in AMBROSINI-DEMARCHI, Il nuovo concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 138. In

giurisprudenza, Cass. 16 settembre 2011, n. 18987, in Foro it., 2012, 1, 1, 135, con nota di FABIANI; Cass. 14 febbraio 2011, n. 3586, in CED Cassazione 2011; Cass. 23 giugno 2011, nn. 13817 e 13818, cit.

Chi, al contrario, propendeva per una interpretazione più estensiva, e maggiormente in linea con il passato BONFATTI, Osservazioni a Trib. Milano 7 novembre 2005, e ad altri provvedimenti, in Fall., 2006, 64. In giurisprudenza, ex multis, Cass. 25 ottobre 2010, n.

21860, in Fall. 2011, 191, con nota di BOZZA; di grande innovazione risultò Cass. 15 settembre 2011, n. 18864, in Fall., 2012, 1, 39 nota di PATTI, secondo cui al Tribunale competeva la valutazione anche sulla attuabilità del concordato, qualora rinvenisse “un vizio

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interno, non riusciva a canalizzare un orientamento unico e sufficientemente condiviso, tant’è che vi fu la necessità di rimettere la questione alle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite proposero un’interpretazione che muoveva, in particolare, da una precedente pronuncia (15), la quale aveva ravvisato la possibilità che il Tribunale, potesse ex officio sindacare l’aspetto della fattibilità del concordato, qualora lo stesso apparisse prima facie inattuabile per “difetto di causa”.

Preliminarmente, ed è questo un elemento del tutto innovativo, scissero il concetto di fattibilità, distinguendo tra fattibilità c.d. “giuridica” e fattibilità c.d. “economica”, ove il primo venne identificato come un elemento di natura puramente formale, attinente alle modalità di sviluppo ed attuazione del piano, ed unico aspetto ove poteva estendersi il sindacato del Tribunale, mentre il secondo afferiva ad un piano squisitamente di merito e veniva completamente demandato ai creditori (16).

Il giudice di legittimità partì da un’analisi generale del nuovo concordato preventivo rinvenendone, correttamente, una natura mista, in parte di carattere privatistico, dato che lo stesso si compone di un accordo, alla base della proposta, che è lasciato alla piena discrezionalità delle parti, senza che la legge ne determini un contenuto fisso, ma tuttavia produttivo di effetti definitivi solamente a seguito del “riconoscimento” da parte del Tribunale (alias l’omologazione).

Pur essendo sempre stata negata – erroneamente - la natura prevalentemente contrattuale del concordato, le Sezioni Unite effettuarono un ragionamento giuridico che traeva le mosse proprio dalla disciplina civilistica dei contratti e, in particolare, quella afferente alla causa del contratto.

L’accordo concordatario ha come finalità la regolamentazione e risoluzione della crisi, e solo ed unicamente a questo deve essere diretto; pertanto, è necessario che la proposta, basata sul piano, sia concretamente idonea a perseguire tale obiettivo. Gli elementi dai quali è possibile effettuare una simile valutazione, prescindendo, si ricorda, da qualsiasi giudizio di opportunità, sono le modalità attraverso le quali le parti intendono realizzare tale fine. Qualora le stesse apparissero “incompatibili con norme inderogabili”, non poteva negarsi il sindacato del Tribunale che, inevitabilmente, presupponeva la preventiva individuazione della causa concreta del concordato. Il tutto si traduceva, quindi, in un controllo sulla idoneità della proposta al soddisfacimento della causa, nel senso strettamente legale, da operarsi con riguardo ai mezzi (ad esempio, si pensi ad un concordato liquidatorio che preveda la cessione di beni altrui) ed alla tempistica attraverso cui il debitore prospettasse l’adempimento del concordato. Continuano, ancora, le Sezioni Unite evidenziando come, non avendo il

genetico della causa [ndr del concordato, in parallelo con la disciplina dei contratti], accertabile in via preventiva in ragione della totale ed evidente inadeguatezza del piano non rilevata nella relazione del professionista attestatore”.

15 Cass. 15 settembre 2011, n. 18864, cit.

16 Cass. 23 gennaio 2013, n. 1521, cit. definisce la fattibilità economica come un giudizio prognostico sulla effettiva realizzabilità del concordato per come proposto.

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legislatore più previsto un contenuto predeterminato dell’accordo, la causa concreta fosse da ricercare caso per caso e che, quindi, “il margine di sindacato del giudice sulla fattibilità del piano va stabilito, in via generale, in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento”, tenendo conto, caso per caso, delle “concrete modalità proposte dal debitore per la composizione della propria esposizione debitoria”.

In definitiva, nel principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte (17), si affermava che il controllo del Tribunale doveva esclusivamente rivolgersi all’aspetto formale, giuridico, della fattibilità lasciando, per contro, ed in linea con il ruolo centrale assunto dall’autonomia privata nella nuova disciplina del concordato, la valutazione attinente all’opportunità della proposta ai soli creditori. In particolare, i creditori divenivano unici arbitri dell’analisi sulla convenienza la quale, tuttavia, presupponeva la valutazione sulle concrete prospettive di attuabilità dell’accordo per come proposto. Unica cautela che la sentenza in commento si preoccupò di avere, fu quella di ricomprendere, fra gli elementi valutabili nell’ambito della fattibilità “giuridica”, anche l’attitudine della documentazione prodotta in uno con la proposta ad assolvere la funzione cui era destinata: fornire corrette e complete informazioni – specie nell’ipotesi di concordato con cessione dei beni -, oltre che agli organi della procedura, al ceto creditorio, in modo tale che essi potessero esprimere, in adunanza, un voto il più possibile consapevole, sì da poter effettuare una prognosi di concretizzazione dell’accordo, nei termini indicati, che riducesse al minimo l’aleatorietà propria di qualsiasi operazione economica (18).

La convenienza, e necessariamente, quindi, anche la fattibilità economica, erano ambiti ove il Tribunale non aveva alcuna ingerenza – se non a seguito della proposizione di opposizioni all’uopo formulate – ponendo così interamente a carico della parte (creditore) il rischio dell’adempimento del piano.

5. L’espansione del controllo di legittimità: soglia minima del 20% per i chirografari nel concordato preventivo liquidatorio (l. 6 agosto 2015 n.132)

Con la legge 132/2015, il legislatore ha iniziato a riportare nell’alveo delle competenze del Tribunale, un tipo di controllo di merito, ancorché fatto passare sotto la veste di un controllo afferente un requisito di ammissibilità del concordato.

17 Cass. 23 gennaio 2013, n. 1521, cit. “Il sindacato del giudice in ordine al requisito di fattibilità giuridica del concordato deve essere esercitato sotto il duplice aspetto del controllo di legalità sui singoli atti in cui si articola la procedura e della verifica della loro rispondenza alla causa del detto procedimento nel senso sopra delineato, mentre non può essere esteso ai profili concernenti il merito e la convenienza della proposta”.

18 Cass., 23 gennaio 2013, n. 1521, cit. “il controllo va effettuato sia verificando l'idoneità della documentazione prodotta (per la sua completezza e regolarità) a corrispondere alla funzione che le è propria, consistente nel fornire elementi di giudizio ai creditori”.

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È stato così aggiunto un ultimo comma all’art. 160, l.f., ove si è imposto – nel solo caso di concordato liquidatorio – che la proposta dovesse “assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari”. Tale elemento, ovviamente, doveva essere oggetto di verifica da parte del Tribunale al momento dell’ammissione ed anche dell’omologa, atteso che l’orientamento prevalente (19) è nel senso di ritenere che le condizioni di cui agli artt. 160 e 161 l.f., delibate in sede di ammissione, nell’ambito di un giudizio camerale che mutua in toto le regole dagli artt. 737 ss. c.p.c, debbano sussistere per tutta la durata della procedura. Pertanto, il Tribunale è tenuto a riesaminare tutte le precedenti questioni già affrontate, in sede di omologa, stavolta con un’istruttoria piena e non più sommaria, propria del rito camerale “ibrido” (20) di cui all’art. 180 l.f., onde verificare che non vi siano stati mutamenti delle condizioni tali che, se fossero state ab origine in tal modo, avrebbero impedito l’accesso alla procedura.

Orbene, l’utilizzo del termine “assicurare” in luogo, ad esempio, di “prevedere” faceva ragionevolmente supporre che il piano avrebbe dovuto essere idoneo a garantire concretamente quella percentuale di soddisfo; il Tribunale, quindi, per compiere tale accertamento, doveva necessariamente entrare nel merito della proposta, oltrepassando i limiti della fattibilità “giuridica” per come sopra intesa, per entrare nel campo della fattibilità

“economica”. La limitazione di contenuto imposta al concordato, se, da un lato, ha contratto la libertà del debitore nelle scelte di risoluzione della propria crisi, dall’altro ha nuovamente dilatato i limiti del sindacato giurisdizionale a discapito delle valutazioni opportunistiche del ceto creditorio.

La l. 132/2015 si è rivelata, con il senno di poi, essere un preludio alle reali intenzioni del legislatore, e cioè quelle di riportare la regolamentazione della crisi d’impresa il controllo dei giudici (alias potere pubblico), le quali si sono manifestate appieno con la riforma del 2019, ad opera del D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, che ha introdotto il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

6. Le soluzioni negoziali della crisi alla luce del Codice del 2019 ed il concetto di fattibilità economica Il Codice, nato sotto l’impulso delle direttive comunitarie, riporta la regolamentazione della crisi e dell’insolvenza, per ciò che strettamente attiene alle soluzioni negoziali, in un panorama non molto dissimile, a ben vedere, dall’originario assetto della Legge fallimentare del 1942.

19 Orientamento fatto proprio, altresì, dalle SS.UU. 23 gennaio 2013, n. 1521, cit., secondo cui “..la verifica in ordine alla regolarità della procedura, il cui obbligo è richiamato nel comma 3 dell’art 180, deve ragionevolmente essere realizzata con la verifica del fatto che anche nel prosieguo della procedura non siano venuti meno quei presupposti la cui mancanza iniziale non ne avrebbe consentito l’accesso”

20 Secondo l’espressione di CECCHELLA, Il processo per la dichiarazione di fallimento: Un rito camerale ibrido, Padova, 22, che ravvisa nella previsione del rito camerale dell’art. 180 l.f., elementi propri del giudizio a cognizione piena, secondo il modello del Codice di rito, talché giunge alla conclusione che del rito camerale si sia mantenuto solamente il nomen, e ci si trovi in presenza di un ennesimo rito speciale a cognizione piena.

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Uno degli elementi di grande novità è, oggi, l’utilizzo del termine “fattibilità economica” in tutte le norme riguardanti le soluzioni negoziali, non solo il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ma anche le procedure negoziali che coinvolgono il debitore non assoggettabile a liquidazione giudiziale (cfr par. 1) senza che, per l’ennesima volta, il legislatore ne fornisca una definizione.

Per quanto riguarda il concordato preventivo – ma non anche il concordato incidentale - viene ora nuovamente demandato al Tribunale il potere di indagare sul merito della proposta a prescindere dalla proposizione di eventuali opposizioni; non solo, viene addirittura consentito di effettuare tale controllo anche in fase di ammissione. Il tutto, con una dicitura senz’altro più chiara rispetto al passato – pur senza definire la “fattibilità”

– prevedendo espressamente il tipo di controllo (sulla “fattibilità economica”) che il Tribunale è tenuto a compiere.

Secondo la previsione del nuovo art. 47 cod., infatti, al momento dell’apertura della procedura il Tribunale deve verificare “l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano” e, qualora la verifica dia un esito negativo, con decreto dichiara la inammissibilità della domanda e, in presenza di istanze, dichiara aperta la liquidazione giudiziale, previa verifica della sussistenza dei requisiti ex art. 121 cod.

La differenza con il passato è notevole: all’indomani della grande riforma degli anni 2006/2007, il Tribunale dichiarava inammissibile la proposta di concordato qualora non fossero ricorse le condizioni di ammissibilità previste nei vecchi artt. 160 e 161 l.f. che, tuttavia, come ricordato, non prescrivevano requisiti contenutistici obbligatori, sicché la verifica del Tribunale era incentrata esclusivamente sulla regolarità formale e sostanziale (quest’ultima, intesa come sinonimo di fattibilità c.d. “giuridica”, nei termini precedentemente esposti) della proposta e del piano. Maggiori similitudini si ravvisano, al contrario, con la disciplina antecedente alle riforme degli anni duemila, giacché nell’assetto originario della Legge del 1942, seppur sempre si parlava generalmente di un controllo sui requisiti di ammissibilità, la vecchia normativa prevedeva vincoli contenutistici tali che il Tribunale doveva giocoforza entrare nel merito dell’accordo concordatario (ut supra, si pensi alla valutazione sulla serietà delle garanzie offerte che garantissero l’adempimento dei crediti chirografari in misura non inferiore al 40%).

Analogamente accade in sede di omologa: il successivo art. 48 cod., al comma terzo, prescrive al Tribunale di verificare, oltre alla regolarità della procedura e l’esito delle votazioni, parimenti al recente passato, anche

“l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano”.

L’identità di dizione non può lasciar dubbi al fatto che il legislatore abbia inteso duplicare il medesimo controllo, soggetto agli stessi limiti d’indagine, nella fase di ammissione ed in quella di omologazione. Ciò che rimane ancora da chiedersi è il motivo. Difatti, anche a voler spiegare la duplicazione del controllo sulla

“ammissibilità giuridica” in sede di omologa con la necessità di valutare, in quel momento, la persistenza dei

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requisiti di ammissibilità ex artt. 85 e 87 cod. (21), non v’è alcuna ragione per riproporre la verifica sulla fattibilità economica del piano: si ricorda, infatti, che all’atto della presentazione della domanda, la stessa deve essere accompagnata dalla relazione di un professionista indipendente che ne attesta la sussistenza (art. 87, comma terzo, cod.). Inoltre, in caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano, la stessa relazione deve essere ripresentata prima della sottoposizione ai creditori. Ancora, l’art. 106, comma secondo, cod., come nella precedente disciplina, prevede il potere per il commissario giudiziale di denunciare al Tribunale “se in qualunque momento risulta che mancano le condizioni prescritte per l’apertura del concordato” fra le quali, oggi, anche la fattibilità economica.

Nessuna ragione sussiste, quindi, per giustificare la ripetizione di due controlli del tutto identici nella fase di ammissione ed in quella di omologa – senza addentrarci in una critica circa l’opportunità di demandare al Tribunale tale tipo di valutazione, specie sul merito dell’accordo – i quali, per giunta, mortificano la speditezza cui è improntato il rito del procedimento di omologazione del concordato (si ricorda, rito camerale c.d.

“ibrido”).

Breve considerazione sull’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti: l’art. 48, comma quarto, cod. si limita a stabilire la possibilità per i creditori di avanzare – genericamente – “opposizione entro trenta giorni dall’iscrizione degli accordi nel registro delle imprese”, e che le stesse sono decise dal Tribunale in camera di consiglio, in uno alla omologazione (o non omologazione) dell’accordo. Non sembra all’apparenza, se non tramite una estensione analogica con la disciplina del concordato in quanto compatibile (22), che venga richiesto alcun tipo di controllo da parte del Tribunale, se non entrare nel merito dell’accordo in caso di opposizione che ne contesti il contenuto.

Il requisito della “fattibilità economica” si rinviene altresì nelle soluzioni negoziali alla crisi da sovraindebitamento, e cioè nella ristrutturazione dei debiti del consumatore e nel concordato minore del debitore non consumatore non soggetto a liquidazione giudiziale.

Il primo strumento prevede, anch’esso, espressamente che al momento dell’omologazione il Tribunale (in composizione monocratica) verifichi “l’ammissibilità giuridica e la fattibilità economica del piano” (art. 70, comma settimo, cod.). Il controllo, qui, è unico, perché di fatto unico è il momento in cui il Tribunale deve pronunciarsi sul piano; tuttavia, sempre l’art. 70, al primo comma, fa menzione alla circostanza che il giudizio di omologa si effettui se il piano e la proposta siano “ammissibili”. È da ritenere che la delibazione sulla ammissibilità venga effettuata sulla base delle relazioni di accompagno del piano predisposte dall’OCC e che,

21 A ben vedere, non sarebbe stato necessario specificare neanche questo, in quanto, anche sotto il regime previgente, la verifica delle suddette condizioni veniva effettuata nell’ambito del controllo sulla “regolarità della procedura”.

22 Ma questo sarà, eventualmente, compito della dottrina e della giurisprudenza in futuro, una volta analizzate le applicazioni concrete della nuova disciplina: non si spera in un intervento correttivo o integrativo del legislatore.

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seppur con un notevole sforzo interpretativo ed in analogia alla ratio delle altre procedure negoziali, sia demandata proprio all’Organismo la valutazione sulla fattibilità del piano, nel senso di predisporre ab origine un piano da presentare che sia sicuramente “fattibile”, così da affidarla ad un soggetto “qualificato”.

Da ultimo, nel concordato minore, analogamente, si prevede un unico controllo, anch’esso in fase di omologazione ed anch’esso demandato al Tribunale in composizione monocratica, sulla “ammissibilità giuridica e la fattibilità economica del piano”.

Ciò che accomuna, purtroppo, le varie procedure ed i vari controlli, è la totale assenza di riferimenti al significato di “fattibilità economica”. L’ennesima “svista” di un legislatore da troppo tempo distratto.

7. La nozione di “fattibilità economica”

Per ovviare ai numerosi inconvenienti - a partire dalla riforma del 2005, la quale ha introdotto per la prima volta il concetto di “fattibilità” in generale - sia la dottrina che la giurisprudenza hanno proposto definizioni volte a dar corpo al concetto sopra menzionato, anche al fine di individuare l’ambito di riferimento ove il Giudice abbia il proprio spazio di intervento. Nel silenzio della legge, si può ben pensare che il significato – implicitamente attribuito alla “fattibilità economica” – s’intenda ripreso dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite di cui sopra (23).

Perciò, la “fattibilità economica” è, in sintesi, la concreta possibilità di realizzazione delle proposte economiche contenute nel piano concordatario, nel senso di verosimiglianza delle stesse al potenziale e reale svolgimento ed esecuzione del concordato, secondo la comune esperienza e valutato il contesto ed il momento contingente ove la proposta dovrebbe attuarsi. In altre parole, una proposta è economicamente fattibile se prevede meccanismi e tempi di adempimento che trovino concreto riscontro nella realtà economica cui deve riferirsi. Per fare un esempio, sarebbe con grande probabilità valutato economicamente infattibile un piano che preveda la vendita di un immobile di prestigio, a prezzi risibilmente fuori mercato ed in un momento di profonda crisi del settore, nell’arco di una settimana dall’omologazione. Per contro, avrebbe più possibilità lo stesso piano che, però, preveda l’alienazione in tempi più ampi e ad un prezzo più in linea con il mercato di riferimento, magari indicando già potenziali acquirenti che abbiano manifestato il loro interesse (24).

23 Cass. SS.UU. 23 gennaio 2013, n. 1521 cit.

24 A sostegno della definizione su esposta, ex multis, la giurisprudenza: Cass. SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521 cit, in Fall., 2013, 162, con nota di FABIANI, “La questione “fattibilità” del concordato preventivo e la lettura delle Sezioni Unite”, individua la fattibilità economica come “la valutazione in ordine al merito che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti”; Cass. 7 aprile 2017, n. 9061, in Fall., 2017, 923, la intende come “realizzabilità nei fatti del medesimo [piano]”. In dottrina, fra gli altri, BOTTAI, “Opportune precisazioni sull’attestazione ex art. 161 l.fall. e sul controllo di fattibilità”, in Fall., 2018, 980, la definisce come “la probabilità di successo economico del piano”; per PATTI, “La fattibilità del piano nel concordato

preventivo tra attestazione dell’esperto e sindacato del tribunale”, in Fall., 2012, 46, la fattibilità economica sarebbe una “prognosi sull’adempimento della proposta”.

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