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Capitolo 2 Rivelatori di radiazione

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Academic year: 2021

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Rivelatori di radiazione

2.1 Propriet` a generali

Prima di avviare il discorso sulle principali tecniche di osservazione `e utile in- trodurre la terminologia che generalmente si usa per caratterizzare i rivelatori di radiazione. Per questo faremo spesso riferimento a tre tipi di rivelatore che corrispondono a diversi principi di funzionamento: la lastra fotografica, il foto- moltiplicatore, ed infine la matrice di rivelatori che `e comunemente detta “CCD”

(da Charge Coupled Device) e che possiamo descrivere in prima approssimazione come un insieme ordinato (detto anche array) di rivelatori. Nel primo caso si trat- ta di un rivelatore ormai poco usato ma di grande importanza storica, nel secondo caso abbiamo un rivelatore ancora utilizzato sopratutto per misurare bassissimi flussi di radiazione, mentre nel terzo caso si tratta del rivelatore oggi pi` u usato nella regione ottica dello spettro. Questi rivelatori reagiscono all’interazione con la luce in vari modi:

- attivando reazioni chimiche, come nel caso della lastra fotografica;

- emettendo dei fotoelettroni che possono poi essere contati man mano che si producono, come avviene nel caso del fotomoltiplicatore;

- liberando elettroni all’interno di un materiale semiconduttore che, una vol- ta raccolti, potranno poi essere contati in un secondo momento, come generalmente avviene quando si adoperano array di rivelatori).

Mentre la lastra fotografica riesce a rivelare solo una frazione pari a pochi mille- simi dei fotoni incidenti, in un fotomoltiplicatore ne viene utilizzata una frazione tipicamente tra pochi percento e il 20 percento per indurre l’emissione di elettroni

63

(2)

per effetto fotoelettrico da un materiale fotosensibile che viene detto fotocatodo.

Una volta emesso un elettrone (detto elettrone primario), questo viene accelerato da una differenza di potenziale che lo porta a incidere su una superficie (detta dinodo) dalla quale vengono estratti, per urto, ulteriori elettroni (detti elettro- ni secondari). Ripetendo questo processo un certo numero di volte si possono cos`ı ottenere amplificazioni del segnale elettronico originale anche dell’ordine di 10

6

con evidente vantaggio per la misurabilit`a di segnali luminosi deboli. Nelle Figure 2.1 e 2.2 `e illustrato lo schema di funzionamento di un fotomoltiplicatore.

Figura 2.1: Sotto l’azione della ra- diazione il fotocatodo emette elettro- ni che vengono poi moltiplicati in un processo a cascata sui dinodi.

Figura 2.2: Schema di un fotomol- tiplicatore. Gli elettroni emessi dal catodo sono accelerati verso l’ano- do attraverso differenze di potenziale opportune applicate ai vari dinodi.

Grazie alla notevole amplificazione del segnale, con questo rivelatore si `e in grado di “vedere” (nel senso di contare) ogni singolo elettrone emesso dal ma- teriale del fotocatodo dopo l’interazione con un fotone. In questo senso si dice che si riesce a fare “conteggio di fotoni”. Con questo tipo di rivelatore `e sta- ta fatta tutta la fotometria astronomica dagli anni ’50 fino alla fine degli anni

’70. Generalmente questi rivelatori non danno informazione spaziale in quanto

gli elettroni raccolti all’anodo possono essere stati originati in un punto qualsiasi

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del fotocatodo. Vi sono per`o dei rivelatori a fotocatodo che possono anche dare l’informazione spaziale. Questi sono detti microchannel plate e sono essenzial- mente costituiti da array di piccoli fotomoltiplicatori. Un esempio di utilizzo astronomico recente `e dato dal cosiddetto MAMA (Multi-Anode Microchannel Array) che `e uno strumento utilizzato per fare imaging nell’UV da HST (Hubble Space Telescope).

Gli array di rivelatori di tipo CCD sono attualmente gli strumenti pi` u co- muni per rivelare la radiazione ottica. In questi apparati i fotoelettroni prodotti dall’interazione con la luce vengono temporaneamente intrappolati in buche di potenziale locali dove rimangono confinati per tutto il tempo di esposizione. Solo successivamente questi elettroni verranno contati con un processo di lettura ap- propriato. Un’altra importante caratteristica dei rivelatori `e l’intervallo spettrale di funzionamento che dipende dall’energia del fotone necessaria a “liberar” un elettrone nel materiale utilizzato per la realizzazione dello stesso rivelatore. Per esempio, l’energia di eccitazione del silicio `e sempre superata da fotoni nella re- gione ottica dello spettro e quindi questo materiale `e una buona scelta tanto che viene utilizzato per la realizzazione dei cosiddetti CCD. D’altro canto, quando si va nella regione infrarossa e si supera all’incirca λ ∼ 1.1µm i fotoni hanno un’energia troppo bassa per eccitare il silicio che quindi non va pi` u bene nella regione IR. Si usano per questo altri materiali come PbS (solfuro di Piombo), InSb (antimoniuro di Indio), HgCdTe (composto ternario di Mercurio, Cadmio, Tellurio).

A seconda del tipo di rivelatore si usano poi tecniche diverse per “contare”

gli elettroni generati durante l’esposizione. Per il CCD il metodo consiste nel trasferimento della carica elettronica immagazzinata da un pixel a quello im- mediatamente sottostante sulla stessa colonna. Estendendo questa procedura a tutte le colonne e sincronizzando il trasferimento di carica su tutte le colonne di un CCD `e quindi possibile leggere un’intera riga per ogni iterazione secondo quanto illustrato per grandi linee in Figura ??

In pratica, ogni trasferimento di carica fatto su tutte le colonne corrisponde ad una “fuoriuscita” di elettroni dalla base di ogni colonna in modo che per ogni ciclo si possono raccogliere, trasferire e misurare le cariche accumulate su una riga del CCD. In Figura 2.5 `e mostrato il meccanismo con cui la carica viene trasferita da un pixel all’altro.

Nel caso dei rivelatori IR questa tecnica non `e pi` u applicabile e quindi il segnale accumulato localmente su un pixel viene letto individualmente su ogni pixel come vedremo pi` u avanti.

Nel discutere di rivelatori `e importante familiarizzare con la terminologia e per

questo nel descrivere le caratteristiche salienti dei rivelatori introdurremo alcune

(4)

Figura 2.3: Meccanismo per il trasferimento di carica lungo una colonna di pixel in un CCD.

grandezze di uso comune. La qualit`a di un rivelatore e la sua adeguatezza per raggiungere un certo scopo si valutano a partire da una serie di informazioni che possiamo condensare nell’elenco che segue:

- Efficienza quantica definita come rapporto tra numero di fotoni rivelati e fotoni incidenti (N

fotrivelati

/N

fotincidenti

):

• lastre fotografiche: ∼ 0.1 %

• fotomoltiplicatori: ∼ 10 − 20 %

• array di rivelatori: ∼ 20 − 90 % - Dimensione ed elemento di risoluzione :

• lastre fotografiche: grandi dimensioni (fino a ∼ 30 cm) e buona riso- luzione spaziale ;

• fotomoltiplicatori: dimensioni fino a diversi cm, ma privi di risoluzione

spaziale (ad eccezione di array di fotomoltiplicatori come i MAMA) ;

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• array di rivelatori: la loro dimensione cresce continuamente: al gior- no d’oggi il lato di un CCD pu`o raggiungere i ∼ 3 ÷ 4 cm, mentre per un array IR le dimensioni raggiunte sono dell’ordine dei ∼ 2 cm.

Rivelatori con dimensioni effettive maggiori vengono comunque rea- lizzati posizionando una serie di CCD, o anche di array IR, come in un mosaico. La dimensione del pixel di questi array `e tipicamente di

∼ 15 ÷ 25 µm e quindi il numero di elementi di rivelazione contenuti in un singolo CCD `e dell’ordine dei ∼ 10

6

pixel.

- Rumore di lettura (read-out noise): negli array `e generato dal processo di lettura ed `e spesso indicato con l’abbreviazione RON. Per questo il numero di elettroni “letti” da ogni pixel `e un’informazione “sporcata” da un rumore di lettura che `e al livello dei ∼ 100 ÷ 1 elettroni (rms). Gli effetti di questo rumore si aggiungono alle immagini “vere” e possono apparire sia in forma di “pattern” sovrapposti all’immagine o anche di rumore “random”.

Nel primo caso il rumore di lettura ha una correlazione spaziale (e quindi genera una forma nel segnale detta “pattern”) e, se questa appare stabile (non cambia da una immagine alla successiva), si dir`a che il rumore ha una componente sistematica che pu`o essere poi compensata nel successivo processo di riduzione dell’immagine. Nel caso dei fotomoltiplicatori che non

“leggono” elettroni ma rivelano direttamente, e senza accumulo di carica, l’interazione del fotocatodo con un fotone non c’`e rumore di lettura.

- Corrente di oscurit` a ( dark current): `e prodotta dall’agitazione termica degli elettroni contenuti nei materiali con cui sono realizzati i rivelatori.

La probabilit`a che un elettrone sia liberato per agitazione termica, e non per interazione con un fotone, cresce (evidentemente) all’aumentare della temperatura. ` E quindi anche intuibile che i materiali sensibili a lunghezze d’onda pi` u lunghe (p.es. gli array IR) avendo una energia di soglia fo- toelettrica minore soffrono pi` u seriamente di questo tipo di rumore e per questo vengono portati a bassa temperatura prima di essere utilizzati. La temperatura di lavoro tipica di un CCD `e di solito compresa nell’intervallo T ∼ 150÷200 K (T ∼ −120÷−77 C), mentre per gli array IR la temperatu- ra utile `e T ∼ 77 K per quelli adatti al vicino IR (fino a λ ∼ 5µm) e T ∼ 4 K per i bolometri che sono utilizzati nella regione del cosiddetto IR termico a λ > 5µm). Queste sono le temperature che si ottengono rispettivamente in un bagno di azoto e di elio liquido alla pressione atmosferica.

- Capacit` a (full well capacity): `e legata al massimo numero di fotoni che si

possono rivelare in una misura, prima che il rivelatore vada in saturazione.

(6)

Il valore della full well capacity `e determinato nella lastra fotografica dalla densit`a dei grani fotosensibili contenuti nell’emulsione, nel fotomoltiplica- tore invece `e illimitato perch`e nel rivelatore non si accumula carica. Nel caso di un array CCD `e dell’ordine di ∼ 10

5

e

.

- Linearit` a: un rivelatore con questa propriet`a risponde alla radiazione che lo colpisce producendo un segnale proporzionale, in modo lineare, alla quan- tit`a di radiazione incidente. Non sempre questa relazione `e effettivamente lineare ed `e buona norma verificare la linearit`a prima dell’uso di un rivela- tore per scopi scientifici. Questa operazione pu`o essere fatta graficando il numero di elettroni prodotti in funzione del numero di fotoni incidenti e os- servando le eventuali deviazioni dalla linearit`a. Da notare che il coefficiente angolare della retta, in un grafico di questo tipo, rappresenta l’efficienza quantica del rivelatore. Se la relazione non fosse lineare allora si dovr`a te- nere conto di questo qundo si andranno ad analizzare i dati ottenuti con il rivelatore. Nel caso dei rivelatori che abbiamo adottato come esempio abbiamo che:

• la lastra fotografica non `e lineare se non in una ristretta regione della curva caratteristica mostrata in Figura 2.4

• Il fotomoltiplicatore `e invece un rivelatore lineare, eccetto che per il problema del cosiddetto dead time . Con questo termine ci si riferisce alla mancata rivelazione di fotoni che dovessero arrivare durante la fase in cui il fotomoltiplicatore sia gi`a impegnato nella lettura del segnale prodotto dall’arrivo di un fotone. Quindi ad alti flussi luminosi, quando i fotoni arrivano con grande frequenza si possono avere perdite di segnale e quindi allontanamenti dalla linearit`a. In genere questo fenomeno si manifesta quando la frequenza del conteggio si avvicina a 10

5÷6

conteggi s

−1

.

• I rivelatori ad array di tipo CCD sono in generale lineari fino a conte- nere un numero di elettroni dell’ordine di 50 ÷90 % della loro capacit`a (full well capacity) mentre quelli IR sono leggermente non-lineari su tutto l’intervallo di funzionamento. Tuttavia di solito la non linearit`a

`e ripetibile per cui, nota la curva caratteristica, se ne pu`o poi tenere conto in fase di analisi dei dati.

- Reciprocit` a : questa caratteristica riguarda il cambiamento di sensibilit`a

del rivelatore in funzione del flusso di fotoni a cui `e sottoposto. In altre

parole si parla di “difetto di reciprocit`a” quando un rivelatore esposto ad

un certo flusso luminoso per un dato tempo t produce un segnale diverso

(7)

Figura 2.4: Esempio di curva caratteristica per un rivelatore tipicamente non lineare come la lastra fotografica. L’ampiezza della regione di sottoesposizione e la pendenza della regione lineare sono parametri che dipendono dalla sensibi- lit`a del rivelatore. La distanza tra il minimo ed il massimo segnale utilizzabile rappresenta invece l’intervallo dinamico (dynamic range) del rivelatore.

da quello che produce in presenza di un flusso dimezzato ma compensato da un tempo di esposizione doppio. Questo difetto `e tipico nelle lastre fotografiche, ma pu`o anche essere presente in altri tipi di rivelatore. Nel caso del fotomoltiplicatore il problema a cui abbiamo accennato del “dead time” pu`o essere pensato anche come un difetto di reciprocit`a.

- Digitalizzazione: una volta che la carica sia stata raccolta da un array di

rivelatori viene letta e quindi inviata ad un circuito elettronico in grado di

amplificarla e convertirla in un valore numerico da conservare poi in una

memoria. Questo processo viene detto digitalizzazione del segnale e viene

eseguito da una parte di elettronica che prende il nome di convertitore

analogico/digitale (A/D converter, o ADC). Questa operazione consiste nel

confrontare il segnale con una serie di voltaggi di riferimento che differiscono

l’uno dall’altro per un fattore 2. In questo modo un segnale in input viene

traslato in una serie di bit che dipendono dal voltaggio di riferimento che

viene superato per ultimo dal segnale. I convertitori tipici dell’astronomia

sono a 16 bit e quindi codificano il segnale in input in 2

16

livelli digitali.

(8)

Il segnale digitale viene spesso detto genericamente “conteggio” anche se il segnale prodotto dal convertitore A/D `e collegato ai reali conteggi ottenuti sul rivelatore da un fattore di amplificazione dell’elettronica che va sotto il nome di gain. Questo `e un fattore da considerare nell’analisi dei dati, in particolare nella valutazione del rumore. Il photon noise `e infatti legato al conteggio sul rivelatore (che viene spesso indicato in termini di elettroni col simbolo e

) per cui se indichiamo con C i conteggi letti dopo l’esposizione come output del convertitore (spesso indicati con DN [digital numbers] o anche ADU [analog to digital units]) e con G il guadagno dato dal rapporto G = e

/C allora il numero di conteggi ottenuti sul rivelatore sar`a dato da C · G. Conseguentemente il rumore nel segnale in unit`a di elettroni rivelati sar`a dato da e

-Noise= √

C · G (statistica di Poisson). Se invece lo si vuole esprimere in unit`a di ADU (sono i conteggi C letti dopo il convertitore A/D) avremo ADU-Noise=pC/G. Se si tiene conto anche del rumore di lettura dato in termini di e

allora abbiamo per il rumore totale

e

-Noise = √

CG + RON

2

ADU-Noise = pC/G + (RON/G)

2

E quindi importante trattare i dati in modo omogeneo e quindi usare in ` modo consistente conteggi in unit`a di elettroni, oppure di ADU. Un proble- ma nasce dal fatto che i convertitori A/D agiscono solo su segnali positivi in ingresso e questo non `e sempre garantito ai bassi livelli di luce tipici del- l’astronomia. In questo caso la presenza dell’errore di lettura pu`o generare statisticamente un segnale negativo in ingresso al convertitore. Per ovviare a questo si usa aggiungere al segnale in ingresso un voltaggio costante, detto bias di cui poi si deve tener conto in fase di analisi. Questo segnale spurio va infatti rimosso se si vuole preservare il corretto rapporto di segnale tra due diverse sorgenti osservate. ` E importante che il segnale di bias sia accu- ratamente controllato per evitare di introdurre ulteriori errori che possono essere sia sistematici (p. es. variazioni spaziali del bias su un’immagine) che casuali (fluttuazioni nel tempo).

- Dinamica (dynamic range): questa caratteristica descrive la capacit`a di un rivelatore di adattarsi a situazioni diverse dal punto di vista dei flussi luminosi. La dinamica di un rivelatore `e data dal rapporto tra il flusso pi` u alto e quello pi` u basso che esso pu`o rivelare. Ai flussi maggiori il sistema pu`o essere limitato dalla saturazione della capacit`a (full well): questo limite `e legato al numero di elettroni prodotti dal segnale che si possono accumulare nel rivelatore prima che la risposta diventi significativamente non-lineare.

Un’altra limitazione `e imposta dal convertitore A/D che usando una co-

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difica con n bit potr`a fornire valori compresi nell’intervallo [0 ÷ (2

n

− 1)].

Naturalmente `e auspicabile che il convertitore A/D non sia l’elemento limi- tante. Nella misura dei flussi pi` u deboli vi sar`a una limitazione imposta dal convertitore A/D (che non pu`o dare meno di un conteggio) ed un’altra che sar`a legata al rumore di lettura (RON) . Tenendo conto di queste conside- razioni il guadagno di un sistema viene tipicamente scelto in modo tale da massimizzarne la dinamica. Per esempio, se il read-out noise `e RON=10 e

converr`a digitalizzare il segnale ad alcuni e

/ADU (p.es. 3 o 4 e

/ADU) per non dedicare troppi bit a registrare segnale che `e comunque dominato dal rumore di lettura.

- Difetti (cosmetics): la maggior parte dei rivelatori presenta dei difetti di costruzione che, nel caso degli array, si manifestano come pixel poco sensibili (con bassa efficienza quantica) o del tutto insensibili (dead pixels) o anche come colonne non leggibili o “bloccate”. Mentre un certo numero di difetti possono essere accettati ed eventualmente compensati adottando opportune tecniche di osservazione oppure anche in fase di riduzione dei dati, un eccessivo numero di difetti porta poi a scartare un rivelatore per l’uso astronomico.

- Velocit` a di lettura (read-out speed): per gli array questa `e tipicamente 25 µs pix

−1

, anche se spesso i chip possono essere letti a velocit`a differenti con la avvertenza che a maggiori velocit`a di lettura corrisponde sempre un maggiore rumore di lettura (RON).

- Effetti di Saturazione: quando gli elettroni prodotti dalla esposizione alla luce sono tanti da saturare la capacit`a di contenimento entro la buca di potenziale associata ad un pixel, si verifica, specialmente nei CCD, il fenomeno del travaso di elettroni dalla zona saturata alle regioni adiacenti dell’array. In particolare per effetto della modalit`a di costruzione dei CCD questo travaso avviene sopratutto lungo le colonne. Questo fenomeno ap- pare poi nelle immagini come dei prolungamenti brillanti che si estendono lungo le colonne del CCD e partono proprio dalle sorgenti responsabili della saturazione.

- Isteresi : con questo termine si vuole indicare la tendenza di un rivelatore

a dare una risposta ad un dato segnale che dipende anche dalla storia delle

precedenti esposizioni a cui lo stesso rivelatore `e stato sottoposto. Un esem-

pio comune che illustra questo punto `e dato dall’immagine residuale che si

manifesta in modo particolarmente evidente quando un rivelatore `e usato

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per ottenere immagini con grandi flussi luminosi. In questo caso, l’area del rivelatore interessata dal forte flusso apparir`a come “brillante” anche nelle immagini successive creando quindi una immagine “fantasma” (detta gho- st). Un’altra forma di isteresi riguarda anche l’efficienza quantica che pu`o variare in funzione del flusso che ha ricevuto il rivelatore nella sua storia precedente.

2.2 Rivelatori di tipo CCD

Siccome i rivelatori di tipo CCD sono largamente usati in astronomia per os- servazioni nella regione ottica `e opportuno discuterli in maggiore dettaglio per conoscerne meglio le caratteristiche e quindi poterli usare nel modo pi` u corret- to possibile. Una loro peculiarit`a `e legata al modo in cui la carica accumulata durante l’esposizione pu`o essere trasferita da un pixel all’altro per poi essere let- ta e registrata. Si tratta di una tecnica di lettura delle immagini che richiede una grandissima efficienza nel trasferimento della carica lungo una colonna di pixel in modo da non provocare attenuazione nel segnale originale n`e introdur- re altro rumore. Un’efficienza di trasferimento di carica (detta anche CTE - da Charge Transfer Efficiency) pari a 0.999 sembrerebbe buona, ma in un CCD di 1024 × 1024 pix

2

questo significa che solo il 36% (0.999

1024

) del segnale sul pixel pi` u lontano sar`a effettivamente trasferito all’input del convertitore A/D perch`e ad ogni passaggio tra pixel adiacenti si perde un p`o di carica. Per rivelatori da 2048×2048 pix

2

la frazione di segnale trasferito sarebbe addirittura del 13% per cui `e necessario che l’efficienza di trasferimento sia portata a 0.99999 cos`ı da tra- sferire qualcosa come ∼ 98% del segnale. Fortunatamente un’efficienza cos`ı alta `e nelle attuali possibilit`a tecnologiche ed i CCD che non soddisfano questo requisito vengono di solito scartati per scopi scientifici. In Figura 2.6 `e riportata l’ineffi- cienza di trasferimento di carica (detta anche CTI) definita come CTI=(1-CTF) per diversi livelli di esposizione del CCD.

L’inefficienza nel trasferimento della carica in un CCD pu`o portare ad una

serie di problemi che si appaiono tanto pi` u importanti quanto pi` u accurata si

vuole la fotometria. Un tipico problema di questo tipo `e legato alla cosiddetta

deferred charge o carica differita. Questo fenomeno emerge perch`e l’efficienza

di trasferimento di carica nei CCD `e minore quando i livelli di illuminazione

sono molto bassi (vedi Figura 2.6) introducendo un comportamento non-lineare

nel segnale misurato rispetto al flusso luminoso raccolto. Per questo motivo,

avendo a che fare con flussi molto bassi, spesso `e preferibile sottoporre il CCD

al cosiddetto pre-flash. Si tratta di un illuminamento uniforme del CCD che

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Figura 2.5: Esempi di CCD attualmente in uso. Le dimensioni tipiche sono dell’ordine di pochi centimetri, generalmente corrispondenti ad un numero di pixel per lato tra 1000 e 4000.

viene effettuato, prima dell’acquisizione vera e propria, per portare il rivelatore a lavorare nella regione di migliore linearit`a. Il prezzo che si pagher`a per questo sar`a un aumento del rumore finale nell’immagine causato dal rumore poissoniano associato alla illuminazione del pre-flash.

La procedura per realizzare un CCD, in particolare un CCD per bassi livelli di luce, con basso rumore ed alta efficienza quantica, `e piuttosto complessa e per questo solo alcuni costruttori sono in grado di produrlo. Per quanto abbiamo visto finora possiamo quindi valutare la qualit`a di un CCD considerando tre parametri principali. cio`e: la efficienza quantica in funzione della lunghezza d’onda (vedi Figura 2.7), il rumore di lettura e l’efficienza del trasferimento di carica .

I CCD possono essere illuminati sia dalla parte frontale (il lato su cui `e im-

piantata l’elettronica) che dal retro del chip. Per questa loro caratteristica sono

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Figura 2.6: La curva mostra l’inefficienza di trasferimento della carica data da (1 - CTE) in funzione dell’entit`a di carica da trasferire. La curva `e ottenuta mediando su due flat per ogni livello di esposizione.

detti front-illuminated i primi e back-illuminated i secondi. In quest’ultimo caso, per aumentare la sensibilit`a del rivelatore, il chip su cui `e realizzato il CCD pu`o essere anche “assottigliato” con opportune tecniche per permettere alla luce un pi` u efficiente attraversamento dello strato che separa la superficie di incidenza dalla zona sensibile. Questo tipo di CCD sono i pi` u sensibili e vengono detti thinned CCD. In genere questi CCD mostrano una pi` u alta efficienza quantica ed estendono la loro sensibilit`a nella regione del blu superando quindi una delle limitazioni dei CCD front-illuminated. Tuttavia l’operazione di thinning (fino a spessori di 15 µm) `e molto delicata e rischiosa visto che pu`o anche portare alla rottura del chip.

Un accorgimento ulteriore per migliorare la sensibilit`a al blu dei CCD `e quello di ricoprirli con un sottile strato anti-riflesso (coating

1

) per minimizzare le perdite dovute alla riflessione. Si tenga presente che l’efficienza quantica non `e mai omogenea su tutto il chip e variazioni tra pixel dell’ordine di alcuni percento sono normali. Su scale spaziali maggiori le variazioni possono essere maggiori e questo fenomeno `e particolarmente presente sui CCD thinned perch`e il processo di assottigliamento non `e mai perfettamente uniforme. Tutte queste variazioni producono un pattern che `e tipico del singolo CCD che si mette in evidenza con il cosiddetto flat fielding di cui discuteremo meglio in seguito.

1

Il coating ` e uno strato di materiale trasparente che si deposita su una superficie. Nel caso

del CCD il materiale depositato ha un indice di rifrazione minore di quello della superficie su

cui si deposita, questo allo scopo di ridurre la quantit` a di radiazione riflessa.

(13)

Figura 2.7: Efficienza quantica (QE) di alcuni CCD. Dal basso verso l’alto: le prime due curve si riferiscono a CCD front illuminated mentre le altre due riguar- dano CCD thinned and back illuminated. Si noti come la QE a corte lunghezze d’onda aumenta in quest’ultimo caso. Questo risultato si ottiene assottigliando un normale CCD e facendo incidere la luce dalla faccia opposta a quella su cui sono realizzati i contatti dell’elettronica. Questi accorgimenti permettono alla radiazione di raggiungere la zona foto sensibile con minori impedimenti.

Da notare che anche all’interno di un singolo pixel (e quindi sull’area di un pixel) si hanno differenti valori dell’efficienza quantica, anche se questo fatto `e irrilevante se il campionamento spaziale della sorgente `e fatto con diversi pixel.

Quest’ultima `e una pratica usuale in astronomia, ma se la luce proveniente da una sorgente di nostro interesse cadesse tutta all’interno di un solo pixel (caso che possiamo chiamare di estremo sottocampionamento) avremmo il problema della variazione di sensibilit`a sulla sua area e quindi una notevole incertezza nella fotometria della sorgente.

Per finire accenniamo al problema della variazione temporale della efficienza

quantica che pu`o essere prodotta da varie cause legate anche ai ripetuti cicli

termici a cui il CCD `e sottoposto per portarlo a bassa temperatura (T

CCD

150 K) che sono tipicamente usate durante le osservazioni per avere condizioni di

lavoro in cui il rumore di origine termica sia minimizzato.

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2.3 Rivelatori IR

Gli array che si usano nella regione spettrale IR si basano su meccanismi di rive- lazione e raccolta del segnale diversi da quelli dei CCD, anche se spesso si tende a pensarli come equivalenti da un punto di vista delle funzioni e della loro organizza- zione in array a geometria regolare. Il materiale di cui sono fatti `e diverso perch`e il silicio, che `e il materiale usato per i CCD, ha un gap tra banda di valenza e ban- da di conduzione di circa 1.14 eV e quindi fotoni con lunghezza d’onda maggiore di circa 1 µm non possono provocare il passaggio di elettroni tra le due bande.

Questo fatto determina quindi la caduta della sensibilit`a spettrale del CCD alle grandi lunghezze d’onda. Per la rivelazione della radiazione IR a lunghezze d’on- da pi` u grandi dobbiamo quindi utilizzare altri materiali con caratteristiche pi` u adatte. Tra questi materiali citiamo i pi` u utilizzati come il PtSi (siliciuro di plati- no), l’HgCdTe (composto ternario mercurio-cadmio-tellurio), l’InSb (antimoniuro di indio). L’efficienza quantica in questi rivelatori cos`ı come le loro dimensioni in pixel sono generalmente minori di quelle di un CCD. Tuttavia, trattandosi di rivelatori sviluppati pi` u recentemente, vi `e ancora una chiara tendenza della tecnologia costruttiva ad un miglioramento delle loro caratteristiche. Per leggere il segnale accumulato in questi rivelatori non si agisce direttamente sul rivelatore (come si `e visto nel CCD con la migrazione delle cariche lungo le colonne dell’ar- ray) ma si usa un’accoppiamento del rivelatore con un dispositivo di silicio, detto multiplexer, che permette la lettura della carica dei pixel individualmente, senza far migrare le cariche lungo le colonne dell’array.

Materiali usati per relizzare rivelatori nella regione del vicino IR

Tipo Intervallo

di materiale Spettrale (µm)

Indium gallium arsenide (InGaAs) photodiodes 0.7-2.6

Germanium photodiodes 0.8-1.7

Lead sulfide (PbS) photoconductive 1-3.2

Lead selenide (PbSe) photoconductive 1.5-5.2

Indium arsenide (InAs) photovoltaic 1-3.8

Platinum silicide (PtSi) photovoltaic 1-5

Indium antimonide (InSb) photoconductive 1-6.7

Indium antimonide (InSb) photodiode 1-5.5

Mercury cadmium telluride (MCT, HgCdTe) photoconductive 2-25 Mercury zinc telluride (MZT, HgZnTe) photoconductive ?

In un array IR ciascun pixel pu`o essere assimilato ad un capacitore nel quale

le cariche che si liberano nel tempo, a causa dell’esposizione alla radiazione, mo-

(15)

dificano il potenziale che pu`o quindi essere letto ai capi del condensatore preser- vando la carica accumulata. Questa caratteristica del meccanismo di lettura dei rivelatori IR rende possibile la cosiddetta lettura non distruttiva (non-destructive readout) del segnale durante l’esposizione. Questa possibilit`a rappresenta un notevole vantaggio per l’osservatore che pu`o cos`ı valutare in tempo reale (cio`e durante l’esposizione) l’andamento del rapporto S/N dell’osservazione e quindi controllare meglio il tempo di esposizione necessario alla misura. Naturalmente alla fine dell’integrazione la carica accumulata verr`a rimossa con un’operazione di reset prima di passare alla prossima esposizione.

Dopo il reset di un array tuttavia dobbiamo aspettarci che il rumore ter- mico, sebbene attenuato dal raffreddamento del rivelatore, sia sempre presente ed introduca un’incertezza di base sulla carica con cui parte ogni condensatore (pixel). Questo problema pu`o essere attuenuato leggendo non-distruttivamente l’array prima dell’esposizione (operazione detta doubly-correlated sampling ) e quindi sottraendo alla lettura finale questa lettura iniziale.

Come ultima incertezza rimarr`a sempre quella dovuta al rumore di lettura (RON) e, per minimizzare questa incertezza, `e pratica diffusa fare pi` u letture non-distruttive dell’array che vengono poi mediate per dimunuire l’incertezza.

Alternativamente a questa tecnica si pu`o leggere l’array pi` u volte durante il tem- po di esposizione ottenendo cos`ı per ogni pixel una legge di crescita del segnale in funzione del tempo (anche detta “ramp”). L’ultima lettura `e quella che corrispon- de al segnale totale accumulato, quelle precedenti permettono di ricostruire nel tempo la crescita del segnale rendendo quindi possibile la pulizia dell’immagine finale sia dai raggi cosmici che dai pixel saturati.

Sfruttando completamente questa possibilit`a di leggere il rivelatore in modo non-distruttivo, `e possibile usare camere IR senza otturatore utilizzando il fatto che la misura pu`o essere eseguita valutando la derivata piuttosto che il valore assoluto del segnale.

2.4 Rivelatori UV

Per questi rivelatori il background in genere `e molto meno importante rispetto al caso dei rivelatori IR per cui in molti casi il fattore limitante `e il rumore di lettura (RON).

In genere i fotoconduttori, come i CCD, pur potendo rivelare fotoni UV non

vengono usati a causa della loro ampia sensibilit`a spettrale che si estende alle

lunghezze d’onda pi` u lunghe dell’ottico e vicino IR. Il problema nasce dal fatto

che bisogna evitare che la radiazione di lunghezza d’onda pi` u lunga, che pu`o es-

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sere dovuta sia al background che alla stessa sorgente osservata, possa produrre un segnale che “sporca” la misura che invece si vuole ottenere limitatamente ai soli fotoni UV. Quindi la difficolt`a in questo caso nasce dal fatto che bisogna essere particolarmente attenti alla reiezione della radiazione a lunghezze d’onda maggiori. Per questo scopo si possono usare filtri appropriati, anche se `e mol- to difficile realizzare filtri con un alto fattore di reiezione alle grandi lunghezze d’onda. Quando un filtro non `e in grado di bloccare sufficientemente bene la radiazione alle grandi lunghezze d’onda si parla di red-leakage. Per rendersi con- to del problema si pensi che il flusso di fotoni nel visibile per una stella di tipo solare `e dell’ordine di 10

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volte maggiore del flusso nel lontano UV per cui anche una modesta sensibilit`a alla regione visibile pu`o produrre segnali indesiderati di ampiezza notevole.

Per questo si scelgono di solito rivelatori fotoemissivi (ad effetto fotoelettrico) con energie di estrazione pittosto alte in modo che la limitazione della sensibilit`a alle lunghezze d’onda pi` u grandi sia assicurata dal salto di energia richiesto per attivare la fotoemissione. Per realizzare i fotocatodi per l’uso UV, si adottano di solito materiali come il CsI, CsTe, KBr che offrono una efficienza quantica buona nell’UV e bassissima nella regione visibile. Bisogna per`o aggiungere che l’efficien- za quantica di questi fotocatodi, che raggiunge valori dell’ordine del 20-40%, `e ben al disotto di quella che si ottiene con un CCD nel visibile che, come abbiamo visto, si aggira intorno al 60-90%). Con questi materiali si realizzano quindi dei

Figura 2.8: Struttura superficiale di un micro-channel plate. Si presenta come un array di pixel-sensori capaci di emettere elettroni per effetto fotoelettrico. Ogni pixel `e collegato ad un moltiplicatore di elettroni.

fotomoltiplicatori che funzionano secondo lo schema che abbiamo visto in Figura

2.1. Per realizzare un rivelatore bidimensionale in grado fornire immagini UV del

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cielo `e possibile concepire un array di pi` u fotomoltiplicatori assemblati insieme in modo che un fotomoltiplicatore possa svolgere il ruolo di un pixel di un’immagi- ne. Seguendo questa idea sono stati realizzati i cosiddetti micro-channel plate che sono costituiti da una superficie di materiale fotoemissivo su cui sono realizzati l’equivalente dei pixel. Il segnale fotoelettrico emesso da questi viene poi ampli- ficato di un fattore circa 10

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per mezzo di un piccolo moltiplicatore di elettroni (Figura 2.9) . Le dimensioni dei pixel di un simile rivelatore sono dell’ordine di 15 µm e quindi sono paragonabili a quelle dei pixel di un CCD. L’accuratezza con cui si riescono ad assemblare simili rivelatori `e illustrata in Figura 2.10

Figura 2.9: Schema di funzionamento di un moltiplicatore di elettroni (micro-

channel) posto in cascata ad ogni pixel della superficie del micro-channel-plate

mostrato in Figura 2.8. Si noti che la parete cilindrica svolge il ruolo dei dinodi

di Figura 2.1 e 2.2

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Figura 2.10: Superficie di un micro-channel-plate. Si noti la regolarit`a della

spaziatura e l’uniformit`a dei pixel.

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