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Academic year: 2022

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Collana Medico‐Giuridica n.10 

VULNERA MENTIS 

‐ Associazione M. Gioia ‐  1

“Lesione dell’integrità psichica – risarcibilità come danno biologico – danno esi- stenziale e anche malattia professionale?”

Avv. Lino Greco*

Introduzione

Nel vasto campo della responsabilità civile uno dei problemi più ardui è rappresentato dal ri- sarcimento del danno alla persona, in continua evoluzione.

Basti pensare alla dilatazione del concetto di danno ingiusto impressa dalla Cassazione a Se- zioni Unite civili, nello scardinare il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi, rectius dei danni scaturenti dalle lesioni inferte agli interessi legittimi, con la sentenza n.500 del 22 luglio 1999, seguita dalla sentenza gemella n.501/S.U. (nella fattispecie, veniva dichiarato inammissi- bile il ricorso per regolamento di giurisdizione proposto in una controversia, instaurata anterior- mente al 1° luglio 1998, in cui sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda risar- citoria nei confronti della pubblica amministrazione per illegittimo esercizio della funzione pubbli- ca), cui si è allineato il Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria con l’Ordinanza n. 1 del 30 mar- zo 2000, sancendo il principio in virtù del quale “se la Pubblica Amministrazione lede un interes- se legittimo il danno va risarcito”.

Peraltro, il sorgere della figura del “danno biologico”, quale “tertium genus”, in virtù del con- tributo dato anche dalla medicina legale alla sua copiosa elaborazione giurisprudenziale e dot- trinaria sulla scia della nota sentenza n. 184 del 1986 della Corte Costituzionale - distinguendo- lo dalle categorie di danno patrimoniale e non patrimoniale, di per sé risarcibile, ex art. 2043 del codice civile ( neminem laedere = “ danno ingiusto”) - ha favorito indubbiamente il successo di quel “percorso di un’idea” già espressa da Guido Alpa nel lontano 1987.

È fuor di dubbio, ed è opinione ormai diffusamente consolidata, che la sentenza della Corte Costituzionale ha avuto “natura innovativa” in materia di danno alla persona, avvicinando il no- stro all’ordinamento di altri Stati Europei ove la vita e la salute (intesa come integrità psicofisica) compaiono tra i valori esplicitamente protetti.

Cito, tra i tanti:

 i cosiddetti “beni giuridici”, paragr. 823 del codice civile tedesco - Bgb;

 le disposizioni con cui i diversi tipi di danni vengono regolamentati dal codice civile austriaco - Abgb;

 i valori impliciti nella clausola generale di responsabilità in materia di responsabilità civile (o di fatti illeciti) per il codice civile francese e per quelli cui altri si sono ispirati, tra i quali i co- dici italiani.

Superfluo forse, ma non retorico, sottolineare - considerato il tema trattato - che in virtù della

“svolta” impressa dalla Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi già con le sentenze n.87 e 88 del luglio 1979 sulla questione di costituzionalità dell’art. 2059 del codice civile, pressoché in concomitanza con la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (L. 833/1978), si sia per- venuti alla definizione della salute quale “fondamentale diritto dell’individuo”, oltreché come inte- resse della collettività e, come tale, tutelato e da tutelare (art. 32 Costituzione Italiana).

* Avvocato - Milano

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Tutelare la salute del soggetto significa anche tutelare la famiglia, il lavoro, la comunità socia- le.

La violazione di tale norma primaria e la lesione del “bene” giuridico salute costituiscono il fondamento (giuridico) del diritto al risarcimento del danno biologico, il cui avvento ha sostan- zialmente indotto ad una rilettura di tutto il sistema codicistico dell’illecito civile ed alla revisione di alcune nozioni tradizionali, facendo si che nascessero nella giurisprudenza le voci del danno alla vita di relazione e alla sfera sessuale, del danno estetico, del danno biologico anche a favo- re dei prossimi congiunti e, infine, del danno esistenziale, nuova figura di danno in corso di ap- profondimento.

Si trova per la prima volta traccia di previsione normativa del danno biologico come “lesione all’integrità psico-fisica della persona”, anche (e persino) nell’iniquo D.L. n.70 del 28 marzo 2000, con cui il Governo Italiano ha inteso dare - ex abrupto - una nuova regolamentazione, del tutto contraria all’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria dell’ultimo ventennio, e peraltro contenente profili vari di incostituzionalità, (interessante il commento di G. Comandè: “Sacrificata sull’altare dell’emergenza la precaria architettura del danno biologico” in Guida al Diritto n. 12 - 1 Aprile 2000).

È ancor più significativo l’ingresso nell’ordinamento del suddetto principio se lo si raffronta con la vigente legislazione europea.

Nel diritto tedesco, ad esempio, il danno biologico non è riconosciuto, sopperendo al risarci- mento solo dei danni economici (o patrimoniali) e di quelli morali (Schemerzensgeld) nell’ambito dei quali vengono valutate le sofferenze. Pur tuttavia, anche un sistema “chiuso” co- me quello tedesco, prevede l’obbligo del risarcimento per il danno psichico quale conseguenza diretta d’una lesione corporea riferendosi ai danni causati da disturbi del comportamento ne- vrotici determinati da un incidente (Schutzzweck del par. 823 del codice civile), ed ai danni cau- sati da shock solo limitatamente a casi particolari.

Risulta dalle prassi ricorrenti che gli assicuratori tedeschi, per ragioni d’immagine, siano a vol- te più generosi nei risarcimenti rispetto ai Tribunali, al contrario dei nostri.

Osserva, correttamente, il Rescigno, nel suo “Trattato di Diritto Privato”, n. 14 pg.96, che “la lesione degli interessi connessi alla persona costituisce la figura d’illecito più antica e di immedia- ta rilevanza e di cui, i più importanti, sono rappresentati dalla vita e dall’integrità psico-fisica”.

Ciò giustifica la fitta serie di norme penali che sanzionano ogni atto di terzi rivolto a privare della vita l’individuo o a minacciarne l’integrità, ed aiuta a comprendere perché “analoghi riflessi di questa tutela particolare si avvertono nel codice civile”. Difatti, se è vero che il singolo può di- sporre delle cose come crede (art. 832), può agire come crede senza tuttavia ledere i diritti altrui (art. 2043) e impegnare la sua volontà scegliendo liberamente la controparte, il tipo e il conte- nuto del contratto (art. 1322), è pure vero che non è altrettanto libero di disporre agevolmente della sua persona (art. 5), il che significa che il singolo non è difeso solo dalle lesioni che pro- vengono dagli altri.

In altri termini, l’ordinamento giuridico, nell’attribuire tale diritto all’individuo umano per il ri- spetto della sua personalità, lo difende in notevole misura anche contro lo stesso individuo, soc- correndo in questo l’art. 2 della Costituzione, che riconosce “il diritto alla salute come diritto in- violabile dell’individuo”, ovvero diritto primario ed assoluto e, in quanto tale, tutela la salute me- desima.

(A. De Cupis e M. Dogliotti in “I diritti della personalità”, Milano, in Trattato cit.).

I “VULNERA” E LA COMPROMISSIONE DELLA INTEGRITÀ PSICHICA

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Allorquando la salute subisce degli attacchi, da cui derivano i “vulnera”, dottrina e giurispru- denza riconoscono, in virtù dei richiamati principi costituzionali, che la “sussistenza di tale lesio- ne” costituisce un “danno biologico” risarcibile.

Trattasi di ferite spesso profonde, che trasformano la persona “in peius”, stravolgendone com- pletamente - oltre all’efficienza e all’equilibrio della mente (o psiche) - abitudini, capacità, inte- ressi, relazioni interpersonali, modus vivendi.

Se i “vulnera” colpiscono la mente fino a provocare postumi invalidanti, dalla medicina legale in primis e dagli specialisti della mente (psico-terapeuti, psicologi, psichiatri), viene configurato il

“danno psichico”, che è diverso dal danno biologico del quale costituisce pur sempre un aspetto e una faccia particolare, ma pur sempre risarcibile. Sia pure con percorsi difficili e differenti, la giurisprudenza e la dottrina convergono sulla questione.

È certo che il danno psichico è ricompreso sia nella previsione dell’art. 2087 del codice civile (nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato), che nell’art. 2043 del codice civile e che è per- ciò soggetto alla regola dell’ingiustizia del danno, per cui il risarcimento presuppone anche un comportamento “non iure” e per stabilire l’illiceità di un comportamento lesivo occorre applicare il criterio “dell’abuso del diritto” (così G. Cricenti, in “Il danno non patrimoniale “Cedam- Enci- clopedia 1999, a cura di Paolo Cendon).

È pure certo che il danno alla psiche è un danno che impedisce all’individuo il godimento di beni della vita e l’esercizio delle facoltà ad essi connesse (Castaldi 1997: “Il danno psichico tra medicina legale e diritto”); Navarretta 1996: “Diritti inviolabili e risarcimento del danno” Torino, Giappichelli; Ziviz 1998: “Il danno non patrimoniale” in La Resp. Civ. Di Cendon), e che, del danno biologico, rappresenta l’aspetto più delicato e sfuggente per la difficoltà di analizzare le alterazioni soggettive, al di là di quel che la vittima denuncia o crede, e di quantificare l’entità del danno stesso.

E ciò anche per la mutevolezza, nel tempo, dei disturbi “psichici”, rendendo a volte difficile pure al medico-legale sia l’eziopatogenesi che la distinzione tra “temporaneità” e “permanenza”, e, conseguentemente, pure la loro esatta quantificazione, non esistendo tabelle e non potendosi adottare, similmente, quelle dell’invalidità civile, per le diverse finalità delle due valutazioni (inva- lidità civile - postumi invalidanti da fatto illecito), dovendo tenere conto:

a) - della vasta area dei disturbi psichici;

b) - della “preesistenza”, ovvero dello stato anteriore, che “espone” di più il soggetto al vulnus, e lo “predispone” al disturbo.

Insegna la medicina legale, che la psiche non è paragonabile ad un organo e la sua maggio- re vulnerabilità è frutto di molteplici fattori.

Proprio tale suo “status” consente di meglio applicare il criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 del codice civile, in caso di difficoltà.

L’ordinamento, in buona sostanza, soccorre la scienza medica.

LA LESIONE DELL’INTEGRITÀ PSICHICA

Suddivido in tre argomenti, in principal modo, la provenienza di questo tipo di lesione, senza con ciò dimenticare gli effetti devastanti provocati dagli eventi bellici dell’epoca con le mine an- tiuomo e gli stupri etnici:

A)

DA INCIDENTE STRADALE E DA ERRATI INTERVENTI MEDICI

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Si pensi allo “spavento” di un genitore nel vedere d’improvviso il figlio in gravi condizioni: Pretura Penale di Monza, sent. n. 691/1993, o deceduto.

B) DA INFORTUNIO SUL LAVORO E MALATTIA PROFESSIONALE (O “TECNOPATIA”)

C) DALLA ILLEGITTIMA CONDOTTA DATORIALE, DEI PREPOSTI E COLLEGHI NEI LUOGHI DI LAVORO (“MOBBING”).

Questi ultimi due temi si intersecano sovente sotto il profilo della responsabilità per colpa e del danno ingiusto, pur essendo altresì invocabile in giudizio il principio del “fatto notorio” ex art.

115 c.p.c. per la credibilità e la fondatezza delle doglianze e pretese risarcitorie quale danno biologico da danno psichico, nei casi di menomazioni gravi (amputazioni, lesioni cerebrali per caduta da ponteggio senza alcun mezzo di prevenzione antinfortunistica) o da lavorazioni morbi- gene con conseguenze tumorali, AIDS o epatiti croniche di tipo C, quali malattie contratte in O- spedale per l’alto rischio dell’evoluzione cirrotica. Nel corso delle cause incardinate dallo scriven- te dinanzi al Tribunale Ordinario per lesioni di macroleso o per perdita della vita di congiunto, oppure dinanzi al Giudice del lavoro per il risarcimento del danno biologico da danno psichico per depressione a seguito di grave menomazione da infortunio sul lavoro o per effetto del “mob- bing”, si è assistito a valutazioni medico-legali riguardo a tale tipo di danno, del seguente e a volte identico tenore, nel contesto del duplice “criterio” riferibile al “tempo” ed “all’intensità”: u- nivocamente, nel distinguere tra danno neurologico e danno psichico, di natura clinica sostan- zialmente diversa e con effetti pure diversi - colpendo il primo il sistema nervoso e il secondo in- vece la psiche (o mente) - viene ribadito l’utile ricorso all’indiscusso Manuale Diagnostico e Sta- tistico dei Disturbi Mentali, invocato in soccorso proprio ai fini del fondamento “scientifico”

dell’accertamento e della quantificazione del danno.

In buona sostanza, superando lo stesso ambito, che definirei più tradizionale, della lesione dell’integrità psichica derivata dall’infortunistica stradale ed estendendo la sua riconducibilità ad altre fattispecie, inerenti al rapporto di lavoro in special modo, appare corretto affermare che il danno psichico può derivare:

 da una menomazione fisica subita dallo stesso soggetto;

 da una lesione fisica inferta ad altri (trauma per morte del congiunto o lesioni a questo infer- te).

Altresì che detto danno:

 può essere indipendente da ogni danno fisico e coincidere con la sola lesione emotiva (“da mobbing”);

 può essere causa d’una patologia fisica allorquando viene “somatizzato”.

Un danno forse un po’ trascurato a suo tempo dai giuristi ed accompagnato, fino a pochi an- ni fa, da un certo scetticismo, data la sua difficile inquadrabilità, proprio per la sua stessa natura (trattandosi di turbamento mentale), di per sé facilmente decifrabile o interpretabile con notevole imbarazzo, sfuggendo tanti suoi aspetti al controllo umano, ed in quanto non facilmente traduci- bile in termini di pecunia e quindi di ristoro.

Fors’anche perché sovente confuso con il danno morale, in passato, ed ora confondibile e/o sovrapponibile con la nuova figura del danno esistenziale.

Resta il fatto che, comunque la si interpreti e qualunque sia il modo con cui si manifesta, sia esso causa (e in tal caso comporterà alterazioni delle normali funzioni biologiche) o sia effetto ( ovvero conseguenza di una lesione fisica quale ad esempio la perdita di arto oppure per quelle

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di un terzo - parente, familiare), così da parlare di “vittime secondarie”, la lesione dell’integrità psichica (o danno psichico) va ricondotta all’art. 2043 del codice civile ed è pertanto assogget- tabile alla regola dell’ingiustizia del danno (risarcimento per fatto illecito), e sarà rilevante quanto più assumerà il carattere e la natura di una vera e propria malattia, in ciò distinguendosi netta- mente dal danno morale, che, a sua volta, non può considerarsi alla stregua di un’alterazione patologica della mente.

Non vi è da stupirsi, pertanto, in considerazione delle suesposte perplessità ed incertezze ri- guardo a tale problematica manifestate da parte dei giuristi, che, legittimamente, il medico lega- le e psichiatra dott. R. Castiglioni si chiedesse (in Tagete n.2 - Maggio 1999 “DANNO PSICHICO: UNA RASSEGNA CASISTICA) se il danno psichico fosse ritornato di moda come fenomeno medico–legale, dato il notevole aumento dei casi, oppure se fosse solo un problema di maggiore sensibilità.

Di sicuro la lesione dell’integrità psichica, a prescindere dal costituire o meno una nuova mo- da, è salita alla ribalta per l’evolversi del costume e delle prassi giurisprudenziali cui gli organi di informazione (stampa, radio e televisione) hanno contribuito a dare forte risalto. Non passa gior- no che non appaiano sui quotidiani notizie eclatanti o di casi di malasanità collegati alla re- sponsabilità professionale dei medici e degli ospedali per errati o tardivi interventi sanitari con ri- sarcimenti disposti dai giudici in misura sempre più elevata, oppure clamorosi casi di “mobbing”, fenomeno di segno negativo, che, questo si, ha preso piede nel nostro Paese nei luoghi di lavoro con ripercussioni devastanti non solo sulla psiche del soggetto colpito, ma anche sui suoi rap- porti familiari ed interpersonali.

È certo che “è aumentata l’osservazione” rispetto ad un tempo, e che sono divenuti numerosis- simi i casi da postumi di natura psichica, non più, o solo, riconducibili esclusivamente ai traumi al capo, ma anche a tanti altri, forse meno evidenti ma peggiori: così pure, le cause lesive si so- no diversificate in una vasta e complessa gamma.

CAUSE LESIVE E DANNO PSICHICO

Rilevato che le cause lesive si sono progressivamente estese oltre l’ambito che definirei più tra- dizionale dell’infortunistica stradale, essendosene considerevolmente allargato il campo e la ti- pologia, ne scaturisce la loro riconducibilità:

1)

- agli illeciti comportamenti datoriali (così da veder censurare anche dalla Corte di legittimi- tà, per “condotta antidoverosa” e quindi illegittima, i datori di lavoro sia ex art. 2087 del codice civile in relazione all’art. 2043 del codice civile che ex art. 2049 del codice civile per la condot- ta - sovente “provocata” - dei preposti e colleghi del soggetto colpito, gravando sul datore di la- voro sia il generale obbligo di “neminem laedere” espresso dall’art. 2043 cod. civ. (la cui viola- zione è fonte di responsabilità extra contrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psichica e fisica del lavoratore sancito dalla succitata norma, ad integrazione “ex le- ge” delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale (CASS. civ., sez. Lav, 21/12/98, n. 12763).

2)

- alle gravi conseguenze per lesioni;

a)

- da infortunio sul lavoro (amputazioni, lesioni cerebrali per caduta da impalcatura in cantiere privo delle misure di sicurezza, in violazione della L. 626/94 e del DPR n.547/55);

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b)

- da malattie professionali (ipoacusia ambientale, epatite cronica di tipo C, AIDS, cecità);

c)

- da usura psicofisica per “stress” lavorativo (infarto da turni di lavoro straordinario in ecces- so e per mancato riposo settimanale: CASS. sez. Lav. sent. n. 8267 dell’1/9/1997- Pret. Lav.

Milano 9/9/98, est. Marasco, in Foti/VCM Spa in Riv. Crit. Dir. Lav. p. 190 voce Retrib.;

Trib. Torino, sent. 29/3/1999 in Guida al Lavoro n. 22 dell’8/6/1999 p. 19);

d)

- da Cassa Integrazione;

- da licenziamento, specie se ingiurioso e lesivo del decoro, della dignità e dell’onore del lavoratore (CASS. Sez. Lav. sent. 1/7/97 n.5850);

- da demansionamento e dequalificazione professionale (CASS. civ. Sez. Lav. sent.

n.3696/1996; CASS. Sez. Lav. sent. nr. 11727 del 18/10/1999 in Guida al Lavoro nr. 46 del 30/11/1999 p.25 con commento di Paolo Scognamiglio);

- da molestie sessuali, visite fiscali ossessive o sanzioni disciplinari a pioggia (come da giuri- sprudenza di seguito citata);

e)

- per stress da rumore (il caso “Malpensa”) e da inquinamento, da conflitti familiari, da morsi di cane, da vacanza rovinata (TRIB. MI - sent. n. 6736 del 4/6/1998, in “I contratti” n. 1/99 p. 39) e così via (la casistica è numerosissima).

Tutto ciò può portare il soggetto colpito all’autosvalutazione di sé, alla depressione, ad ansie e fobie, a somatizzazioni ed a gravi disturbi della personalità e a turbe psichiche.

L’EFFETTO “MOBBING”

Particolare sviluppo ed attenzione da parte dei media ha assunto in Italia nel corso degli ultimi anni il fenomeno del “mobbing”, termine anglosassone desunto dall’etologia, consistente nell’“aggressione sistematica” posta in essere dal datore di lavoro o da un suo preposto o supe- riore gerarchico, oppure anche da colleghi di lavoro, con chiari intenti discriminatori nei confronti di altro dipendente, protesi ad emarginarlo progressivamente nell’ambiente di lavoro, per ragioni di concorrenza, gelosia, invidia, competitività, e quant’altro di simile è possibile ipotizzare duran- te lo svolgimento dell’attività lavorativa. Dall’aggressione patita scaturiscono le sindromi, a volte gravi, di natura ansioso-depressiva, i cui sviluppi ed effetti sono spesso imprevedibili e portano a conseguenze profondamente disastrose per la salute del soggetto (anoressia, bulimia, ansia, pa- nico, fobie, sfiducia, compromissione dei rapporti personali e familiari).

Nei Paesi Scandinavi già esistono misure adeguate per la cura del mobbing (assistenza, codici di comportamento), dato il numero elevato dei suicidi, di cui è causa o concausa il mobbing.

Si segnala, in particolar modo e gravità, l’insorgenza della “depressione”, con la conseguenza della risarcibilità del danno a favore del soggetto leso come “danno biologico da danno psichi- co”.

È quanto mai fondata, difatti, detta risarcibilità in conseguenza della violazione dell’art. 2087 del codice civile, dovendo ricondurre il “vulnus” di tale specie - inteso nell’accezione più ampia come ferita, offesa, perdita, dolore, angoscia - nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato (Codice Civile - Libro Quinto, Titolo II°, Sezione II° art 2094 e seguenti), e come conseguenza di- retta, anche al di fuori di detto ambito, ossia in quello strettamente personale e familiare.

Il danno di tale natura che deriva alla salute viene definito, a partire dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n.184/1986, sia nella giurisprudenza che nella dottrina, e, nell’ambito me- dico-legale, come danno biologico da danno psichico (cfr. Prof.ri A. Marigliano e W. Brondolo:

“Il danno da menomazione psichica in Aggiorn. Prof. li n.26 dal libro: “Le nuove frontiere del

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danno risarcibile”.

LA VASTITÀ DEL FENOMENO E I SOGGETTI COLPITI

Oltre un milione, secondo una statistica europea e in virtù di ricerche della Clinica del Lavoro di Milano, sono gli italiani malati di “mobbing” a causa delle angherie patite sul lavoro, molto più al Nord (78%) che al Centro (20%) e al Sud (8%), e ben il 25% dei dipendenti sarebbe espo- sto al mobbing.

“Mobbing”: termine adottato per definire un profondo stato di disagio a causa della discrimi- nazione e dell’emarginazione negli ambienti di lavoro.

In testa, tra i più colpiti: gli impiegati il numero maggiore; seguono, nell’ordine, quadri (in particolare, CASS. Sez. Lav. 5/2/2000 n.1307 in “Guida al Lavor” 21/3/2000 n.11), operai, ed anche dirigenti (CASS. Sez. Lav. 5/11/99 n.12339) e a volte, più di rado, professionisti.

Ma il mobbing non colpisce soltanto questi soggetti e nei luoghi di lavoro, nella quotidianità (i soprusi sono in continuo aumento e così pure le denunce) ma “raddoppia”, in quanto nuoce e- normemente alla loro famiglia, a detta degli esperti per il particolare ruolo che riveste la famiglia nel nostro Paese (legami molto forti, partecipazione attiva ed intensa alla collocazione sociale e lavorativa dei suoi membri), al contrario della società nordica o anglosassone, che notoriamente educa i figli fin da bambini ad una maggior indipendenza.

È lecito chiedersi, visto il clamore che ora lo accompagna anche nei mass-media, se il mob- bing sia un fenomeno alla moda, di gradevole importazione esterofila (USA), o se invece abbia origini più remote.

È opinione dello scrivente che il fenomeno sia sempre esistito, seppur sottaciuto o risolto in positivo con la solidarietà sindacale di fabbrica, venendo di recente maggiormente alla ribalta nelle pronunce giurisprudenziali in concomitanza con il progressivo calo di “tenuta” e di rappre- sentatività sindacale nei luoghi di lavoro, fors’anche per carenza di ricambi generazionali ade- guatamente preparati, come funzionari e delegati sindacali, e per difetto di corretta trasmissione dei valori di democrazia e di tutela della dignità del lavoratore, patrimonio tradizionale di tale militanza.

Al diminuito potere contrattuale del Sindacato ha fatto seguito anche minore protezione, mi- nore vigilanza e minore controllo nei luoghi di lavoro, dando la stura a personalismi e mire car- rieristiche pregiudizievoli all’altrui dignità e professionalità.

In concomitanza, il mutamento profondo dello scenario industriale italiano (le fusioni con mul- tinazionali, la chiusura delle fabbriche più rappresentative per produttività e coscienza sindacale:

basti pensare, d’un colpo, alla Falck, alla Marelli e così via) può aver favorito “l’esplosione” del mobbing in misura direttamente proporzionale alla flessione della lotta sindacale nelle aziende (ciò spiega pure il proliferare dei sindacati autonomi).

Le conseguenze extra-lavorative dell’antidoverosa condotta datoriale, che si sviluppa nell’ambito ed a causa del mobbing, e che ora vede tra i primi colpiti persino i dirigenti (CASS.

Sez. Lav. 5/11/99 n. 12339, Pres. Delli Priscoli – Rel. Mercurio in Rasile / Ansaldo Spa), com- portano un danno alla salute che non si ripercuote soltanto sullo status professionale e psicologi- co del soggetto leso (il comune denominatore per tutti i “malati di mobbing” risulta essere la sin- tomatologia depressivo-ansiosa), ma anche sul menage familiare.

Non è infrequente che i soggetti affetti da mobbing si presentino ai colloqui di consultazione in sede sindacale o nello studio legale accompagnati da qualche congiunto che, con più forza dell’interessato, denuncia gli sconquassi del ménage familiare ed invoca un intervento a favore del soggetto leso e per il bene dell’intero nucleo familiare.

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Danno, pertanto, che si evidenzia in misura “doppia”, proprio per i duplici effetti, devastanti sia sul piano personale che su quello della serenità familiare, causando turbe e malesseri di varia natura e peso, i quali ben inducono ad estendere e far sfociare il fenomeno, dalla sua primitiva caratterizzazione come danno biologico (“tertium genus” o “danno evento”), nella configurazione della “nuova” ulteriore figura di danno, meglio conosciuto e definito dalla dottrina di più recente emanazione e dalla giurisprudenza già formatasi (seppure allo stato non copiosa), come “danno esistenziale”.

Si precisa opportunamente, onde evitare sovrapposizioni di figure e di criteri, che il risarci- mento del danno biologico da danno psichico – inteso come danno riparatore della lesione dell’integrità della persona – andrà sempre considerato in sé, e così liquidato, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza di qualsivoglia natura della lesione, “su basi e criteri medico legali e tabellari”, secondo le prassi ricorrenti nel Foro del luogo, salva la diversa attri- buibilità teorica della lesione alla responsabilità datoriale, e così pure la sussistenza dell’elemento della colpa, che peraltro accomuna la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale o aquilia- na sotto il profilo della concorrenza (CASS. CIV. Sez. Lav. sent. 21/12/98 n. 12763).

Il danno andrà sempre accertato e quantificato in sede medico-legale, in misura percentuale, per conseguire il giusto ristoro.

Dalla casistica delle controversie giudiziarie dal sottoscritto instaurate, in misura percentuale, emerge che la valutazione del danno psichico oscilla da un minimo del 10-15% sino al 30- 40%, il che non è poco, sia come pregiudizio alle normali attitudini che come riduzione della ca- pacità lavorativa, oltrechè come danno alla salute in sé.

Ma qual è “l’itinerario aziendale” del “mobbing”?

 il conflitto non risolto tra due o più persone per motivi connessi alla competizione interna;

 la diversità di opinioni e abitudini;

 il diffondersi delle maldicenze;

 il ripetersi di sabotaggi dell’operato svolto;

 l’ironia o lo scherzo a volte molto pesante;

 le accuse demotivanti;

 la perdita d’immagine nei confronti della clientela aziendale;

 l’accantonamento e la dequalificazione professionale (ad esempio, l’espletamento di mansioni di livello diverso e inferiore rispetto a quelle assegnate al momento dell’assunzione);

 la critica di avere utilizzato per sé materiale dell’azienda;

 il rifiuto di adeguarsi ad accettare tangenti, falsificazione dei bilanci aziendali, evasione delle tasse.

Non si assiste nella casistica giurisprudenziale, purtroppo, all’adozione di provvedimenti disci- plinari da parte di datori di lavoro nei confronti di preposti e colleghi del dipendente illegittima- mente mobbizzato, anche su input dello stesso datore.

LA GIURISPRUDENZA SUI CASI DI MOBBING

Si è sopra detto che i casi dei “perseguitati” dell’ufficio, dei “capri espiatori”, dei “dequalifica- ti”, dei “trasferiti”, fanno ormai parte della realtà quotidiana di tante aziende, in forme diverse, e più che mai alla ribalta anche nel nostro Paese, anche per l’attenzione prestata sia dagli addetti ai lavori (avvocati, giudici e medici legali, in particolare) che dai mezzi d’informazione.

Tra questi casi di “espulsione dall’attività lavorativa” si annoverano anche :

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- quelli attinenti alla “persecutorietà” posta in essere non solo con l’accennato demansionamen- to e dequalificazione professionale, (tra le tante : Trib. Catania sent. 9/4/98 in Guida al Lavo- ro 8/12/98 pg.30), senza trascurare che può sussistere demansionamento anche espressa- mente al di fuori del mobbing, principio del resto sempre accolto dalle Corti di merito e legit- timità;

- quelli posti in essere mediante le molestie sessuali e proposte indecenti (per la illegittimità e vessatorietà della condotta datoriale: Pret. Lav. di Rho sent. n. 54 del 13/3/98, parzialmente riformata dal Tribunale di Milano con sent. 5854/99; Trib. Milano 21/4/98 Pres. Ruiz, est. De Angelis, in Ceriani c/ Frecchiani e Sant’Andrea, in Riv. Crit. Dir. Lav. pg. 957);

- quelli posti in essere con il sistema delle visite fiscali assillanti fino all’ossessione e a pioggia, verso soggetti già a sofferenza fisio-psicologica (CASS. Sez. Lav. sent. n.475 del settembre 1998 - gennaio 1999 in “Guida al Diritto”); comportamento da cui scaturisce una vera e propria responsabilità contrattuale: (CASS: sent. 17/7/1995 n.7768);

- quelli posti in essere anche con la messa in Cassa Integrazione e con eccessivi carichi di la- voro (ormai copiose le pronunce su entrambe le fattispecie).

A tale proposito, di rilevante portata sociale appare la già citata sentenza della Suprema Corte (CASS., Sez. Lavoro n. 8267 dell’1 settembre 1997, Pres. Panzarani, Est. Guglielmucci in Lave- nuta c/ Ente Aut. Fiera del Levante di Bari), che sancisce il principio in virtù del quale “il mancato adeguamento dell’organico aziendale (in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro) nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo le regole di comune e- sperienza - la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute - costituisce violazione degli artt. 42, 2° comma Cost. e 2087 c.c., e ciò anche quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore “ (Mass. Giur. It. fasc. 8 – 1997 – UTET).

LA “PRIMA” SENTENZA DELLA CASSAZIONE SUL “MOBBING”

Di indirizzo negativo si è rivelata la prima sentenza della Suprema Corte di Cassazione sull’argomento in esame (CASS. SEZ. LAV. 8/1/2000 n. 143, Pres. Trezza – Rel. Prestipino in Fi- lonardi c/ Henkel Spa), ritenendo la condotta della lavoratrice - che aveva inviato lettera di diffi- da al datore di lavoro per “boicottaggio” e “arresto di carriera” diffusa a mezzo stampa, ed an- che avendo subito molestie sessuali dal Capo Reparto, lesiva del decoro del datore di lavoro e idonea a ritenere che fosse venuto meno l’elemento della fiduciarietà.

La pronuncia della Corte non appare però idonea a costituire un significativo precedente, dal momento che, come correttamente ha osservato a commento della stessa la Vice Consigliera Nazionale della Parità, Donata Gottardi, sulla rivista Guida al Lavoro, il giudizio si attesta sui troppi elementi che attengono al merito, ritenendo non provate né l’accusa di molestie sessuali, né il conseguente fenomeno del “mobbing” per la reazione e causa di sindrome depressiva della lavoratrice. In buona sostanza in siffatta pronuncia, la Corte non affronta alcuna questione di principio né sotto il profilo dei limiti al “diritto di critica” (art. 21 Cost.) – soprattutto se esercitata a mezzo stampa, come nel caso di specie – né sotto quello degli effetti professionali e personali di situazioni di mobbing tra superiore e dipendente, sfuggendo in tal modo ad un’analisi giudi- ziaria corretta sul predetto fenomeno e senza peraltro alcuna considerazione dello stato emotivo alterato che rendeva la lavoratrice non “compos sui”.

Di diverso e positivo avviso invece è stato, nell’inquadrare il caso nel CONCETTO UNITARIO DI MOBBING e non espletando CTU per il principio del fatto notorio ex art. 115 c.p.c., il

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TRIBUNALE DEL LAVORO DI TORINO, CON LA SENTENZA 6/10 - 16/11/1999, che ha rico- nosciuto come risarcibile il danno psichico da mobbing ad una lavoratrice lasciata ad operare in uno spazio molto angusto e ristretto, su di una macchina ed in condizioni di isolamento, ed espo- sta altresì ai maltrattamenti di un Capo Reparto.

Non poco preoccupa gli addetti ai lavori la copiosa casistica in materia avendo, come deno- minatore comune, alla base della lesione dell’integrità psichica, l’insorgenza della sintomatologia da “depressione” ansiosa, per il carattere dilagante di tale malattia, che si manifesta a volte con risvolti anche drammatici, colpendo il soggetto leso non solo al punto da estrometterlo del tutto, ed irreparabilmente, dal ciclo produttivo, ma anche emarginandolo nella famiglia e nella collet- tività.

Tutto ciò, difatti, comporta un elevato consumo di denaro in farmaci e cura, con costi esorbi- tanti non solo per il singolo, ma anche per l’intera società a carico dello Stato.

Non a caso, di recente, nel manifestare particolare preoccupazione, ma anche attenzione al problema, l’ex-Ministro della Sanità Rosy Bindi ha preannunciato in un’intervista rilasciata al Cor- riere della Sera del 26 gennaio scorso l’inserimento di un capitolo apposito riguardo alle spese di cure ed assistenza per tale patologia nel Piano Sanitario Nazionale, alla pari delle tossicodi- pendenze e dell’AIDS, altresì sulla base dell’allarme dato da Farmindustria riguardo all’elevato consumo di psicofarmaci: nel 1998 le vendite di ipnotici e benzodiazepine (primo fra tutti il Ta- vor) sono salite a 99 milioni e ad oltre 26 milioni quelle di antidepressivi e antipsicotici (Prozac in testa), senza contare i costi degli specialisti della mente (psichiatri, psicoterapeuti, psicoanalisti).

Si prospettano anche risvolti penali nei casi di mobbing, per la palesemente configurabilità come reato – data la sua gravità – della lesione dell’integrità psichica patita dal dipendente, se riconducibile all’illegittima e antidoverosa condotta datoriale, perpetrata anche attraverso i pre- posti e i colleghi del soggetto leso (ex art.2049 del codice civile, ne risponderà il datore di lavo- ro), ben potendosi ravvisare la fattispecie della norma di cui all’art.590 del codice penale (“le- sioni personali colpose”) o di quell’altra prevista dall’art.610 del codice penale (“violenza priva- ta”), oltrechè per i maltrattamenti, reati riferibili anche alle molestie sessuali, a seguito delle qua- li, di rado, si assiste a provvedimenti disciplinari a carico dei responsabili o preposti dell’azienda che le hanno poste in essere.

Ma è evidente che la risoluzione dei problemi sul lavoro di tale natura va ben oltre il supporto dell’affermazione di un principio di tutela a sfondo penalistico, costituendo a volte le conseguen- ze della patita depressione un pregiudizio tale all’equilibrio della persona ed al ménage familia- re da assumere, in taluni casi, una portata incommensurabile, e pertanto non facilmente emen- dabile, se è vero (come è vero) che la depressione è notoriamente una delle malattie più diffuse - e più gravi - del secolo, e che la sua insorgenza, una volta confortata da validi pareri e riscontri di natura medico-legale, è rapportabile (o riconducibile), a tante altre patologie, specie in riferi- mento all’ambiente di lavoro. Ad esempio, al concetto di malattia professionale contratta “in oc- casione di lavoro”, espressione propriamente adottata dal T.U. 1124/65, e così assimilata e

“tramandata” dalla giurisprudenza, in virtù anche della copiosa tipologia dei rapporti del rappor- to di lavoro, come, ad esempio, in quello ospedaliero, in cui è più facilmente riscontrabile come tale (malattia professionale) l’epatite cronica di tipo C, oppure i casi di forme tumorali per le la- vorazioni cancerogene, oppure anche come conseguenza della disoccupazione da licenziamen- to, della dequalificazione professionale, della Cassa Integrazione reiterata, od, infine, a causa di una grave menomazione fisica (perdita di dita o di mano, amputazione di un piede, oppure calo o perdita dell’udito - ipoacusia ambientale da rumore - e della vista), non solo a seguito di infor- tunio sul lavoro, ma anche di infortunistica stradale.

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Note positive si possono esprimere sulle “tecnopatie”, comportanti un danno biologico da “ rischio professionale”, e sulle quali la Corte Costituzionale si è più volte e favorevolmente pro- nunciata: citiamo le sentenze del 18 febbraio 1988 n. 179 e del 28 gennaio 1991 n. 87, e, an- cor meglio, la sentenza “ additiva” del 18 aprile 1996 n. 118 (in riferimento alla L. 25 febbraio 1992 n. 210 per l’equo indennizzo) - per il danno derivato da lesioni alla persona conseguenti a:

 vaccinazione obbligatorie;

 trasfusioni;

 somministrazioni di emoderivati.

Il tema è di estrema attualità, se si considera il diffondersi di tanti casi di epatite cronica di tipo C (infezione da citomegalovirus) e dell’Aids, per gli operatori sanitari (personale infermieristico e medico) negli ospedali e case di cura, e con l’esposizione divenuta ad alto rischio sia in Pronto Soccorso, che nei reparti per la cura di malattie infettive.

Specialmente per l’epatite cronica di tipo C si è riscontrata, nella casistica affrontata, la lesio- ne dell’integrità psichica in forma sovente grave, subentrando nel soggetto una forma di depres- sione e ansia quasi raddoppiate, per avere contratto - in virtù di un rapporto di lavoro che mai dovrebbe comportare danni catastrofici alla salute, in linea di principio ma anche in linea di fatto dovendosi esercitare da parte dell’obbligato la prevenzione necessaria - una malattia ancor più grave in quanto ad evoluzione cirrotica, e per gli effetti, pure depressivi e di alterno successo, dell’interferone alfa.

SULL’ONUS PROBANDI

Le maggiori difficoltà che si incontrano nel mobbing, al fine del riconoscimento del diritto alla risarcibilità, sono costituite dalla “prova”, non potendosi sottrarre al principio di cui all’art. 2697 del codice civile e sovente “probatio diabolica”, a causa delle reticenze dei colleghi del soggetto colpito da mobbing nel testimoniare (per le pressioni del datore di lavoro e per la paura di per- dere il posto di lavoro, oppure perché essi stessi portatori di mobbing), nonché per l’obiettiva dif- ficoltà di far valere il diritto di critica costituzionalmente garantito (art. 21 Cost.).

Potrà essere invocato, in soccorso del prestatore di lavoro e a sua difesa, il principio del “ fatto notorio” ex art. 115 del codice di procedura civile (paradossale la presa di posizione della Cas- sazione sul tema in una causa per molestie sessuali del capo ufficio, non ritenendo sufficienti i certificati medici attestanti la sindrome depressiva da mobbing, e non ritenendo provate sufficien- temente le accuse delle molestie nella citata sentenza della Cassazione n. 143/2000).

Ciò, sebbene sia facilmente riscontrabile nel soggetto colpito dalla condotta (anche con mec- canismi di “evitamento”) e dal modo di esprimersi, il calo di umore e di attaccamento alla vita ed il disinteresse per tutto ciò che lo circonda, il frantumarsi dei rapporti nell’ambito della famiglia e di tutto ciò che attiene alla sfera della vita di relazione, sessuale e quant’altro.

Non viene compromessa dal vulnus, peraltro, solo l’integrità psichica ma anche la personalità morale!

QUALI I RIMEDI AL MOBBING ? COME SI PUÒ PREVENIRE? COME SI POSSONO AIUTARE I SOGGETTI COLPITI?

La “vittima“ dell’aggressione (dal verbo “to mob”: attaccare, assalire), fatta di angherie, sabo- taggi, tecniche di isolamento e tattiche destabilizzanti, a volte rinuncia al posto di lavoro, gioco- forza, con una transazione che monetizza il danno e la perdita del posto di lavoro per non pre-

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giudicare oltremodo il suo già compromesso stato di salute, altre volte rinuncia del tutto ad in- traprendere un’iniziativa giudiziaria se è stata oggetto di molestie sessuali, per la vergogna di do- verne parlare pubblicamente.

In qualche caso il rapporto di lavoro si ricompone, in altri si perviene alla pronuncia del giudi- ce, con tutte le incognite sopra espresse sulla difficoltà della prova.

Dalla copiosa letteratura in materia risulta che diversi casi di mobbing sono sfociati nel suici- dio, soprattutto all’estero, e in particolare negli USA e nei paesi nordici europei.

Negli Usa il termine mobbing è stato presto soppiantato da quello di “bullying” (prevaricazio- ne spinta), parrebbe per evitare la pericolosa associazione con la parola mafia (“mob”).

Secondo il National Safe Workplace Institute, negli USA il costo per le aziende per risarcimenti e spese mediche e di cura a causa di violenze psico-fisiche nei luoghi di lavoro supera i 7.200 miliardi!

Peraltro l’interesse per il fenomeno ha scavalcato persino quello, notoriamente morboso, per il

“sexual harassment” (vedi vicenda Clinton)!

È stato pubblicato un libro-guida, sempre negli USA, dai coniugi Namie “Ballyproof yourself at work” con un carattere ampio e rilassante, che contiene una specie di decalogo (o regole) per difendersi dalle aggressioni, alla base delle quali vige il motto “Bersagli, non vittime”.

Una delle sorprese più grosse dei sondaggi effettuati nel 1999 negli USA è stata rappresentata dalla scoperta che le donne sono bersagliate da colleghe dello stesso sesso (46%), quasi quanto dai boss maschi (54%), e un’intera settimana è stata dedicata ad iniziative sul bullying in coinci- denza con il Labor Day.

In Italia le Associazioni costituitesi contro il mobbing, in particolar modo i CPS e la Clinica del Lavoro di Milano “L. Devoto”, offrono consulenza, assistenza e cure psico-terapeutiche: la media giornaliera dei casi ivi trattati si aggira attorno al numero di 7-8 unità, per vere o presunte ag- gressioni da mobbing.

La CGIL ha preannunciato di recente l’elaborazione di un codice etico a scopo di prevenzio- ne.

La UIL sta sperimentando al Comune di Milano uno “sportello aperto” sul mobbing.

Urgono e sono quanto mai necessarie, alla luce delle suesposte osservazioni, maggiore “pro- tezione” e “vigilanza” da parte del Sindacato, anche nelle imprese di dimensioni piccolo-medie, a tutela del diritto alla salute e, contemporaneamente, del diritto al lavoro, ritornando a costituire un valido riferimento per le vittime delle angherie e dell’emarginazione e ristabilendo in tal modo con più efficacia la democrazia e la solidarietà nei luoghi di lavoro.

LA NECESSITÀ DI UNA LEGGE: le proposte attuali

Specie in relazione all’argomento sviluppato nell’ultima parte della relazione, e considerato il caos giuridico-sociale in cui versa - allo stato - la trattazione della problematica del mobbing, si impone più che mai la necessità di una regolamentazione legislativa dello stesso.

Si ha notizia che alla Camera dei Deputati esistono tre proposte di legge sul “mobbing”: la prima, del luglio 1996, dell’On.le Salvatore Cicu, che istituisce il reato di mobbing; la seconda, del 1999, è dell’On.le Giorgio Benvenuto, indirizzata ad un’azione di prevenzione; altre due leg- gi, di cui una pressoché analoga a quella di Benvenuto, sono state presentate al Senato dall’On.le Giancarlo Tapparo e, più di recente, il 26/11/1999, dall’On.le Athos De Luca.

Il 5/1/2000 è stato proposto alla Camera dei Deputati P.d.L. n.6667 dall’On.le Pubblio Fiori, in linea con quello Cicu, cui si aggiunge quello dell’On.le Antonio Tomassini n. 4512 del 2/3/2000 al Senato.

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Le proposte non hanno finalità solo di intervento e repressione, ma anche preventive. Si po- trebbe ipotizzare una legge di equo indennizzo a carico dello Stato per il mobbing, in analogia alla legge 210/92!

QUALE RAPPORTO TRA “LESIONE DELL’INTEGRITÀ PSICHICA” E “DANNO ESISTENZIALE”?

Abbiamo sopra sottolineato che il danno psichico da mobbing, o da altri fenomeni, determina nel soggetto leso una condizione estremamente negativa “in proprio”, oltrechè nei riflessi, oltre- tutto negativi, riguardo al rapporto con i familiari (i prossimi congiunti), e, in generale, in ogni re- lazione interpersonale.

Il quesito su esteso è quanto mai legittimo e fondato, perché trattasi di un danno che si riper- cuote in tutte le espressioni e manifestazione di vita, compromettendo e limitando interessi e rap- porti interpersonali di coppia e d’amicizia, nell’ambito e nell’intimità della vita familiare, minando alla base sentimenti ed affezioni e provocando fratture e pericolosi conflitti, a volte insanabili ed irreparabili, che possono condurre, e in tanti casi conducono, allo sgretolamento della vita pro- pria e di chi sta accanto, a causa del progressivo deterioramento del proprio stato e dell’“accentramento” su di sé di ogni situazione ed effetto, rendendosi quasi, per certi versi, indi- fendibili.

Il non essere compos sui in permanenza determina nel soggetto leso un danno che, per il fatto di essere qualificato biologico-psichico, può essere quantificato ed è quantificabile, quanto alla sua risarcibilità, in parte tabellarmente e in parte, come sopra illustrato, equitativamente, secon- do le prassi vigenti.

Ma, allorquando tale danno permane nel soggetto “colpito” e “leso” oltre un certo tempo, e a prescindere dalla sua configurazione meramente medico-legale, viene spontaneo chiedersi - e il quesito meriterà ulteriore approfondimento – se esso non vada a collocarsi come suo sbocco na- turale in quella diversa e ulteriore categoria di danno conosciuta, per la sua “permanente transi- torietà”, come “danno esistenziale”, inteso quale danno a ciò che la persona “è”, e non a ciò che la persona “ha”, danno quindi lesivo di un diritto soggettivo della persona, garantito costitu- zionalmente: in buona sostanza, anch’esso “danno ingiusto” e, come tale, risarcibile (CASS.

19/2/98 n. 1761; D. Bellantoni in “Lesione dei diritti della persona” Cedam 2000).

Affinché le su estese riflessioni non appaiano prospettazioni di mere ipotesi di nuovi principi, visto anche l’ancora scarso ingresso nella giurisprudenza di questa nuova voce di danno (tra le poche, vedasi: Trib. Torino, 8/8/1995, Pres. Damiano, in causa Parasole c/ Beltramo e Sara spa, in Resp. Civ. e Prev. 1996, pg. 282; - Trib. Roma, 16/2/90, in GI, 1991, I, 2, C.34, Trib.

Milano con la sentenza del 1998 pubblicata nel 1989 su “Nuova Giur. Civ. e Comm., I, 157), potrà venire in soccorso un’attenta lettura degli Atti del Convegno svoltosi sul tema all’Università degli Studi di Trieste il 13-14 novembre 1998, presso l’Aula delle Conferenze della Facoltà di Economia, organizzato dall’Istituto Giuridico di detta Facoltà, ma, ancor più, l’autorevole dottri- na ispiratrice : Cendon e Ziviz su: “Il danno esistenziale”, in Le voci della responsabilità civile, Mi- lano, 1992; Ziviz: “La tutela risarcitoria della persona” Giuffrè Editore 1999; Monateri – Bona e Oliva: “Il nuovo danno alla persona”, Giuffè Editore 1999, che apre nuove frontiere alla risarci- bilità del danno.

Molti autorevoli autori hanno sottolineato nelle loro opere che il “danno esistenziale” è una le- sione di natura permanente caratterizzata da (costante) temporaneità, che può derivare da pro- blematiche del lavoro (dequalificazione, licenziamento, cassa integrazione, infortunio, molestie sessuali, per rimanere nel campo del lavoro) ma anche da altre di diversa origine e natura (ma-

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lattia, immissioni di rumore, vacanza rovinata, perdita di un congiunto, e così via), quale “somma di ripercussioni relazionali di segno negativo”, per tutte le “rinunce ad un facere”, e quale com- pressione di attività non reddituali (danno alla vita di relazione, alla sfera sessuale ed a tutte le altre espressioni di vita pregiudicate o limitate da simile voce di danno).

Orbene, se a parere degli autori succitati, il danno esistenziale:

1) “non” è il danno biologico (inteso quest’ultimo come “tertium genus”, ovvero come danno alla salute in sé, quantificabile e liquidabile in sede medico-legale);

2) “non” è il danno psichico (inteso come patologia medica) cui può sovrapporsi, se si aderisce ad una nozione allargata del secondo e che è quantificabile con il supporto della medicina legale;

3) “non” è il danno morale (o pretium doloris),

che cosa allora, nel campo della responsabilità civile, rappresenta il danno esistenziale, se non è tutto questo, tra le voci di danno risarcibili?

I cultori della teoria di tale voce di danno asseriscono che esso nasce dall’esigenza di reagire, con un equivalente ristoro, ad un’aggressione ingiusta che provochi un mutamento in negativo del complesso delle relazioni dell’individuo in quanto persona (così Navarretta in: “Diritti inviola- bili e risarcimento del danno”, Torino, 1996, con rilievi critici). Tutto ciò è facilmente comprensi- bile, e constatabile, nella quotidianità, dalla condotta dei soggetti colpiti, la cui esistenza subisce effettivamente uno stravolgimento sia del proprio essere persona che di soggetto calato nel socia- le.

Ma quale ristoro è possibile, se si tratta di un pregiudizio areddituale, non patrimoniale, ten- denzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esi- stenziale del danneggiato può dar luogo a risarcimento (Tagete: Rivista Medico–Giuridica in

“Danno esistenziale”; n. 1 marzo 2000)?

Ritengo che la risposta al quesito non sia di facile soluzione, non avendo una precisa matrice medico-legale.

Pur tuttavia, il “danno esistenziale”, quale “danno ingiusto” e, pertanto, quale violazione del principio di cui all’art. 2043 del codice civile, sarà risarcibile quantomeno con il ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 del codice civile, in quanto sicuro danno alla serenità familiare (peraltro già a suo tempo riconosciuto, indipendentemente dall’ipotesi di reato e dalla risarcibilità del danno morale, dal Tribunale di Milano nella causa Sanna c/Arbia, cit. con nota di Visentini).

Il principio è stato accolto anche dalla Suprema Corte di Cassazione, in seguito al riconosci- mento del danno da demansionamento professionale, che “costituisce un bagaglio peggiorativo diretto a interferire negativamente nelle infinite espressioni della vita”. (CASS. Sez. Lav.

18/10/99, n. 11727).

Dovendosi muovere nell’ambito della risarcibilità in via equitativa, il giudice dovrà pervenire ad una valutazione autonoma di ciascun capo di danno, provvedendo alla sua quantificazione quantomeno in via extratabellare e contemperando il danno esistenziale con le altre voci, a tutela di un diritto costituzionalmente garantito.

Per quanto riguarda invece il danno psichico, una volta quantificato in sede medico-legale, sarà risarcibile in virtù delle Tabelle del Tribunale in vigore nel luogo, nonché delle prassi assicu- rative e giurisprudenziali, in attesa di pervenire ad un criterio uniforme sul territorio nazionale del valore del punto del danno biologico, non essendo concepibile una diversa configurazione risar- citoria dello stesso danno a seconda delle diverse aree del Paese in cui le si tratta.

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LA LESIONE DELL’INTEGRITÀ PSICHICA IN CONSEGUENZA DEL MOBBING PUÒ COMPORTARE IL RICONOSCIMENTO COME MALATTIA PROFESSIONALE

ED ESSERE ANNOVERATA TRA LE “TECNOPATIE”?

Fermo restando tutto quanto sin qui argomentato, appare fondato prospettare se il danno bio- logico da danno psichico causato dal mobbing, costituendo una patologia medica, con conse- guenze non facilmente emendabili, e che tende a sconfinare, per l’ambito strettamente individua- le, per un lasso di tempo non definibile e non preventivabile, persino nel danno sopra definito e- sistenziale, pertanto permanente nei suoi effetti specie sotto il profilo della “rinuncia a un facere”, sia configurabile come una vera e propria “malattia professionale”, pur sempre sotto l’egida ed il rigore della medicina legale.

In buona sostanza, può rientrare tale voce di danno tra le “tecnopatie”?

Il quesito, per quanto legittimo, si presta a molteplici riflessioni e meriterà approfondimento, non apparendo di facile soluzione, ma, ad avviso dello scrivente, il fondamento del riconosci- mento del danno psichico da mobbing come tecnopatia può ben desumersi dalla natura e dall’insorgenza di tale voce di danno biologico in conseguenza:

1) – della violazione della normativa prevista dall’art. 2087, in relazione all’art. 2043 del codi- ce civile (nonché dell’art.590 del codice penale, trattandosi di lesioni personali gravi), nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato;

2) – della violazione di principi costituzionalmente garantiti (artt.2-3-4-32-35 e 37 Cost.);

3) - del suo indubbio carattere medico-legale, trattandosi di “lesione personale con carattere di permanenza”, o, comunque, di menomazione permanente in riferimento alla lesione dell’integrità psichica, una volta accertata e quantificata, e della riduzione della capacità lavo- rativa che deriva dalla predetta lesione;

a) - dell’assoggettabilità al suddetto accertamento e quantificazione medico-legale, “in misura percentuale”;

b) – della sussistenza dei requisiti di cui agli artt. 2-3 T.U. 1124/1965, nonché del “nesso di causalità” (in virtù ed “in occasione del lavoro” per la sussistenza del rapporto di lavoro su- bordinato ex art. 2094 del codice civile, proprio come ai fini INAIL), tra condotta datoriale an- tidoverosa ed ambiente di lavoro e il danno patito dal prestatore di lavoro (Cass. sent. n.

9801/1998: “all’occasione di lavoro” è riconducibile anche tutto quanto attiene alle condi- zioni ambientali di lavoro).

Trattasi di elementi che concorrono per la suscettibilità del riconoscimento come malattia pro- fessionale, ipotesi che appare vieppiù fondata in virtù dell’applicazione analogica del principio adottato dalla Corte Costituzionale mediante la sentenza “additiva” n.118 del 18/4/96, ma an- cor prima, dalla sentenza n. 179 del 1988, che aveva segnato il passaggio dal sistema chiuso tabellare delle malattie professionali a quello misto od extratabellare.

Con il D. Lgsvo n. 38 del 23/2/2000 (riordino dell’INAIL), è sancita altresì la previsione dell’indennizzo del danno biologico da infortunio sul lavoro a carico dello Stato, e l’art. 10 co.

4° qualifica come malattie professionali anche quelle “non tabellate”.

Orbene, potrà soccorrere tale tesi a favore dei soggetti danneggiati psichicamente da mobbing la stessa “ratio” adottata dalla Corte Costituzionale in occasione della pronuncia di incostituzio- nalità circa la limitazione temporale (e il conseguente diniego d’equo indennizzo) a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, tra-

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sfusioni e somministrazioni di emoderivati.

Per un principio di solidarietà sociale, la collettività ha il dovere di aiutare chiunque si trova in difficoltà, e ha anche l’obbligo di ripagare il sacrificio che taluno si trova a subire per un benefi- cio atteso dall’intera collettività.

Sarebbe palesemente contrario al principio di giustizia, come risultante dall’art. 32 Cost., alla luce del “dovere di solidarietà” stabilito dall’art. 2, che il soggetto colpito venisse abbandonato alla sua sorte e alle sue sole risorse ritenendolo risolvibile con l’assistenza pubblica.

Se si tratta, come nel caso del danno psichico da mobbing, di palese e grave danno alla salu- te, la menomazione della stessa deve necessariamente determinare:

1) - il diritto al risarcimento pieno del danno riconosciuto dall’art.2043 del codice civile in rela- zione all’art. 185 del codice penale, in caso di comportamenti colpevoli, per violazione dell’art. 2087 del codice civile, nonché degli artt. 2-3-32-35-37 e 41, 2° comma della Costi- tuzione, del Titolo I° della L. 300/70 (Statuto dei Lavoratori) e dell’art. 15 dello stesso nel “di- vieto di atti discriminatori”;

2) – il diritto ad un “equo indennizzo” discendente dall’art. 32 Cost., in collegamento con l’art.

2, se il danno è stato subito in conseguenza dell’adempimento di un obbligo legale, quale può essere la prestazione sanitaria e quale può essere rappresentato dalla prestazione di lavo- ro in sé;

3) – il diritto, a norma degli artt. 38 e 2 Cost., a misure di sostegno assistenziale disposte dal le- gislatore nell’ambito dell’esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali.

I soggetti colpiti alla mente dagli effetti più negativi del mobbing non possono essere ulterior- mente discriminati, né essere considerati una categoria speciale di appestati da cui conviene sta- re alla larga nel timore di essere a propria volta mobbizzati!

Essi non possono essere abbandonati a sé stessi e la società civile se ne deve fare carico.

È auspicabile una legge che, alla pari e sulla scia della L. 210 del 1992, operi a favore di questi soggetti, la cui malattia mentale assume a volte proporzioni di estrema gravità e, comun- que, sempre preoccupanti, indennizzandoli oltre il risarcimento del danno biologico, ben potendo sussistere il (necessario) collegamento – come condizione di legittimità costituzionale – tra la pre- visione legislativa e il diritto all’integrità psichica.

Del resto, per rimanere in linea con il tema, non si può fare a meno di ricordare che la Corte Costituzionale aveva operato un’altra svolta di grande rilievo, dopo quella realizzata con la sen- tenza n. 184 del 1986, nel sistema di tutela previdenziale dei lavoratori nei confronti delle ma- lattie professionali, compiendo il passaggio – mediante la sentenza n.179 del 10 febbraio 1988 – da un sistema di copertura assicurativa fondata sulla predeterminazione con elenchi tassativi di malattie tipiche e di lavorazioni morbigene (il c.d. sistema tabellare), a un nuovo sistema “misto”

od “extrabellare” in cui i lavoratori continuano a fruire dei vantaggi del sistema tabellare (se col- piti da malattie tipiche), ma sono anche ammessi a provare la natura e l’eziologia professionale di malattie tipiche, “acquisendo il diritto all’indennizzo per tutte le malattie delle quali sia comun- que provata la causa di lavoro”.

È evidente che la Corte ha considerato inadeguato un sistema di tutela assicurativa basato su di un’ elencazione tassativa delle malattie e lavorazioni, in un’epoca di profonde trasformazioni tecnologiche e anche del “rischio tecnopatico”, così come ha ritenuto in contrasto con il precetto costituzionale consacrato nell’art. 38, 2° comma Cost. il divieto di accertamento della causa pro- fessionale di malattie non tipiche (come è il “mobbing”).

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Collana Medico‐Giuridica n.10 

VULNERA MENTIS 

‐ Associazione M. Gioia ‐  17

Potranno essere sollevate, al riguardo, obiezioni circa le difficoltà di stabilire fino a qual punto, ed in quale misura, il danno accertato – e accertabile – possa costituire effettivamente una “tec- nopatia”, in ordine alla sua esatta configurazione, e non sussistendo alcuna tabella valutativa, come avviene, ad esempio, per le otopatie professionali, in virtù del Protocollo d’intesa con le forze sociali siglato dall’INAIL (all’uopo, vedasi la Circolare dell’Istituto n.17 del 31 marzo 1992, preceduta dall’accordo 12/12/91 sui criteri valutativi dell’ipoacusia professionale).

È un vuoto legislativo sicuramente da colmare, a tutela della salute e del diritto alla sua inte- grità.

Si ritiene altresì che, trattandosi di menomazione che inficia la libera esplicazione della perso- nalità umana, il danno psichico da mobbing, da qualcuno definito “dapista” (depressione-ansia- panico), assume una valenza prioritaria rispetto pure alle prestazioni assicurative erogate ex art.

38 Cost., all’interno della nozione di “sicurezza sociale”, maggiormente rilevando le situazioni soggettive essenziali per lo svolgimento della persona umana, al fine, precisamente, della “effetti- vità dei diritti sociali” e di garantire la “libertà dal bisogno”.

Un contributo proficuo a sostegno di questa tesi potrà, rectius dovrà provenire dai Patronati Sindacali, uscendo dal conservatorismo con iniziative coraggiose, avendo sempre svolto un ruolo primariamente fondamentale in questo campo, per poter conseguire a favore del lavoratore o la- voratrice, il “giusto indennizzo”, una volta riscontrata – ex art. 2 T.U. n. 1124/1965 –

“l’occasione di lavoro” ed il “nesso di derivazione eziologica tra prestazione lavorativa ed even- to” (infortunio e/o malattia professionale).

In caso di controversia giudiziale ed a fronte di obiettive difficoltà in assenza di un’apposita normativa risarcitoria a tutela dei soggetti colpiti alla salute dal mobbing, potrà sempre soccor- rere il principio della liquidazione equitativa del danno psichico, in virtù dell’art. 1226 del codi- ce civile, semprechè accertato nella sua natura ed entità in sede medico-legale.

Diversamente, come garantire il diritto alla salute inteso come integrità psico-fisica e non solo come diritto alle prestazioni sanitarie?

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