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Gennaio Pregare in ascolto. settima meditazione Mosè: propheta tráditus

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Academic year: 2022

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Pregare … in ascolto

Questo sussidio fa riferimento al testo di Carlo Maria Martini: “Vita di Mosè”, edizioni Rosenberg & Sellier oppure edizione Borla. In questo testo il Cardinale raccoglie le meditazioni che ha proposto in un corso di Esercizi Spirituali dal titolo “Vita di Mosè. Vita di Gesù. Esistenza pasquale”. Ne hanno elaborato un sunto alcune guide.

settima meditazione Mosè: ‘propheta tráditus’

L’uso dell’espressione latina “propheta tráditus” nel titolo di questa meditazione dipende dal fatto che non è possibile trovare in italiano un verbo che corrisponda al verbo greco “paradidonai”, usato nel Nuovo Testamento in riferimento a Gesù.

• «Che cosa diremo: se Dio è in nostro favore, chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il suo Figlio, ma per noi tutti lo ha consegnato» (Rm 8, 32).

Gesù è stato dal Padre consegnato nelle nostre mani, perché ne facessimo «quello che volevamo»: lo accogliessimo, lo adorassimo, lo amassimo; con la nostra libertà, però, eravamo in grado anche di non amarlo, di non accoglierlo, di respingerlo, di contestarlo, addirittura di ucciderlo.

E il Padre lo ha consegnato all’umanità.

• Il secondo significato del nostro verbo lo incontriamo nella lettera ai Galati. Dice Paolo: «e non vivo non più io, ma Cristo vive in me; e questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e si è consegnato per me» (Gal 2, 20).

Qui è Gesù stesso che si consegna per noi.

• Nel suo discorso presso il portico di Salomone Pietro dice: «Il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo Figlio Gesù, che voi avete tradito» (At 3, 13). Voi, dichiara Pietro, lo avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato. Quindi Gesù è tradito dagli uomini, tradito da noi.

Mediante l’incrocio di questi tre significati dello stesso verbo, noi possiamo contemplare il mistero della croce:

il Padre che consegna il Figlio liberamente agli uomini, il Figlio che si consegna per la nostra salvezza e l’umanità che lo tradisce. Come Gesù, Mosè è profeta consegnato: profeta che Dio consegna al suo popolo, profeta che consegna se stesso al suo popolo, profeta che il popolo fa soffrire.

Il tema fondamentale di questa meditazione sarà la «passione» di Mosè.

Mosè non andrà fino alla morte, non darà la vita. È Gesù che dà la vita. Però Mosè soffrirà nella sua carne il rigetto da parte del popolo.

Mosè è chiamato il «servo di Jahvé» e i famosi quattro canti del servo di Jahvé in Isaia (Is 42, 1-8; Is 49, 1-7; Is 50, 4-11; Is 52, 13ss. e Is 53) sono stati scritti ispirandosi proprio a Mosè e puntando lo sguardo verso un misterioso personaggio messianico.

Al servo sofferente Mosè corrisponde il Servo sofferente Gesù.

Abbiamo allora tre figure davanti a noi: il Mosè sofferente, il servo di Jahvé e Gesù Propheta tráditus.

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Mosè e Abramo

Abramo accetta tutte le offerte divine con lo stesso cuore: esce dal paese dei Caldei, fa i viaggi che il Signore gli fa fare, affronta le difficoltà; perfino quando si descrive il sacrificio del figlio non c’è una parola sui suoi sentimenti, quasi che egli vivesse tutto con fede assoluta.

È il profeta della certezza, della fede.

Mosè invece è il profeta del dubbio, del rifiuto, della rivolta, ed è a lui che noi ritorniamo incessantemente, quando cerchiamo l’esempio di una profezia nel dolore.

Abramo è un profeta patriarca, è da lui che nasce il popolo; Mosè è inserito nella storia di un popolo, la sua missione lo introduce nell’ambiente di una comunità umana.

Mosè è un profeta consegnato. Abramo è un profeta protetto.

La realizzazione della rivelazione fatta a Mosè dipende congiuntamente sia dalla fede di lui che dalla fede del popolo.

Questa considerazione ci introduce a contemplare il dramma di Gesù.

Gesù può essere accolto o respinto.

Gesù non passa glorioso proclamando la parola; l’opera di Gesù è seme che cade nella terra.

Può venire, calpestato, mangiato, soffocato, oppure produrre frutti.

Questa sorte non riguarda soltanto il servizio della parola, bensì anche tutti gli altri servizi, nel senso che essi non dipendono solo da chi li presta, ma anche chi dovrebbe riceverli.

Mosè soffre perché vuole vivere con la gente. Non si limita al solo dialogo con Dio, il suo coinvolgimento con le sorti del popolo lo mette alla prova, lo stritola.

Ugualmente, il coinvolgimento di Gesù con gli uomini farà sì che ad un certo punto egli ne resti schiacciato.

La sofferenza di Mosè, propheta tráditus, ci aiuterà a contemplare e ad intendere meglio la profondità dell’amore di Gesù.

GRAZIA da chiedere: Santo Spirito, guidaci alla contemplazione del mistero del Padre che dona il Figlio, e del Figlio che gratuitamente si dona, e che continua a donarsi nonostante il rifiuto.

Mosè: servo sofferente La leggerezza di Mosè

(Es 4, 18-26)

Il primo episodio (Es 4, 18-26) consiste in una scena molto misteriosa, che ci spaventa.

Interroga anche gli esegeti che si chiedono quali tradizioni vi si siano raccolte.

Come suggerisce il Cardinal Martini, cerchiamo di interpretarlo così come appare a noi, attualizzandone il contesto.

Sembra che Mosè in un primo tempo abbia pensato che la chiamata ricevuta lo portasse a tornare in Egitto col gregge, la moglie e i figli e ripartire da ciò che più o meno stava facendo a Madian…

Il Signore intende preannunciargli che non si tratterà affatto di un’impresa tranquilla, ma di qualcosa che lo coinvolgerà fino alla morte.

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Seguire la chiamata alla missione, dandosi ad un apostolato non faraonico, ma di servizio, non comporta soltanto qualche piccolo cambiamento di metodo, qualche aggiustamento nel linguaggio, ma implica un atteggiamento totalmente diverso, nuovo.

L’episodio risulta a noi particolarmente ricco di insegnamenti. Siamo sempre tentati di ridurre la novità del Vangelo, con la sua sconvolgente capacità di travolgerci, a un chiederci quali possano essere le modalità operative. Ma il Signore ci dice che si tratta di ben altro: «Non vi immaginate nemmeno a che cosa vi ho chiamati!».

Anche Mosè si renderà conto che l’impresa a cui Dio lo ha chiamato è davvero cominciata, anche se lui non l’aveva capita.

Le paure di Mosè

Fin dall’inizio Mosè ha intravisto come si sarebbero messe le cose e ha avuto paura: non si trattava di esercitare la sua missione stando “nel ponte del comando”, ma doveva buttarcisi dentro e correre gli stessi rischi del popolo, anzi più rischi ancora ... Perciò cerca di difendersi.

«Mio Signore, non sono un buon parlatore ... sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4, 10).

E quando capisce che gli sono chieste cose superiori alle sue forze fisiche, si sente intimorito di fronte a ciò che lo aspetta, dice quello che veramente ha nel cuore: «Perdonami, mio Signore, manda chi vuoi mandare!» (Es 4, 13), cioè

«manda un altro».

Mosè si era immaginato una liberazione facile, mentre le cose vanno molto diversamente; allora comincia ad avere paura e si chiede: «Ma che cosa mai vorrà da me? Attraverso quali vie mi vuole portare?».

Eleva a Dio il suo lamento: «Mio Signore, perché maltratti questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male al tuo popolo e tu non hai fatto nulla per liberare il tuo popolo» (Es 5, 22-23).

E ancora, preso dalla paura, «Mosè invocò l’aiuto del Signore, dicendo: ‘Che farò per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno! ‘» (Es 17, 4).

Mosè è passato attraverso esperienze difficili, nelle quali continua a manifestare a Dio tutta la sua debolezza.

Nel Nuovo Testamento c’è un testo che ci aiuta a partecipare alla paura di Mosè contemplando e immedesimandoci nella paura degli Apostoli: «Mentre erano in viaggio i Dodici con Gesù per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro, ed essi erano stupiti: coloro che venivano dietro erano pieni di timore» (Mc 10, 32).

Gesù corre avanti e gli altri seguono impauriti: «Dove andiamo? Dove ci porta? Ma perché andare a Gerusalemme dove la gente è maldisposta?».

Il Signore non ha risparmiato la paura ai suoi profeti.

Diventare profeta, diventare servo del Vangelo vuol dire anche soffrire tutta l’angoscia di situazioni nelle quali non si vede apparentemente una via d’uscita.

È così che il Signore ci chiama alla fede.

L’insicurezza di Mosè (Nm 20, 3-13)

Malgrado i molti colpi che subisce, Mosè resiste; ad un certo punto, però, sembra venir meno e attraversa una grave crisi, descritta con parole misteriose e velate, tali però da farci capire che qualcosa di grave è successo nell’animo di Mosè.

Mosè ha obbedito in tutto fino a questo punto, ma ora è preso da una crisi interiore, che prende corpo in una «mancanza», il cui significato resta per noi misterioso.

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Presso le acque di Meriba il popolo sfoga tutta l’amarezza contro Mosè e Aronne: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame?» (Nm 20, 3-13).

Mosè e Aronne si allontanano e si prostrano per pregare. Quindi il Signore dice a Mosè: «Prendi il bastone ... convocate la comunità ... parlate alla roccia ... Mosè alzò la mano e percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e tutto il bestiame...

Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: ‘Poiché non avete avuto fiducia in me, per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le do ‘».

Mosè avrebbe forse mancato di fede colpendo due volte la roccia?

Secondo un’altra tradizione invece Mosè verrebbe punito a causa del popolo che si era rifiutato di salire da Cades verso Canaan.

In quell’occasione, Mosè aveva avuto pietà del suo popolo, che si era spaventato alla notizia dei giganti che abitavano in quella terra (Nm 13). Aveva consentito che la gente non entrasse dal sud e che invece prendesse la strada dell’est, del Giordano. In tal modo aveva mancato di fiducia verso Dio. Per troppa compassione del suo popolo si era staccato dalla Parola di Dio. Ne accetterà poi le conseguenze con molta dignità, con molta umiltà, con molta semplicità di cuore.

«Contro di me si adirò il Signore per causa vostra e disse: ‘Neanche tu vi entrerai, ma vi entrerà Giosuè figlio di Nun che sta al tuo servizio ‘» (Dt 1, 37-38).

Anche noi crediamo di ascendere di virtù in virtù, ma certe volte improvvisamente c’è un crollo, o un momento difficile:

non si regge più a quel peso che forse si era retto bene per anni.

Il Signore non ci promette l’indefettibilità né ci risparmierà le conseguenze dell’aver agito in maniera sbagliata; ci promette però il perdono e la misericordia.

La pazienza di Mosè Nm 12, 1-13

Consideriamo un episodio molto interessante, specialmente per la psicologia di Mosè: «Maria ed Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva sposata ... (cioè una donna straniera). E dissero: ‘ Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro? ‘» (Nm 12, 1-2). Il motivo che li fa mormorare così, in fondo, è l’invidia.

Mosè, Aronne e Maria, che costituiscono “l’équipe dirigente d’Israele”, non vanno d’accordo tra loro.

«Il Signore disse: ‘ ... Come non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè? ‘ E l’ira del Signore si accese contro di loro ed egli se ne andò ... ed ecco che Maria era lebbrosa, bianca come neve. Aronne guardò Maria ed ecco era lebbrosa» (Nm 12, 6-10).

La situazione è ancor più umiliante perché Maria è colei che ha salvato Mosè dalle acque, e quindi si sente un po’ la sua protettrice.

Mosè, però, ormai sa pazientare, perciò pregherà perché sia guarita e così ritornerà la pace in famiglia.

Mosè è l’uomo paziente, non è più il Mosè baldanzoso dei prima quaranta anni della sua esperienza, quando pensava di essere lui il salvatore del mondo… È un Mosè molto ridimensionato, conta molto meno su se stesso, ha imparato a tacere e a lasciar fare al Signore, sopportando anche la sofferenza più intima, quella di non essere capito nel suo rapporto con Dio dagli stessi familiari.

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Gesù: Servo sofferente

Mentre Mosè comincia con una certa leggerezza la sua missione (Es 4, 20), Gesù fin dall’inizio sa dove andrà.

Quando la gente lo acclama per i miracoli e grida al successo, Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo dovrà essere tradito»

(Lc 9, 22). Gesù ha visto chiaramente che il suo coinvolgimento con la gente doveva essere pagato fino in fondo. È chiaroveggenza di Gesù che non si è tirato indietro.

La paura di Gesù è un’espressione terribile che non avremmo mai usato, se essa non comparisse nel Vangelo. Gesù

«sente paura» e dice: «La mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14, 33 ss.).

Anche qui vediamo un parallelo fra Mosè e Gesù. Mosè ha avuto paura e anche Gesù ha voluto aver paura, mostrando così che il servizio del Vangelo non esime dall’angoscia di fronte alle situazioni catastrofiche che talora ci possono cascare addosso.

All’insicurezza di Mosè presso le acque di Meriba corrisponde la decisione di Gesù.

Gesù dice: «Io do la mia vita per le mie pecore». Si tratta di un amore totale, insieme con un ascolto pieno del Padre (Gv 10, 11 ss.).

Mosè, posto fra il popolo e Dio, perde l’equilibrio emotivo e si butta sul popolo.

Gesù offre la sua vita per amore nostro, ma in obbedienza alla parola del Padre: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23, 46).

Mosè non è riuscito ad affidare il suo spirito nel giorno di Meriba e nemmeno di fronte al tumulto sollevatosi all’arrivo degli esploratori (Nm 13). Gesù, l’artefice della nostra fede, si è affidato nelle mani del Padre per noi.

Un ultimo elemento da contemplare è la pazienza di Gesù.

Tra tanti episodi scegliamo Gv 18, 22-23: Gesù viene schiaffeggiato in casa di Anna.

Sembra che ci sia un parallelismo con Mosè schiaffeggiato moralmente da Maria ed Aronne.

Mosè non risponde niente a Maria e ad Aronne, e lascia la sua causa a Dio. Gesù invece risponde: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».

Gesù non si è contentato di accettare, ma ha voluto evangelizzare e proporsi come segno di autenticità a quel povero funzionario, forse mal pagato, pieno di frustrazioni e sempre sottomesso.

Gesù potrebbe accettare in silenzio; invece preferisce fare qualcosa di più, e dice: «Guarda in te stesso. Perché mi hai colpito? Quali sono le radici del tuo atto? Se sono buone, io sono pronto a lasciarmi colpire; ma se non hai una ragione fondata, perché fai così? Perché questa scontentezza, perché questa amarezza e questa frustrazione? Che cosa c’è in te che non va?».

Gesù colpito compie opera di evangelizzazione e di liberazione. Non reagisce con un silenzio sdegnato, ma con una pazienza attiva, che lo fa «essere Vangelo», che lo fa «essere Parola di Dio», data a quell’uomo fino in fondo, senza riserve.

Gesù è davvero il profeta che si consegna totalmente agli uomini!

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