G It Diabetol Metab 2014;34:41-43
Supplementazione
con mioinositolo e comparsa del diabete gestazionale in donne con anamnesi familiare positiva per diabete di tipo 2 D’Anna R1, Scilipoti A1,
Giordano D1, Caruso C1, Cannata ML1, Interdonato ML1, Corrado F1, Di Benedetto A2
1Dipartimento di Scienze Pediatriche, Ginecologiche, Microbiologiche e Biomediche;
2Dipartimento di Medicina Interna, Università di Messina, Messina Diabetes Care 2013;36:854-7
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
La condizione patologica che ha interessato la ricerca è il diabete gestazionale, evento che può condizionare negativamente l’outcome ostetrico e neonatale, per la maggiore frequenza di eventi avversi (parto pretermine, morte endouterina del feto, macrosomia, aumentata frequenza di parti operativi vaginali e laparotomici, ipogli- cemia neonatale).
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Un precedente studio prospettico, randomizzato e controllato, eseguito dal nostro gruppo, aveva dimostrato che il mioinositolo somministrato dopo la diagnosi di dia- bete gestazionale riduceva i marker di insulino-resistenza. Sulla base di questo dato, abbiamo disegnato uno studio prospettico, randomizzato e controllato, in cui il mio - inositolo veniva somministrato alle gravide a rischio (anamnesi familiare positiva per diabete di tipo 2), dal I trimestre fino al parto, con l’obiettivo primario di ridurre la fre- quenza di diabete gestazionale e con l’obiettivo secondario di ridurne le complicanze.
Sintesi dei risultati ottenuti
La somministrazione di mioinositolo 2 g× 2, fin dal I trimestre, riduce l’incidenza del diabete gestazionale (15% vs 6%) in una tipologia di gravide a rischio, quella con ge- nitori affetti da diabete di tipo 2; riduce inoltre significativamente il peso fetale alla na- scita e la frequenza di macrosomi (> 4000 g).
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguardo al problema iniziale?
Se il problema iniziale è la strategia con la quale si vuole ridurre l’incidenza di dia- bete gestazionale nei soggetti a rischio, il mioinositolo è una possibile opzione.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
In futuro possono essere prese in considerazione anche altre categorie di soggetti a rischio per il diabete gestazionale, quali per esempio le donne sovrappeso o fran- camente obese o con pregresso diabete gestazionale; in queste categorie la pre- valenza di diabete gestazionale è piuttosto alta.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Certamente sì, l’utilizzo regolare in tutti i casi in cui siano presenti fattori di rischio per il diabete gestazionale.
Esperienze di utilizzo
del microinfusore (CSII) durante il parto in donne gravide con diabete di tipo 1, provenienti da 4 centri italiani: uno studio retrospettivo osservazionale Fresa R1, Visalli N2, Di Blasi V1, Cavallaro V1, Ansaldi E3, Trifoglio O4, Abbruzzese S2, Bongiovanni M5, Agrusta M1, Napoli A5
1UO di Endocrinologia e Diabetologia, Distretto n. 63 ASL Salerno; 2Unità di Diabetologia, Ospedale S. Pertini, Roma;
3Dipartimento di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale Santi Antonio e Biagio, Alessandria;
4Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, Ospedale Santi Antonio e Biagio, Alessandria;
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
È stata valutata, in maniera retrospettiva, l’efficacia dell’utilizzo della CSII durante il parto in donne con diabete di tipo 1 che erano già state addestrate al suo uso durante la gravidanza per consentire loro di non interrompere l’infusione basale di insulina. Inol- tre, come end-point secondario, è stata valutata l’efficacia del sistema integrato (CSII + monitoraggio continuo della glicemia, SAP) rispetto al solo uso della CSII.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
In letteratura esistevano pochi dati sull’argomento trattato. In un lavoro del 1989 ve- niva comparata, in maniera prospettica e randomizzata, la CSII vs l’insulina ev durante il parto e la CSII risultava più vantaggiosa nel mantenere un buon controllo glicemico.
Non esistevano dati su donne già in terapia con CSII che continuavano la stessa strategia terapeutica durante il parto con un protocollo standardizzato.
Sintesi dei risultati ottenuti
L’uso della CSII durante il parto, qualunque sia la modalità con cui quest’ultimo viene espletato, è risultato efficace e sicuro, utilizzando un protocollo standardiz- zato in donne con diabete di tipo 1 motivate e ben addestrate. La SAP sembre- rebbe offrire un aiuto ulteriore nel raggiungere e mantenere i valori glicemici del periodo peripartum nel range desiderato.
La Ricerca in Italia
La Ricerca in Italia 42
5Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Facoltà di Medicina e Psicologia, Università Sapienza, Roma
Diabetes Technol Ther 2013;15(4):328-34
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguardo al problema iniziale?
I nostri risultati forniscono i primi dati sull’utilizzo delle nuove tecnologie durante il parto con una procedura standardizzata in cui la donna con diabete gestisce in prima persona il compenso glicemico in una fase in cui aveva sempre svolto un ruolo pas- sivo. Inoltre vengono forniti risultati soddisfacenti sul controllo glicemico nell’immediato periodo post-partum in donne diabetiche sottoposte a parto cesareo, in cui, a causa del digiuno e del dolore, è più difficile ottenere la stabilità glicemica.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Uno studio prospettico osservazionale su un numero maggiore di casi e soprattutto durante il parto espletato per via vaginale.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Attualmente, in 4 centri italiani di riferimento per la gestione della gravidanza com- plicata da diabete, le donne in terapia con CSII non sono più costrette a interrom- pere la microinfusione basale durante il parto, con notevoli vantaggi di tipo psicologico. Infatti, non essendo sempre possibile la presenza del loro diabetologo di fiducia in sala parto, continuare a utilizzare la CSII rappresenta una continuità terapeutico-assistenziale che tranquillizza la paziente e il team della sala parto.
L’inibizione delle istone deacetilasi di classe I rivela specifici effetti mitocondriali e aumenta il metabolismo ossidativo nel muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo
Galmozzi A1, Mitro N2, Ferrari A1, Gers E1, Gilardi F1, Godio C1, Cermenati G2, Gualerzi A3, Donetti E3, Rotili D4, Valente S4, Guerrini U5, Caruso D1, Mai A4, Saez E6, De Fabiani E1, Crestani M1
1Laboratorio “Giovanni Galli” di Biochimica e Biologia Molecolare del Metabolismo e Spettrometria di Massa, Università degli Studi di Milano, Milano; 2Laboratorio
“Giovanni Armenise-Harvard Foundation”, Università degli Studi di Milano, Milano; 3Laboratorio di Immunoistochimica degli Epiteli, Dipartimento di Morfologia Umana e Scienze Biomediche, “Città Studi”, Università degli Studi di Milano, Milano; 4Dipartimento di Chimica e Tecnologie del Farmaco, Istituto Pasteur-Fondazione Cenci Bolognetti, Università di Roma
“Sapienza”, Roma; 5Unità di Risonanza Magnetica Nucleare, Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari, Università degli Studi di Milano, Milano; 6The Scripps Research Institute, La Jolla, California Diabetes 2013;62:732-42
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
È noto da tempo che diabete e obesità sono associati ad alterazioni del metaboli- smo degli zuccheri e dei grassi; tuttavia i meccanismi molecolari che ne stanno alla base non sono ancora del tutto definiti. L’importanza del metabolismo ossidativo nella fisiopatologia del diabete è dimostrata dal fatto che trattamenti o stili di vita che lo potenziano, per esempio un aumento dell’attività fisica, in molti casi si riflet- tono in un miglioramento del quadro clinico. Data l’incidenza sempre crescente di queste patologie e la loro complessa eziologia è importante individuare nuovi ap- procci o strategie mirati a correggere il metabolismo degli zuccheri e dei grassi che è alterato nei pazienti obesi e diabetici.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Le istone deacetilasi (histone deacetylases, HDAC) appartengono a un ampio gruppo di enzimi (se ne conoscono 18 membri) che svolgono un ruolo fondamen- tale nel controllo dell’informazione genetica e nella regolazione delle funzioni cellu- lari e del metabolismo. Studi precedenti hanno dimostrato che l’inibizione globale di questi enzimi può migliorare il profilo metabolico e la resistenza all’insulina in modelli animali di diabete. Tuttavia non è stato investigato quale specifica isoforma sia mag- giormente responsabile degli effetti osservati.
Sintesi dei risultati ottenuti
In un modello murino di diabete di tipo 2 e obesità su base genetica l’inibizione delle istone deacetilasi di classe I con composti di origine sintetica aumenta l’espressione di PGC-1α, un interruttore molecolare della funzione di alcuni geni nel muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo. Questo si traduce in: aumento dell’attività ossidativa mitocon- driale che comporta il maggiore utilizzo degli acidi grassi in entrambi i tessuti, aumento della produzione di calore e infine il miglioramento del fenotipo che consiste nella dimi- nuzione di peso corporeo, della resistenza all’insulina e dell’intolleranza al glucosio.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguardo al problema iniziale?
Nello studio sono stati applicati sia un approccio chimico (uso di composti sintetici specifici per HDAC di classe I) sia un approccio molecolare (per esempio “silenzia- mento” di specifici geni in cellule in coltura). Attraverso questi strumenti di indagine è stato possibile individuare HDAC3 come la più probabile HDAC di classe I la cui inibizione è responsabile degli effetti metabolici osservati. I dati inoltre indicano che modificare le caratteristiche metaboliche del tessuto adiposo bianco (quello mag- giormente coinvolto nell’accumulo di grasso) rendendolo più attivo nel metabolismo
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ossidativo (fenomeno noto con il termine browning) può avere effetti benefici su tutto l’organismo.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Il ruolo centrale di HDAC3 nel metabolismo mitocondriale del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo dovrà essere ulteriormente confermato con opportuni mo- delli geneticamente modificati.
Inoltre un’ipotesi interessante da esplorare è se mutazioni a carico del gene che codifica HDAC3 o una sua alterata espressione siano più frequenti in soggetti diabetici e/o obesi.
Se HDAC3 si confermasse come la principale isoforma associata al diabete si po- tranno disegnare inibitori selettivi che potranno essere studiati come nuovi potenziali farmaci antidiabetici.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Nel momento in cui saranno disponibili dati definitivi sul ruolo di HDAC3 nella fisio- patologia delle malattie dismetaboliche, sia in modelli di laboratorio sia nell’uomo, si potrà considerare come un nuovo e attraente bersaglio farmacologico per il tratta- mento di queste patologie.
Le caratteristiche cliniche dei pazienti influenzano la durata degli intervalli di screening della retinopatia diabetica
Porta M, Maurino M, Severini S, Lamarmora E, Trento M, Sitia E, Coppo E, Raviolo A, Carbonari S, Montanaro M, Palanza L, Dalmasso P, Cavallo F
Dipartimento di Scienze Mediche, Università di Torino, Torino Diabetologia 2013;56:2147-52
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
Le linee guida nazionali e internazionali raccomandano di eseguire annualmente lo screen- ing della retinopatia in tutti i pazienti affetti da diabete. Tuttavia la lenta progressione della complicanza e la quantità di pazienti da esaminare spingono a definire intervalli più lun- ghi, ma pur sempre sicuri, per rivedere i casi nei quali si riscontra assenza di lesioni.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Erano state pubblicate casistiche e simulazioni in base alle quali si suggeriva che pa- zienti con diabete di tipo 2 senza retinopatia possano essere rivisti ogni 2-3 o più anni senza il rischio di sviluppare nel frattempo lesioni gravi. Non vi erano invece dati re- lativi ai pazienti con diabete di tipo 1.
Sintesi dei risultati ottenuti
Sono stati rivalutati i dati di screening raccolti prospetticamente su 4230 pazienti, se- guiti per 6 anni e stratificati in base a età di diagnosi del diabete, durata nota dello stesso e trattamento con insulina o meno al momento dell’ultimo screening negativo.
Nel diabete di tipo 2 la retinopatia progrediva più velocemente verso forme a rischio se la durata nota era > 10 anni e i pazienti erano in trattamento con insulina. Nei pazienti con diabete di tipo 1 con durata < 10 anni l’incidenza di retinopatia a rischio era più lenta. In nessuno dei gruppi si sviluppava retinopatia a rischio in più del 5% dei casi entro 2 anni.
In sintesi, è possibile rivedere con cadenza biennale tutti i pazienti diabetici che non presentano retinopatia all’ultimo screening. In alcune categorie (durata < 10 anni, non trattamento insulinico) sono possibili intervalli più lunghi, purché esistano si- stemi di controllo di qualità del processo e recall dei pazienti da richiamare.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguardo al problema iniziale?
Si conferma la possibilità di allungare gli intervalli di screening per includere più pa- zienti, senza comprometterne la sicurezza.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Sono stati proposti algoritmi, di tipo “carta del rischio”, per personalizzare gli inter- valli di screening sulla base del controllo metabolico e pressorio e di altre variabili cli- niche e socio-demografiche.
Sarebbe inoltre necessario eseguire studi di popolazione e/o simulazioni per valu- tare il costo-efficacia dell’uso delle nuove tecnologie e il loro impatto sulla preven- zione della cecità secondaria al diabete.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Sì. Ancora troppo pochi pazienti diabetici nel nostro Paese eseguono regolarmente un esame del fundus. I dati sulla progressione della complicanza dimostrano che è necessario sottoporre tutti i pazienti a screening almeno ad anni alterni.