Rivelatori di radiazione
2.1 Propriet` a generali
Prima di avviare il discorso sulle principali tecniche di osservazione `e utile in- trodurre la terminologia che generalmente si usa per caratterizzare i rivelatori di radiazione. Per questo faremo spesso riferimento a tre tipi di rivelatore che corrispondono a diversi principi di funzionamento: la lastra fotografica, il foto- moltiplicatore, ed infine la matrice di rivelatori che `e comunemente detta “CCD”
(da Charge Coupled Device) e che possiamo descrivere in prima approssimazione come un insieme ordinato (detto anche array) di rivelatori. Nel primo caso si trat- ta di un rivelatore ormai poco usato ma di grande importanza storica, nel secondo caso abbiamo un rivelatore ancora utilizzato sopratutto per misurare bassissimi flussi di radiazione, mentre nel terzo caso si tratta del rivelatore oggi pi` u usato nella regione ottica dello spettro. Questi rivelatori reagiscono all’interazione con la luce in vari modi:
- attivando reazioni chimiche, come nel caso della lastra fotografica;
- emettendo dei fotoelettroni che possono poi essere contati man mano che si producono, come avviene nel caso del fotomoltiplicatore;
- liberando elettroni all’interno di un materiale semiconduttore che, una vol- ta raccolti, potranno poi essere contati in un secondo momento, come generalmente avviene quando si adoperano array di rivelatori).
Mentre la lastra fotografica riesce a rivelare solo una frazione pari a pochi mille- simi dei fotoni incidenti, in un fotomoltiplicatore ne viene utilizzata una frazione tipicamente tra pochi percento e il 20 percento per indurre l’emissione di elettroni
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per effetto fotoelettrico da un materiale fotosensibile che viene detto fotocatodo.
Una volta emesso un elettrone (detto elettrone primario), questo viene accelerato da una differenza di potenziale che lo porta a incidere su una superficie (detta dinodo) dalla quale vengono estratti, per urto, ulteriori elettroni (detti elettro- ni secondari). Ripetendo questo processo un certo numero di volte si possono cos`ı ottenere amplificazioni del segnale elettronico originale anche dell’ordine di 10
6con evidente vantaggio per la misurabilit`a di segnali luminosi deboli. Nelle Figure 2.1 e 2.2 `e illustrato lo schema di funzionamento di un fotomoltiplicatore.
Figura 2.1: Sotto l’azione della ra- diazione il fotocatodo emette elettro- ni che vengono poi moltiplicati in un processo a cascata sui dinodi.
Figura 2.2: Schema di un fotomol- tiplicatore. Gli elettroni emessi dal catodo sono accelerati verso l’ano- do attraverso differenze di potenziale opportune applicate ai vari dinodi.
Grazie alla notevole amplificazione del segnale, con questo rivelatore si `e in grado di “vedere” (nel senso di contare) ogni singolo elettrone emesso dal ma- teriale del fotocatodo dopo l’interazione con un fotone. In questo senso si dice che si riesce a fare “conteggio di fotoni”. Con questo tipo di rivelatore `e sta- ta fatta tutta la fotometria astronomica dagli anni ’50 fino alla fine degli anni
’70. Generalmente questi rivelatori non danno informazione spaziale in quanto
gli elettroni raccolti all’anodo possono essere stati originati in un punto qualsiasi
del fotocatodo. Vi sono per`o dei rivelatori a fotocatodo che possono anche dare l’informazione spaziale. Questi sono detti microchannel plate e sono essenzial- mente costituiti da array di piccoli fotomoltiplicatori. Un esempio di utilizzo astronomico recente `e dato dal cosiddetto MAMA (Multi-Anode Microchannel Array) che `e uno strumento utilizzato per fare imaging nell’UV da HST (Hubble Space Telescope).
Gli array di rivelatori di tipo CCD sono attualmente gli strumenti pi` u co- muni per rivelare la radiazione ottica. In questi apparati i fotoelettroni prodotti dall’interazione con la luce vengono temporaneamente intrappolati in buche di potenziale locali dove rimangono confinati per tutto il tempo di esposizione. Solo successivamente questi elettroni verranno contati con un processo di lettura ap- propriato. Un’altra importante caratteristica dei rivelatori `e l’intervallo spettrale di funzionamento che dipende dall’energia del fotone necessaria a “liberar” un elettrone nel materiale utilizzato per la realizzazione dello stesso rivelatore. Per esempio, l’energia di eccitazione del silicio `e sempre superata da fotoni nella re- gione ottica dello spettro e quindi questo materiale `e una buona scelta tanto che viene utilizzato per la realizzazione dei cosiddetti CCD. D’altro canto, quando si va nella regione infrarossa e si supera all’incirca λ ∼ 1.1µm i fotoni hanno un’energia troppo bassa per eccitare il silicio che quindi non va pi` u bene nella regione IR. Si usano per questo altri materiali come PbS (solfuro di Piombo), InSb (antimoniuro di Indio), HgCdTe (composto ternario di Mercurio, Cadmio, Tellurio).
A seconda del tipo di rivelatore si usano poi tecniche diverse per “contare”
gli elettroni generati durante l’esposizione. Per il CCD il metodo consiste nel trasferimento della carica elettronica immagazzinata da un pixel a quello im- mediatamente sottostante sulla stessa colonna. Estendendo questa procedura a tutte le colonne e sincronizzando il trasferimento di carica su tutte le colonne di un CCD `e quindi possibile leggere un’intera riga per ogni iterazione secondo quanto illustrato per grandi linee in Figura ??
In pratica, ogni trasferimento di carica fatto su tutte le colonne corrisponde ad una “fuoriuscita” di elettroni dalla base di ogni colonna in modo che per ogni ciclo si possono raccogliere, trasferire e misurare le cariche accumulate su una riga del CCD. In Figura 2.5 `e mostrato il meccanismo con cui la carica viene trasferita da un pixel all’altro.
Nel caso dei rivelatori IR questa tecnica non `e pi` u applicabile e quindi il segnale accumulato localmente su un pixel viene letto individualmente su ogni pixel come vedremo pi` u avanti.
Nel discutere di rivelatori `e importante familiarizzare con la terminologia e per
questo nel descrivere le caratteristiche salienti dei rivelatori introdurremo alcune
Figura 2.3: Meccanismo per il trasferimento di carica lungo una colonna di pixel in un CCD.
grandezze di uso comune. La qualit`a di un rivelatore e la sua adeguatezza per raggiungere un certo scopo si valutano a partire da una serie di informazioni che possiamo condensare nell’elenco che segue:
- Efficienza quantica definita come rapporto tra numero di fotoni rivelati e fotoni incidenti (N
fotrivelati/N
fotincidenti):
• lastre fotografiche: ∼ 0.1 %
• fotomoltiplicatori: ∼ 10 − 20 %
• array di rivelatori: ∼ 20 − 90 % - Dimensione ed elemento di risoluzione :
• lastre fotografiche: grandi dimensioni (fino a ∼ 30 cm) e buona riso- luzione spaziale ;
• fotomoltiplicatori: dimensioni fino a diversi cm, ma privi di risoluzione
spaziale (ad eccezione di array di fotomoltiplicatori come i MAMA) ;
• array di rivelatori: la loro dimensione cresce continuamente: al gior- no d’oggi il lato di un CCD pu`o raggiungere i ∼ 3 ÷ 4 cm, mentre per un array IR le dimensioni raggiunte sono dell’ordine dei ∼ 2 cm.
Rivelatori con dimensioni effettive maggiori vengono comunque rea- lizzati posizionando una serie di CCD, o anche di array IR, come in un mosaico. La dimensione del pixel di questi array `e tipicamente di
∼ 15 ÷ 25 µm e quindi il numero di elementi di rivelazione contenuti in un singolo CCD `e dell’ordine dei ∼ 10
6pixel.
- Rumore di lettura (read-out noise): negli array `e generato dal processo di lettura ed `e spesso indicato con l’abbreviazione RON. Per questo il numero di elettroni “letti” da ogni pixel `e un’informazione “sporcata” da un rumore di lettura che `e al livello dei ∼ 100 ÷ 1 elettroni (rms). Gli effetti di questo rumore si aggiungono alle immagini “vere” e possono apparire sia in forma di “pattern” sovrapposti all’immagine o anche di rumore “random”.
Nel primo caso il rumore di lettura ha una correlazione spaziale (e quindi genera una forma nel segnale detta “pattern”) e, se questa appare stabile (non cambia da una immagine alla successiva), si dir`a che il rumore ha una componente sistematica che pu`o essere poi compensata nel successivo processo di riduzione dell’immagine. Nel caso dei fotomoltiplicatori che non
“leggono” elettroni ma rivelano direttamente, e senza accumulo di carica, l’interazione del fotocatodo con un fotone non c’`e rumore di lettura.
- Corrente di oscurit` a ( dark current): `e prodotta dall’agitazione termica degli elettroni contenuti nei materiali con cui sono realizzati i rivelatori.
La probabilit`a che un elettrone sia liberato per agitazione termica, e non per interazione con un fotone, cresce (evidentemente) all’aumentare della temperatura. ` E quindi anche intuibile che i materiali sensibili a lunghezze d’onda pi` u lunghe (p.es. gli array IR) avendo una energia di soglia fo- toelettrica minore soffrono pi` u seriamente di questo tipo di rumore e per questo vengono portati a bassa temperatura prima di essere utilizzati. La temperatura di lavoro tipica di un CCD `e di solito compresa nell’intervallo T ∼ 150÷200 K (T ∼ −120÷−77 C), mentre per gli array IR la temperatu- ra utile `e T ∼ 77 K per quelli adatti al vicino IR (fino a λ ∼ 5µm) e T ∼ 4 K per i bolometri che sono utilizzati nella regione del cosiddetto IR termico a λ > 5µm). Queste sono le temperature che si ottengono rispettivamente in un bagno di azoto e di elio liquido alla pressione atmosferica.
- Capacit` a (full well capacity): `e legata al massimo numero di fotoni che si
possono rivelare in una misura, prima che il rivelatore vada in saturazione.
Il valore della full well capacity `e determinato nella lastra fotografica dalla densit`a dei grani fotosensibili contenuti nell’emulsione, nel fotomoltiplica- tore invece `e illimitato perch`e nel rivelatore non si accumula carica. Nel caso di un array CCD `e dell’ordine di ∼ 10
5e
−.
- Linearit` a: un rivelatore con questa propriet`a risponde alla radiazione che lo colpisce producendo un segnale proporzionale, in modo lineare, alla quan- tit`a di radiazione incidente. Non sempre questa relazione `e effettivamente lineare ed `e buona norma verificare la linearit`a prima dell’uso di un rivela- tore per scopi scientifici. Questa operazione pu`o essere fatta graficando il numero di elettroni prodotti in funzione del numero di fotoni incidenti e os- servando le eventuali deviazioni dalla linearit`a. Da notare che il coefficiente angolare della retta, in un grafico di questo tipo, rappresenta l’efficienza quantica del rivelatore. Se la relazione non fosse lineare allora si dovr`a te- nere conto di questo qundo si andranno ad analizzare i dati ottenuti con il rivelatore. Nel caso dei rivelatori che abbiamo adottato come esempio abbiamo che:
• la lastra fotografica non `e lineare se non in una ristretta regione della curva caratteristica mostrata in Figura 2.4
• Il fotomoltiplicatore `e invece un rivelatore lineare, eccetto che per il problema del cosiddetto dead time . Con questo termine ci si riferisce alla mancata rivelazione di fotoni che dovessero arrivare durante la fase in cui il fotomoltiplicatore sia gi`a impegnato nella lettura del segnale prodotto dall’arrivo di un fotone. Quindi ad alti flussi luminosi, quando i fotoni arrivano con grande frequenza si possono avere perdite di segnale e quindi allontanamenti dalla linearit`a. In genere questo fenomeno si manifesta quando la frequenza del conteggio si avvicina a 10
5÷6conteggi s
−1.
• I rivelatori ad array di tipo CCD sono in generale lineari fino a conte- nere un numero di elettroni dell’ordine di 50 ÷90 % della loro capacit`a (full well capacity) mentre quelli IR sono leggermente non-lineari su tutto l’intervallo di funzionamento. Tuttavia di solito la non linearit`a
`e ripetibile per cui, nota la curva caratteristica, se ne pu`o poi tenere conto in fase di analisi dei dati.
- Reciprocit` a : questa caratteristica riguarda il cambiamento di sensibilit`a
del rivelatore in funzione del flusso di fotoni a cui `e sottoposto. In altre
parole si parla di “difetto di reciprocit`a” quando un rivelatore esposto ad
un certo flusso luminoso per un dato tempo t produce un segnale diverso
Figura 2.4: Esempio di curva caratteristica per un rivelatore tipicamente non lineare come la lastra fotografica. L’ampiezza della regione di sottoesposizione e la pendenza della regione lineare sono parametri che dipendono dalla sensibi- lit`a del rivelatore. La distanza tra il minimo ed il massimo segnale utilizzabile rappresenta invece l’intervallo dinamico (dynamic range) del rivelatore.
da quello che produce in presenza di un flusso dimezzato ma compensato da un tempo di esposizione doppio. Questo difetto `e tipico nelle lastre fotografiche, ma pu`o anche essere presente in altri tipi di rivelatore. Nel caso del fotomoltiplicatore il problema a cui abbiamo accennato del “dead time” pu`o essere pensato anche come un difetto di reciprocit`a.
- Digitalizzazione: una volta che la carica sia stata raccolta da un array di
rivelatori viene letta e quindi inviata ad un circuito elettronico in grado di
amplificarla e convertirla in un valore numerico da conservare poi in una
memoria. Questo processo viene detto digitalizzazione del segnale e viene
eseguito da una parte di elettronica che prende il nome di convertitore
analogico/digitale (A/D converter, o ADC). Questa operazione consiste nel
confrontare il segnale con una serie di voltaggi di riferimento che differiscono
l’uno dall’altro per un fattore 2. In questo modo un segnale in input viene
traslato in una serie di bit che dipendono dal voltaggio di riferimento che
viene superato per ultimo dal segnale. I convertitori tipici dell’astronomia
sono a 16 bit e quindi codificano il segnale in input in 2
16livelli digitali.
Il segnale digitale viene spesso detto genericamente “conteggio” anche se il segnale prodotto dal convertitore A/D `e collegato ai reali conteggi ottenuti sul rivelatore da un fattore di amplificazione dell’elettronica che va sotto il nome di gain. Questo `e un fattore da considerare nell’analisi dei dati, in particolare nella valutazione del rumore. Il photon noise `e infatti legato al conteggio sul rivelatore (che viene spesso indicato in termini di elettroni col simbolo e
−) per cui se indichiamo con C i conteggi letti dopo l’esposizione come output del convertitore (spesso indicati con DN [digital numbers] o anche ADU [analog to digital units]) e con G il guadagno dato dal rapporto G = e
−/C allora il numero di conteggi ottenuti sul rivelatore sar`a dato da C · G. Conseguentemente il rumore nel segnale in unit`a di elettroni rivelati sar`a dato da e
−-Noise= √
C · G (statistica di Poisson). Se invece lo si vuole esprimere in unit`a di ADU (sono i conteggi C letti dopo il convertitore A/D) avremo ADU-Noise=pC/G. Se si tiene conto anche del rumore di lettura dato in termini di e
−allora abbiamo per il rumore totale
e
−-Noise = √
CG + RON
2ADU-Noise = pC/G + (RON/G)
2E quindi importante trattare i dati in modo omogeneo e quindi usare in ` modo consistente conteggi in unit`a di elettroni, oppure di ADU. Un proble- ma nasce dal fatto che i convertitori A/D agiscono solo su segnali positivi in ingresso e questo non `e sempre garantito ai bassi livelli di luce tipici del- l’astronomia. In questo caso la presenza dell’errore di lettura pu`o generare statisticamente un segnale negativo in ingresso al convertitore. Per ovviare a questo si usa aggiungere al segnale in ingresso un voltaggio costante, detto bias di cui poi si deve tener conto in fase di analisi. Questo segnale spurio va infatti rimosso se si vuole preservare il corretto rapporto di segnale tra due diverse sorgenti osservate. ` E importante che il segnale di bias sia accu- ratamente controllato per evitare di introdurre ulteriori errori che possono essere sia sistematici (p. es. variazioni spaziali del bias su un’immagine) che casuali (fluttuazioni nel tempo).
- Dinamica (dynamic range): questa caratteristica descrive la capacit`a di un rivelatore di adattarsi a situazioni diverse dal punto di vista dei flussi luminosi. La dinamica di un rivelatore `e data dal rapporto tra il flusso pi` u alto e quello pi` u basso che esso pu`o rivelare. Ai flussi maggiori il sistema pu`o essere limitato dalla saturazione della capacit`a (full well): questo limite `e legato al numero di elettroni prodotti dal segnale che si possono accumulare nel rivelatore prima che la risposta diventi significativamente non-lineare.
Un’altra limitazione `e imposta dal convertitore A/D che usando una co-
difica con n bit potr`a fornire valori compresi nell’intervallo [0 ÷ (2
n− 1)].
Naturalmente `e auspicabile che il convertitore A/D non sia l’elemento limi- tante. Nella misura dei flussi pi` u deboli vi sar`a una limitazione imposta dal convertitore A/D (che non pu`o dare meno di un conteggio) ed un’altra che sar`a legata al rumore di lettura (RON) . Tenendo conto di queste conside- razioni il guadagno di un sistema viene tipicamente scelto in modo tale da massimizzarne la dinamica. Per esempio, se il read-out noise `e RON=10 e
−converr`a digitalizzare il segnale ad alcuni e
−/ADU (p.es. 3 o 4 e
−/ADU) per non dedicare troppi bit a registrare segnale che `e comunque dominato dal rumore di lettura.
- Difetti (cosmetics): la maggior parte dei rivelatori presenta dei difetti di costruzione che, nel caso degli array, si manifestano come pixel poco sensibili (con bassa efficienza quantica) o del tutto insensibili (dead pixels) o anche come colonne non leggibili o “bloccate”. Mentre un certo numero di difetti possono essere accettati ed eventualmente compensati adottando opportune tecniche di osservazione oppure anche in fase di riduzione dei dati, un eccessivo numero di difetti porta poi a scartare un rivelatore per l’uso astronomico.
- Velocit` a di lettura (read-out speed): per gli array questa `e tipicamente 25 µs pix
−1, anche se spesso i chip possono essere letti a velocit`a differenti con la avvertenza che a maggiori velocit`a di lettura corrisponde sempre un maggiore rumore di lettura (RON).
- Effetti di Saturazione: quando gli elettroni prodotti dalla esposizione alla luce sono tanti da saturare la capacit`a di contenimento entro la buca di potenziale associata ad un pixel, si verifica, specialmente nei CCD, il fenomeno del travaso di elettroni dalla zona saturata alle regioni adiacenti dell’array. In particolare per effetto della modalit`a di costruzione dei CCD questo travaso avviene sopratutto lungo le colonne. Questo fenomeno ap- pare poi nelle immagini come dei prolungamenti brillanti che si estendono lungo le colonne del CCD e partono proprio dalle sorgenti responsabili della saturazione.
- Isteresi : con questo termine si vuole indicare la tendenza di un rivelatore
a dare una risposta ad un dato segnale che dipende anche dalla storia delle
precedenti esposizioni a cui lo stesso rivelatore `e stato sottoposto. Un esem-
pio comune che illustra questo punto `e dato dall’immagine residuale che si
manifesta in modo particolarmente evidente quando un rivelatore `e usato
per ottenere immagini con grandi flussi luminosi. In questo caso, l’area del rivelatore interessata dal forte flusso apparir`a come “brillante” anche nelle immagini successive creando quindi una immagine “fantasma” (detta gho- st). Un’altra forma di isteresi riguarda anche l’efficienza quantica che pu`o variare in funzione del flusso che ha ricevuto il rivelatore nella sua storia precedente.
2.2 Rivelatori di tipo CCD
Siccome i rivelatori di tipo CCD sono largamente usati in astronomia per os- servazioni nella regione ottica `e opportuno discuterli in maggiore dettaglio per conoscerne meglio le caratteristiche e quindi poterli usare nel modo pi` u corret- to possibile. Una loro peculiarit`a `e legata al modo in cui la carica accumulata durante l’esposizione pu`o essere trasferita da un pixel all’altro per poi essere let- ta e registrata. Si tratta di una tecnica di lettura delle immagini che richiede una grandissima efficienza nel trasferimento della carica lungo una colonna di pixel in modo da non provocare attenuazione nel segnale originale n`e introdur- re altro rumore. Un’efficienza di trasferimento di carica (detta anche CTE - da Charge Transfer Efficiency) pari a 0.999 sembrerebbe buona, ma in un CCD di 1024 × 1024 pix
2questo significa che solo il 36% (0.999
1024) del segnale sul pixel pi` u lontano sar`a effettivamente trasferito all’input del convertitore A/D perch`e ad ogni passaggio tra pixel adiacenti si perde un p`o di carica. Per rivelatori da 2048×2048 pix
2la frazione di segnale trasferito sarebbe addirittura del 13% per cui `e necessario che l’efficienza di trasferimento sia portata a 0.99999 cos`ı da tra- sferire qualcosa come ∼ 98% del segnale. Fortunatamente un’efficienza cos`ı alta `e nelle attuali possibilit`a tecnologiche ed i CCD che non soddisfano questo requisito vengono di solito scartati per scopi scientifici. In Figura 2.6 `e riportata l’ineffi- cienza di trasferimento di carica (detta anche CTI) definita come CTI=(1-CTF) per diversi livelli di esposizione del CCD.
L’inefficienza nel trasferimento della carica in un CCD pu`o portare ad una
serie di problemi che si appaiono tanto pi` u importanti quanto pi` u accurata si
vuole la fotometria. Un tipico problema di questo tipo `e legato alla cosiddetta
deferred charge o carica differita. Questo fenomeno emerge perch`e l’efficienza
di trasferimento di carica nei CCD `e minore quando i livelli di illuminazione
sono molto bassi (vedi Figura 2.6) introducendo un comportamento non-lineare
nel segnale misurato rispetto al flusso luminoso raccolto. Per questo motivo,
avendo a che fare con flussi molto bassi, spesso `e preferibile sottoporre il CCD
al cosiddetto pre-flash. Si tratta di un illuminamento uniforme del CCD che
Figura 2.5: Esempi di CCD attualmente in uso. Le dimensioni tipiche sono dell’ordine di pochi centimetri, generalmente corrispondenti ad un numero di pixel per lato tra 1000 e 4000.
viene effettuato, prima dell’acquisizione vera e propria, per portare il rivelatore a lavorare nella regione di migliore linearit`a. Il prezzo che si pagher`a per questo sar`a un aumento del rumore finale nell’immagine causato dal rumore poissoniano associato alla illuminazione del pre-flash.
La procedura per realizzare un CCD, in particolare un CCD per bassi livelli di luce, con basso rumore ed alta efficienza quantica, `e piuttosto complessa e per questo solo alcuni costruttori sono in grado di produrlo. Per quanto abbiamo visto finora possiamo quindi valutare la qualit`a di un CCD considerando tre parametri principali. cio`e: la efficienza quantica in funzione della lunghezza d’onda (vedi Figura 2.7), il rumore di lettura e l’efficienza del trasferimento di carica .
I CCD possono essere illuminati sia dalla parte frontale (il lato su cui `e im-
piantata l’elettronica) che dal retro del chip. Per questa loro caratteristica sono
Figura 2.6: La curva mostra l’inefficienza di trasferimento della carica data da (1 - CTE) in funzione dell’entit`a di carica da trasferire. La curva `e ottenuta mediando su due flat per ogni livello di esposizione.
detti front-illuminated i primi e back-illuminated i secondi. In quest’ultimo caso, per aumentare la sensibilit`a del rivelatore, il chip su cui `e realizzato il CCD pu`o essere anche “assottigliato” con opportune tecniche per permettere alla luce un pi` u efficiente attraversamento dello strato che separa la superficie di incidenza dalla zona sensibile. Questo tipo di CCD sono i pi` u sensibili e vengono detti thinned CCD. In genere questi CCD mostrano una pi` u alta efficienza quantica ed estendono la loro sensibilit`a nella regione del blu superando quindi una delle limitazioni dei CCD front-illuminated. Tuttavia l’operazione di thinning (fino a spessori di 15 µm) `e molto delicata e rischiosa visto che pu`o anche portare alla rottura del chip.
Un accorgimento ulteriore per migliorare la sensibilit`a al blu dei CCD `e quello di ricoprirli con un sottile strato anti-riflesso (coating
1) per minimizzare le perdite dovute alla riflessione. Si tenga presente che l’efficienza quantica non `e mai omogenea su tutto il chip e variazioni tra pixel dell’ordine di alcuni percento sono normali. Su scale spaziali maggiori le variazioni possono essere maggiori e questo fenomeno `e particolarmente presente sui CCD thinned perch`e il processo di assottigliamento non `e mai perfettamente uniforme. Tutte queste variazioni producono un pattern che `e tipico del singolo CCD che si mette in evidenza con il cosiddetto flat fielding di cui discuteremo meglio in seguito.
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