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CAPITOLO 1

INTRODUZIONE

1.1. L’AGRICOLTURA BIOLOGICA

Negli ultimi due decenni abbiamo assistito ad una progressiva diffusione dell’agricoltura biologica legata ad una maggiore consapevolezza ambientale sia in relazione alle sempre maggiori problematiche legate all’inquinamento, sia in relazione a veri e propri scandali che hanno colpito l’agricoltura, come il famigerato caso della “mucca pazza”, e che hanno risvegliato nel consumatore una maggiore attenzione nei confronti della qualità della produzione agricola. La richiesta di un prodotto genuino, di buona qualità e ottenuto con tecniche rispettose dell’ambiente hanno spinto sempre di più i produttori ad adottare tecniche di agricoltura integrata e biologica, tecniche peraltro incentivate dall’Unione Europea. Naturalmente i produttori si sono indirizzati sempre di più verso tali tecniche non solo per motivazioni di carattere prettamente economico, ma anche per la crescente consapevolezza che le tecniche tradizionali, basate sul forte utilizzo di input chimici e sulla monocoltura, non solo danneggiano la salute del consumatore, ma anche quella degli operatori stessi; inoltre non si può dimenticare che vengono danneggiati anche l’ambiente, la fertilità del suolo, viene ridotto il bacino di biodiversità, fondamentale per il futuro dell’agricoltura, e viene resa sempre più difficoltosa la lotta contro malerbe e patogeni. In effetti i metodi convenzionali garantiscono maggiori rese a minori costi, tuttavia è ormai di dominio pubblico il fatto che non solo tali tecniche incrementano l’inquinamento ambientale, ma che sono anche agronomicamente discutibili.

Il concetto di agricoltura biologica non è comunque di recente introduzione, come spesso viene ritenuto dall’opinione pubblica ed anche da molti operatori, ma trova le sue origini nei primi del 1900 a seguito delle importanti innovazioni introdotte dalla rivoluzione industriale in agricoltura.

I primi cambiamenti relativi alle normali pratiche agricole hanno riguardato, agli inizi del 1800, l’abrogazione della rotazione colturale obbligatoria e l’incremento del carico del bestiame; ciò è stato dovuto non solo all’incremento di popolazione, ma anche al crescente fenomeno dell’esodo rurale che ha modificato lo stile di vita delle persone in modo drastico. La crescente domanda di prodotti agricoli inoltre ha incominciato ad

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essere supportata dall’introduzione dei primi fertilizzanti e anticrittogamici chimici; nel 1858 ha inizio la produzione di superfosfato, nel 1861 quella di solfato potassico e nel 1879 la produzione di scorie Thomas. Dal punto di vista del controllo dei fitoparassiti nel 1850 viene utilizzato per la prima volta lo zolfo per il controllo dell’oidio della vite, nel 1868 vengono invece introdotti l’acetato e il metarseniato di rame contro la dorifora della patata, mentre nel 1882 ha inizio l’uso della poltiglia bordolese contro la peronospora della vite. Ha inizio inoltre negli stessi anni l’introduzione delle prime macchine agricole come seminatrici, zappatrici e mietitrici e la messa appunto delle prime tecniche di miglioramento genetico come la selezione massale. A partire dalla seconda metà del secolo successivo, grazie anche alla ricerca scientifica legata alle attività belliche, il legame tra agricoltura e chimica si è ulteriormente rafforzato trovando la sua massima espressione nell’introduzione dei primi prodotti fungicidi ed insetticidi di sintesi fino ad arrivare, nel 1950, all’introduzione dei primi diserbanti. Nello stesso secolo si assiste inoltre ad un sempre più esasperato esodo rurale indotto dallo sviluppo industriale e dalla prospettiva di una maggiore ricchezza. L’abbandono delle campagne, la riduzione drastica della manodopera agricola e la necessità di incrementare il reddito agricolo, rendendolo quindi paragonabile a quello industriale, trasformano lentamente l’azienda agricola in un vero e proprio sistema programmato di produzione sul modello di quello industriale a scapito dell’antico sistema basato sull’autosufficienza e sulla necessità di creare un equilibrio con la natura. Tali cambiamenti si sono naturalmente ripercossi sull’ambiente dove è venuto a mancare il controllo umano, soprattutto in montagna e in collina, e dove l’abbandono della zootecnia, la semplificazione degli avvicendamenti e l’uso crescente delle macchine si è manifestato con l’abbattimento di siepi e alberate con una drastica riduzione della biodiversità.

Il passaggio ad un sistema di agricoltura intensivo è stato quindi un processo graduale che ha trovato i suoi punti di forza nell’incremento progressivo delle rese e dei redditi grazie all’introduzione di nuove tecniche e opportunità che venivano viste come il frutto del progresso e della modernità, senza capire quali potessero esserne i reali risvolti ecologici e ambientali nel lungo periodo. A tutto ciò deve essere aggiunto anche il cambiamento nello stile di vita delle persone dovuto alla rivoluzione industriale; in effetti l’esodo rurale non si è ripercosso unicamente sulla tradizione agricola, ma soprattutto sulle abitudini alimentari e sulla necessità di ricorrere ad un mercato per acquistare il cibo. Inoltre, parallelamente, grazie all’evoluzione dei trasporti, i mercati

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hanno incominciato a trasformarsi da locali a globali e sono incominciate ad apparire le prime industrie alimentari in grado di offrire alla nascente categoria di consumatori prodotti alimentari a basso costo, reperibili tutto l’anno e veloci da preparare; nel 1838 è nata una delle prime industrie alimentari, la Knorr, la quale ha introdotto sul mercato i concentrati per minestre (prodotti a partire da ortaggi ed estratti di carne).

Tuttavia è proprio agli inizi del 1900 che hanno inizio le prime “contestazioni” relative a questo nuovo modo di interpretare l’agricoltura basato sull’introduzione sempre più massiccia di input chimici volti unicamente ad incrementare le produzioni; nel 1924 il filosofo austriaco Rudolf Steiner, fondatore dell’agricoltura biodinamica, scriveva “…è

infatti proprio l’agricoltura quella che, sotto l’influsso della concezione materialistica, si è allontanata al massimo dai principi razionali. Pochissimi sanno che nel corso degli ultimi decenni in agricoltura si è verificato il fatto che tutti i prodotti di cui ci nutriamo stanno degenerando, e lo fanno con un ritmo straordinariamente veloce.”

È proprio il corso tenuto in Germania da R. Steiner nello stesso anno a dare inizio al movimento dell’agricoltura biodinamica; tra il 1930 e il 1940 saranno infatti fondate in Europa le prime associazioni biodinamiche. Altre tappe fondamentali riguardanti lo sviluppo di un concetto di agricoltura alternativa sono state:

• 1939, Ehrenfried Pfeiffer, ricercatore sostenitore di Steiner, si reca negli USA dove fonda l’Organizzazione Biodinamica.

• 1946, Lady Eve Balfour pubblica il libro “The living soil” e fonda la Soil

Association convertendo la propria azienda nel Suffolk (Inghilterra) in una

stazione sperimentale.

• 1949, Hans Müller e Hans Peter Rusch fondano in Svizzera il movimento “Organico-Biologico”.

• 1972, viene fondato l’I.F.O.A.M. (International Federation Organic Agricolture

Muvements) alla quale attualmente aderiscono 800 organismi di agricoltori,

trasformatori e distributori, cooperative, associazioni scientifiche e 86 nazioni di tutti i continenti.

• 1973, viene fondato il Research Institute of Organic Agricolture FiBL in svizzera; attualmente rappresenta il più grande istituto di ricerca riguardo l’agricoltura biologica nel mondo.

• 1978, nasce negli USA il programma di formazione LISA - Low Input

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Sostenibile viene continuamente modificato e aggiornato in funzione dei cambiamenti che vengono a manifestarsi relativamente ad ambiente, attività agricola, salute del consumatore e problematiche sociali.

• 1991, l’Unione Europea emana il Regolamento n. 2092/91 nel quale vengono descritte sommariamente le tecniche di agricoltura biologica. Tale regolamento è divenuto legge nel 1993.

• 1992, viene emanato il regolamento UE 2078/92 in cui vengono stabiliti sostegni finanziari per l’attuazione e/o conservazione di tecniche di agricoltura biologica e per l’adozione di tecniche a basso impatto ambientale.

• 1999, viene emanato il regolamento UE 1804/1999 in cui vengono stabilite le norme relative ai metodi di produzione biologica nel settore animale.

• 2001, in Danimarca viene tenuta la conferenza “Agricoltura biologica – verso un’azione comune in Europa”, avente per oggetto l’avvio del piano d’azione per un ulteriore sviluppo dell’agricoltura biologica in Europa.

• 2003, approvazione del Piano di Azione Europeo in materia di alimentazione e agricoltura biologica.

• 2004, entra in vigore il Regolamento CEE 392/2004: tutti gli operatori che producono, preparano, immagazzinano, importano da un paese terzo o commercializzano prodotti biologici devono notificare l'attività e assoggettarsi al sistema di controllo. Il regolamento modifica l'articolo 8 del Regolamento n. 2092/911.

Come è possibile rilevare da questa breve scaletta cronologica durante l’ultimo secolo appena trascorso si sono sviluppati almeno quattro movimenti principali di agricoltura alternativa, appare quindi opportuno darne, di ognuno, almeno una breve definizione, soffermandosi con maggior riguardo sugli aspetti riguardanti l’agricoltura biologica. L’Agricoltura Biodinamica nasce nel 1924 grazie a R. Steiner e si fonda sull’antropofosia, definita dal filosofo stesso come “…una via di conoscenza che

vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo”. In

sostanza la pratica agricola viene intesa come una vera e propria filosofia di vita dove l’agricoltore instaura un legame spirituale intimo con la natura; l’azienda agricola quindi viene vista come un vero e proprio organismo facente parte dell’universo e

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L'obbligo vale per tutti i dettaglianti, anche se vendono solo prodotto confezionato e sigillato, anche se non sono un negozio specializzato e vendono solo qualche prodotto biologico (non riguarda evidentemente le vendite dirette dei produttori agricoli, già in sistema di controllo per il complesso delle attività aziendali). I negozianti devono scegliere l'organismo di controllo a cui rivolgersi. (Fonte MiPAF)

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completo. In sostanza ogni singola azienda dovrebbe essere in grado di chiudere l’intero ciclo produttivo autonomamente in armonia con la natura; lo stesso Steiner definiva l’azienda agricola in questo modo: “…una azienda agricola si realizza pienamente se

può essere concepita come una individualità a sé stante, una individualità in sé completa. Ogni azienda agricola dovrebbe avvicinarsi il più possibile a questo ideale; anche se attuarlo del tutto non è possibile, essa deve tendere a questa condizione. Ciò significa che deve mettersi nelle condizioni di trovare entro il podere stesso quello che occorre per il suo funzionamento, ivi compreso il patrimonio zootecnico. In fondo, in un’ azienda agricola ideale, il concime o qualsiasi altra cosa che venga introdotta dall’esterno del podere dovrebbe essere definita come un rimedio per un’azienda malata”.

Sempre in relazione al pensiero di Steiner è opportuno aggiungere che la vitalità dell’”organismo” azienda è legata al ciclo delle sostanze, delle influenze terrestri (suolo, aria, acqua) e alle influenze cosmiche (luce, calore e loro ritmi giornalieri ed annui). Nonostante, cronologicamente, a questo punto sarebbe opportuno trattare gli aspetti relativi all’agricoltura biologica, appare utile occuparsi anticipatamente del metodo “low-input” e dell’agricoltura sostenibile per poi andare a trattare in modo più esteso di tutto ciò che riguarda l’agricoltura biologica.

Il metodo “low-input” nasce negli USA nel 1987; tale tipo di agricoltura è un primo approccio verso l’agricoltura sostenibile, ma deriva soprattutto da esigenze di tipo economico. Tale metodo infatti trae origine dalla crisi economica che si è verificata intorno alla seconda metà degli anni ’80; in questi anni diviene fondamentale massimizzare i redditi, ma essendo in crisi il commercio si cerca di ottenere questo risultato riducendo i costi. In pratica l’obiettivo non è più quello di massimizzare le rese delle colture o degli allevamenti, ma quello di far ricorso ad un minor impiego di input; ciò implica l’adozione di tecniche meno invasive per l’ambiente per cui, pur essendo tale tipo di agricoltura indotta da motivazioni meramente economiche, ha avuto il pregio di dare inizio ad una progressiva sensibilizzazione degli agricoltori.

Dall’evoluzione del metodo low-input ha origine il concetto di Agricoltura Sostenibile; in realtà risulta molto complesso dare una definizione puntuale di tale concetto anche perché questo tipo di agricoltura vede continui cambiamenti in funzione delle innovazioni tecniche e colturali e delle nuove problematiche ambientali e sociali. In senso generale il concetto di sostenibilità è attribuito a qualsiasi tecnica o tecnologia applicabili a qualsiasi settore e in grado di rispettare l’ambiente e di conservare le

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risorse. Tuttavia la definizione più recente e completa di agricoltura sostenibile è quella che ha dato, nel 1990, MacRae: “L’agricoltura Sostenibile è una filosofia basata sulle

esigenze dell’uomo e sulla conoscenza degli effetti di lungo periodo prodotti dalle sua attività sull’ambiente; essa ha le sue radici in una serie di valori che riflettono lo stato di consapevolezza delle attuali problematiche ambientali e sociali. Essa implica la definizione e la gestione di pratiche agricole che operano nel campo dei processi naturali al fine di conservare le risorse non rinnovabili, promuovere le resilienza degli agroecosistemi e la loro capacità di autoregolazione, minimizzare le perdite di materiali, riducendo l’impatto ambientale delle pratiche agricole pur mantenendo o migliorando la redditività aziendale”. Tutto ciò sta a significare che non è sufficiente

ridurre l’impiego di input per ridurre l’impatto ambientale e sociale, ma che è anche necessario adottare strumenti agronomici in grado di ovviare alla riduzione di input chimici e soprattutto è necessario ridurre il più possibile lo sfruttamento di risorse non rinnovabili.

L’agricoltura biologica nasce nel 1940 e si basa anch’essa sul principio che l’azienda agricola è un organismo composto da parti diverse che funzionano in modo complementare e coerente una rispetto all’altra. Altri punti focali su cui si basa sono il concetto di Salute e di Sostenibilità; il primo non riguarda unicamente la salute dell’uomo, ma anche quella del terreno. Nel 1975 Lady Balfour scriveva che “la salute

del suolo, delle piante, degli animali e dell’uomo è unica ed indivisibile”; inoltre

partendo da questo principio ne segue che la ciclizzazione dei nutrienti può consentire di mantenere nel tempo la produttività e migliorare la salute a tutti i livelli. Dal punto di vista della sostenibilità la stessa Lady Balfour aveva individuato la sua definizione in un unico termine, permanenza, esprimendosi in questo modo: “…significa adottare

tecniche che mantengono indefinitivamente la fertilità del terreno, che utilizzano per quanto possibile risorse rinnovabili, che non inquinano massicciamente l’ambiente e che favoriscono l’energia vitale (o se si preferisce l’attività biologica) all’interno del suolo e attraverso i cicli di tutte le catene alimentari interessate all’attività agricola”.

Durante il corso degli anni tali principi ispiratori sono stati modificati e aggiornati fino ad arrivare, nel 1984, quando, durante una conferenza dell’I.F.O.A.M., sono stati indicati i “Principi dell’Agricoltura biologica”:

1. Lavorare quanto più possibile all’interno di un sistema chiuso e disegnato sulle risorse locali;

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3. Evitare tutte le forme di inquinamento che possono risultare dalle tecniche agricole;

4. Produrre generi alimentari di alta qualità nutrizionale ed in sufficiente quantità; 5. Ridurre al minimo l’uso di energia fossile nelle pratiche agricole;

6. Fornire al bestiame condizioni di vita consone alle loro necessità fisiologiche ed ai principi umanitari;

7. Rendere possibile ai produttori agricoli di guadagnare di che vivere attraverso il proprio lavoro e di sviluppare le proprie potenzialità come esseri umani;

8. Usare e sviluppare adeguate tecnologie basate sulla conoscenza dei sistemi biologici;

9. Usare sistemi decentralizzati per trasformare, distribuire e commercializzare i prodotti;

10. Creare sistemi agricoli che siano esteticamente piacevoli (visti sia dall’interno che dall’esterno);

11. Mantenere e preservare le forme di vita presenti nell’ambiente di coltivazione ed i loro habitat.

In realtà non sempre gli operatori che hanno deciso di avvicinarsi a questo tipo di agricoltura sono stati mossi o comunque sono pienamente coscienti di quelli che dovrebbero esserne i principi ispiratori; in effetti molti operatori sono stati indotti principalmente dagli aspetti più economici come il commercio internazionale o la pianificazione territoriale o la politica di sostegno per i meno abbienti. Tutto ciò è stato più o meno favorito dalla politica dei Movimenti per l’Agricoltura Alternativa tesa soprattutto a diffondere tale filosofia nel pensiero collettivo, mettendone in evidenza soprattutto gli aspetti positivi.

Altro aspetto negativo conseguito da tale politica è stato quello di favorire lo sviluppo dell’”industria del biologico” a livello globale in modo tale da rassomigliare a quella alimentare convenzionale; questo comporta però un modo di pensare molto distante dai principi sopra elencati in quanto prevede di considerare l’agricoltore come un imprenditore teso ad ottenere elevate produzione da poter vendere ovunque ed in qualsiasi momento. In particolare ciò implica che i prodotti, per poter essere trasportati in giro per il mondo, debbano essere trattati con appositi additivi in modo da poter essere venduti ad un idoneo prezzo e con un’adeguata immagine commerciale.

A questo punto la problematica che scaturisce per il futuro dell’agricoltura biologica riguarda quale direzione seguire, o meglio, decidere se seguire l’economia globale

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cercando però di sensibilizzarla rispetto al cosiddetto “sviluppo sostenibile”, oppure se rimanere legati ai principi ispiratori e quindi ad un mercato di tipo regionale.

Difatti in tutto il mondo non solo l’agricoltura biologica è in continuo sviluppo, ma si assiste anche ad un maggiore intervento da parte di governi e associazioni, quali l’I.F.O.A.M. (www.ifoam.org), per regolare e controllare l’attività degli operatori nel rispetto dell’ambiente e dei consumatori.

A partire dal 1985 ad oggi l’incremento di superficie coltivata e di aziende agricole convertite all’agricoltura biologica è stato a dir poco notevole in tutto il mondo; in tale anno nell’Unione Europea la produzione biologica certificata contava solo 100.000 ettari con 6.300 aziende agricole, cioè meno dello 0.1% della superficie agricola utilizzabile. Alla fine del 2001, si avevano più di 4,5 milioni di ettari con circa 150.000 aziende agricole, corrispondenti al 3.3% della superficie agricola totale ed al 2.3% delle aziende agricole2.

A livello mondiale l’agricoltura biologica si pratica su una superficie di 1,7 milioni di ha in Australia, 2 milioni di ha in nord America, 4,1 milioni di ha in Europa; in sud America, Asia e Africa le superfici coltivate stanno crescendo. Parallelamente, sta aumentando il volume d’affari dei prodotti biologici, pari a 11 miliardi di dollari statunitensi nel 1997 e 20 miliardi di dollari statunitensi nel 2000 (stime FAO, 2002). Attualmente l'Italia è il Paese dove, a livello europeo, l’agricoltura biologica ha avuto maggiore sviluppo con circa il 7% della produzione agricola nazionale, contro il 3% della media dei Paesi comunitari (Fig. 1).

Superficie utilizzata per l'agricoltura biologica nell'UE 0 1 2 3 4 5 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Anno E tt a ri ( m ilioni)

Fig. 1 Incremento delle superfici agricole dedicate all’agricoltura biologica dal 1985 al 2001.

2

Hamm, U., Gronefeld, F., Halpin, D. (2002) Analyses of the European market for organic food. School of Management and Business, Wales. ISBN 0-95432070-0-4.

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Nel 2001 (stime ISTAT – www.istat.it - 2002) su 54.004 operatori del settore, 49.790 erano produttori agricoli, 1.330 produttori/trasformatori, 2.817 trasformatori e 67 importatori, con una superficie complessivamente investita a produzioni biologiche di circa 1.100.000 ha. In Europa, nello stesso periodo di tempo, i produttori biologici erano 128.556, con una superficie investita di 3.722.336 ettari (Statistiche Federazione Nazionale Coltivatori Diretti, 2002); ciò significa che l'Italia annoverava, nel 2001, rispettivamente il 39% delle imprese e oltre un quarto (27,9%) della superficie coltivata a biologico dell'Unione europea. Un dato ancora più aggiornato è quello rilevabile dalla figura 2.

Fig. 2 La cartina mostra la diffusione dell’agricoltura organico-biologica in Europa: più di 5,5 milioni di ettari e circa 175.000 aziende condotte ad agricoltura biologica. (Dati tratti dal FiBL/SOEL-Survey, Febbraio 2004; Grafico: Minou Yussefi, SOEL).

In realtà, pur rimanendo, l’Italia, il Paese europeo con la maggiore estensione dedicata all’agricoltura biologica, le indagini condotte dall’I.S.M.E.A. (www.ismea.it) e dal Mi.P.A.F. (www. politicheagricole.it/PRODUZIONE/AGRIBIO/home.asp) nell’ultimo anno mostrano come la situazione sembri andare incontro ad una vera a propria inversione di tendenza. Dai dati forniti dagli organismi di controllo operanti in Italia al 31 dicembre 2004 e grazie alle elaborazioni del S.I.N.A.B. (Sistema di Informazione Nazionale sull’Agricoltura Biologica – www.sinab.it), risulta che gli operatori del settore sono 40.965. Di questi, i produttori agricoli sono 34.836, 1.797

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produttori/trasformatori, 4.134 trasformatori e 198 gli importatori. Rispetto ai dati dello scorso anno si rileva una riduzione del numero di produttori, un leggero calo del numero di trasformatori, mentre sono in aumentano gli importatori.

La distribuzione degli operatori sul territorio nazionale (dati provvisori) vede Sicilia, Calabria ed Emilia Romagna, tra le regioni con maggiore presenza di aziende biologiche. La distribuzione degli operatori vede una maggiore concentrazione di aziende di produzione al sud e di trasformatori ed importatori al nord.

La superficie interessata, in conversione o interamente convertita ad agricoltura biologica, risulta pari a 954.361 ettari. I principali orientamenti produttivi interessati riguardano i foraggi, i prati e pascoli e i cereali, che nel loro insieme rappresentano il 70% circa della superficie ad agricoltura biologica; seguono in ordine di importanza le coltivazioni arboree (olivo, vite, agrumi, frutta) ed infine le colture industriali. Per le produzioni animali, distinte sulla base delle principali tipologie produttive, al 31 dicembre 2004 si segnala la seguente situazione (in numero di capi): bovini 215.022 (latte e carne), ovi-caprini 556.793, suini 26.508, pollame 2.152.295, conigli 1.109, api (in arnie) 67.713 (fonte Mi.P.A.F.).

In realtà la riduzione di produttori, ed anche di superficie, non è una novità dell’ultimo anno appena trascorso, ma un fenomeno in aumento negli ultimi anni; da statistiche condotte dal SINAB sono emersi i dati sintetizzati nelle Figg. 3 e 4.

2003 2001 2000 1999 800.000 900.000 1.000.000 1.100.000 1.200.000 1.300.000 2002

Fig. 3 Il grafico mette in evidenza l’andamento degli ultimi anni relativo alla superficie totale (in ettari) destinata ad agricoltura biologica e conversione.

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Fig. 4 Il grafico mette in evidenza l’andamento degli ultimi anni relativo alla superficie totale (in ha) destinata ad agricoltura biologica e conversione per coltura.

In effetti dalle statistiche si evince che negli ultimi tre anni si è avuto un calo delle superfici del 17% ed un leggero calo delle aziende di trasformazione (-3%) mentre, come già registrato negli scorsi anni, si incrementa notevolmente il numero delle aziende di importazione (+13%). Appare interessante in tal senso riportare il commento di Andrea Ferrante, Presidente di A.I.A.B.3 (www.aiab.it): “È l’ennesimo

segnale che ci dimostra come questo settore, strategico per l’agricoltura dell’Italia, abbia bisogno di un sostegno, politico ed economico, più che mai urgente. Nonostante il momento di crisi di tutto l’agroalimentare italiano, il mercato del biologico è ancora vitale e questo lo rileviamo dalla richiesta di prodotti certificati dell’agricoltura biologica, che mantengono ancora un forte appeal nei confronti del consumatore, e dal conseguente aumento dell’import. Ribadiamo ancora una volta che il nodo del problema sta nella Politica Agricola che il nostro Paese sta mettendo in campo. Il ruolo strategico che il metodo di produzione biologica può rivestire nella

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A.I.A.B. (Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica) è una delle più importanti associazioni di certificazione presenti in Italia.

0 100000 200000 300000 400000 500000 Ce rea li Leg um ino se d a g ran ella Co lture ind ust riali Ort ico ltura Fora ggi Fru ttife re Fru tta s ecc a Ag rum i Oliv o Vite Pra ti e pa sco li Altr o 1999 2000 2001 2002 2003

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valorizzazione del nostro territorio, nella tutela dell’ambiente e per la qualità delle produzioni, viene infatti riconosciuto solo a parole, senza nessun intervento significativo per favorire la diffusione del metodo nelle nostre campagne”.

Un altro dato importante quanto allarmante è che, inoltre, i piccoli produttori sono costretti ad abbandonare a favore delle grandi imprese. Questo è stato rilevato dai dati relativi alle superfici coltivate con metodo biologico che confermano tale analisi: la riduzione della SAU rispetto all’anno precedente (-9%) ha un’incidenza minore rispetto alle variazioni del numero di aziende agricole, aumentando di fatto la dimensione media delle aziende agricole biologiche (la media delle SAU aziendali ha superato i 27 ettari, contro una media nazionale nel convenzionale di circa 5 ettari). Sono cioè sempre di più le piccole aziende che abbandonano la certificazione, facendo perdere quindi quel patrimonio di valori etici, culturali ed ambientali, di cui sono sempre state testimoni nel nostro territorio, per l’affermazione del biologico (Comunicato Stampa A.I.A.B.).

Naturalmente appare interessante valutare anche quale sia la diffusione mondiale dell’agricoltura organico-biologica; nelle figure seguenti si cercherà, in modo piuttosto sintetico, di illustrare tale situazione sia dal punto di vista del numero di aziende che di superficie coltivata (figg. 5 e 6).

Fig. 5 Il grafico illustra, per ogni continente, la percentuale di aziende a conduzione biologica (SOEL, 2005).

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Fig. 6 Il grafico illustra, per ogni continente, la percentuale di superfici ad agricoltura biologica (SOEL, 2005).

A livello mondiale, inoltre, i dieci Paesi in cui si ha la maggiore superficie destinata al biologico sono l’Australia e l’Argentina, seguite da Italia, U.S.A., Brasile, Uruguay, Germania, Spagna, U.K. e Cile. Un dato interessante è che si passa dagli 11,3 milioni di ettari dell’Australia ai circa 1,05 milioni di ettari in Italia, che rappresenta, in questo elenco, il terzo Paese ha maggiore diffusione.

Un altro fattore determinante allo sviluppo dell’agricoltura organico-biologica è senz’altro rappresentato dall’andamento di mercato dei prodotti biologici. Lo sviluppo di tale mercato è stato reso possibile solo grazie, almeno a livello di UE, all’adozione di un chiaro metodo di produzione garantito da sistemi di controllo e certificazione (Piano d’Azione Europeo, 2003).

Attualmente le indagini relative al mercato dei prodotti biologici nell’UE confermano un trend di crescita dell’ordine del 20% annuo, con un incidenza sul totale dei consumi stimata intorno al 3,3% (fig. 7).

Dal punto di vista dei consumi le vendite complessive registrate per il comparto nel 2000 sono state stimate in circa 1.174 milioni di euro con una spesa pro-capite di prodotti biologici pari a 22,36 euro (Statistiche Federazione Nazionale Coltivatori Diretti, 2001).

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-20,00 40,00 60,00 80,00 100,00 120,00 140,00 euro

Italia Germania Francia Austria Danimarca Regno Unito

Svezia USA Spesa procapite di prodotti biologici

Fig. 7 Quota di spesa pro-capite destinata all'acquisto di prodotti biologici nel 2000 (Stime Coldiretti, 2001).

Per quanto riguarda l’Italia, sebbene all’inizio siano stati esclusivamente i piccoli negozi specializzati ad offrire prodotti biologici, l’A.I.A.B. ha calcolato che su tutto il territorio nazionale i punti vendita al dettaglio specializzati nell’offerta di prodotti biologici sono circa 1.200 (Stime A.I.A.B., 2002); oggi è la grande distribuzione organizzata a giocare un ruolo fondamentale nella diffusione di tali prodotti. Da un'indagine dell'I.S.M.E.A. (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo e Alimentare) realizzata su un campione di 1.652 supermercati ed ipermercati tra luglio 2000 e luglio 2001, il valore degli acquisti di prodotti biologici ha rappresentato una quota del 2,2% del fatturato totale; rispetto al 1999 le vendite di prodotti biologici hanno registrato un incremento del 4,1% in termini monetari. L'intero comparto alimentare del biologico, aggregato in dodici classi di prodotto e relative quote di spesa dei consumatori (Stime I.S.M.E.A., 2001) mette in evidenza l’importanza dei prodotti biologici per il consumatore italiano (fig. 8e 9) e testimonia come la scelta sia orientata principalmente verso alimenti sui quali maggiori sono le preoccupazioni circa i metodi di produzione impiegati, con una crescita netta della spesa, rispetto all'anno precedente per tutte le categorie di prodotti (Rapporto CeRSAA, Dicembre 2004).

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Latte e derivati 19% Frutta e verdura 17% Bevande 11% Pane e sostituti 9%

Prodotti per l'infanzia 8%

Condimenti 8% Carne, salumi, uova

8% Dolci e gelati 5% Cereali e farine 3% Altri 4% Pasta e riso 4% Integrat. e prod. diet.

4%

Fig. 8 Quote di spesa per classe di prodotto biologico in Italia (Stime ISMEA, 2001). 84 152 144 138 128 111 94 61 57 55 53 43 28 0 20 40 60 80 100 120 140 160 TOTALE PRODOTTI BIOLOGICI

Pasta e riso Carne, salumi, uova Altri Bevande Frutta e verdura Latte e derivati Prodotti per l'infanzia Condimenti Pane e sostituti Cereali e farine Dolci e gelati Integratori e prodotti dietetici

%

Fig. 9 Variazione in percentuale degli acquisti in valore nel periodo di luglio 2001 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (Stime ISMEA, 2001).

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Andando ad analizzare più nel dettaglio ciò che riguarda il mercato del biologico nell’UE e nel resto del mondo, innanzi tutto è opportuno rilevare come questo sia sviluppato soprattutto in Europa e nell’America del Nord (fig. 10).

Fig. 10 Il grafico illustra quale sia la distribuzione delle entrate globali dovute a cibo e bevande biologiche nel 20024.

In particolare in Europa il Paese con il maggior mercato biologico più sviluppato è la Germania con quasi il 30% del volume totale del mercato europeo; a seguire, altri mercati importanti sono quello inglese (terzo a livello mondiale), quello francese e quello italiano. A seguire infine troviamo Svizzera, Danimarca, Svezia, Austria ed Olanda; in altri Paesi come Grecia o Portogallo il mercato del biologico sta ancora muovendo i primi passi, se pur in forte crescita. In termini di consumi pro capite il Paese più importante in Europa è la Svizzera, oltre ad essere il Paese con i prezzi dei prodotti biologici più elevati.

L’aspetto più interessante comunque riguarda soprattutto la rapidità con cui, in alcuni Paesi europei, il mercato del biologico si sia sviluppato; in Francia ed in Gran Bretagna si è osservata la maggiore crescita con un incremento, dal 1999 al 2002 del 40%. In Italia, in Olanda ed in Svizzera la crescita è stata del 20-30%, mentre in altri Paesi quali Austria e Danimarca non si è osservato nessun incremento.

È inoltre interessante notare come, tra 1999 e 2002, lo sviluppo del mercato del biologico e l’ampliamento delle superfici destinate a biologico non sempre siano andate dello stesso passo; in Austria, ad esempio, mentre la domanda di prodotti biologici è

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Fonte: Organic Monitor (2003): the Global Market for Organic Food & Drink. Oragnic Monitor, London, UK. Nord America 51% Altri 3% Europa 46%

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aumentata si è ridotta la superficie destinata a biologico. In Germania ed in Francia si è assistito ad uno sviluppo bilanciato sia della domanda che dell’offerta.

Attualmente si stima che l’incremento di domanda dei prodotti bio nei Paesi europei, tra il 2002 ed il 2007, potrà essere anche maggiore del 10% per anno.

Come già anticipato l’altra parte del mondo in cui il mercato del biologico è più sviluppato è quello del Nord America; in particolare negli U.S.A. il mercato del biologico è stato rafforzato, a partire dal 2002, dall’istituzione del National Organic

Programme (N.O.P). Tale misura, adottata dall’U.S.D.A. (United States Department of

Agricolture), a permesso ai produttori di lanciare sul mercato prodotti più visibili e soprattutto contraddistinti da un logo di certificazione tale da conquistare la fiducia dei consumatori.

Altri mercati importanti ed in crescita sono, in Asia, quello giapponese, ed in Oceania quello australiano; tuttavia lo sviluppo industriale ed economico fanno sperare che anche in Paesi più poveri come Brasile, Cina, India e Sud-Africa si possa rapidamente sviluppare il mercato del biologico, tanto più che in questi Paesi si assiste anche ad una produzione del biologico, se pur attualmente destinata soprattutto alle esportazioni. A tale proposito appare interessante sottolineare che certamente il fatto che il mercato del biologico si sia sviluppato soprattutto in Europa ed in Nord-America non è stato un fenomeno del tutto casuale; da indagini condotte a livello internazionale5 è scaturito che il tipico consumatore biologico presenta le stesse caratteristiche:

> Posizione - abitante in aree urbane, usualmente in grandi città

> Abitudini di acquisto - viene fatta differenza tra l’acquisto di cibo e bevande, ma soprattutto vengono considerati fattori quali qualità, provenienza e metodi di produzione.

> Condizione sociale - normalmente di buona educazione e appartenente a classi sociali medio-alte

> Potere di acquisto - reddito familiare medio-alto con potere di acquisto relativamente alto.

Uno degli aspetti fondamentali relativi allo sviluppo dell’agricoltura biologica e del suo mercato riguarda la capacità da parte dei produttori di garantire ai consumatori la certezza che i prodotti biologici siano effettivamente tali; come già anticipato, a tale

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Fonte: The World of Organic Agricolture Statistics and Emerging Trends; 2004 . Capitolo 4 a cura di Amarjit Sahota, direttore dello Organic Monitor.

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fine, sono nati in tutto il mondo organi di controllo e certificazione, come l’I.F.O.A.M.. Tuttavia la presa di coscienza dei diversi governi della necessità di fornire delle norme generali per l’agricoltura biologica è stata fondamentale per la sua affermazione. Negli Stati Uniti si è dimostrato fondamentale il varo del N.O.P. del 2002; nell’UE, per quanto già fosse stata fondamentale l’emanazione dei Regolamenti 2092/91 e 2078/92 si è rivelata necessaria anche quella, nel 2003, di un Piano d’Azione Europeo per l’agricoltura biologica. In tale documento vengono analizzati tutti gli aspetti relativi all’agricoltura biologica, dalla sua definizione, al suo impatto sull’ambiente, alla sua valenza all’interno della PAC, ai problemi relativi al mercato e al commercio, ai controlli, alla ricerca.

Sebbene già in precedenza si sia cercato di spiegare cosa sia l’agricoltura biologica a questo punto appare d’uopo riportare la definizione di tale movimento riportata a livello del Piano d’Azione Europeo stesso: “L’agricoltura biologica è un sistema di gestione

della produzione che favorisce le risorse rinnovabili e il riciclo, restituendo al suolo i nutrienti presenti nei prodotti di rifiuto. Per quanto riguarda la produzione animale, l’agricoltura biologica attribuisce particolare importanza al benessere degli animali ed all’uso dei mangimi naturali. L’agricoltura biologica utilizza l’ambiente stesso per combattere i parassiti e le malattie degli animali e delle piante, ed evita l’uso dei fitofarmaci di sintesi, erbicidi, fertilizzanti di sintesi, fitoregolatori ed organismi geneticamente modificati, nonché l’uso zootecnico di antibiotici per la profilassi ed ormoni. A questo proposito giova ricordare che l’uso di ormoni per la crescita è vietato nell’UE per tutti i tipi di produzione. Invece, i produttori biologici utilizzano una varietà di tecniche che contribuiscono alla sostenibilità dell’eco-sistema ed abbattono l’inquinamento”.

Uno degli aspetti più interessanti riguarda l’identificazione di un logo commerciale unico per tutti i Paesi dell’UE relativi all’agricoltura biologica. La necessità di un logo unico, a fianco dei molti già presenti sul mercato, è stata sentita non solo nell’UE, ma, come già riportato in precedenza, anche negli U.S.A.; tale strategia scaturisce da diverse indagini6 in cui è stato messo in evidenza che un logo unico aumenta la capacità dei consumatori di riconoscere i prodotti biologici oltre ed aumentarne la fiducia nei confronti di tali prodotti (fig. 11). A tal proposito è bene ricordare che tra gli obiettivi

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Johannes Michelsen, Ulrich Hamm,Els Wynen ed Eva Roth Organic Farming in Europe: Economics

and Policy, volume 7, University of Hohenheim, Stuttgart, Germany, 1999.

Zanoli R. e Naspetti S. (2001): Values and Ethics in Organic Food Consumption, in Pasquali M. “Preprints of EurSafe 2001”, A&Q, Milano, 411-415.

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dell’UE vi è anche la necessità di rafforzare la visibilità per quanto concerne la tracciabilità di filiera dei prodotti; tale aspetto infatti risulta un fondamentale sistema di garanzia per il consumatore, sia per i prodotti biologici sia per quelli ottenuti da metodi convenzionali7.

Fig. 11 In ordine sono qui rappresentati il logo unico stabilito dall’UE e quello invece introdotto dalla N.O.P. negli Stati Uniti; l’obiettivo è quello di indurre fiducia nel consumatore attraverso un marchio facilmente riconoscibile.

Esistono comunque molte associazioni sia in Italia sia negli altri Paesi in grado di fornire certificazioni ai prodotti biologici di estrema importanza e serietà; in Italia uno degli esempi più significativi è quello della già più volte citata A.I.A.B..

Tale associazione fornisce un disciplinare generale per le produzioni vegetali e rilascia la certificazione unicamente alle aziende che si conformano a tale disciplinare (fig. 12), mentre non vengono certificate “garanzia A.I.A.B.” i prodotti provenienti da aziende miste, cioè non condotte interamente con metodo biologico.

Fig. 12 E’ qui rappresentato il logo “garanzia AIAB” destinato alle produzioni alimentari; l’associazione inoltre fornisce loghi destinati ad altri settori come la cosmesi, il tessile o quello agrituristico.

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Ricordiamo a questo proposito che la tracciabilità dei prodotti è stata fondamentale a seguito di scandali agroalimentari, come quello più noto della “mucca pazza”, per contribuire a risolvere la crisi di mercato che ne era seguita.

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Per concludere appare fondamentale, come ricordato anche nel Piano d’Azione Europeo, sottolineare l’importante ruolo svolto dalla ricerca nella diffusione dell’agricoltura biologica.

Difatti l’espansione dell’agricoltura biologica necessita dell’introduzione di nuove conoscenze e tecnologie; l’intervento dei governi risulta in questo caso fondamentale, in quanto, trattandosi di un mercato ancora relativamente giovane, vengono a mancare finanziamenti privati a cui si deve trovare un’alternativa. Certamente, proprio perché sono necessarie nuove tecniche e tecnologie risulta fondamentale la collaborazione e lo scambio di informazioni tra agricoltori e ricercatori stessi in modo da ottenere la massima efficacia dai progetti portati avanti tenendo conto di tutte le possibili variabili legate all’attività agricola.

Fino al 1980 la ricerca era portata avanti unicamente da organismi privati; con la crescente diffusione dell’agricoltura biologica i governi hanno incominciato attivamente ad occuparsi della ricerca in tale settore. Nel 1980 difatti alcune università hanno incominciato ad inserire l’agricoltura biologica nei loro curricula, mentre nel 1990 sono stati stanziati dall’UE i primi fondi per progetti di ricerca ed i primi istituti di ricerca statali sono divenuti attivi. Al 2002 i Paesi in cui venivano stanziati i maggiori fondi per la ricerca erano Germania e Francia, mentre in Italia, pur essendo il Paese con maggiore superficie dedicata a biologico, i fondi stanziati sono veramente bassi.

Molti sono i progetti attivati in Europa tra il 2003 ed il 2004 tesi a potenziare lo sviluppo dell’agricoltura biologica; qui di seguito verranno riportati alcuni di questi:

• Food from low input and organic production systems: Ensuring the safety and

improving quality along the whole chain (QLif)

Coordinamento: University on Newcastle e FiBL; iniziato nel 2004. • Scientific Support of the Revision of Regulation 2092/91

Coordinamento: DARCOF (Danish Research Center for Organic Farming); iniziato nel 2004.

• Organic Inputs Evaluation

Coordinamento scientifico: FiBL Svizzera.

• Further Development of Organic Farming Policy in Europe, with Particular

Emphasis on EU Enlargement EU (CEEPOF)

Coordinamento: Research Institute of Organic Agricolture FiBL, Svizzera e University of Wales, Institute of Rural Studies, UK.

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• European Information System for Organic Markets (EISfOM) Coordinamento: University of Wales, Institute of Rural Studies, UK. • Organic Marketing Initiatives and Rural Development (OMIaRD)

Coordinamento: Universty of Wales, Institute of ural Studies, UK.

Il metodo biologico rappresenta per il futuro dell’agricoltura italiana un punto di riferimento fondamentale che dovrebbe essere tutelata in ogni modo; in effetti l’agricoltura biologica si è diffusa in modo piuttosto ampio in questo Paese permettendo di risollevare, almeno parzialmente, un settore in crisi come quello agricolo. Ciò è stato in parte possibile anche grazie ai finanziamenti comunitari, ma anche alla possibilità che tale metodo offre di inserire sul mercato un prodotto di alta qualità e genuino in grado di “difendersi” dalla concorrenza estera. Inoltre non è possibile dimenticare l’importanza che l’agricoltura biologica riveste nella tutela dell’ambiente e di produttori e consumatori; il potenziamento dell’agricoltura biologica quindi dovrebbe rappresentare un obiettivo da raggiungere a breve termine per il quale gli incentivi monetari rappresentano, se pur fondamentali, un mezzo importante al quale però risulta necessario affiancare un’attività di ricerca che dovrebbe essere potenziata al massimo. L’obiettivo naturalmente non dovrebbe essere solo quello di migliorare conoscenze e tecniche, ma anche instaurare nel cittadino, sia produttore che consumatore, una più forte presa di coscienza rispetto alle problematiche ambientali e sociali.

Attualmente in Italia sono molti i progetti di ricerca avviati, molti dei quali finanziati dal Mi.P.A.F.; tra questi risulta interessante citare:

• BIOGEA: Nuovi sistemi di produzione di piante industriali (barbabietola da zucchero e pomodoro da industria) in regime biologico ad elevata sostenibilità, tracciabilità e competitività.

Coordinamento: Dott. Paolo Ranalli; Istituto Sperimentale per le Colture Industriali;

Dr.ssa Micaela Fabbri – Tecnoalimenti; (http://www.isci.it/home.html).

• CORIBIO: ricerche sul nocciolo finalizzate all’ottenimento di produzioni biologiche di qualità.

Coordinamento: Dott. Marco Scortichini, Istituto Sperimentale per la Frutticoltura, Roma.

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biologica competitivi, sostenibili, tracciabili, sicuri e di alta qualità.

Coordinamento: Dott. Enzo Perri, Istituto Sperimentale per la Olivicoltura (CS); (http://www.cra-isol.it/).

• SABIO: la sostenibilità dell’agricoltura biologica. Valutazioni economiche, ambientali e sulla salute umana.

Coordinamento: Dr.ssa Carla Abitabile, I.N.E.A.

• BIOCER: interventi agrotecnici e genetici per il miglioramento quanti-qualitativo del frumento duro e tenero e la valorizzazione dei prodotti derivati. Coordinamento: Dott. Gaetano Boggini, ISC Sezione O.P.S. Angelo Lodigiano (LO); (http://www.cerealicoltura.it/BIOCER1/BIOCER.htm).

Infine appare interessante citare il Progetto CORE Organic finanziato dalla Commissione Europea, per migliorare la qualità, l'impatto e l'efficienza della ricerca in agricoltura biologica. Il Progetto C.O.R.E. Organic (Coordination of European Transnational Research in Organic Food and Farming) è una nuova iniziativa europea per migliorare la qualità, l'impatto e l'efficienza di utilizzazione delle risorse per la ricerca in agricoltura e alimentazione biologica. Il progetto coinvolge 11 Stati Membri dell'Unione ed è finanziato dalla Commissione Europea ( http://www.core-organic.org/library/pres1/ital.html).

Uno dei settori dove, per le tecniche utilizzate e per la tipologia di prodotto, la sensibilità verso le problematiche ambientali risulta piuttosto ridotta è quello del florovivaismo; in questo caso, se pur interessante, la possibilità di introdurre le tecniche di agricoltura biologica incontra tutta una serie di problematiche che è possibile ricondurre al carattere ornamentale, quindi prettamente voluttuario, dei prodotti florovivaistici. Attualmente il florovivaismo biologico è praticamente inesistente, non è infatti nemmeno citato nelle statistiche relative alla diffusione dell’agricoltura biologica; tuttavia di recente si è riscontrato un certo interesse verso questo tipo di approccio tanto che alcune aziende già stanno cercando di produrre piante e fiori biologici. Inoltre nel 2004 è stato avviato il primo progetto italiano di ricerca relativo al florovivaismo biologico; si tratta del Progetto Probiorn (Produzione Biologica di Piante Ornamentali), finanziato dalla A.R.S.I.A. (Agenzia Regionale Sviluppo e Innovazione in Agricoltura) Toscana, all’interno del quale, peraltro, si colloca anche la prova sperimentale oggetto di questa tesi. Data la complessità e la vastità di tale argomento ci riserviamo di trattare tali problematiche nei paragrafi successivi.

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1.2 IL FLOROVIVAISMO

Il florovivaismo è uno dei settori agricoli che negli ultimi anni ha subito i maggiori cambiamenti, non solo da un punto di vista colturale, ma anche economico; il florovivaismo in effetti subisce una continua evoluzione legata al carattere estremamente voluttuario dei beni da esso prodotti. La recessione economica, che negli ultimi anni ha colpito molti Paesi europei e non solo, ha influenzato molto questo settore in cui la continua innovazione di tecniche e prodotti appare fondamentale per la sua sopravvivenza.

Una delle maggiori problematiche è sicuramente rappresentata dalla concorrenza esercitata dai Paesi in via di sviluppo laddove il clima appare estremamente favorevole alla produzione di piante e, soprattutto, fiori; la produzione floricola difatti è quella che risente maggiormente dell’influenza del mercato globale data la facilità di trasporto di tali beni, mentre la produzione di piante, in particolar modo quelle da esterno, appare molto più competitiva. Inoltre poi molto forte è la concorrenza esercitata dall’Olanda, Paese che, grazie ai bassi costi energetici, alla disponibilità di investimenti e all’adozione di tecniche all’avanguardia è estremamente forte a livello globale.

Il florovivaismo, inoltre, è stato colpito da una forte crisi non solo legata all’andamento dei mercati, ma anche hai costi di produzione sempre più elevati.

In particolar modo il settore è stato fortemente influenzato dall’incessante incremento del prezzo del gasolio con importanti ripercussioni sugli orientamenti colturali, manifestate soprattutto dalla tendenza a ridurre al minimo gli input energetici. Tutto ciò ha contribuito alla diffusione di specie più rustiche e meno esigenti, sia dal punto di vista energetico sia da quello colturale, ma che non danno al produttore la possibilità di essere continuamente presenti sul mercato, o almeno non con un’unica specie. In pratica tale tipo di approccio rende impossibile una specializzazione aziendale tale da permettere l’adozione di tecniche all’avanguardia e competitive con altri Paesi, come la già citata Olanda. Tale difficoltà a creare economie di scala e produzioni omogenee nel tempo e nello spazio, dovuta anche alle ridotte dimensioni aziendali e ad un mix produttivo eccessivamente ampio, rappresenta un punto di debolezza e un freno allo sviluppo del settore nel nostro Paese. È da considerare poi che un altro aspetto negativo legato alla difficoltà di ricorrere a tecniche moderne si ripercuote anche sull’ambiente stesso; difatti tecniche quali il fuorisuolo a ciclo chiuso, permettono spesso di ridurre l’impatto ambientale oltre che di evitare tutte quelle problematiche colturali come, ad esempio, la stanchezza del terreno.

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I costi energetici comunque non sono gli unici a gravare sulle aziende florovivaistiche; un’altra voce importante è rappresentata dai fitofarmaci; appare evidente come il prodotto florovivaistico debba essere privo di qualsiasi difetto e ciò impone un uso piuttosto considerevole di tali prodotti che, oltre ad essere costosi, sono anche dannosi alla salute degli operatori stessi. Certamente uno degli obiettivi dovrebbe essere quello di ridurne al minimo il loro utilizzo; ciononostante è opportuno ricordare come non solo nelle zone di maggiore produzione, quali il sanremese in Liguria o il pesciatino in Toscana, il loro uso sia fortemente radicato nelle abitudini dei produttori, ma anche che in tali zone la possibilità che si verifichino infestazioni è molto elevata a causa della concentrazione di tali colture e, soprattutto, dell’uso irrazionale dei fitofarmaci che si è verificato in passato.

In realtà il consumo di fitofarmaci nel florovivaismo non è il maggiore tra tutti i settori agricoli in Italia, assestandosi intorno al 15% (compreso il settore orticolo) (fig. 13); tuttavia questo è il settore in cui la ripartizione tra le varie famiglie di fitofarmaci è più omogenea rispetto ad altre colture. Nel caso dei fruttiferi, ad esempio si ha netta prevalenza dei fungicidi, mentre nel caso delle erbacee prevalgono gli erbicidi; nel caso del settore ortoflorovivaistico si ha un elevato consumo sia di fungicidi, sia di insetticidi e acaricidi, mentre più ridotto è il consumo di erbicidi. Nel complesso, all’anno 2000, la spesa per i fitofarmaci in questo settore è stata di 140.660 milioni di Lire.

Fig. 13 Il grafico mostra la ripartizione dei consumi di fitofarmaci per i diversi settori agricoli e mette in evidenza l’importanza del settore ortoflorovivaistico.

Drupacee; 5% Altre frutticole; 4% Orticole e Ornamentali; 15% Riso; 5% Oleaginose; 3% Bietola; 8% Mais; 12% Pomacee; 12% Vite; 25% Altre colture; 4%

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Nonostante lo stato di recessione del settore è doveroso ricordare, tuttavia, che esistono anche comparti del florovivaismo che continuano a registrare un buon andamento; in particolare si tratta della produzione di piante ornamentali da esterno e di quella delle fronde recise. Ciononostante è innegabile che tale crisi abbia portato negli ultimi anni ad una forte riduzione delle aziende o comunque ad una loro riconversione; quest’ultimo aspetto è molto importante perché se è impossibile pensare di rilanciare il settore e di contrastare la concorrenza estera attraverso la qualità, sicuramente è indispensabile sfruttare l’innovazione delle tecniche e dei prodotti. Le stime mettono in evidenza lo stato di debolezza del settore florovivaistico; andando ad osservare il valore della Plv media questa si attesta intorno a 80 mila euro, valore di circa sei volte inferiore alla Plv media delle corrispondenti aziende olandesi e che rappresenta il 7,9% dell’intera Plv agricola del nostro Paese8. Questo dato mette in evidenza come la floricoltura italiana sia piuttosto debole nei confronti del Paese che esercita attualmente maggiore concorrenza; ciò è sicuramente dovuto anche alla grande frammentarietà aziendale che si può osservare nel nostro Paese, accompagnata inoltre dall’insuccesso che hanno avuto le forme di associazionismo, quali le cooperative, che invece avrebbero dovuto rafforzare il potere di mercato dei produttori. Tuttavia è opportuno segnalare che nel primo semestre 2005 l’andamento mercantile delle piante, sia da interno che da esterno, risulta essere nel complesso migliorato. La domanda è risultata debole nei primi mesi, in alcune regioni addirittura inferiore rispetto allo scorso anno, a causa delle cattive condizioni climatiche. Dalla metà del mese di marzo le vendite sono andate via via migliorando fino a raggiungere un incremento medio del 7%. In molte regioni, come Lombardia, Liguria, Toscana e Lazio l’andamento della domanda è risultata nel complesso stabile, mentre in altre regioni, quali la Sicilia, la domanda è risultata piuttosto debole. I risultati migliori sono stati ottenuti dalle piante stagionali e le piante da esterno, in particolare quelle mediterranee, mentre le piante da interno hanno sofferto la concorrenza olandese. Inoltre alcune aziende sono state in grado di incrementare il mercato estero, in particolare sono andate bene le esportazioni con Spagna, Portogallo, Francia, Germania ed Inghilterra; nel primo semestre del 2005 è stato registrato un incremento medio del 10%, mentre il Paese con cui si è registrato il risultato migliore è stato proprio l’Inghilterra con un +50%. Tra le specie più richieste palme ed agrumi. (www.ismea.it/Home_Filiera_N.asp?Filiera=3).

8

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Per quanto riguarda invece il settore dei fiori recisi le statistiche, risalenti al V° censimento sull’agricoltura del 2000, hanno rilevato che il settore ha interessato una superficie complessiva di 6.995 ettari, di cui 4.868 in serra (69,6%) e 2.127 in piena aria (30,4%). Inoltre è stato messo in evidenza che, a livello territoriale, il 90,9% della produzione nazionale si concentra in solo sei regioni tradizionalmente dedite al settore quali Campania, Liguria, Puglia, Lazio, Sicilia e Toscana.

La Campania si conferma la maggiore area produttiva, con 1,5 miliardi di pezzi prodotti (32,8% della produzione nazionale), seguita dalla Liguria con 835 milioni di pezzi (18,0% della produzione nazionale), dalla Puglia (16,9%) dal Lazio (12,0%) e dalla Sicilia (11,2%); è purtroppo doveroso segnalare come invece in Toscana, nello stesso anno, si sia registrato un netto calo della produzione passando dai circa 400 milioni di pezzi prodotti del 1999 ai circa 100 milioni del 2000.Al di là della situazione toscana, tuttavia anche i numeri citati per le altre regioni non sono da considerarsi poi così entusiasmanti se si considera che la produzione complessiva è stata di 4,6 miliardi di pezzi, con una diminuzione, rispetto al 1999, di 435 milioni di pezzi (-8,6 per cento). (www.istat.it/dati/catalogo/20040329_02/vol_coltivagricole.pdf).

Ancora in riferimento ai dati del censimento del 2000 si nota che rispetto alle ripartizioni territoriali la produzione è più rilevante nel Mezzogiorno, dove si registra una produzione complessiva di 2,9 miliardi di pezzi (62,9%), mentre la percentuale passa al 71,8% se si considerano solamente le colture in serra.

Le regioni centro-settentrionali, invece, concentrano il 63,7% della produzione nazionale per le coltivazioni in piena aria con 739 milioni di pezzi; tale risultato è dovuto principalmente alla Liguria che detiene il primato per questo tipo di colture con 414 milioni di pezzi (35,8% della produzione nazionale). Le principali specie coltivate sono i garofani (30,7% del totale), i crisantemi (14,9%), le rose (14,7%) e le gerbere (9,2%); queste quattro specie rappresentano complessivamente il 69,6% della produzione nazionale di fiori recisi. Bisogna comunque ricordare che non tutti i comparti del settore florovivaistico sono in crisi, bensì ve ne sono alcuni in grado di svolgere un ruolo piuttosto positivo, anche a livello di esportazioni; tali comparti sono quelli delle foglie e delle fronde recise e quelli, anche se in minor misura, delle piante da esterno e da interno; a tal proposito è interessante ricordare che tali comparti continuano ad ottenere notevoli risultati anche in quei Paesi, come U.S.A. e Germania, dove non esiste più il fattore del cambio di moneta favorevole a seguito dell’ingresso dell’Italia nella moneta unica.

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All’anno 2000 la superficie destinata alla coltivazione di fronde e foglie era pari a 2.833 ettari per una produzione complessiva di 1,7 miliardi di pezzi, con un incremento, rispetto al 1999 di superficie coltivata del 4,6% e di produzione del 9,0%. A livello territoriale la produzione di fronde e foglie è concentrata in poche regioni: in Liguria e Toscana, infatti, si ha l'89,8% della produzione nazionale; in particolare la Liguria si conferma la maggiore produttrice di fronde e foglie con 867 milioni di pezzi (50,4%), seguita dalla Toscana con 679 milioni di pezzi (39,4%). Le principali specie coltivate sono, tra le fronde e foglie verdi, alloro, cedro, eucalipto, erica edera, felce e mirto; inoltre una certa importanza è rivestita anche dalle fiorite, in particolare dalla ginestra, dalla mimosa e dalla gypsophila. Da ricordare che la quasi totalità (90,0% della superficie investita e 92,6% della produzione) delle colture di questo tipo avviene in piena aria.

Molto interessante si è rivelato anche il mercato delle piante intere da vaso che, nel 2000, ha visto un incremento di produzione, rispetto all’anno precedente, del 14,9%; Per quanto riguarda le piante da vaso fiorito, la produzione risulta concentrata soprattuto nelle regioni del centro-nord ed avviene quasi esclusivamente in serra; le specie di maggiore importanza sono soprattutto le bulbose, le aromatiche e le erbacee perenni; è sicuramente interessante notare, a tal proposito, come negli ultimi anni le piante aromatiche abbiano registrato un incremento notevole dovuto, probabilmente ad un cambiamento delle abitudini dei consumatori. In particolare, negli ultimi anni, il crescente interesse verso il giardinaggio e la cura degli ambienti domestici ha comportato l’incremento dei comparti sopra citati, permettendo ai produttori di trovare una via di uscita, almeno temporanea, alla crisi del settore. Esempio interessante è proprio quello delle aromatiche dove l’andamento positivo sembrerebbe dovuto alla consuetudine, piuttosto recente, di utilizzare tali piante non solo nel settore gastronomico, ma anche per abbellire i balconi e i giardini delle case.

Per quanto riguarda invece le piante da foglia, la produzione, anch’essa effettuata preminentemente in serra, risulta distribuita piuttosto equamente su tutto il territorio nazionale, con una leggera prevalenza nelle regioni meridionali, in particolare della regione Campania. La regione Toscana, nonostante la drastica riduzione della produzione di fiore reciso, rappresenta un esempio lampante di come non tutti i comparti florovivaistici siano in crisi; infatti in questa regione tale produzione rappresenta uno dei punti di forza della produzione agricola con il 25% della Plv regionale. Particolarmente forte è il comparto vivaistico, concentrato nella provincia di

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Pistoia, che riesce a mantenere una forte influenza a livello di mercato nazionale e europea (Fig. 14).

Fig. 14 L’importanza del settore vivaistico in Toscana.

Appare comunque evidente che, nonostante lo stato delle cose, l’auspicio dovrebbe essere quello di riuscire a salvare il settore e rilanciarlo, creando nuove opportunità per i produttori; il rischio infatti è quello di sfruttare eccessivamente i settori che hanno ancora un andamento positivo portando ad un “collasso” anche di questi ultimi.

Sicuramente le iniziative di rilancio sono molte, come ad esempio lo sfruttamento di specie rustiche e particolarmente adatte al nostro clima, oppure l’introduzione di nuove cultivar per specie ormai da tempo collaudate o ancora lo studio di nuove tecniche in grado di consentire una riduzione dei costi di produzione; tra tutte le iniziative comunque quelle relative alla riduzione dell’impatto ambientale appaiono tra le più interessanti.

La riduzione di input non ha infatti come unici scopi, sebbene importantissimi, quelli di ridurre l’inquinamento e di nuocere meno alla salute degli operatori, ma anche quello di riuscire a raggiungere nuovi mercati emergenti rappresentati da quella fascia di consumatori particolarmente attenti e motivati verso prodotti ottenuti nel rispetto dell’ambiente e dell’uomo. Da tali considerazioni nasce l’idea di un florovivaismo biologico o, se non altro, a ridotto impatto ambientale, come già anticipato nel paragrafo precedente.

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1.3. IL FLOROVIVAISMO BIOLOGICO

Il crescente sviluppo dell’agricoltura biologica e la necessità di ridurre gli input chimici, sia per la salvaguardia dell’ambiente che per quella di produttori e consumatori, hanno, in questo ultimo periodo, attirato l’attenzione anche dei produttori florovivaistici; tale interesse è stato suscitato inoltre dall’esigenza di rilanciare il settore sfruttando la sempre maggiore domanda di prodotti biologici non alimentari, in particolare proveniente dal Nord e dal Centro Europa. È infatti proprio da questi Paesi che sono nati i primi progetti di ricerca atti a valutare la possibilità di uno sviluppo del florovivaismo a bassi input chimici ed energetici e le prime iniziative di commercializzare prodotti florovivaistici a basso impatto ambientale, con tanto di un marchio di riconoscimento.

In Olanda, nel 1994, è nato grazie alla collaborazione di enti governativi, organizzazioni commerciali florovivaistiche (Dutch Floriculture Sector) e mercati (auctions) il marchio

Milieu Project Sierteelt (MPS), il cui scopo è quello di minimizzare l’impatto

ambientale delle attività produttive floricole e delle piante ornamentali. Tra gli obiettivi del progetto si hanno:

> il miglioramento dell’immagine del settore florovivaistico in senso ecocompatibile;

> la riduzione progressiva dell’impiego di fitofarmaci, fertilizzanti ed energia nonché della produzione di rifiuti;

> la raccolta di dati sugli aspetti ambientali critici nei confronti del settore (registrazioni). La valutazione dei dati raccolti permette al produttore non solo di rendere trasparente i propri impatti, ma di essere maggiormente consapevole circa gli effetti negativi da lui indotti;

> la comparazione, mediante un sistema a punteggio come MPS, alimenta una sana competizione e una spinta al miglioramento continuo da parte dei produttori;

> la partecipazione allo schema MPS di tutte le categorie merceologiche del settore florovivaistico;

> il monitoraggio costante di parametri che sono connessi a capitoli di spesa importanti (energia, fitofarmaci, rifiuti) permettono al produttore di ottimizzare i propri costi con un generale beneficio per le proprie attività. Ancora in Olanda, nel 1997, un altro marchio relativo all’agricoltura sostenibile,

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Milieukeur, è stato esteso anche ai fiori ed alle piante ornamentali e il primo prodotto

florovivaistico certificato è stato nel Gennaio 1998. Altre realtà importanti da citare sono il marchio Kontrollierter Umweltgerechter Zierpflanzenbau (KUZ) in Germania ed il marchio Nursery Industry Accreditation Scheme Australia (NIASA), nato in Australia ed esteso ai prodotti vivaistico nel 1993.

La figura 15 riporta alcuni logo di alcuni sistemi di certificazione per le produzioni florovivaistiche ecocompatibili.

Fig. 15 Sono qui rappresentati i marchi di agricoltura sostenibili di sopra citati e intesi ad identificare prodotti florovivaistici ottenuti nel rispetto dell’ambiente.

In Italia purtroppo non esistono ancora sistemi di certificazione di questo tipo, o meglio esiste la possibilità di certificare i propri prodotti secondo la normativa ISO9000, secondo quelle relativa all’agricoltura integrata, oppure facendo riferimento alle norme di Buona Produzione Agricola (GAP, Good Agricultural Practices), ma il numero di aziende che vi aderisce è estremamente limitato. (www2.arsia.toscana.it/florovivaismo/).

Recentemente comunque si è assistito ad un ulteriore evoluzione del florovivaismo ecocompatibile che si è manifestata con la necessità di ottenere un prodotto identificabile come biologico. In Italia ciò si è concretizzato una certa diffusione del florovivaismo biologico, se pur molto limitato; recenti stime indicano in Liguria (Ufficio statistico Regione Liguria, 31/12/2001) la presenza di 374 aziende produttrici ai sensi del Reg. CEE 2092/91, con 2.306 ha coltivati di cui 13,8 ha investiti a colture florovivaistiche biologiche.

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un gruppo di studiosi, formato da Koller, M. Schmid, O. Billmann, B. Laberenz ed H. Ottosen, che si è riunito in un’apposita sessione di lavoro nell’ambito della Conferenza I.F.O.A.M. di Firenze nel 1999. Durante tale incontro sono stati riportati i primi risultati ottenuti da diverse indagini qualitative preliminari sulle potenzialità dei mercato dei prodotti florovivaistici ornamentali. Da tali indagini è emerso che esiste un mercato potenziale, sebbene ancora ristretto e in cui svolgono un ruolo preminente coloro che già consumano prodotti biologici (Schmid, 1996); inoltre, da un’indagine diretta effettuata nell’ambito di un progetto pilota (Wuthrich et al., 1996) è emerso come le variabili discriminanti nella scelta del consumatore siano rappresentate dall’aspetto del prodotto (qualità ornamentale), dalla durata e in ultimo dal prezzo. Quest’ultimo punto mette in evidenza una delle maggiori problematiche relative alla realizzazione di un florovivaismo biologico. È bene comunque ricordare che l’approccio a tecniche meno invasive è anche stato in qualche modo “forzato” dalle nuove regolamentazioni comunitarie; in particolare è facilmente prevedibile che il comparto del florovivaismo ornamentale subirà, più di ogni altro settore agricolo no-food, forti ripercussioni a seguito di decisioni quali la restrizione all’uso della torba9, il divieto dell’uso del bromuro di metile per la sterilizzazione del terreno, la revisione della lista dei fitofarmaci ammessi in agricoltura ed, infine, l’utilizzo esclusivo di sementi e materiali di propagazione biologici.

Tuttavia non è possibile ignorare che le difficoltà di applicare le regolamentazioni relative al basso impatto ambientale al florovivaismo siano notevoli; in effetti l’obiettivo dovrebbe essere quello di ottenere una produzione che segua integralmente il Regolamento CE 2092/91, secondo il concetto di “filiera”, applicando tutte le tecniche ed i fattori di produzione compatibili con tale regolamento.

Esistono d’altronde, come già anticipato, difficoltà oggettive e spesso anche difficili da superare per l’affermazione del biologico in questo settore10:

1. le piante ornamentali non sono altro che un bene voluttuario in cui la componente estetica risulta fondamentale. I fiori e le piante ornamentali devono, quindi, essere il più possibile prive di difetti ed esenti da tracce di attacchi di patogeni; in altri termini, devono essere o rappresentare qualcosa che difficilmente in natura si trova; inoltre, anche dal punto di vista etico, il consumatore attento ai contenuti salutistici

9

Tale decisione vede la sua origine nella limitazione dell’attività estrattiva della torba, in quanto patrimonio non rinnovabile.

10

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del prodotto biologico richiede non solo gli stessi contenuti estetici, ma anche la stessa disponibilità del medesimo prodotto ottenuto con tecniche di agricoltura convenzionale.

2. il materiale di propagazione deve essere prodotto applicando le regole dell’agricoltura biologica; a tal proposito è necessario sottolineare che il mercato delle giovani piante da fiore ed ornamentali biologiche è, per il momento, così limitato da renderlo ancora poco interessante sotto il profilo commerciale, beneficiando, quindi, di limitati investimenti operati prevalentemente da piccole aziende, spesso specializzate in particolari settori (es. vivai produttori di giovani piante di ciclamino). A conferma di ciò, sta il fatto che una guida al biologico come “Tuttobio” (Tuttobio 2002), vero e proprio vademecum del settore, non riporta alcuna informazione relativa al comparto floricolo e non prende in considerazione la produzione biologica di piante ornamentali. Tuttavia, si sta accrescendo l’interesse delle maggiori aziende vivaistiche e sementiere, facendo prevedere un sicuro sviluppo del settore;

3. i mezzi di difesa nei confronti dei parassiti devono essere sufficientemente efficaci, autorizzati all’uso, quando prescritto, e disponibili sul mercato per combattere fitopatie delle differenti specie da fiore. In questo caso, il problema maggiore consiste nell’effettiva reperibilità dei mezzi di difesa che, normalmente, posseggono attività specifica nei confronti di uno o di pochi parassiti, per cui è necessario metterne a punto numerosi per poter garantire, su una singola specie da fiore, una sufficiente protezione;

4. i concimi devono essere in grado di fornire tutti gli elementi nutritivi necessari per conferire alle piante ottimali caratteristiche di dimensione, di colore e di aspetto e devono essere conformi alle normative in vigore (Canali et al., 1999);

5. i substrati di coltivazione, anch’essi in regola con le norme dettate dal Regolamento CE 2092/91, devono garantire ideali condizioni di sviluppo dell’apparato radicale e, preferibilmente, essere dotati anche di una attività repressiva nei confronti dei parassiti del terreno (Gullino et al., 2002);

6. le tecniche di coltivazione devono soddisfare le esigenze di produzioni quantitativamente e qualitativamente elevate, almeno per il momento confrontabili con quelle ottenute con l’adozione di tecniche “convenzionali”;

7. infine, i contenitori impiegati per le coltivazioni in vaso dovrebbero essere disponibili in materiali biodegradabili per poterli almeno compostare al termine del

Figura

Fig. 1 Incremento delle superfici agricole dedicate all’agricoltura biologica dal  1985 al 2001
Fig. 2 La cartina mostra la diffusione dell’agricoltura organico-biologica in  Europa: più di 5,5 milioni di ettari e circa 175.000 aziende condotte ad agricoltura  biologica
Fig. 3 Il grafico mette in evidenza l’andamento degli ultimi anni relativo alla  superficie totale (in ettari) destinata ad agricoltura biologica e conversione
Fig. 4 Il grafico mette in evidenza l’andamento degli ultimi anni relativo alla  superficie totale (in ha) destinata ad agricoltura biologica e conversione per  coltura
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