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Possibilità di estendere, in via interpretativa, l'istituto dell'applicazione extradistrettuale presso le Procure della Repubblica dei magistrati giudicanti.

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Possibilità di estendere, in via interpretativa, l'istituto dell'applicazione extradistrettuale presso le Procure della Repubblica dei magistrati giudicanti.

(Risposta a quesito del 9 settembre 2009)

Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta del 9 settembre 2009, ha adottato la seguente delibera:

- vista la nota in data 14 gennaio 2009 con la quale i componenti del Consiglio superiore della magistratura chiedono l'apertura di una pratica che prenda atto ed esamini lo stato di degrado dell'intero sistema giudiziario italiano e solleciti, con l'indicazione di strumenti essenziali, interventi adeguati per fornire una risposta ai problemi tutt'ora aperti;

- vista la nota in data 23 gennaio 2009 con la quale la Sesta Commissione, in relazione alla richiesta dei componenti del CSM, ha domandato la co-assegnazione della nota stessa da trattare congiuntamente alla Settima Commissione;

- considerato che a seguito della richiesta da parte della Settima Commissione l’Ufficio studi ha espresso il seguente parere:

“Il richiamato art. 110 O.G. disciplina l’istituto dell’applicazione, delineandone le caratteristiche operative e, soprattutto, indicandone le precipue finalità. In particolare, il primo comma della norma de qua esplicita in maniera inequivoca la ratio ispiratrice dell’istituto in esame, prevedendo che l’applicazione possa essere adottata, indipendentemente dall’integrale copertura dell’organico degli uffici di riferimento, laddove emergano esigenze di servizio “imprescindibili e prevalenti”. È evidente che l’istituto dell’applicazione costituisce lo strumento – non più straordinario, come nell’originaria previsione contenuta nell’art. 110 O.G. – per far fronte a necessità organizzative degli uffici giudiziari, per risolvere le quali non risulta utile ovvero tempestivo ricorrere alle procedure di trasferimento ordinario o, in alternativa, a quelle per l’aumento delle piante organiche.

L’applicazione, peraltro, implica l’inserimento nell’ufficio di un magistrato a prescindere dall’integrale copertura dell’organico, il che, oltre a caratterizzare l’istituto in esame ed a differenziarlo ontologicamente dalla supplenza, dimostra come tale istituto sia idoneo non solo a fronteggiare situazioni patologiche ma, più in generale, a porsi come strumento immanente di organizzazione giudiziaria e di riequilibrio delle risorse umane sul territorio, in funzione delle necessità contingenti e sempre mutevoli dei diversi uffici.

Le indicate finalità dell’applicazione hanno indotto il legislatore a prevedere modalità e tempi di adozione del provvedimento di applicazione che siano adeguati alla duttilità dell’istituto e, soprattutto, che garantiscano la celerità nell’adozione dei relativi provvedimenti, rimettendo al contempo al Consiglio superiore della magistratura l’individuazione dei “criteri obiettivi e predeterminati” da seguirsi nella scelta dei magistrati da applicare.

Alla luce della ratio normativa descritta, va collocata ed interpretata la previsione, pure contenuta nel primo comma dell’art. 110 O.G., in base alla quale agli uffici giudiziari giudicanti vanno applicati magistrati con funzioni giudicanti e, viceversa, agli uffici giudiziari requirenti vanno applicati magistrati esercitanti funzioni requirenti.

Tale previsione, invero, costituisce l’immediato precipitato logico delle finalità stesse cui è preposto l’istituto dell’applicazione. Infatti, poiché è necessario far fronte ad impellenti esigenze degli uffici giudiziari e considerato che l’applicazione può avere la durata di un anno (eventualmente prorogata ai sensi del comma 5 dell’art. 110 O.G.), risulta indispensabile che siano destinati in applicazione magistrati che già esercitano quelle funzioni – giudicanti o requirenti – giacché, diversamente, gli stessi non potrebbero porre in essere l’attività di indispensabile supporto alla quale sono destinati. In altri termini, se l’applicazione è strumento diretto a soddisfare esigenze di servizio “imprescindibili e prevalenti”, perché esso sia realmente efficace è fondamentale che siano applicati magistrati che già svolgano e, quindi conoscano approfonditamente, il settore di attività nel quale è sorta la necessità di potenziare le forze ad esso destinate.

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Sotto altro aspetto, deve evidenziarsi che una diversa soluzione interpretativa, oltre che difficilmente sostenibile in ragione del chiaro dettato normativo, si porrebbe in deciso contrasto con i vigenti principi ordinamentali in tema di distinzioni delle funzioni giudiziarie.

Invero l’art. 10 D.Lgs. 160/2006 elenca, tipizzandole, le funzioni esercitate dai magistrati ordinari e distingue analiticamente quelle giudicanti da quelle requirenti. Il successivo art. 13 D.Lgs. 160/2006 regolamenta il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa, dettando, per la prima volta, una serie di limitazioni temporali nonché territoriali per il mutamento de quo e prescrivendo, in ogni caso, la necessità che su tale passaggio venga espresso il parere dal competente Consiglio giudiziario1. Come già rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, l’art. 13 D.Lgs. 160/2006 “effettivamente introduce un divieto di passaggio dall’una all’altra funzione, elevandolo a norma di principio. (…) La disposizione in esame, nel fissare il divieto di passaggio, si riferisce, tout court, alle funzioni, rispettivamente, requirenti e giudicanti, senza, cioè, operare alcun distinguo fra quelle civili e quelle penali. (…) il disposto del comma (quarto) successivo del medesimo art. 13 novellato (…) ribadisce il principio, introducendo dei temperamenti che sono destinati esclusivamente a venire incontro alle aspirazioni dei magistrati (tant’è che si fa espresso riferimento alle domande di passaggio, presentate dai possibili aspiranti ad esso) e, in ogni caso, facendo salva la dimensione spaziale del tramutamento di funzioni, testualmente inibita nell’ambito dello stesso circondario e della stessa provincia di provenienza” (cfr. T.A.R. Lazio n. 1026/2009).

Sostenere che sia possibile, sulla base dell’art. 110 O.G., destinare sostituti procuratori della Repubblica in applicazione ad uffici giudiziari giudicanti ovvero giudici in applicazione ad uffici giudiziari requirenti si porrebbe in aperto ed insanabile contrasto con il disposto dell’art. 13 D.Lgs.

160/2006, che subordina il passaggio di funzioni all’accertamento di requisiti ben precisi e, soprattutto, che fissa in un quinquennio il termine minimo di permanenza nella medesima funzione.

Non sfugge, infatti, che con la proposta interpretazione dell’art. 110 O.G. si consentirebbe allo stesso magistrato di essere stabilmente incardinato in una funzione e, contemporaneamente, di essere destinato in applicazione (per un arco temporale ben definito ai sensi del quinto comma dell’art.110 O.G.) ad una funzione diversa, così violando le disposizioni di principio dettate in tema di passaggio di funzioni.

Giova in merito sottolineare che l’applicazione è uno strumento al quale può ordinariamente ricorrersi per far fronte ad esigenze di servizio “imprescindibili e prevalenti”; ciò vuol dire che è la situazione concreta, verificatasi nell’ufficio giudiziario, a non poter essere governata utilizzando le risorse disponibili all’interno dell’ufficio ma non che l’istituto dell’applicazione sia un rimedio straordinario e si collochi pertanto extra ordinem. Esso, come già evidenziato in apertura, a seguito delle modifiche normative succedutesi negli anni, non presenta più “quel carattere di straordinarietà che gli assegnava l’art. 110 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (nella sua versione originaria), per divenire uno strumento normalmente utilizzabile per far fronte” alle esigenze di servizio “tanto nel caso in cui esse dipendano da inadeguatezze degli organici, quanto ove esse dipendano da altre cause, le quali presentino comunque un certo grado di stabilità2”.

Pertanto l’istituto dell’applicazione deve necessariamente essere collocato all’interno del sistema ordinamentale e, conseguentemente, essere attuato nel rispetto delle norme dettate in tema di passaggio di funzioni.

Il percorso logico – argomentativo illustrato trova piena conferma nella disposizione contenuta nell’art. 9 ter D.Lgs. 273/1989, dettata in occasione dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Tale norma prevedeva che “Salvo il ricorso alle applicazioni previste

1 Sulla necessità del parere per il passaggio di funzioni, pur a seguito dell’abrogazione dell’art. 190 O.G., il Consiglio Superiore della Magistratura si è già espresso compiutamente nella delibera del 21 novembre 2007, dettante

“Integrazioni alla circolare n. 13000/1999 in tema di conferimento di uffici direttivi” nonché nella delibera del 30 aprile 2008 recante “Modifica alla circolare n. 15098 del 30 novembre 1993 e succ. mod. nella parte relativa al conferimento degli incarichi semidirettivi”.

2 In tali termini si esprimeva il Consiglio Superiore della Magistratura nella circolare n. 7704 del 2 maggio 1991, che disciplinava gli istituti della supplenza e dell’applicazione.

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dall'articolo 110 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 come sostituito dall'articolo 1 della legge 21 febbraio 1989, n. 58, per i tre anni successivi alla data di entrata in vigore del codice di procedura penale possono essere applicati alle procure della Repubblica presso le preture circondariali magistrati, aventi qualifica non inferiore a magistrato di tribunale, in servizio presso le preture circondariali del distretto o di distretti limitrofi”.

Risulta evidente che il legislatore, per superare la chiara lettera dell’art. 110, comma 1, O.G.

e consentire che magistrati con funzioni giudicanti fossero applicati alle procure della Repubblica, ha dovuto elaborare una norma ad hoc, di carattere eccezionale. La previsione in esame trovava propria giustificazione, per un verso, nell’entrata in vigore dell’epocale riforma del codice di procedura penale, per altro verso, nelle peculiari funzioni esercitare fino ad allora dai pretori circondariali, che svolgevano anche attività di natura inquisitoria.

Preme, infine, sottolineare che nessun significato dirimente nella risoluzione del quesito in esame può assumere l’eventuale consenso del giudice interessato ad essere applicato ad un ufficio requirente.

Invero la circolare consiliare sulle tabelle degli uffici giudiziari per il triennio 2009/2011 prevede le condizioni per il ricorso all’applicazione e le modalità di individuazione dei magistrati da applicare in ossequio alla previsione del secondo comma dell’art. 110 O.G., in base al quale “La scelta dei magistrati da applicare è operata secondo criteri obiettivi e predeterminati indicati in via generale dal Consiglio superiore della magistratura ed approvati contestualmente alle tabelle degli uffici e con la medesima procedura”. Pertanto le disposizioni di circolare non si collocano – né d’altra parte potrebbero – oltre le norme di rango primario ma si limitano a dare ad esse attuazione.

Nella specie il C.S.M. ha proceduto ad individuare i “criteri obiettivi e predeterminati”, la cui indicazione era rimessa all’Organo di autogoverno dallo stesso art. 110 O.G. Di conseguenza in tale attività di normazione secondaria, il Consiglio è strettamente vincolato all’osservanza delle regole di carattere generale fissate dalla legge3, tra le quali rientra indubbiamente quella relativa alla necessità che i magistrati che esercitano funzioni giudicanti siano applicati ad uffici giudiziari giudicanti e che, conseguentemente, i magistrati in servizio presso le Procure della Repubblica siano applicati ad uffici requirenti.

Alla luce delle considerazioni svolte, non appare possibile estendere in via interpretativa l’istituto dell’applicazione extradistrettuale nel senso di consentire ai magistrati giudicanti, previa acquisizione della loro disponibilità, di essere applicati ad uffici giudiziari requirenti.

III. – Conclusioni.

Alla luce delle considerazioni che precedono, non appare possibile l’interpretazione dell’art.

110 O.G. nei sensi proposti dal quesito in esame, giacché non risulta conforme alla normativa primaria vigente l’applicazione di magistrati con funzioni giudicanti alle procure della Repubblica.”;

- ritenuto che va integralmente condiviso il suddetto parere dell’Ufficio Studi;

delibera di rispondere come in parte motiva.”

3 Il tema della potestà regolamentare del C.S.M. e della natura delle circolari consiliari è stato ampiamente trattato nella

“Relazione della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura”, approvata dalla Commissione e trasmessa al Presidente della Repubblica il 10 gennaio 1991.

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