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IL DANNO BIOLOGICO DA MORTE: LE DUE IPOTESI

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IL DANNO BIOLOGICO DA MORTE:

LE DUE IPOTESI

Il danno alla persona può concettualmente e strutturalmente suddividersi nel danno di natura patrimoniale, nel danno morale e in quello biologico.

La singolarità del danno biologico anche sotto il profilo della struttura è rappresentata, com’è noto, dal fatto che lo stesso consiste in un “danno evento”, distinto dai “danno conseguenza” come il patrimoniale e quello morale. Il primo consiste, infatti, nell’evento materiale naturalistico che pur essendo conseguenza del comportamento, è aspetto costitutivo del fatto, mentre i secondi si concretano nelle conseguenze dannose ulteriori dell’evento legate all’intero fatto illecito da un nesso di causalità ulteriore.

Quando di parla di “danno biologico da morte”, occorre distinguere situazioni giuridiche differenti, riferibili direttamente al danneggiato o alle cd. “vittime secondarie” dell’illecito, che per comodità possono essere individuate nei congiunti o nei parenti del de cuius.

Nella categoria del danno biologico da morte distingueremo:

A. L’ipotesi del danno subito dalla vittima primaria, a sua volta rappresentato dalla:

1. perdita istantanea della vita

2. lesioni che degenerino nella morte dopo un apprezzabile spazio di tempo

B. Pregiudizio subito direttamente dalla vittima secondaria. In tal caso appare più corretto parlare di “danno biologico conseguente alla morte del congiunto”.

La situazione sub A) è quella proprio del danno diretto, che si realizza quando un soggetto perde la vita per fatto ingiusto altrui; il problema concerne la risarcibilità del danno costituito dalla perdita della vita, come danno biologico e la sua trasmissibilità iure hereditatis e ciò nei due casi: quello della perdita istantanea della vita e quello delle lesioni con successivo esito mortale.

La seconda ipotesi è quella della menomazione psicofisica del congiunto, o del terzo, come conseguenza diretta della morte del congiunto o dell’amico. In questo caso l’evento morte produce un ulteriore fatto che danneggia la salute del sopravvissuto, che potrà agire autonomamente iure proprio per il ristoro integrale del danno personale.

Nella prassi costituisce ipotesi normale quella in cui l’attore, vittima secondaria di un sinistro stradale o di altro fatto illecito, vanti una doppia legittimazione: iure hereditatis per il diritto di risarcimento trasmessogli dal defunto e iure proprio per il danno biologico personale risentito.

Ciò avviene in tutti i casi in cui la pretesa attorea è normalmente costituita da una richiesta di risarcimento danni a titolo di danno morale alla quale si aggiunge, da qualche anno a questa parte, quella a titolo di danno biologico per la morte del congiunto. Solo in quest’ultimo caso il pregiudizio costituisce una voce di danno che deve essere correttamente qualificata e che, in sostanza, costituisce l’oggetto della presente relazione.

Nella ipotesi sub A1) ed A2) ci troviamo in presenza di semplici ipotesi di danno biologico analoghe a quelle derivanti da lesioni non mortali.

La posizione della dottrina riguardo alla configurabilità di tali ultime figure di danno (pregiudizio subito dalla vittima primaria della lesione), sia sotto il profilo della perdita istantanea della vita, che per quanto attiene all’evento mortale differito nel tempo, può essere sintetizzata enucleando tre opinioni, che muovono da presupporti differenti nell’affrontare il problema della trasferibilità iure hereditatis del danno biologico da morte.

Opinione positiva

La opinione cd. Positiva da autorevole dottrina, distingue tra diritto, leso, di natura personale come tale non trasmissibile, e diritto di credito per la lesione subita, al quale vanno applicate le norme sulla cessione per atto tra vivi o per successione dei diritti di credito.

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Muovendo dal presupposto evidenziato in premessa che il danno biologico è per definizione un danno-evento (sulla base della corretta ricostruzione data da Dell’Andro nella nota decisione della Corte Cost. Del 1986 numero 184), il diritto al risarcimento nasce nel momento stesso in cui si verifica la lesione. La morte coincide, poi, con la menomazione totale della salute.

In sintesi, tale opinione muove dal presupposto che il bene vita ed il bene salute, entrambi necessariamente interessati da una lesione con esito mortale, vengono a coincidere sia per ciò che attiene il dato normativo, che per quello che riguarda l’aspetto naturalistico.

Per chiarire tale concetto, può essere utile paragonare i beni costituzionalmente garantiti della vita e della salute a due segmenti che, secondo tale opinione, hanno necessariamente le medesime dimensioni. In questo caso il segmento “salute” può essere sovrapposto a quello “vita”, coincidendo perfettamente. Nel momento in cui si verifica il decesso entrambi i beni vengono a cessare dando luogo ad un diritto di credito, come tale trasmissibile ai terzi. Conseguenza di ciò è che il danno da morte rientra nella fatispecie dell’art. 2043 c.c., e non prevede nella sua struttura la necessità di un

“ulteriore fattore temporale” per rendere risarcibile il pregiudizio.

Il fatto illecito del terzo elimina il diritto altrui alla vita, perché - ipso iure - trasforma in obbligatorio il rapporto giuridico che era già configurato come “assoluto” tra l’agente e la vittima.

La opinione positiva pone a fondamento delle proprie conclusioni (trasmissione del diritto risarcitorio iure hereditatis) il fatto che il credito risarcitorio sia sorto contestualmente al perfezionarsi dell’illecito e che l’evento morte sia lesivo del bene vita, considerato (a sua volta) equivalente al bene salute del quale la morte costituisce la massima lesione. Corollario ulteriore che la natura del diritto risarcitorio è quella di un diritto di credito a contenuto patrimoniale (posto che la norma di riferimento è l’art. 2043 c.c.).

Opinione negativa

La opinione negativa muove sostanzialmente dalle argomentazioni che costituiscono la critica dei presupposti stessi della opinione cd. positiva. Oggetto di contestazione è proprio la identificazione tra il bene della vita e quello della salute nel momento in cui si verifica la lesione mortale.

Per tornare all’esempio dei segmenti, l’opinione negativa contesta che i due segmenti siano perfettamente sovrapponibili, in quanto quello relativo alla salute deve necessariamente essere più

“corto” di quello della vita, per la configurabilità stessa del danno risarcibile.

L’obiezione fondamentale che si muove alla teoria positiva si basa sul dato normativo contenuto nella Costituzione. La sede del diritto soggettivo della salute è nell’art. 32 della Costituzione, mentre la sede del diritto alla vita è negli artt. 2, 3, 27 capoverso; nell’art. 2 quale diritto inviolabile dell’uomo (come la salute), nell’art. 3 nel riferimento all’individuo come persona, con pari dignità sociale (nella duplice valenza formale e sostanziale), nell’art. 27 capoverso che vieta la pena di morte, come sanzione massima per un delitto (salvo il caso di guerra in atto) (Cass. 10 maggio 1996).

Orbene, se i beni giuridici, vita e salute, sono giuridicamente configurati come diversi, viene a cadere il presupposto della identificazione tra tali beni nel momento in cui si vanno ad esaminare gli effetti della lesione con esito letale.

Tale opinione appare dominante in dottrina ed in giurisprudenza e si fonda oltre che sull’argomento della distinzione tra i beni lesi (argomento costituzionale), su quello del carattere personalissimo del diritto alla vita, insuscettibile di sostituzione con un diverso “bene” e di trasmissione ad altro soggetto per successione. I risultati cui perviene tale impostazione sono, conseguentemente, quello della natura personalissima del diritto alla vita, insuscettibile di sostituzione con altro bene oltre alla esclusione che dalla lesione possa derivare un diritto di credito trasmissibile.

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Opinione intermedia

Gli autori che affrontano la materia della risarcibilità del danno biologico da morte, inseriscono, quale ipotesi separata, quella della cd. tesi compromissoria, che rappresenterebbe la opinione che recentemente viene sostenuta dalla Corte di Cassazione e Costituzionale. In realtà, l’ipotesi di compromesso non può ritenersi quale fattispecie autonoma, costituendo semplicemente la applicazione dei principi evidenziati in relazione alla tesi negativa e riferiti non più all’ipotesi di morte istantanea, ma a quello delle lesioni con effetto letale differito.

Infatti, tale opinione ha esaminato il problema degli effetti giuridici che si realizzano in capo alla vittima primaria dell’illecito nel periodo di tempo che va dall’evento lesivo al decesso.

In base a questa tesi si ha la risarcibilità del danno biologico allorché la vittima resti viva per un tempo apprezzabile.

La tesi condivisa in dottrina da autori autorevoli, è stata sostenuta dalla giurisprudenza recente che ha affrontato il problema della liquidazione in via equitativa, evidenziando - come vedremo - che l’entità del danno deve commisurarsi all’ambito temporale intercorso tra la lesione e la morte.

In questo senso il danno risarcito è un danno biologico, che solo in senso lato può definirsi “da morte”, in quanto, come detto in premessa, si tratta di una ipotesi classica di danno biologico da lesioni ex articolo 2043 c.c. per tutta la fase che precede la morte.

La peculiarità attiene alla trasmissibilità agli eredi unitamente a tutti gli altri beni e crediti maturati in capo al de cuius in conseguenza di differenti rapporti obbligatori o reali.

La tesi muove dal medesimo postulato della opinione cd. negativa e cioè la differenza tra i due segmenti indicativi dei beni lesi e la necessaria maggiore estensione di quello della vita, che costituisce (fino a quando i due segmenti non saranno sovrapponibili) oltre al presupposto del riconoscimento del danno la misura stessa del danno biologico (tanto è vero che il risarcimento viene riconosciuto soltanto durante il periodo di sopravvivenza).

Come anticipato, la teoria intermedia ha trovato importante sostegno nella giurisprudenza della Cassazione (Cass. 1995, n. 2450, per l’ipotesi di successivo decesso non collegabile alla menomazione risentita; Cass. 29 settembre 1995, n. 10271; Cass. 12 ottobre 1995, n. 10628; Cass.

28 novembre 1995, n. 12229; Cass. Sez. III, 25 febbraio 1997, numero 1704, che sarà esaminata in seguito, sotto i profili della quantificazione del danno e della valutazione del “tempo apprezzabile”

che precede il decesso).

La Cassazione configura il pregiudizio come danno personale da lesione della salute, conseguito iure proprio dalla vittima e trasferito iure hereditatis ai suoi eredi, superando l’opinione cd.

positiva che considerava intrasmissibile iure hereditatis il credito risarcitorio perché conseguente alla lesione del diritto personalissimo alla salute. Corollario di tale impostazione è la dilatazione del concetto di legittimazione attiva, consentendo la risarcibilità dei danni prospettati dai parenti in genere della vittima, che concorrono alla chiamata ereditaria e, in assenza di eredi entro il sesto grado, persino lo Stato.

In conclusione, la caratteristica della tesi intermedia o compromissoria, che, va ribadito, esamina esclusivamente la fattispecie del danno biologico da lesioni non immediatamente mortali, è la funzione espletata dall’elemento temporale.

Il danno consiste, non tanto nella lesione, ma nella perdita che da questa si produce. Per quantificare la entità della perdita non deve aversi riguardo direttamente alla gravità della lesione (che pure costituisce uno degli indici di riferimento, ma che, nell’ipotesi di successivo decesso deve presumersi sempre prossima al 100%), ma deve considerarsi il lasso di tempo durante il quale la vittima primaria ha dovuto sopportare la menomazione inferta alla propria integrità psicofisica.

Conseguentemente l’entità della perdita è direttamente proporzionale alla lunghezza dell’intervallo di tempo che va dall’evento lesivo al verificarsi del decesso.

Orbene, è chiaro che in tanto è possibile apprezzare la perdita del bene salute che la lesione ha determinato, in quanto il bene vita ontologicamente diverso e più ampio è giuridicamente e empiricamente configurabile.

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La importante implicazione imposta dalla opinione maggioritaria della più recente giurisprudenza è la configurazione del danno biologico (in senso lato) quale perdita di utilità, apprezzabile dalla vittima e dal giudice soltanto se residua la vita che è necessariamente separata dalla salute.

Danno biologico da morte in senso stretto:

Danno subito dalle vittime secondarie per la morte del congiunto

L’ipotesi in esame è quella che va correttamente identificata nel cd. danno biologico da morte in senso stretto.

Per una esatta impostazione sistematica è opportuno anticipare che tale voce di danno viene collocata dalla dottrina tradizionale nell’ambito del cd. danno psichico (secondo la terminologia medica) ovvero danno psicologico (terminologia utilizzata dalla giurisprudenza). Tale categoria più ampia si inserisce a sua volta nell’ambito del danno biologico ex articolo 2043 c.c., quale lesione alla integrità psichica della persona, che si contrappone alla nozione più classica di danno biologico inteso quale lesione alla integrità fisica.

Come detto in premessa, il danno biologico da morte in senso stretto viene in esame quando l’attore, vittima secondaria di un illecito con esito mortale, assume di avere diritto al risarcimento di un “proprio” danno biologico, conseguente alla morte del congiunto, parente o - vedremo - della persona alla quale era legata da particolari vincoli anche non giuridicamente riconoscibili.

Evoluzione giurisprudenziale: La Cassazione

E’ opportuno analizzare in maniera sintetica l’apporto fornito alla teoria della risarcibilità iure proprio del danno, subito dalle vittime secondarie dell’illecito, dalla giurisprudenza più recente espressa dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale al fine di costituire nel modo più completo possibile questa nuova figura di danno.

La Cassazione, nelle decisioni dell’ultimo triennio, ha ripetutamente esaminato l’ipotesi di lesioni personali, seguite dopo apprezzabile lasso di tempo dalla morte ad esse conseguente, distinguendo tra i danni subiti dai congiunti “iure proprio” e quelli che potranno far valere iure hereditatis e cioè riferiti ai danni subiti in vita dal defunto per effetto delle lesioni colpose.

Nella sentenza 27 dicembre 1994, n. 11169, affrontando il problema della trasmissibilità iure hereditatis del danno biologico, che entra a far parte del patrimonio della vittima nello stesso momento della lesione, il S.C. ha affermato per la prima volta la trasmissibilità iure hereditatis del danno biologico. L’anno dopo ha ribadito la trasmissibilità iure hereditatis del danno biologico (nel caso di morte non immediata) sino a giungere, in una decisione di quest’anno, a definire con maggiore chiarezza l’ambito di tutela riconosciuto sia al de cuius prima dell’evento mortale sia ai suoi eredi, successivamente a tale momento.

Così, la Terza Sezione Civile - sentenza 19 ottobre 1996 - 25 febbraio 1997, n. 1704

(Presidente Bile; Relatore Preden) ha affermato il principio della risarcibilità del danno biologico iure successionis ai congiunti di una persona deceduta in conseguenza delle lesioni subite per il fatto illecito del terzo, qualora intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse. Con riferimento al periodo intermedio di permanenza in vita, è configurabile un danno biologico da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica patita sino al momento del decesso.

La Corte ha chiarito che il risarcimento del danno non patrimoniale compete iure successionis ai prossimi congiunti della persona deceduta, in quanto danno già entrato a far parte del patrimonio del defunto.

La decisione esplicita il presupposto che caratterizza le opinioni sopra esaminate (negativa e compromissoria) rappresentato dalla distinzione che la Corte di Cassazione opera preliminarmente tra il diritto alla salute e diritto alla vita.

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Questa distinzione, suffragata - come vedremo - dal pronunciamento della Corte Costituzionale con la sentenza 372/94, è tanto radicata da “isolare concettualmente il momento della lesione alla integrità psicofisica rispetto al momento della soppressione della vita”.

Ribadisce che non sempre ad un evento illecito e lesivo dell’altrui persona corrisponde l’insorgenza del danno alla integrità psicofisica (e la conseguente trasmissibilità agli eredi del relativo credito), in quanto tale ipotesi va esclusa quando tra l’evento e la morte sia trascorso un breve momento (“anche un solo istante”).

La questione attiene alla individuazione del momento in cui il danno all’integrità psicofisica effettivamente sorge in capo al soggetto leso e quando, invece, non sia possibile operare la predetta distinzione tra lesione e morte.

La distinzione non può essere rilevata quando l’atto illecito abbia cagionato la morte immediata, poiché, secondo la Corte, il diritto alla vita e quello alla salute sono ontologicamente diversi, con la conseguenza che la lesione del secondo non determina una lesione del primo. L’acquisto di qualsiasi diritto al risarcimento presuppone l’esistenza in vita del danneggiato (come già evidenziato da Cassazione 28 maggio 1996, n. 4910, Cassazione 29 settembre 1995, n. 10271, 28 novembre 1995, n. 12299 e 14 marzo 1996, n. 2115).

Deve prendersi atto che la recente opinione della Cassazione, che non si allontana dai chiari principi espressi dalla sentenza numero 184 del 1986 della Corte Cost., muove dalla configurazione del danno biologico conseguenza di fatto illecito, come perdita delle capacità o riduzione delle potenzialità umane che si concretizza “soltanto nella eventualità della prosecuzione della vita, in condizioni menomate, per un apprezzabile periodo di tempo successivo alle lesioni”.

La permanenza in vita del soggetto per un periodo di tempo tale da potergli consentire di percepire la portata e le conseguenze della menomazione subita è il presupposto del riconoscimento stesso del danno.

Questa valutazione del concetto e della portata della “apprezzabilità” del lasso di tempo, tale da consentire di affermare che il danno alla salute sia stato effettivamente subito dal de cuius e il conseguente diritto risarcitorio maturato nella sua sfera patrimoniale, è rimessa al giudice di merito.

Quanto al secondo aspetto, rappresentato dalla valutazione del danno resta il problema, non affrontato dalla Suprema Corte (perché oggetto della valutazione da parte del giudice di merito), della determinazione del quantum del risarcimento del danno spettante agli eredi, se e nella misura in cui è maturato in capo al de cuius.

Sul punto sussiste ancora contrasto, per quanto l’orientamento più accreditato, muovendo dal presupposto che la valutazione del danno e la sua monetizzazione sono rimesse all’apprezzamento del giudice di merito che le determina secondo equità, utilizza quale criterio principale di stima quello della durata della permanenza in vita.

Sulla base di tali premesse è agevole dedurre che la risarcibilità del danno biologico subito dalla vittima dell’illecito e maturato durante la permanenza in vita dello stesso, costituisce - in concreto - una voce di danno veramente trascurabile nel caso in cui debba farsi riferimento ai criteri ordinari o tabellari di liquidazione, riferiti non più alla vita media (ed in considerazione dell’età), ma al periodo di sopravvivenza dell’infortunato.

Una siffatta impostazione, che certamente appare preferibile rispetto alla opinione di chi ha inteso liquidare - per la permanenza in vita dell’infortunato per alcuni giorni - a titolo di danno biologico una somma pari a quanto avrebbe avuto diritto di percepire, nel caso di invalidità pari al 100% (Trib. Firenze 26.1.1996) trasmissibile agli eredi, probabilmente pecca di eccessivo rigore, poiché vanifica la componente statica del danno biologico.

La dottrina ha acutamente evidenziato, in tema di liquidazione del danno, l’inadeguatezza sia di una valutazione che non tenga conto la durata della sopravvivenza del soggetto leso, sia di quella più specificamente matematica che applichi, quale parametro liquidativo, un calcolo rigoroso fra invalidità e tempo di sopravvivenza.

La prima, infatti, trascura l’aspetto dinamico del danno, inteso quale sopportazione psicofisica della lesione proiettata in un arco di tempo pari alla vita media; il criterio appare inaccettabile nel

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momento in cui la sopportazione della lesione deve essere commisurata ad un arco temporale brevissimo per il sopraggiungere dell’evento morte.

Al criterio matematico si contesta che lo stesso non consideri adeguatamente la componente statica del danno, quella cioè più propriamente fisiologica; infatti, muovendo da una invalidità astratta pari al 100% ed applicando detto criterio si andrà a liquidare in favore del soggetto leso o dei suoi eredi un importo determinato proporzionalmente fra l’invalidità subita ed il tempo di sopravvivenza.

Nello stesso senso, ed ancor più di recente, la Cassazione (decisioni n. 3592 e 7975 del 1997) ha ribadito che, nel caso di morte istantanea, non spetta a tale soggetto alcun risarcimento a titolo di danno biologico.

La Corte pone a sostegno della decisione due argomentazioni, già enucleati dalla dottrina che sostiene la tesi negativa: il bene della salute è risarcibile in quanto si ripercuote sulla vita della persona menomata e il bene sacrificato non è la salute, ma la vita, e che tale bene non appartiene agli eredi i quali non possono vantare iure hereditatis alcun diritto in tale qualità. Al contrario i familiari hanno titolo a richiedere altre voci di danno: quello morale, quello patrimoniale e quello biologico da morte iure proprio.

Nella decisione di agosto del 1997, la Corte confermando il precedente e recente orientamento, precisa il concetto e la nozione giuridica di danno biologico sotto il profilo delle lesioni mortali:

costituisce danno biologico risarcibile la perdita, per il danneggiato, di utilità dell’esistenza determinata dalla lesione del bene salute. Non costituisce invece danno biologico la lesione diretta del bene della vita.

E’ ormai chiaro che per la Cassazione il diritto alla salute è subordinato alla permanenza in vita e che la lesione si sostanzia in una perdita di utilità della esistenza che presuppone, per essere apprezzata, una residua vitalità.

Evoluzione giurisprudenziale: la Corte Costituzionale

Successivamente alla sentenza n. 184 del 1986 il cammino della Corte Costituzionale è sempre stato in linea con i principi affermati nella citata decisione, sino alla sentenza n. 372 del 1994 che ha inequivocabilmente collocato il danno biologico da morte al di fuori della sfera di risarcibilità assicurata dall’art. 2043 c.c., avvicinandola alla fattispecie del danno morale ex art. 2059 c.c.

Prima di tale momento, con la sentenza 37/1994, la Corte Costituzionale aveva ribadito quanto sia affermato nella citata sentenza n. 184/86 e cioè che il danno morale soggettivo, quale turbamento psicologico temporaneo del soggetto, è danno-conseguenza risarcibile solo ex art. 2059 c.c.

La Corte, inserendosi in un recente filone giurisprudenziale della Cassazione, aveva precisato che ipotesi differente, invece, ricorre quando la sofferenza fisica o morale determini effettivamente alterazioni della psiche tali da incidere negativamente sull’attitudine del soggetto a partecipare alle attività e alle situazioni e ai rapporti in cui si esplica la personalità.

E’ il primo passo prima della decisione n. 372 del 27.10.1994 (Presidente Casavola, Rel.

Mengoni) che si occupa in particolare del danno biologico da morte, per ciò che attiene alla risarcibilità del danno e, quindi, alla natura giuridica dello stesso.

La nozione di danno biologico come danno evento non viene superata sebbene la Corte abbia agganciato la tutelabilità non più al criterio gerarchico con applicazione diretta della nuova norma, ma all’analogia iuris, dove il principio generale è nella norma costituzionale e la norma da applicare analogicamente è la norma generale del codice civile (l’art. 2043 c.c.).

La Consulta afferma di condividere l’orientamento della Cassazione che considera il danno biologico come tertium genus, distinto dal danno patrimoniale e dal danno morale, ma costruisce una nuova figura di danno biologico, come danno conseguenza, nei limiti in cui può trovare ingresso nell’art. 2059 c.c.

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La decisione della Corte, pur alla luce di tutte le valutazioni e le interpretazioni che la dottrina ha fornito dei principi contenuto nella sentenza, appare ancora oggi poco chiara.

In effetti, i primi commentatori hanno ritenuto di attribuire alla decisione un carattere innovativo e di rottura nei confronti dei chiari e lineari dettami della decisione del 1986.

Infatti, dall’esame dei primi scritti di commento alla decisione della Consulta, emerge immediatamente che il significato della sentenza è stato variamente inteso e ciò, probabilmente, non per la incapacità dei commentatori di estrapolare i principi fondamentali evidenziati dalla Corte.

In un secondo momento, grazie anche all’ulteriore chiarimento fornito dalla Corte attraverso un successivo provvedimento emesso nella stessa materia e dallo stesso estensore, la sentenza è apparsa meno innovativa e, forse, più chiara.

Certamente, i primi autori avevano individuato nel ripudio della costruzione proposta dalla sentenza n. 184 del 1986 l’elemento caratterizzante della decisione non considerando l’aspetto della interpretazione estensiva dell’art. 2059 c.c.

La Consulta, in realtà, ha affermato il principio secondo cui il danno non patrimoniale non è solo quello morale soggettivo, ma anche quello biologico/psicologico, danno conseguenza, perché derivante dal medesimo evento produttivo del danno morale.

Il passaggio della decisione in cui si parla di danno biologico quale danno conseguenza, infatti, ha posto non pochi problemi all’interprete.

Al contrario, oggi, il riferimento alla conseguenza viene correttamente inteso rapportandolo al fatto che il soggetto danneggiato non è il destinatario diretto del fatto illecito (la vittima primaria), ma una persona diversa che poco o nulla ha a che fare con l’autore del danno.

Danno conseguenza va inteso nel senso che il danno da morte costituisce la conseguenza del danno diretto subito dalla vittima primaria.

Subito dopo la Consulta fornisce, in motivazione, la nozione esatta della nuova figura di danno:

“Il danno alla salute è il momento terminale di un processo patogeno (danno biologico) originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che, in persone predisposte a determinate condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.) può degenerare in trauma fisico e psichico permanente, alle cui conseguenze, in termini di perdita di qualità personali e non semplicemente al pretium doloris, va allora commisurato il risarcimento.”

In sostanza, si configura il danno psichico da morte del familiare come un danno conseguenza, non patrimoniale, rientrante nell’ambito dell’art. 2059 c.c., e spettante ai superstiti iure proprio con i relativi oneri di prova in ordine al nesso di causalità.

Pertanto, il nuovo quadro costituito dalle pronunce della Corte Costituzionale in tema di danno biologico da illecito civile, determina un consolidamento della definizione del danno biologico secondo la comune accezione del diritto vivente (dottrina e giurisprudenza) come danno della salute della persona, determinante una menomazione della integrità psicofisica.

Viene ribadita, con le necessarie precisazioni, la concezione del danno biologico come danno- evento (dove l’evento è la lesione della salute) sempre risarcibile, in via equitativa, distinto dai danni conseguenza, patrimoniali e morali, risarcibili se e nella misura concretamente provata.

La Corte, da ultimo, evidenzia la necessità di una interpretazione estensiva, costituzionalmente adeguata, dell’art. 2059 c.c. nel caso di danno da morte a terzi concretamente danneggiati psichicamente da tale evento.

Il danno biologico da morte del dante causa, risarcibile iure proprio agli aventi causa, come danno psicologico, è danno-evento, anche se appare come conseguenza del danno subito dal terzo defunto. L’evento è sempre la lesione della salute che determina quale evento diretto la morte del danneggiato e quale conseguenza giuridica la risarcibilità nei confronti degli eredi del primo.

Le questioni sulle quali era stato sollecitato l’intervento della Consulta non erano di poco conto.

La Corte Costituzionale era chiamata a decidere sull’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze (datata 10.11.93, in Foro It., 1994), in relazione alla asserita illegittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. - nella parte in cui non consentirebbe il risarcimento del danno per violazione del diritto alla vita del de cuius o del danno alla salute subito da un familiare a causa dell’evento

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mortale - e dell’art. 2059 c.c. - nella parte in cui limiterebbe il risarcimento del danno da uccisione di un congiunto al solo danno morale soggettivo.

La Corte ha ritenuto infondate entrambe le questioni di legittimità costituzionale.

Come detto, ha precisato che “vita e salute sono beni giuridici diversi, oggetto di diritto distinti, sicché la lesione dell’integrità fisica con esito letale non può considerarsi una semplice ipotesi di lesione alla salute in senso proprio, la quale implica la permanenza in vita del leso con menomazioni invalidanti”.

La Corte ha rilevato che, anche nella precedente sentenza n. 184/86, si era affermato che la prova della lesione era in re ipsa, ma la fattispecie esaminata da quel giudice rimettente aveva avuto ad oggetto l’ipotesi di menomazione dell’integrità psicofisica dell’offeso rimasto in vita, mentre la fattispecie esaminata nel 1994 ha ad oggetto “la diversa ipotesi della lesione dell’integrità psicofisica immediatamente letale”.

La Corte Costituzionale ha richiamato quindi la risalente sentenza della Corte di Cassazione Sez.

Un. N. 3475/1925, la quale aveva già affermato che un diritto al risarcimento può sorgere in capo alla persona deceduta limitatamente ai danni verificatisi dal momento della lesione a quello della morte. In sostanza, non sorge alcun diritto nel caso di morte istantanea o quasi.

L’aspetto giuridico più rilevante (e maggiormente contestato in dottrina) attiene al ragionamento secondo il quale sono i limiti strutturali della responsabilità civile ex art. 2043 c.c. ad impedire il riconoscimento ai congiunti di un diritto al risarcimento del danno iure hereditario: l’oggetto del risarcimento non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva e la liquidazione del danno non può riferirsi se non a perdite.

Così, secondo la Corte, nell’ipotesi di morte immediata, non sussistendo nel patrimonio del defunto un diritto risarcibile (per intervenuta cessazione del bene vita), non spetta neppure ai prossimi congiunti.

Questa, in sostanza, l’argomentazione negativa della Corte che ribadisce la inammissibilità di un risarcimento del danno biologico iure hereditatis.

Quanto al differente profilo del risarcimento del danno biologico iure proprio dei prossimi congiunti sottoposto all’esame della Corte, poiché nell’ipotesi di danno biologico da morte sussiste certamente una disgiunzione tra il soggetto che pretende il risarcimento (vittima secondaria) ed il titolare del bene primario definitivamente compromesso (la vita della vittima primaria), il principio di tutela assicurato dall’art. 2043 c.c. pone alcuni problemi che non consentono di individuare in tale norma il principio al quale fare riferimento in sede di pretesa risarcitoria.

Secondo la Corte, l’eventuale applicazione dell’art. 2043 c.c. comporterebbe di valutare la lesione del terzo quale evento dannoso integrante un’autonoma fattispecie di danno ingiusto, riducendosi ad una mera finzione, “non essendo possibile, per difetto di concreta prevedibilità dell’evento, una valutazione autonoma della colpa”. Nella responsabilità extracontrattuale si risponde anche dei danni imprevedibili, ma la loro risarcibilità presuppone un giudizio di imputabilità del danno evento che è regolato in generale dal criterio della colpa.

L’applicabilità dell’art. 2043 c.c. si risolverebbe in una responsabilità oggettiva per pura causalità.

Per esclusione, quindi, il modello risarcitorio applicabile è quello di cui all’art. 2059 c.c., con tutte le conseguenze connesse ad una siffatta affermazione: il danno biologico iure proprio è danno non patrimoniale ingiusto e risarcibile soltanto come pregiudizio effettivamente conseguente ad una lesione. L’attore, prossimo congiunto, deve provare che il proprio danno alla salute costituisce “il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo e che in persone già predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa ecc.) degeneri in un trauma fisico o psichico permanente alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto va allora commisurato il risarcimento”.

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Come anticipato, la effettiva portata dei principi enucleati dalla Consulta non è stata immediatamente percepita dagli operatori del diritto, che, anzi, hanno subito evidenziato una serie di incongruenze nell’argomentare della Corte.

Un chiarimento, sebbene non esaustivo, è stato apportato con la successiva ordinanza n.

293/1996, con la quale il medesimo estensore ha sostanzialmente precisato alcuni passaggi della sentenza n. 372/94, ribadendo che l’inclusione del danno alla salute nella categoria considerata dall’art. 2059 c.c., “non significa identificazione col danno morale soggettivo, ma soltanto riconoscibilità delle due figure, quali specie diverse, al genere del danno non patrimoniale ... la sentenza n. 372 ha parificato il trattamento giuridico sul presupposto della loro distinzione tra pretium doloris e danno biologico da morte, nel senso ... che le conseguenze risarcibili si estendono a tutti i danni non patrimoniali da esso cagionati compreso il danno alla salute”.

In sintesi, la Corte ha affermato che le due categorie del danno morale e biologico restano differenti, ma rientrano nella stessa fattispecie generale. La norma che consente il risarcimento del danno biologico iure proprio è l’art. 2059 c.c., e tale risarcibilità è necessariamente limitata in quanto il danno morale soggettivo non rappresenta un bene costituzionalmente garantito.

Pertanto, per superare buona parte delle incongruenze che, comunque, permangono nonostante le successive precisazioni contenute nella ordinanza del 293/96, ritengo che sia opportuno differenziare i due profili: quello della natura giuridica delle diverse componenti del danno alla persona da fatto illecito, da quello della tutela e quindi della risarcibilità di tale danno.

Sotto il primo aspetto, la tripartizione del danno operata dalla Corte del 1986 resta immutata, in quanto oltre al danno patrimoniale e morale soggettivo (danni conseguenza) viene riconosciuta la terza ipotesi del danno biologico, costituzionalmente garantito dall’art. 32, nel cui ambito occorre distinguere il danno alla integrità fisica e quello alla integrità psichica. In tale categoria si colloca il danno biologico da morte del congiunto.

Al contrario le norme che tutelano tali ipotesi di danno sono due: l’art. 2043 applicabile al danno patrimoniale e biologico, con esclusione di quello da morte e l’art. 2059 c.c. che tutela tale ipotesi di danno oltre a quello morale in senso stretto.

Rilievi della dottrina

Il ragionamento della Corte non è immune da vizi, che autorevole dottrina ha evidenziato sotto tre profili che non consentirebbero di ritenere accettabili i risultati cui è pervenuta la Consulta.

Innanzitutto, se quello del familiare è danno biologico risarcibile ex art. 2059 c.c., tale norma sarebbe illegittima, giacché renderebbe risarcibile la violazione di un diritto costituzionalmente protetto soltanto quando il fatto illecito fosse qualificato come reato.

In secondo luogo, la diversità del soggetto che pretende il risarcimento rispetto al titolare del bene primariamente leso, non è rilevante quando il fatto illecito leda contemporaneamente il diritto della vittima primaria e quella della vittima secondaria. Infatti, non ha destato particolari preoccupazioni l’ipotesi del danno fisico arrecato a un coniuge, che lede al contempo i diritti dell’altro coniuge (danno sessuale), ove impedisca i rapporti coniugali (Cass. 11.11.1986, n. 6607).

Infine, per quanto attiene alla prevedibilità del danno fisico o psichico del congiunto superstite, l’argomentazione sarebbe insostenibile in quanto, in concreto, è certamente prevedibile che la vittima abbia una famiglia e che i familiari possano probabilmente subire un danno almeno psichico.

Conseguentemente è stato opportunamente rilevato che, alla luce delle recenti decisioni della Consulta, l’ordinamento conosce ancora casi di totale irrisarcibilità, come nel caso di morte immediata (rispetto alla lesione) di un minore a seguito di illecito con responsabilità presunta (e vengono in esame non solo le ipotesi ex art. 2054 c.c. e 2050 c.c., a anche quella, estremamente ricorrente, prevista nel caso di terzo trasportato ex art. 1681 c.c. come rilevato dal Cass. 2705/70).

In tali casi, esclusa o non provata l’esistenza di un danno patrimoniale in capo ai familiari, come di norma accade con la morte di un minore (ma anche dell’anziano), l’assoluzione del responsabile in sede penale apre la strada alla sola configurazione di un illecito civile per responsabilità presunta

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ai sensi dell’art. 2054 c.c., con conseguente esclusione del danno morale e del danno biologico sofferto dai familiari che, nella interpretazione data dalla Consulta, ne costituirebbe un aspetto; la immediatezza della morte non consente il risarcimento del danno biologico iure successionis, per cui altro non resta che riconoscere il rimborso del 50% delle spese di esequie e di lite.

Sulla base di tali risultati poco confortanti alcuni autori hanno sostenuto con nuovo vigore impostazioni che le recentissime decisioni della Corte di Cassazione sembrano avere definitivamente cancellato. Si ripropone la tesi della autonoma risarcibilità (in via equitativa, ma sulla base di parametri oggettivi) del diritto alla vita, quale diritto fondamentale ed inviolabile dell’uomo costituzionalmente garantito (art. 2 Cost.), con soluzione economicamente ragionevole e flessibile (perché svincolata dal riferimento alle tabelle del danno biologico), idonea a coniugare principi solidaristici ed aspetti necessariamente sanzionatori.

E’ stato detto che questa soluzione solo apparentemente risulta preclusa alla luce della sentenza 372/1994 della Corte costituzionale in quanto è stato rilevato che, fra i danni ingiusti autonomamente risarcibili, andrebbe annoverato quello alla vita, inteso come diritto primario, costituzionalmente garantito ed inerente alla persona umana non diversamente da quelli alla integrità psicosomatica, alla reputazione, alla riservatezza, alla libertà sessuale, alla identità personale, ecc.; e tanto sul presupposto che la Consulta abbia omesso di considerare la autonoma risarcibilità del diritto alla vita in quanto tutta la motivazione appare incentrata sul solo danno alla salute, seppure esaminato per l’ipotesi di “lesione all’integrità fisica immediatamente letale”.

In realtà, la Consulta si è precisamente espressa sul punto e l’argomentazione, come già visto, è stata ripresa e puntualizzata dalla Cassazione nella pronuncia del 25 febbraio 1997 n. 1704, dove è stato affrontato il problema della autonoma risarcibilità della perdita del diritto alla vita, ribadendo il principio (indicato dalla Consulta) che la morte non è da considerarsi quale massima lesione possibile della vita, ma piuttosto il sacrificio di un diverso bene giuridico. Ha poi negato la autonoma risarcibilità del diritto alla vita nel caso di decesso immediato in quanto le perdite del tipo di quelle indicate dall’art. 1223 c.c., non sono ravvisabili in caso di morte posto che “la morte impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona offesa, ormai non più in vita, sicché non sorge nel patrimonio dell’offeso un diritto al risarcimento per la perdita della vita, trasferibile agli eredi”.

L’ostacolo è quello del limite strutturale della responsabilità civile ex art. 2043 c.c., che afferisce tanto all’oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridicamente soggettiva, quanto alla liquidazione del danno, che non può riferirsi se non a perdite.

Legittimazione attiva

L’avvicinamento della fattispecie del danno biologico da morte alla categoria del danno morale trasferisce sulla prima le problematiche che attengono alla seconda sotto il profilo della legittimazione attiva poiché l’art. 2059 c.c. non definisce in maniera tassativa l’ambito della categoria dei “prossimi parenti” e le condizioni di vita ed il tipo di relazione che garantisce una tutela risarcitoria.

Sinteticamente va detto che, in riferimento alla legittimazione relativa al danno morale, vengono generalmente prospettate tre soluzioni:

Una interpretazione restrittiva, sostenuta dalla Cassazione negli anni ottanta, identificava il soggetto danneggiato nell’offeso dal reato, sicché la legittimazione dei terzi veniva radicalmente negata. Una interpretazione estensiva, che estende la legittimazione a chiunque possa dimostrare un dolore (per il danno morale) ovvero un grave e stabile turbamento psichico (per il danno psicologico) casualmente correlato all’illecito, salvo identificare quest’ultimo come ipotesi di reato.

(Cass. 1994, n. 2988 per la estensione della tutela del danno morale convivente more uxorio) Da ultimo la teoria espansiva che considera, in tema di danni da morte, oltre al pretium doloris (danno morale soggettivo) un pregiudizio, consistente nel venir meno dell’assistenza, della solidarietà e

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dell’affetto del congiunto (cd. danno esistenziale “familiare”). L’allargamento dei soggetti legittimati a richiedere un risarcimento viene realizzata, in tale ultima ipotesi, con il riferimento alla norma costituzionale dell’art. 29 in tema di famiglia e non più o non solo con l’ipotesi ex art. 32 Cost.

In dottrina, invero, sono stati elaborati diversi criteri per meglio definire l’ambito di operatività della norma, senza incontrare il consenso della giurisprudenza. Così non ha avuto seguito la tesi che tende a far corrispondere i soggetti legittimati con i portatori del credito agli alimenti. Si è obiettato, infatti, come un simile criterio appaia tecnicamente poco coerente, essendo esso fondato su una connessione arbitraria tra l’obbligazione di carattere patrimoniale e i ben distinti profili della spettanza dei danni morali.

In linea generale, la giurisprudenza risulta incline ad ammettere la riparabilità del danno non patrimoniale ogniqualvolta il rapporto di stretta parentela con la vittima, le condizioni personali e ogni altra circostanza del caso concreto siano tali da evidenziare - per se stesse - un grave perturbamento dell’animo e della vita familiare. Si tratta quindi di stabilire, volta per volta, l’esistenza di un preciso nesso di causalità tra evento dannoso e peggioramento della sfera emotiva del congiunto, indagando, in particolare, “sulla natura dei rapporti che univano il preteso danneggiato all’ucciso sotto svariati profili, quali i vincoli di sangue, affettivi, di coabitazione, di consuetudine di vita (Trib. Firenze 4.6.92)”.

A riguardo, nella valutazione del danno di natura morale non appare determinante il semplice elemento della convivenza, sebbene il diritto alla liquidazione del danno morale venga dalla giurisprudenza attribuito ai familiari non conviventi solo eccezionalmente, in presenza di situazioni particolari.

Ad esempio la Cassazione (23.6.93 n. 6938) ha negato il risarcimento ai nonni di un bambino, il quale era deceduto in un incidente stradale: ciò in quanto si trattava di soggetti i quali non vantavano un vero e proprio diritto ad essere assistiti anche moralmente dalla vittima deceduta.

Quanto ai rapporti familiari specifici, può ricordarsi come, con riguardo al coniuge della vittima, venga considerata irrilevante - ai fini del risarcimento - la circostanza che egli sia successivamente passato a nuove nozze (Cass. n. 3100/83) o il fatto che fosse in precedenza cessata la convivenza, a seguito di separazione personale (Cass. 3116/83).

Quanto ai minori di tenera età, nei loro confronti risulta generalmente ammesso il risarcimento del danno non patrimoniale, pur tenuta in debito conto la possibilità di un'imperfetta o non immediata percezione del dolore. Occorre a tale proposito fare un distinguo, in quanto la analogia tra danno biologico da morte e danno morale sotto il profilo della tutela, non ricorre certamente per quanto riguarda gli effetti della lesione subito dal minore. Infatti se è vero che la Cassazione con decisioni risalenti nel tempo ha affermato che la imperfetta percezione dell'evento morte da parte del minore non deve costituire un elemento determinante in senso ostativo, dal momento che i piccoli risentiranno in futuro un pregiudizio (Cass. 1079/74) è anche vero che, da un punto di vista medico-legale, le conseguenze sul minore della morte del congiunto sono rilevanti e soprattutto certe (per le considerazioni che si diranno), ma rientrano a pieno titolo nell'ambito del danno biologico (da morte).

Anche la tutela del nascituro pone una serie di problemi, in quanto nell'ipotesi in cui a chiedere il ristoro sia il figlio (della vittima) non ancora nato all'epoca dell'illecito, la Cassazione (precedente a C. Cost. 184/86) appariva orientata in senso contrario alla riparabilità del danno. A favore della tutela del nascituro appare schierata certa giurisprudenza di merito più recente (Corte d'Appello, Torino 8.2.88).

In dottrina, sul punto, si è ritenuto che il danno non patrimoniale, incidendo sulla personalità del leso, abbia per se stesso carattere permanente - con riflessi che si manifesteranno lungo tutto l'arco della vita del danneggiato, a partire dal momento della nascita.

Tale opinione appare condivisibile soprattutto in riferimento all'ipotesi di danno biologico per morte del genitore, mentre appare contrastare in parte con la natura temporanea del danno morale soggettivo quale risulta dalle ultime decisioni della S.C.

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Non meno problematico appare la questione della legittimazione attiva di soggetti ai quali l'ordinamento non riconosce un particolare status giuridico ma che rientrano, latu sensu, nell'ambito del rapporto familiare.

Il caso più di frequente riguarda il danno subito dal convivente more uxorio. In passato e sino agli anni ottanta erano prevalse tendenze di segno spiccatamente negativo quanto a una possibile legittimazione del familiare di fatto.

A partire dall'ultimo decennio, si può constatare come la prospettiva tenda a mutare considerevolmente presso i giudici di merito, con il riconoscimento di una legittimazione del convivente, di recente accolte anche dalla stessa Cassazione (Cass. 2988/94). La Convivenza more uxorio non rappresenterebbe più una situazione di mero fatto, ma una situazione giuridica protetta, tale perciò da consentire il ristoro dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione della stessa.

Danno non patrimoniale e lesioni personali del congiunto

Nel caso in cui l'illecito abbia menomato in maniera grave e permanente l'integrità psicofisica della vittima, senza tuttavia sfociare nel decesso del danneggiato, si pone il problema della risarcibilità dei congiunti per il pregiudizio eventualmente subito a causa della notevole lesione psicofisica che ha colpito il congiunto.

Contrariamente all'ipotesi di morte, la permanenza in vita della vittima consente - evidentemente - a quest'ultima di richiedere il risarcimento, in ordine al danno morale correlato alle proprie condizioni di vita alterata. Bisogna vedere, allora, se a tale pretesa potrà o meno affiancarsi un'autonoma richiesta da parte dei familiari: pretesa avente per oggetto i patemi d'animo o il trauma permanente da costoro personalmente sofferti in seguito alla lesione del proprio caro.

Tradizionalmente la posizione della giurisprudenza è di segno negativo, sussistendo, in ogni caso, l'opportunità di non gravare eccessivamente sull'economia del danneggiato, attraverso una moltiplicazione delle poste risarcitorie in quanto le sofferenze dei familiari - aggiungendosi a quelle della vittima e rappresentando di queste un semplice riflesso - si porrebbero in rapporto di consequenzialità puramente mediata con l'evento lesivo causativo del reato.

L'unica eccezione ammessa dai fautori della linea negativa ricorre nell'ipotesi in cui le lesioni subite dalla vittima siano state tali da aver gettato il soggetto in uno stato di coma permanente; i giudici di merito hanno talvolta affermato, infatti, che la perdita delle più importanti funzioni dell'individuo, il quale si trovi ridotto ad una mera vita vegetativa, sia tale da dar luogo a condizioni paragonabili a quelle della morte (Appello Venezia 11.2.93).

Si ritiene, in casi del genere, che il dolore, la sofferenza, la pena continua ed immutabile sussistano unicamente in capo ai prossimi congiunti, specie a quelli più strettamente legati all'offeso dal vincolo familiare.

Problematiche medico-legali nella valutazione del danno biologico iure proprio da morte Non ricorre una stretta corrispondenza tra i parametri medici di causalità e quelli legali, in quanto mentre la giurisprudenza ha sostanzialmente accolto il criterio della causalità adeguata, la scienza psichiatria utilizza il parametro della cd. circolarità. La esigenza medica della comprensione delle varie dimensioni di un problema è del tutto estranea alla esigenza specifica della giurisprudenza di selezionare tra le varie cause quella giuridicamente rilevante.

Il criterio della causalità adeguata non trova un omologo nella scienza psichiatrica dove, al contrario, la malattia mentale viene concepita non come conseguenza immediata e diretta ex art.

1223 c.c., ma come funzione di variabili (cd. criterio di circolarità).

Infatti, due soggetti posti di fronte al medesimo evento (perdita di una persona affettivamente significativa) possono reagire in maniera differente da un punto di vista medico.

In sostanza l'evento traumatico non necessariamente sviluppa sintomi psichiatrici, ed anzi è vero il contrario, e cioè, che nell'ipotesi normale di persona adulta la stessa ha maturato dei meccanismi

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di difesa dell'Io tali da consentirgli un congruo adeguamento al nuovo contesto creatosi dopo l'evento dannoso. Pertanto l'ipotesi normale è la risposta adeguata all'evento.

Nel caso in cui ciò non dovesse avvenire determinando una patologia permanente, a stretto rigore, secondo la scienza psichiatrica, deve ritenersi che non sussiste un nesso di causalità in quanto la sintomatologia non è consequenziale di un evento scatenante sopravvenuto (decesso della persona significativa per il congiunto), ma sulla base di una condizione preesistente all'evento dannoso, rappresentata dalla incapacità della psiche di ristabilire il necessario equilibrio.

A rigore si tratterebbe di un vizio che già caratterizzava la personalità della vittima secondaria, quale ad esempio una non adeguata maturazione.

Il problema, ritengo, possa essere opportunamente risolto con il concetto, giuridico, di concausa ex artt. 1227 e 2056 c.c., ricostruendo, sulla base di una perizia medica, la situazione preesistente e la diversa incidenza che i due fattori hanno avuto nella determinazione del trauma permanente.

Al contrario tale problema non ricorre, da un punto di vista psichiatrico, in riferimento a soggetti che per loro natura non hanno sviluppato meccanismi di difesa adeguati: i minori.

Nel minore la riconoscibilità causale del sintomo psichico all'evento luttuoso può certamente essere riconosciuta in quanto la perdita, ad esempio, di un genitore, avviene in una fase esistenziale in cui fisiologicamente sono carenti o comunque non ancora formati i meccanismi di difesa dall'Io che proteggono il soggetto dalle aggressioni del mondo.

Conseguentemente deve ritenersi che il danno iure proprio sul minore si configura come consequenziale, prevedibile e, anzi, non eludibile.

Alla luce di tali principi è possibile formulare quelli che possono essere in concreto i quesiti da sottoporre nell'ipotesi di danno biologico iure proprio.

Accerti il consulente tecnico d'ufficio:

1. il rapporto affettivo che lega la parte attrice al defunto;

2. il presumibile grado di maturazione psichica preesistente;

3. la esistenza di esiti di sintomi psicologicamente significativi, tali da determinare un turbamento psichico per la morte del familiare che, anziché esaurirsi in uno stato di afflizione temporanea, degenerino in un trauma psichico o psicofisico che provochi un danno permanente alla salute, quantificabile in termini percentuali (come meglio evidenziato nella decisione della Corte Cost. numero 372 del 1994); autorizza il consulente tecnico d'ufficio ad espletare gli accertamenti necessari e ad avvalersi dell'ausilio di collaboratori o specialisti.

Danno morale e danno psichico: differenze

La differenziazione tra danno morale e danno psichico, delineata dalla dottrina precedente alla sentenza n. 372 del 1994 della Corte Costituzionale, rimane valida nei suoi caratteri essenziali, ma deve tener conto del comune denominatore rappresentato dalla risarcibilità ex art. 2059 c.c.

Come è noto, per danno morale si intende il turbamento psichico transeunte, ma può essere liquidato solo se sia stata accertata in concreto la sussistenza della colpa e, quindi, con valutazione incidenter tantum, un reato ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p.; poiché è lo stesso regime giuridico del danno biologico iure proprio dei prossimi congiunti, consegue che il danno non patrimoniale - ex art. 2059 c.c. - non comprende solamente il risarcimento della pecunia doloris.

Da un punto di vista medico il danno psichico consiste in "una compromissione durevole ed obiettiva che riguardi la personalità individuale nella sua efficienza, nel suo adattamento, nel suo equilibrio, come un danno non effimero né puramente soggettivo, che si crea per effetto di cause molteplici e che, anche in assenza di alterazioni documentali dell'organismo fisico, riduce in qualche misura le capacità, le potenzialità, la qualità della vita della persona". Rimane valida la distinzione operata dal Giannini secondo cui la differenza tra danno psichico e danno morale risiede nel fatto che il primo è danno biologico e, quindi, danno-evento (con le opportune precisazioni), mentre il secondo è danno morale e, quindi, danno-conseguenza.

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Il problema concreto del danno biologico di tipo psichico è che, a differenza di quello di tipo fisico, la lesione dell'integrità della persona non è direttamente constatabile e rilevabile.

La lesione psichica è intangibile e deve essere accertata dal C.T.U. in base al comportamento del danneggiato, ossia deve essere desunta dalle manifestazioni patologiche, le quali possono essere le più svariate perdita di capacità sensorie, insonnia, allucinazioni, intralcio nella favella, difficoltà di lettura o scrittura, anoressia, obesità, impotenza sessuale, perdita della memoria, della creatività, delle facoltà espressive e lavorative, etc.

Occorre quindi accertare se tali manifestazioni costituiscono menomazione nel senso tecnico- giuridico per poi risalire dalla menomazione alla lesione psichica e al fatto illecito, cui la lesione è unita da un rapporto di causalità.

Circa la prova non può mai essere presunto, sebbene talora la giurisprudenza ha presunto il danno psichico, in concomitanza di certi eventi lesivi, come le immissioni acustiche intollerabili (v.

Corte App. Milano 17.7.92) oppure la perdita di uno stretto congiunto v. Tribunale Milano, 1.2.93), oppure ha fatto ricorso a presunzioni semplici (Trib. Milano 10.12.92).

La giurisprudenza, infatti, si è occupata di danno psichico da immissioni di rumori o di odori intollerabili (il problema è se lesione psichica può essere presunta in presenza di intollerabilità della immissione), molestie sessuali (v. Pret. Trento 22.2.1993), esaurimento nervoso provocato dal comportamento illecito altrui, richiedendosi, comunque, l'accertamento della lesione.

Addirittura è stato riconosciuto il danno connesso alla morte del proprio animale domestico, quale stato di angoscia provocato dall'uccisione dell'animale previo accertamento della lesione psichica cagionata dall'illecito (sentenza Pretura Verona, 24.6.1992).

Dr. Gabriele Positano Giudice Istruttore, Tribunale di Lecce

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