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IL VALORE ASSOLUTO

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE PER L’INSEGNAMENTO SECONDARIO

IL VALORE ASSOLUTO

Specializzando: Ing. Roberta Ducato

Professoressa: Teresa Marino

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CAPITOLO I

La nozione di valore assoluto

Il concetto di valore assoluto o modulo di un numero è uno fra i più interessanti nella didattica della matematica. Il famoso “numero senza segno” di cui si parla la prima volta quando si studiano i numeri relativi alla scuola media entra in sordina nel bagaglio culturale dei nostri allievi quasi come se fosse una sciocchezza, eppure molti di loro entrano in crisi, non solo quando si parla di tale concetto (di cui danno quasi sempre spiegazioni erronee), ma anche quando ne incontrano il simbolo nei contesti più disparati. In effetti la nozione di valore assoluto è molto meno banale e molto più interessante di quanto non appaia ad uno sguardo disattento perché ha applicazioni molto interessanti in tutta la matematica. Tale concetto viene utilizzato a scuola nello studio dei numeri relativi e dei radicali, in quello delle equazioni e disequazioni (con il valore assoluto) e dei numeri complessi, nello studio dei limiti e delle funzioni. In effetti come si evincerà dallo studio seguente tale concetto ha avuto una storia molto travagliata prima che se ne riconoscesse l’importanza per cui non c’è da stupirsi se ancora adesso molti libri scolastici, e con essi i nostri ragazzi, hanno difficoltà a trattare tale argomento.

Studio matematico del valore assoluto

Di tale concetto possono darsi diverse definizioni, ciascuna delle quali ne evidenzia alcune delle proprietà più salienti:

1) Si dice valore assoluto, o modulo, di un numero reale il numero stesso senza il segno;

2) Si dice valore assoluto del numero reale a, e si indica con a , il numero stesso se a è positivo o nullo, il suo opposto se a è negativo;

3) Si dice valore assoluto, o modulo, di un numero reale la distanza di tale numero dal punto che rappresenta lo zero sulla retta reale;

4) Si dice valore assoluto del numero reale a il massimo fra a e –a.

La definizione 1) è poco rigorosa (per non dire errata) e non consente di applicare il concetto di valore assoluto con successo alle espressioni letterali.

La definizione 2) è quella classica, data nei libri di testo, che secondo me è molto interessante perché da essa risulta chiaro che il valore assoluto è sempre un numero positivo o al più nullo.

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Tuttavia tale definizione presenta lo svantaggio di richiedere qualche sforzo prima di essere assimilata e compresa perfettamente. La 3) definizione permette di collegare il concetto di valore assoluto agli altri argomenti di matematica in cui è maggiormente utilizzato (limiti e numeri complessi) mentre la 4) definizione permette di determinarne in maniera elementare le proprietà.

La 3) definizione ha il grande vantaggio di sottolineare il significato geometrico del valore assoluto e di metterne in evidenza l’importanza in topologia, con riferimento in particolare alle relazioni con il concetto di modulo di un numero complesso (inteso come “distanza” del punto che rappresenta il numero complesso nel piano di Argand-Gauss dall’origine) e di intorno circolare (che compare nella definizione di limite).

In particolare dati due numeri reali x e y la loro distanza sulla retta reale è data dal valore assoluto della loro differenza:

d(x, y) =x - y

In questi termini l’insieme dei punti x che distano dal punto xo per meno di ε si può indicare con la scrittura:

x - xo<ε

che definisce algebricamente i punti x che appartengono all’intorno circolare di raggio ε del punto xo . Visti i collegamenti che la 3) definizione di valore assoluto consente, ritengo sarebbe opportuno che essa venga sempre comunque data ai ragazzi.

Le proprietà più salienti del valore assoluto sono le seguenti:

a) x+yx + y b) xyxy c) xy = xy

La definizione 4) fra le diverse definizioni date è quella che si presta meglio delle altre alla dimostrazione di queste proprietà come anche di altre delle proprietà più importanti del valore assoluto. Per esempio osserviamo che la a) può essere dimostrata facilmente dalla 4) definizione.

Infatti da tale definizione discende che xx e yy , cioè x+ yx + y, e contemporaneamente dalle relazioni −xx e − yy, si avrà che −

(

x+ y

)

x + y . Poiché il valore assoluto di un numero ( 4) definizione ) è il massimo fra il numero stesso e il suo opposto si avrà che essendo sia

(

x+ y

)

che

(

x+ y

)

minori o uguali di x + y anche il loro massimo lo sarà e quindi x+ yx + y c.v.d.. Si osservi che la a) mostra che il valore assoluto non è un operatore lineare perché il valore assoluto di una somma non è uguale alla somma dei valori assoluti. Però la

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c) evidenzia che il valore assoluto di un prodotto è il prodotto dei valori assoluti.

Grazie alla definizione 4) anche altre proprietà del valore assoluto risultano di immediata interpretazione, fra cui le disuguaglianze: − aaa e − a ≤−aa .

Studio storico del valore assoluto

Chi sia stato per primo a utilizzare il concetto di valore assoluto non si sa con certezza.

Infatti, come mostra la storia che segue, più o meno inconsapevolmente furono in molti ad utilizzarlo prima che tale concetto avesse una sistemazione rigorosa grazie allo sviluppo della teoria dei numeri e del calcolo. La storia del valore assoluto si mescola curiosamente alla storia dei numeri e dell’analisi. Tale concetto nasce con i numeri negativi e, perlomeno all’inizio, la sua storia si intreccia con quella di tali numeri. Poiché passarono millenni prima che i numeri negativi fossero accettati da tutti, il concetto di valore assoluto non era necessario.

I più antichi documenti pervenutici sui numeri negativi sono delle tavolette di argilla che risalgono al 2000 a.C. (vedi Fig.1, Castelnuovo, 1973): sono scritte in caratteri cuneiformi e sono opera dei Babilonesi. In esse si trovano elencati tanti problemi di matematica, e la maggior parte è senza soluzione; ma in molti intervengono numeri negativi. Chi sia stato il matematico Babilonese autore di tali tavolette non si sa. In opere molto più recenti, del III secolo a.C., sempre scritte dai Babilonesi e riguardanti questioni di astronomia, intervengono i numeri negativi con tutte le loro regole. E anche di queste opere non si conosce l’autore.

Traccia dei numeri negativi si trova anche negli scritti degli Hindu dell’India. Gli Hindu introdussero i numeri negativi (Kline, 1972) per rappresentare i debiti; in queste situazioni i numeri positivi rappresentavano i crediti. Il primo uso noto si trova in Brahmagupta, matematico hindu, e risale al 628 d.C. circa; nello stesso contesto vengono anche enunciate le regole per le quattro operazioni con i numeri negativi. Bhaskara, altro matematico hindu, osserva che la radice quadrata di un numero positivo è duplice, positiva e negativa. Egli solleva la questione della radice quadrata di un numero negativo, ma dice che non c’è radice quadrata perché un numero negativo non è un quadrato. Tuttavia anche gli Hindu non accettarono senza riserve i numeri negativi. Perfino Bhaskara dopo aver dato 50 e –5 come soluzioni di un problema dice che il secondo valore non doveva essere considerato perché la gente non approvava le soluzioni negative, anche se a poco a poco li accettarono come numeri.

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Successivamente gli Arabi, sebbene i numeri negativi e le regole per operare con essi fossero loro familiari attraverso i testi hindu, li respinsero.

Attraverso i testi arabi i numeri negativi divennero noti in tutta Europa; tuttavia la maggior parte dei matematici del XVI e del XVII secolo non li accettava come numeri o, se lo faceva, non li accettava come radici delle equazioni. Nel XV secolo Nicolas Chuquet (1445?-1500?) e, nel XVI, Stifel (1553) parlano entrambi dei numeri negativi come di “numeri surdi”. Cardano dava i numeri negativi come radici delle equazioni, ma li considerava soluzioni impossibili, meri simboli; egli li chiamava fittizi, mentre chiamava reali le radici positive. Vieta scartava interamente i numeri negativi. Pascal considerava la sottrazione di 4 da 0 come una totale assurdità. Un interessante argomento contro i numeri negativi venne dato da Antoine Arnaud (1612-94), un teologo e matematico stretto amico di Pascal. Arnauld metteva in dubbio che –1:1=1: –1 perché, diceva, –1 è minore di +1 e dunque come poteva un minore stare a un maggiore come un maggiore sta a un minore ?

Benchè l’algebra fosse una disciplina antica, alla fine del XVI secolo essa non solo non era ben distinta dall’aritmetica ma anche non aveva basi logiche solide. La storia dell’Algebra (Spagnolo, 1998) si può dividere in tre periodi:

1) algebra retorica , anteriore a Diofanto di Alessandria (250 d.C.) nella quale si usa esclusivamente il linguaggio naturale, senza ricorrere ad alcun segno;

2) algebra sincopata, da Diofanto fino alla fine del XVI secolo, in cui si introducono alcune abbreviazioni per le incognite e le relazioni di uso più frequente, ma i calcoli sono eseguiti in linguaggio naturale;

3) algebra simbolica, introdotta da Viète (1540-1603), nella quale si usano le lettere per tutte le quantità e i segni per rappresentare le operazioni, si utilizza il linguaggio simbolico non solo per risolvere equazioni ma anche per provare regole generali.

Soffermiamoci in particolare su quest’ultimo periodo. Fin dai tempi degli Egiziani e dei Babilonesi i matematici avevano risolto le equazioni di primo, secondo, terzo e quarto grado solo con coefficienti numerici. Inoltre poiché i numeri negativi non possedevano ancora la dignità di numeri, le equazioni come x2 −7x+8=0 vennero a lungo trattate nella forma x2 +8=7x per evitare l’introduzione dei numeri negativi. Quindi esistevano diverse modalità per risolvere le equazioni, un modo diverso per ciascuna tipologia di equazione. Viète alla fine del XVI secolo introdusse l’uso dei coefficienti letterali. Anche se già altri avevano usato le lettere, sporadicamente e per ragioni occasionali, egli fu il primo a servirsene sistematicamente e con uno scopo preciso. La

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novità principale dell’uso delle lettere non consisteva solo nel rappresentare un’incognita o le potenze di un’incognita, ma anche nell’impiegarle per esprimere i coefficienti in forma generica.

Così egli poteva trattare tutte le equazioni di secondo grado unitariamente scrivendo (nella nostra notazione) ax2+bx+c=0, dove a, b e c, i coefficienti letterali, potevano rappresentare qualsiasi numero, mentre x rappresenta una o più grandezze incognite i cui valori devono essere trovati. In questo modo Viète tracciò la linea di demarcazione fra aritmetica e algebra. L’algebra si trasformò nello studio dei tipi generali di forme ed equazioni, poiché ciò che viene stabilito per un caso generale vale per un’infinità di casi particolari. In questo modo rese possibile la generalità della dimostrazione in algebra. Tuttavia egli non accettava i numeri negativi e rifiutò sempre di rappresentarli con coefficienti letterali. Le regole per le operazioni con i numeri negativi esistevano da tempi immemorabili e davano risultati corretti però Viète non accettava i numeri negativi perché mancavano dei significati intuitivi e fisici propri dei numeri positivi.

Uno dei primi algebristi ad accettare i numeri negativi fu Thomas Harriot (1560-1621), il quale poneva occasionalmente un numero negativo da solo in un membro di un’equazione. Non accettava però le radici negative e arrivò persino a dimostrare nell’opera pubblicata postuma Artis analyticae praxis (1631) che queste radici sono impossibili.

Il problema “se io mi trovassi con 15 scudi e fossi in debito di 20, una volta che avessi dato i 15 resterei debitore solo di 5 cioè di meno 5” viene portato come esempio da un grande matematico italiano della fine del 1500, Rafael Bombelli, per mostrare che i numeri negativi si potevano presentare anche nella vita di ogni giorno. Nella Fig.2 vedete la fotografia del frontespizio dell’Algebra di Bombelli nell’edizione del 1579 e potete leggere la pagina “Del sommare più, e meno”, in cui si porta l’esempio degli scudi: il più e il meno sono indicati dal Bombelli con p. e m..

Egli formulò per i numeri negativi alcune definizioni estremamente chiare anche se non fu in grado di giustificare le regole delle operazioni, dal momento che il fondamento logico che sarebbe stato necessario mancava persino per i numeri positivi.

Stevin usava nelle equazioni coefficienti positivi e negativi e accettava anche le radici negative. Albert Girard (1595-1632) pone i numeri negativi sullo stesso piano di quelli positivi e dà entrambe le radici di un’equazione quadratica, anche quando sono entrambe negative. Sia Girard che Harriot usavano il segno meno per denotare l’operazione di sottrazione e i numeri negativi, anche se sarebbe stato meglio usare due simboli distinti, perché il numero negativo è un concetto

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indipendente mentre la sottrazione è un’operazione.

Nel complesso, non molti matematici del XVI e del XVII secolo si trovavano a loro agio o accettavano i numeri negativi in quanto tali, anche senza parlare di riconoscerli come vere radici delle equazioni. C’erano al riguardo curiose credenze. Wallis, per quanto fosse avanzato per i suoi tempi e accettasse i numeri negativi, pensava che essi fossero contemporaneamente maggiori di infinito e minori di zero. Nella sua Aritmetica infinitorum (1655) sosteneva che, siccome il rapporto a/0, con a positivo è infinito, allora quando il denominatore viene cambiato in numero negativo come in a/b con b negativo, il rapporto deve essere maggiore di infinito.

Fig.1 (tratta da Castelnuovo, 1973)

Alcuni dei pensatori più progressisti, Bombelli e Stevin, proposero una rappresentazione che fu certamente d’aiuto per fare accettare, infine, l’intero sistema dei numeri reali (Kline, 1980).

Bombelli suppose che esistesse una corrispondenza biunivoca tra numeri reali e lunghezze su una retta (scelta una data unità) e definì per le lunghezze le quattro operazioni fondamentali. Quindi,

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poiché per Bombelli le lunghezze e le corrispondenti operazioni geometriche definivano i numeri

Fig.2 (tratta da Castelnuovo, 1973)

Fig.3 (tratta da Castelnuovo, 1973)

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reali e le loro operazioni, il sistema dei numeri reali fu razionalizzato su base geometrica. Anche Stevin considerò i numeri reali come lunghezze e credette che questa interpretazione avrebbe potuto risolvere anche le difficoltà che presentavano i numeri irrazionali.

Come è ovvio, la storia del valore assoluto o modulo di un numero, si intreccia a quella dei numeri complessi. E’ evidente però che se i numeri negativi furono accettati con difficoltà, a maggior ragione lo furono i numeri complessi che si ottenevano estraendo le radici pari dei numeri negativi. Tuttavia dobbiamo ringraziare l’iniziale sviluppo illogico di una disciplina logica (oltre a coloro che la formalizzarono), se oggi la matematica si trova in uno stato avanzato.

Senza avere superato le difficoltà dei numeri negativi, i matematici si trovarono di fronte a nuovi problemi imbattendosi negli enti oggi chiamati numeri complessi che nacquero dall’estensione dell’operazione di radice quadrata a numeri qualsiasi (anche negativi). Cardano nel trentasettesimo capitolo dell’Ars Magna (1545) pose e risolse il problema di dividere 10 in due numeri il cui prodotto fosse 40. Cardano ottenne che le due quantità erano 5+ −15 e 5− −15. Dopo questo si trovò sempre più coinvolto nel problema dei numeri complessi a causa del metodo algebrico per la risoluzione delle equazioni cubiche che presentò nel suo libro. Anche se intendeva ricercare e ottenere solo radici reali, la sua formula consente anche di calcolare le radici complesse, quando esse sono presenti. Anzi anche quando tutte le radici sono reali la formula dà come risultati dei numeri complessi dai quali dovrebbero essere derivabili le radici reali. Dunque Cardano doveva attribuire una grande importanza ai numeri complessi ma, dal momento che non sapeva come trovare la radice cubica dei numeri complessi e da essa derivare le radici reali, lasciò questo problema senza risposta e trovò le radici reali in un altro modo.

Anche Bombelli considerava i numeri complessi come soluzioni di equazioni cubiche e formulò in una forma molto simile a quella moderna le quattro operazioni con i numeri complessi;

tuttavia egli le giudicava inutili e “capziose”. Albert Girard, invece, riconosceva i numeri complessi come soluzioni, perlomeno formali, delle equazioni.

Anche Newton negava che le radici complesse avessero un significato, molto probabilmente perché a quel tempo esse mancavano di ogni significato fisico. Anche Leibniz, malgrado operasse coi numeri complessi in termini formali, non ne comprendeva la natura e per giustificare l’uso che

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lui e Johann Bernoulli facevano dei numeri complessi nel Calcolo, diceva che essi non provocavano alcun danno.

Nel Cinquecento e nel Seicento le procedure operazionali con i numeri reali e complessi migliorarono e si ampliarono, nonostante mancasse un chiaro livello di comprensione. Wallis nell’Algebra (1685) mostrò come rappresentare geometricamente le radici complesse di un’equazione quadratica a coefficienti reali. Egli affermò, in effetti, che i numeri complessi non sono più assurdi dei numeri negativi e che dal momento che questi possono venire rappresentati sopra una retta orientata, dovrebbe essere possibile rappresentare i numeri complessi in un piano.

Benché fosse corretto, il lavoro di Wallis venne ignorato dai matematici, che erano refrattari all’idea dei numeri complessi.

Certo è che i numeri negativi e i numeri complessi non furono veramente ben capiti fino ai tempi moderni. Euler, il più eminente matematico del Settecento, scrisse uno dei più importanti testi di algebra di tutti i tempi. Nella Vollstandige Anleitung zur Algebra (Introduzione completa all’algebra, 1770) egli disse che l’operazione di sottrarre –b era equivalente a quella di sommare b poiché “cancellare un debito è proprio come fare un dono”. Egli sosteneva anche che

( ) ( )

1 1 =+1 perché il prodotto deve essere uguale a +1 o a –1 e, dal momento che 1

( )

1 =1,

allora

( ) ( )

1 1 =+1. I migliori testi del Settecento continuarono a fare confusione fra il segno meno impiegato per denotare la sottrazione e lo stesso segno usato per denotare un numero negativo, per esempio –2.

Successivamente a Wallis, altri matematici proposero la rappresentazione dei numeri complessi sul piano. Argand (1768-1822), contabile e matematico autodidatta, sembra essere stato il primo (Earliest Known Uses of Some of the Words of Mathematics, 2000) nel 1814 ad utilizzare il termine modulo per indicare la lunghezza del vettore a+ib.

La storia del valore assoluto si intreccia come è ovvio anche con la storia dell’Analisi, in particolar modo con quella dei limiti (ricordiamo che serve a formalizzare il concetto di limite).

Sugli inesistenti fondamenti logici dell’aritmetica e dell’algebra e su quelli alquanto instabili della geometria euclidea i matematici del settecento costruirono l’Analisi, il cui nucleo principale era il Calcolo Differenziale. I maggiori contributi alla creazione del calcolo vennero da Newton e da Leibniz. Newton si occupò molto poco del concetto di integrale, mentre fece largo uso di quello di derivata. Visto che i risultati del suo lavoro matematico si rivelavano veri da un punto di vista

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fisico, Newton spese ben poco tempo a occuparsi dei fondamenti logici del Calcolo. Nella sua opera maggiore, Philosophiae naturalis Principia matematica (1687) si servì di metodi geometrici e diede teoremi sui limiti in forma geometrica perché secondo lui questo avrebbe reso le dimostrazioni sicure come quelle degli antichi. Leibniz invece si occupò pure degli integrali e utilizzò l’algebra per introdurre i concetti dell’analisi. Tuttavia né Newton né Leibniz riuscirono a dare fondamenta solide al calcolo infinitesimale perché si scontrarono con i concetti di infinitesimo e di infinito che per avere una sistemazione rigorosa necessitavano di una formalizzazione rigorosa del concetto di limite. Fu proprio Leibniz che per primo (Earliest Known Uses of Some of the Words on Mathematics, 2000) usò la parola latina moles per indicare il concetto di valore assoluto di un numero reale.

Risultava evidente che nella prima metà dell’Ottocento sia l’algebra che l’analisi, malgrado

“funzionassero”, mancavano di una fondazione logica. Il primo a cercare di dare all’algebra basi più solide fu George Peacock (1791-1858), professore di Matematica all’Università di Cambridge. Egli distinse l’algebra aritmetica dall’algebra simbolica. Nella prima, i simboli rappresentavano i numeri interi positivi e le operazioni ammesse conducevano esclusivamente a risultati interi positivi; questa caratteristica conferiva all’algebra un solido fondamento. L’algebra simbolica invece assumeva le regole dell’algebra aritmetica ma ne eliminava la restrizione ai numeri interi positivi. Per Peacock, tutti i risultati dedotti nell’algebra aritmetica, le cui espressioni sono generali nella forma ma particolari per valore, sono corretti anche nell’algebra simbolica dove acquistano generalità di forma e di valore. Il ragionamento di Peacock, noto come principio della permanenza delle forme equivalenti, venne esposto nel 1833 nel Report on the Recent Progress and Present State of Certain Branches of Analysis presentato alla British Association for the Advancement of Science. Peacock affermò dogmaticamente che:

“Tutte le forme algebriche che sono equivalenti quando i simboli hanno forma generale ma valore particolare (interi positivi), saranno equivalenti anche quando i simboli sono generali sia per forma che per valore”

Peacock si servì di questo principio per giustificare in particolare le operazioni con i numeri complessi. Egli cercò di proteggere il significato del principio con la frase “quando i simboli hanno forma generale” per impedire di affermare proprietà valide solo per 0 e 1, dal momento che questi numeri godono di proprietà particolari.

Nella seconda edizione del Treatise on Algebra (1842-1845), Peacock derivò il principio partendo da alcuni assiomi. Egli affermò esplicitamente che l’algebra è una scienza deduttiva, come la geometria. La concezione dell’algebra affermata da Peacock fu accettata per quasi tutto

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l’Ottocento. Tuttavia il principio di permanenza della forma era essenzialmente arbitrario e non spiegava perché i vari tipi di numeri possiedono le medesime proprietà dei numeri interi; in realtà esso si limitava a sanzionare risultati che erano corretti empiricamente ma non provati logicamente.

Questo principio fu di ostacolo al progresso dell’algebra moderna in quanto pose di fatto la restrizione che le leggi dell’algebra dovessero essere le stesse per tutti i tipi di numeri. Il principio fu invalidato dalla creazione dei quaternioni, numeri che non godono della proprietà commutativa della moltiplicazione. Quello che Peacock e i suoi seguaci non riuscirono a comprendere era che non esiste una sola algebra, ma molte e che prima di estendere la validità di certe proprietà occorre dimostrarlo.

Ancora nel 1831 Augustus De Morgan (1806-1871), professore di matematica all’University College di Londra, famoso logico matematico e autore di importanti contributi nel campo dell’algebra, diceva nel suo On the Study and Difficulties of Mathematics che sia l’espressione immaginaria −a che l’espressione negativa -b quando compaiono indicano qualche incoerenza o qualche assurdità e sono altrettanto inconcepibili.

Malgrado già nel Settecento ci fossero stati tentativi di rigorizzare l’Analisi, fu solo nella prima metà dell’Ottocento che questo obiettivo venne raggiunto grazie al lavoro di due grandi matematici: Augustin-Louis Cauchy (1789-1857) e Karl Weierstrass (1815-1897).

Augustin-Louis Cauchy decise di costruire la logica del Calcolo sull’Aritmetica e di fondare tale disciplina sul concetto di limite. Nel 1820 durante le lezioni di Analisi all’Ecole Polytechnique dove era professore di analisi, espose le fondamenta del Calcolo. Nel 1821 pubblicava il Cours d’analyse in cui raccoglieva le lezioni di Analisi da lui svolte al primo anno all’Ecole Polytechnique. Il Cours d’analyse (Bottazzini, 1981), com’è naturale per una trattazione generale e didatticamente efficace, si apre con una serie di preliminari, dove Cauchy passa in rassegna le diverse specie di numeri (naturali, relativi, ecc.) e introduce il concetto di valore assoluto, che egli chiama “valore numerico”:

“Per evitare ogni tipo di confusione nel linguaggio della scrittura algebrica, andremo a fissare in questi preliminari il valore di diversi termini per evitare notazioni che noi impronteremo sia all’algebra ordinaria sia alla trigonometria. Le spiegazioni che daremo a questo soggetto sono necessarie, perché noi avremo la certezza di essere perfettamente capiti da coloro i quali leggeranno questa opera. Andremo allora ad indicare quelle idee che sembrerebbe conveniente collegare al numero, queste due parole numero e quantità. Noi assumeremo sempre la

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denominazione di numeri così come si assume in aritmetica, facendo nascere i numeri dalla misurazione assoluta delle grandezze; e noi applicheremo unicamente la denominazione di quantità alle quantità reali positive o negative, cioè a dire ai numeri preceduti dai segni + o -. Di più, noi guarderemo alle quantità come destinate ad esprimere degli accrescimenti o diminuzioni;

di modo che una grandezza data sarà semplicemente rappresentata da un numero, se ci contentiamo di compararla ad un’altra grandezza della stessa specie presa come unità, e da questo numero preceduto dal segno + o – se la si considera come se debba servire alla diminuzione o alla crescita di una grandezza fisica della stessa specie. Così posto, il segno + o – messo davanti ad un numero ne modificherà il significato, pressappoco come un aggettivo modifica quello di un sostantivo. Chiameremo valore numerico di una quantità il numero che ne costituisce la base, quantità uguali quelle che hanno lo stesso valore numerico, e quantità opposte due quantità uguali quanto al loro valore numerico, ma di segno contrario. Partendo da questi principi è facile rendere conto delle diverse operazioni che si possono fare subire alle quantità. Per esempio, date due quantità si potrà sempre trovarne una terza che, presa per accrescere un numero fisso, se essa è positiva e per diminuirlo nel caso contrario, conduce allo stesso risultato delle due quantità date, impiegate l’una dopo l’altra in modo simile. Questa terza quantità, che ha essa sola prodotto lo stesso effetto delle altre due, è ciò che noi chiamiamo la loro somma. Così le due quantità –10 e +7 hanno per somma –3, atteso che una diminuzione di 10 unità aggiunta ad un aumento di 7 unità equivale ad una diminuzione di 3 unità. Aggiungere due quantità, significa calcolare la loro somma. La differenza fra una prima quantità e una seconda è una terza quantità che aggiunta alla seconda riproduce la prima. Infine, si dice che una quantità è più grande o più piccola di un’altra a seconda che la differenza fra la prima e la seconda è positiva o negativa. Dopo questa definizione, le quantità positive sono sempre maggiori delle quantità negative e queste sono tanto più piccole quanto più grandi sono i loro valori numerici.

In algebra, si rappresentano con le lettere non solo i numeri, ma anche le quantità. Come si è convenuto di designare i numeri assoluti nella classe delle quantità positive si può designare la quantità positiva, che ha per valore numerico il numero A, sia per +A sia per A soltanto, tanto che la quantità negativa opposta si trova rappresentata da –A. Nel caso in cui la lettera a rappresenta una quantità si è convenuto di guardare come sinonimi le due espressioni a e +a e di rappresentare con –a la quantità opposta a +a. Queste regole valgono per stabilire quella che si chiama regola dei segni”.

Questo brano mette in bene in evidenza la dualità numero segno. Tuttavia nel seguito del Cours d’analyse Cauchy non elenca né le proprietà del valore assoluto, né tale concetto. Non viene introdotto alcun simbolo per indicare il valore assoluto, segno che l’applicazione valore assoluto

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non è ancora stata costruita.

Tuttavia nel Cours d’analyse Cauchy indica col termine modulo la radice quadrata di a2+b2 (Earliest Known Uses of Some of the Words of Mathematics, 2000) e segnala il rapporto fra modulo di un complesso e valore numerico.

Cauchy introduce nel Cours d’analyse pure il calcolo con quantità letterali e infine il concetto di limite (Bottazzini, 1981) che egli così definisce:

“Allorché i valori successivamente assunti da una stessa variabile si avvicinano indefinitamente a un valore fissato, sì da differirne alla fine tanto poco quanto poco si vorrà, quest’ultima quantità è chiamata il limite di tutte le altre”. E’ interessante notare l’esempio che subito dopo Cauchy presenta per illustrare il concetto:”Così per esempio, un numero irrazionale è il limite delle diverse frazioni che ne forniscono i valori sempre più approssimati”.

Come richiesto dal Counseil de Perfectionnement Cauchy (Bottazzini, 1990) si era accinto a pubblicare anche le sue lezioni del secondo anno, e i primi fogli a stampa dovettero circolare tra colleghi e studenti nel 1824, prima di un brusca e definitiva interruzione della pubblicazione. La lettura delle lezioni di Cauchy infatti non aveva favorevolmente colpito i membri del Conseil: gli argomenti erano trattati in maniera troppo astratta e difficile, “potevano essere adatti alla Facoltà di Scienze ma non all’Ecole Polytechnique” si legge nel verbale di una riunione.

Ripetute volte poi gli studenti si erano lamentati con la Direzione dell’Ecole per la grande difficoltà a seguire le lezioni di Cauchy. Di fronte alle rinnovate richieste del Conseil di modificare contenuti e metodi d’insegnamento, dopo avere tentato di difendere la propria autonomia di docente nella scelta dei metodi, Cauchy si vedeva costretto ad annunciare nel novembre del 1825 che “per uniformarsi ai voleri del Conseil non si riproporrà più di dare, come fatto finora, delle dimostrazioni perfettamente rigorose” nelle sue lezioni. Da qui anche la caduta d’interesse di Cauchy per continuare la pubblicazione di un testo che non avrebbe più potuto rispecchiare le sue convinzioni più profonde: ciò che oggi viene considerato un primo passo decisivo verso il moderno rigore in matematica, veniva rimproverato a Cauchy dai contemporanei come un “lusso d’analisi” o addirittura una “mancanza di chiarezza” sconsigliabile, se non controproducente, per gli studenti dell’Ecole Polytechnique.

Malgrado i suoi studenti non gradissero tale approccio, il metodo proposto da Cauchy divenne ben presto il cuore del moderno rigore del Calcolo.

Il concetto di valore assoluto trova la sua più interessante applicazione in analisi, nella definizione di limite, dove è utilizzato per indicare l’intorno del punto in cui si calcola il limite della funzione. Cantor (1845-1918), che aveva seguito i corsi di Weierstrass a Berlino, nel 1872 pubblica

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(Bottazzini, 1981, 1990) l’articolo “Uber die Ausdehnung eines Satzes aus der Teorie der trigonometrischen Reihen” in cui a pag.98 definisce il concetto di punto-limite di un insieme di punti (ciò che oggi usualmente si chiama punto di accumulazione) e contemporaneamente dà la definizione di intorno di un punto:

“Per “punto limite di un insieme P di punti” intendo un punto della retta tale che in ogni suo intorno si trovino infiniti punti P, col che può capitare che egli stesso non appartenga all’insieme. Per “intorno di un punto” si deve intendere ogni intervallo che contiene il punto al suo interno”.

L’opera di Cauchy ispirò molti lavori sulla formalizzazione dell’analisi, ma il merito maggiore per lo sviluppo di queste ricerche va a un altro grandissimo matematico, Karl Weierstrass.

Con i suoi lavori (Kline, 1980) fu completata l’opera di rigorizzazione dei concetti fondamentali dell’Analisi. Parallelamente all’affermarsi (Bottazzini, 1981) della tendenza all’aritmetizzazione dell’analisi, saranno le vedute aritmetiche di Weierstrass a divenire dominanti, e saranno le sue lezioni berlinesi, in cui egli svolgeva la propria teoria delle funzioni analitiche a diventare il punto di riferimento dei matematici europei, e meta frequente per i giovani promettenti delle università tedesche e straniere. Proprio agli appunti presi alle lezioni di Weierstrass da questi giovani matematici si dovette in buona misura la diffusione delle vedute weierstrassiane in Europa. In questo tipo di lavori si inserisce il “Saggio di una introduzione alla teorica delle funzioni analitiche secondo i principi del prof. Weierstrass” di Pincherle (1880), redatto in seguito a un viaggio di studi a Berlino, che gli consentì di seguire i corsi di Weierstrass nell’anno 1877-78, e che può essere utilmente letto per avere un’idea dell’introduzione di Weierstrass alla teoria delle funzioni. Il Saggio in questione si divide in quattro parti: nella prima sono esposti i principi fondamentali dell’aritmetica (base della teoria delle funzioni), vi si trova una teoria dei numeri (interi, razionali, negativi), vi si trova una teoria dei numeri (interi, razionali, negativi), compresa la teoria weierstarssiana dei numeri reali (cioè numeri costituiti da un’infinità di elementi secondo la sua terminologia), e la teoria dei numeri formati con due unità principali, cioè i numeri complessi.

Fu proprio Weierstrass ad usare per la prima volta (Earliest Uses of Function Symbols, 2000) il simbolo | | per indicare il valore assoluto in un saggio del 1841 dal titolo “Zur Teorie der Potenzreihen” dove tale simbolo appare a pag.67. Egli usò inoltre tale simbolo nel 1859 nei “Neuer Beweis des Fundamentalsatzes der Algebra” in cui tale simbolo appare a pag.252. Quest’ultimo saggio fu sottoposto alla Accademia delle Scienze di Berlino il 12 Dicembre 1859.

Il primo saggio tuttavia non fu pubblicato e forse solo nel 1894, anno in cui il primo volume del “Mathematische Werke” di Weierstrass vide la luce, tale simbolo divenne noto ufficialmente ad

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un vasto pubblico. Tuttavia in quella stampa la notazione di valore assoluto non appare con una definizione o con un ulteriore commento.

Fin dal 1861 Weierstrass (Bottazzini, 1990) affermava a lezione che una funzione f(x) era continua in x “se è possibile determinare un valore δ tale che per ogni valore di h minore in valore assoluto di δ, f(x+h)-f(x) sia minore di una quantità ε arbitrariamente piccola”.

La memoria “Zur Teorie der eindeutigen analytischen Functionen” che apparve nei

“Abhandlungen der Koeniglich Akademie der Wissenschaften“ (pag. 11-60, Berlino 1876, e fu ristampata nel secondo volume del “Mathematische Werke” (1895) di Weierstrass) ha una nota a piè pagina a pag.78 in cui Weierstrass sottolinea:

“Indico il valore assoluto di un numero complesso x con | x |”

In questa memoria Weierstrass applicò il simbolismo del valore assoluto ai numeri complessi.

Infine nel 1898 in uno dei corsi di matematica all’Ecole Polytechnique, con Joudan, l’applicazione x → |x| è definitivamente costruita e utilizzata con tutte le sue proprietà. Qualche anno più tardi, Humbert cercherà di introdurre la notazione mod(x) per indicare il valore assoluto di x, al fine di sottolinearne la relazione con il modulo di un complesso. Come ben sappiamo è successo alla fine il contrario e il modulo di z è stato indicato con z.

Il riconoscimento definitivo dell’importanza del valore assoluto di un numero inteso come

“distanza” del numero dallo zero, avvenne all’inizio di questo secolo grazie alla nascita di una nuova branca della matematica, la topologia. Uno dei primi (Bottazzini 1990) a occuparsi di topologia fu Maurice Frèchet (1878-1973). Nella prima parte della sua tesi di dottorato “Sur quelques points du calcul fonctionnel” apparsa nei “Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo”

nel 1906, Frechèt precisa i concetti fondamentali di quella che oggi è chiamata topologia in un insieme astratto. Ispirandosi direttamente alla teoria degli insiemi di punti, egli nel primo capitolo considerava classi di oggetti astratti dette L-classi, per le quali era definito in maniera assiomatica il concetto di elemento limite di una successione di elementi. Di particolare interesse erano certe L- classi, che Frèchet chiamava V-classi (da voisinage, intorno). Per ogni coppia A, B di elementi di una V-classe era definita una funzione a valori reali, indicata con (A, B), tale che:

1) (A, B) = (B, A) ≥0

2) (A, B) = 0 se e solo se A = B

3) esiste una funzione f(ε)≥0 con f(x) 0

0 =

εlim e tale che (A, C) ≤ f(ε) se (A, B) ≤ ε e (B,C) ≤ ε.

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Nel secondo capitolo della tesi, Frèchet rimpiazzava quest’ultima condizione con l’usuale disuguaglianza triangolare (A, C) ≤ (A, B) + (B, C) per una terna qualunque di elementi. Una classe dotata di una struttura siffatta era da Frèchet denominata E-classe (da ècart, scarto, differenza), e più tardi sarà da Hausdorff chiamata spazio metrico.

Nella seconda parte della tesi Frèchet applicava le nozioni introdotte in maniera astratta ad esempi concreti, come lo spazio euclideo n-dimensionale o E-classi come quella delle funzioni reali e continue su un intervallo chiuso della retta, con ècart definito da (f, g) = max |f(t)-g(t)| per t appartenente all’intervallo.

Successivamente a Frechèt altri studiosi fra cui Riesz, Brouwer, Hahn, Hausdorff si occuparono di topologia. In particolare è il volume Grundzuge der Mengenlehre (Fondamenti della Teoria degli insiemi, 1914) di Felix Hausdorff (1868-1942), che segnò la nascita della moderna topologia generale come disciplina autonoma. Dopo aver dedicato circa metà del volume alla esposizione della teoria cantoriana degli insiemi Hausdorff passava a trattare gli insiemi di punti e le loro proprietà, un campo dove “la teoria degli insiemi ha colto i suoi più bei trionfi, che vengono ammessi persino da coloro che si mantengono scettici verso la teoria degli insiemi astratti”.

Nello studiare le proprietà degli insiemi di punti, osservava Hausdorff, si potevano seguire vie differenti. Una prima consisteva nell’introdurre una relazione binaria sull’insieme, la distanza, definita per ogni coppia di elementi. D’altra parte, “sulla base del concetto di distanza si può per esempio definire il concetto di successione convergente di punti e di limite di essa, e questo concetto può a sua volta essere scelto come fondamento della teoria degli insiemi di punti, escludendo quello di distanza” , così come aveva fatto Frechet per le sue L-classi. In terzo luogo, sulla base della distanza si “può associare ad ogni punto certi sottoinsiemi dello spazio, che chiameremo intorni del punto, e di nuovo si può prendere questo sistema degli intorni a fondamento dell’intera teoria, eliminando il concetto di distanza”.

Ne seguiva la definizione di spazio metrico, intendendo con ciò “un insieme E in cui ad ogni coppia di elementi (punti) x, y è associato un numero reale non negativo, la loro distanza xy” per la quale siano validi i seguenti assiomi:

“ a) (assioma di simmetria) E’ sempre xy= yx

b) (assioma di coincidenza) E’ xy=0 se e solo se x = y c) (assioma triangolare) E’ sempre xy+yzxz”

Hausdorff mostrava quindi senza difficoltà che l’ordinario spazio euclideo era uno spazio metrico, così come lo spazio n-dimendionale euclideo. Egli passava poi a definire il concetto di intorno di un

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punto (“l’insieme dei punti y la cui distanza da x è minore di un determinato numero positivo”).

Con l’introduzione di questi concetti è quindi finalmente e definitivamente riconosciuta l’importanza del valore assoluto che diventa quello che conosciamo oggi, non più solo semplice parola usata per enunciare le regole delle operazioni fra numeri relativi, ma concetto di grande utilità in analisi utilizzato per esprimere la “distanza” fra numeri sulla retta reale o sul piano complesso, operatore che serve ad indicare in forma algebrica compatta gli intorni circolari nella

“difficilissima” definizione algebrica di limite.

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CAPITOLO II

Tipologia delle difficoltà del valore assoluto

A questo punto possiamo renderci conto di come sia stato difficile per i matematici diventare consapevoli dell’importanza di definire rigorosamente l’operatore valore assoluto, visto che esso è così intimamente legato alla storie travagliate degli enti più dibattuti della storia della matematica: i numeri negativi innanzitutto, i numeri complessi e i limiti in secondo luogo.

Personalmente ritengo che il vero motivo per cui i ragazzi incontrano difficoltà quando si imbattono nel concetto di valore assoluto per la prima volta è che questo viene sottovalutato e il contesto in cui viene inserito è errato. Infatti, alla scuola media che è il luogo dove il valore assoluto viene definito la prima volta, tale concetto è sempre applicato a numeri e non ad espressioni letterali, che è invece l’applicazione più frequente che se ne fa al superiore.

Nella maggioranza dei casi al biennio questo concetto non viene approfondito ulteriormente per cui il ragazzo rimane convinto che il valore assoluto sia il “numero senza segno”. Al secondo anno il valore assoluto ricompare drammaticamente legato ad un argomento che i ragazzi stentano a capire: quello di radicale aritmetico. Anche in questo caso alle difficoltà di un argomento già difficile vanno al aggiungersi le difficoltà dei professori che spesso non distinguono fra radicale aritmetico e radicale algebrico per cui i ragazzi alla fine ritengono che la radice quadrata di 4 sia comunque o +2 o –2. Il massimo si raggiunge quando si deve calcolare la radice quadrata di una espressione letterale. Senza avere effettivamente compreso cosa è una radice aritmetica, cosa è il valore assoluto e senza avere mai fatto esercizi su di esso applicandolo alle espressioni letterali, non è difficile comprendere il panico che coglie i nostri alunni quando si trovano di fronte ad un radicale aritmetico dove compare una espressione letterale: sommando le difficoltà di due concetti così astrusi ai loro occhi, i ragazzi si convincono sempre più di come siano difficili da comprendere sia i radicali che il concetto di valore assoluto.

Al triennio i ragazzi rincontrano il valore assoluto o modulo quando si parla di numeri complessi ma non tale concetto viene collegato al concetto di valore assoluto o modulo di un numero reale. Devo dire che i ragazzi si accorgono che c’è questa uguaglianza di vocaboli ma poi visto che il valore assoluto è un argomento “antipatico” rimuovono solitamente questo pensiero dalle loro menti. Con queste premesse è ovvio come negli anni successivi si incontrino difficoltà enormi quando si deve spiegare il concetto di limite nella cui definizione algebrica ricompare il simbolo di valore assoluto. A questo punto i ragazzi sono ormai ben convinti che la matematica sia una scienza creata per poche menti elette, che i radicali e i limiti siano due argomenti difficilissimi e

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incomprensibili e ovviamente la colpa è anche del valore assoluto.

Possiamo riassumere quanto detto nei seguenti termini:

1) il concetto di valore assoluto è stato di difficile acquisizione nella matematica moderna e gli stessi professori hanno difficoltà a darne definizioni coerenti ed a utilizzarlo correttamente;

2) il libri di testo spesso lo sottovalutano, ne danno definizioni poco chiare o addirittura errate, e ne propongono scarse applicazioni;

3) i ragazzi lo incontrano alla scuola media applicato ai numeri relativi dove apparentemente non dà problemi e quindi non ne capiscono l’applicazione alle espressioni letterali;

4) anche quando imparano a risolvere le equazioni e disequazioni con i valori assoluti i ragazzi lo fanno in maniera meccanica, visto che spesso ne danno definizioni scorrette;

5) tale concetto è legato agli argomenti più “difficili” per i ragazzi, radicali e limiti, e contribuisce a renderli ancora più incomprensibili.

Se adesso isoliamo il concetto di valore assoluto dal contesto in cui si studia e si utilizza, e cerchiamo di capire quale può essere la tipologia di errori legata soltanto ad esso, troviamo che le principali difficoltà che il ragazzo incontra sono di due tipi:

1) i ragazzi si confondono spessissimo quando devono studiare il “caso”

2) l’operatore valore assoluto è un operatore non lineare e questa caratteristica è per loro di difficile comprensione.

Studio del caso. Quando il ragazzo studia una espressione dove il valore assoluto è applicato ad una funzione f(x) frequentemente egli:

a) studia il segno di x al posto di quello della f(x) b) studia il segno di f(x)

c) crede che la funzione f(x) sia una scrittura abbreviata per indicare sia la –f(x) che la f(x)

La non linearità del valore assoluto. Difficilmente i ragazzi resistono alla tentazione di considerare il valore assoluto come un’operatore lineare, cioè per loro molto spesso il valore assoluto di una somma è uguale alla somma dei valori assoluti. Del resto questo tipo di errore i ragazzi lo ripetono anche con altri operatori non lineari, quali la radice quadrata, il seno, il coseno, la tangente, etc.

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Ostacoli e difficoltà del valore assoluto

Abbiamo visto qual è la tipologia delle difficoltà del valore assoluto. Adesso cerchiamo di rispondere perché questo accade. Il fatto che gli errori dei nostri alunni si ripetano nel tempo ogni volta che incontrano valore assoluto e nonostante tutti i nostri sforzi per impedirlo, ci deve far pensare che probabilmente il valore assoluto è un ostacolo epistemologico. Per ostacolo epistemologico intendiamo una conoscenza che ha le seguenti caratteristiche:

1) ha un ruolo nel sapere (è un fondamento)

2) produce risposte adatte in un certo contesto e si accumula attorno a delle concezioni

3) non produce risposte adatte fuori dal contesto quando di cambia il punto di vista (resiste al transfert)

4) nel contesto più generale produce contraddizioni rispetto alle conoscenze accettate dall’allievo (resiste al transfert)

5) è una conoscenza ostacolo che permane anche dopo la presa di coscienza del suo ruolo nei fondamenti del nuovo linguaggio allargato, che mantiene le sue concezioni relative ai fondamenti del linguaggio precedente e costituisce un ostacolo all’acquisizione del nuovo

A mio parere il valore assoluto risponde a tutte queste caratteristiche. Ma perché il valore assoluto è un ostacolo epistemologico? Questo dipende sicuramente dai concetti a cui è collegato e a causa dei quali è stato introdotto nella matematica, cioè i numeri negativi. Affinché i ragazzi si costruiscano una corretta definizione del valore assoluto occorre che rivivano sulla loro pelle e stimolati dall’insegnante, le vicissitudini che questa nozione ha subito nella storia. Queste vicissitudini che sono a loro volta ostacoli sono il concetto del “numero misura” e l’ampliamento dell’insieme dei numeri da N a Z.

Il numero misura. I ragazzi vivono sin dalla scuola elementare i numeri reali positivi come il risultato di una misura. Così i numeri razionali si possono esprimere come rapporto di due misure.

Anche i numeri irrazionali sono introdotti allo stesso modo. Per esempio 2 è la misura della diagonale del quadrato che ha lato unitario. In questo contesto i numeri reali negativi sono concepiti come costituiti da una misura più un segno. Così il valore assoluto diventa una delle due parti di cui è costituito un numero relativo, cioè la misura ovvero il “numero senza segno”. Del resto è proprio questo il percorso storico che ha portato Cauchy a parlarne in questi termini. Questo modo di concepire il valore assoluto consente la facile applicazione di tale operatore ai numeri ma non alle

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espressioni letterali. Inoltre fa perdere di vista il fatto che il valore assoluto è sempre e comunque un numero positivo.

L’ampliamento da N in Z. Il valore assoluto può essere utilizzato, da quanto abbiamo detto prima, per ampliare N in Z. Incontrare tale operatore durante lo studio dei numeri relativi è molto rassicurante per i ragazzi, perché crea dei collegamenti con i numeri “misura” studiati in precedenza. Tuttavia questo utilizzo, oltre a snaturare il significato dell’operatore valore assoluto, fa di fatto perdere il significato proprio dei numeri relativi, che vengono così trattati con regole mnemoniche, senza che più collocarli sulla retta orientata.

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CAPITOLO III

L’insegnamento del valore assoluto nei libri di testo

Le utilizzazione più interessanti del concetto di valore assoluto si hanno nella scuola superiore:

1) negli Istituti Tecnici a terzo anno quando si parla di modulo di un numero complesso e a quarto anno se ne fanno cenni quando si introducono i limiti e nello studio delle funzioni;

2) nei Licei Scientifici a quinto anno per formalizzare il concetto di limite e nello studio delle funzioni in vista del proseguimento degli studi all’Università.

Tuttavia anche i ragazzi con le basi migliori e più diligenti sono presi dal panico quando incontrano il simbolo di valore assoluto (persino quando viene applicato ai numeri relativi).

Per accertare i motivi delle difficoltà incontrate dai ragazzi quando si trovano davanti ad una espressione che contiene il valore assoluto, si è ritenuto necessario procedere ad un esame dei libri di testo dove tale concetto viene definito che sono libri del biennio della scuola secondaria. Da quello che ho potuto notare sembra che i primi ad avere difficoltà quando si parla di tale concetto siano proprio gli autori di tali libri. Personalmente ritengo che il “role-taking”, ovvero il mettersi nei panni degli altri, debba essere un dovere sia per l’insegnante che per l’autore di un qualunque libro di testo scolastico. Tuttavia nella lettura di molti libri sembra che nella definizione del valore assoluto l’autore si sia immedesimato così tanto nel ruolo dell’alunno che risulta molto difficile capire se pensi seriamente le definizioni che scrive o lo faccia soltanto per adeguarsi alle conoscenze dei ragazzi.

Il concetto di valore assoluto fa la sua apparizione per la prima volta nei libri di testo durante lo studio dei numeri relativi alla scuola media, ricompare nei libri di testo del superiore del primo anno, e poi viene utilizzato sempre più massicciamente da tali libri negli anni successivi.

Sono riportate nel seguito alcune delle definizioni date di tale concetto. I vari libri sono raggruppati proprio in base alla definizione che danno del valore assoluto. Si noti che le definizioni presenti nei vari libri (che comunque sono riportate in questo lavoro) non sono proprio identiche a quelle date ma comunque vi si possono all’incirca identificare.

5) Si dice valore assoluto, o modulo, di un numero il numero stesso senza il segno (Bovio ed altri, 1991; Benedetti ed altri, 1989; Venè ed altri 1995, 1995bis; Palatini ed altri 1992;

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Alvino 1999, 1999bis; Santoboni 1961, 1961bis; Poggi Bianchini ed altri 1995, 1997;

Maraschini ed altri 1998, 1998bis).

6) Si dice valore assoluto del numero relativo a e si indica con a la distanza del punto che rappresenta il numero a dall’origine (Castelnuovo, 1973).

7) Si dice valore assoluto del numero a, e si indica con a , il numero stesso se a è positivo o nullo, il suo opposto se a è negativo (Poggi Bianchini 1997; Maraschini ed altri 1998;

Zwirner ed altri, 1997, 1997bis).

Esaminiamo a una a una tali definizioni, quali sono i vantaggi e gli svantaggi ad esse connessi, come esse sono date nei libri (e in che contesto) e dove il valore assoluto viene utilizzato.

La 1) definizione

“Si dice valore assoluto, o modulo, di un numero il numero stesso senza il segno”

(Bovio ed altri, 1991; Benedetti ed altri, 1989; Venè ed altri 1995, 1995bis; Palatini ed altri 1992; Alvino 1999, 1999bis; Santoboni 1961, 1961bis; Poggi Bianchini ed altri 1995, 1997;

Maraschini ed altri 1998, 1998bis)

La 1) definizione è quella che si ritrova più frequentemente nei libri di testo sia di scuola media che del superiore.

Il Bovio (Bovio ed altri, 1991) è un libro del 3° anno di scuola media. Dopo avere definito i numeri relativi (Q), a pag. 7 si trova la lapidaria definizione: ”Si dice valore assoluto, o modulo, di un numero relativo il numero stesso senza segno”. Subito dopo (sempre a pag.7), il libro utilizza tale concetto per definire l’uguaglianza di due numeri relativi: ”Due numeri relativi si dicono uguali se sono concordi ed hanno ugual valore assoluto”. A pag.8 dice che “Dati due numeri relativi qualunque e disuguali, il maggiore di essi è quello che sulla retta orientata r ha per immagine un punto situato più a destra dell’immagine dell’altro”, però poi si sente in dovere a pag.9 di affermare che “Di due numeri positivi è maggiore quello che ha maggior valore assoluto;

di due numeri negativi, il maggiore è quello che ha minore valore assoluto”. Personalmente ritengo che tale precisazione non solo sia necessaria ma anche dannosa perché il ragazzo separa il numero dalla sua visualizzazione sulla retta, fatto che invece è cruciale per il proseguimento dei suoi studi

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matematici. Il libro riprende il concetto di valore assoluto a pag.19-20 dove se ne serve per definire la somma algebrica di due numeri relativi con le seguenti regole:

1) “La somma di due numeri relativi concordi è il numero che è concorde con i dati e che ha per valore assoluto la somma dei loro valori assoluti”

2) “La somma di due numeri relativi discordi è il numero relativo che ha il segno di quello dei due addendi che ha maggiore valore assoluto, e che ha per valore assoluto la differenza dei loro valori assoluti”

A pag.29 il medesimo libro recita:

“Il prodotto di due numeri relativi, entrambi diversi da zero, è il numero relativo che ha per modulo il prodotto dei loro moduli e che ha per segno il segno positivo se i due fattori sono concordi ed il segno negativo se sono discordi”

e a pag. 37:

“Il quoziente di due numeri relativi è il numero relativo che ha per valore assoluto il quoziente dei valori assoluti dei numeri dati, e per segno il segno + se il dividendo ed il divisore sono concordi, il segno – se sono discordi”

A pag. 46 il libro dice che:

“La radice quadrata di un numero positivo ha due valori che hanno valore assoluto e segni opposti”

Questa è l’ultima volta in cui tale concetto appare nel libro. Quindi, come si evince dall’analisi del testo, il valore assoluto è sempre applicato ai numeri relativi.

Il secondo libro preso in esame è stato il Benedetti (Benedetti ed altri, 1989), un libro per il triennio della scuola media. La definizione di valore assoluto che appare in tale libro è assolutamente deviante. A pag.183, dopo avere introdotto i numeri interi relativi, essa recita:

“Si chiama valore assoluto o modulo di un numero intero relativo il numero naturale che si ottiene togliendo il segno”

A mio parere una definizione simile è molto più pericolosa di quella che parla del valore assoluto come il numero senza segno. Innanzitutto perché limita il raggio d’azione del valore assoluto agli interi relativi. In secondo luogo perché, dietro a una parvenza di rigore, cela errori concettuali molto gravi. Gli utilizzi successivi che nel libro si fanno del valore assoluto sono analoghi a quelli esaminati nel Bovio. Tuttavia il libro non riparla più del valore assoluto riferendolo ai numeri frazionari relativi, che comunque introduce dopo. Per parlare della somma algebrica dei numeri frazionari relativi si limita a dire che si seguono le stesse regole che seguono gli interi relativi (pag.246).

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Il Venè (Venè ed altri, 1995, 1995bis) è un libro per il biennio delle scuole superiori.

Ritengo che uno studente che aprisse questo libro la prima volta per studiare gli interi relativi potrebbe decidere di non aprirlo più in altre occasioni. Infatti a pag.6 (Venè ed altri, 1995) esordisce con una notazione per lo meno discutibile. Parlando dei numeri interi dice che:

“Si scrivono usando una notazione non standard (per esempio 3-) o una notazione standard (per esempio –3):

3- = -3 3+ = +3 ”

A pag.7 viene definito il valore assoluto “senza parole” cioè:

“Il valore assoluto o modulo di un numero relativo è definito come segue:

a+ = a a- = -a = a 0  = 0 Per esempio:

+5 = 5 -5 = 5 ”

Le operazioni fra gli interi sono definite allo stesso modo usando la stessa simbologia senza dare descrizioni utilizzando il valore assoluto ma solo come simbolo non con le parole.

Nel secondo volume (Venè ed altri, 1995bis) a pag.97, il valore assoluto ricompare quando si parla dei radicali aritmetici:

( )

2 2 =2 è assurdo, poiché un radicale aritmetico deve essere maggiore o uguale a zero.

( )

2 2 è un numero positivo e non può essere uguale a uno negativo!

Per avere una uguaglianza corretta devi scrivere:

( )

2 2 = 2

Questa osservazione è particolarmente importante quando si lavora con delle variabili:

2 y

y =

infatti a y può essere assegnato un qualunque numero reale, positivo, negativo o nullo.”

Successivamente ricompare quando si parla delle proprietà che caratterizzano la parabola per indicare delle distanze in cui compaiono le lettere. Questa è l’ultima volta in cui questo concetto viene trattato nel libro.

Il Palatini e Faggioli (Palatini ed altri, 1992) è un libro destinato al biennio dei licei. Tale libro dà delle definizioni di valore assoluto e di numero relativo “falsamente rigorose”. Infatti a pag.

37 afferma che:

(27)

“Si dice valore assoluto o modulo o valore aritmetico di un numero relativo il numero stesso privato del segno: per esempio il valore assoluto di +3 è 3; il valore assoluto di

8 5 è 8

− 5 ; ecc. …

Dunque ogni numero relativo possiede un segno e un valore assoluto… Due numeri aventi lo stesso valore assoluto e segni contrari si dicono opposti o anche simmetrici, o contrari …”

Sempre nella stessa pagina il libro fa una ulteriore precisazione in cui dà la 2) definizione:

“Come si è fatto per i numeri dell’aritmetica, anche i numeri relativi si rappresentano molto spesso con lettere dell’alfabeto. Si noti bene però che quando si dice, per esempio, “numero a” non si deve intendere che a è un numero positivo perché non è preceduto da alcun segno: si può decidere se a è positivo o negativo solo dopo che, per qualche ragione, venga attribuito ad a un valore numerico e un segno.

Il valore assoluto di a si indicherà come convenuto, con a e si leggerà “valore assoluto di a”.

L’opposto del numero a è –a. Quindi avremo che se a è positivo, è a = a; se a è negativo è a

a =− ”.

Successivamente il libro dà le regole per sommare algebricamente, dividere e moltiplicare i numeri relativi utilizzando tale concetto. Tale libro usa il valore assoluto pure per scegliere quale fra due numeri relativi sia il minore trascurando completamente la rappresentazione dei numeri sulla retta reale.

L’Alvino (Alvino, 1999, 1999bis) è un libro per il biennio della scuola superiore. Si serve di esempi numerici per definire la somma, la sottrazione, il prodotto e la divisione dei numeri relativi.

Nel primo volume (Alvino, 1999) non si parla proprio del valore assoluto eccetto che a pag.429 in cui in una piccola nota laterale a fianco di un esercizio è riportato:

“Sai già : Si ricorda che il modulo o valore assoluto di un numero relativo è il numero preso senza segno: -5 = 5”

Nel secondo volume (Alvino, 1999bis) il valore assoluto viene utilizzato senza troppe spiegazioni quando si parla di trasportare fuori radice aritmetica espressioni in cui compaiono lettere. Poi non riappare più.

Il Santoboni (Santoboni, 1961, 1961 bis) è un libro destinato ai ginnasi, ai licei scientifici e gli istituti tecnici. Anche qua il valore assoluto è definito a pag.6:

“I numeri senza segno, che sono quelli usati sin ora in Aritmetica, si dicono numeri assoluti; il numero assoluto che si ottiene da un numero relativo sopprimendone il segno, si chiama valore assoluto del numero stesso.

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Così, per esempio, i valori assoluti dei numeri +4, -5,

5 8 4 3 −

+ , sono ordinatamente 4, 5, 5 8 4 3 , ”

Dopo questo infelice esordio tuttavia il libro “si riprende” affermando che:

“Evidentemente i numeri positivi . . . coincidono con i numeri senza segno . . . dai quali eravamo partiti; per questa ragione si usa comunemente identificare ogni numero positivo con il suo valore assoluto. Così un numero positivo, ad esempio +8, si scriverà indifferentemente +8 oppure 8”

Nonostante dia questa definizione del valore assoluto personalmente ritengo che tale libro sia comunque apprezzabile perché dal punto di vista tipografico non dà a tale affermazione l’enfasi che dà alle altre definizioni più rigorose presenti nel libro, si fa capire e inoltre afferma chiaramente che il valore assoluto è un numero positivo (e questo non lo fa nessuno degli altri libri in maniera così esplicita).

Tuttavia nel secondo volume (Santoboni, 1961bis) il concetto di valore assoluto non viene più ripreso, neppure nella trattazione dei radicali aritmetici che comunque è molto discutibile e confusa.

Il Poggi Bianchini (Poggi Bianchini 1995, 1997) è un libro per il biennio delle scuole superiori. A pag. 79 nel primo volume, dopo avere introdotto i numeri interi relativi e i frazionari relativi compare la definizione di “valore assoluto, che è il numero preso senza segno”. Anche in questo libro ci si serve del concetto di valore assoluto per definire la somma, la differenza, il prodotto e il rapporto dei numeri relativi analogamente a quanto fatto dal Bovio. Nel secondo volume (Poggi Bianchini, 1997) a pag.36 ricompare il valore assoluto però è riportata velocemente la definizione 3), perché se ne rende necessario l’utilizzo parlando di come portare fuori dal segno di radice le espressioni che contengono lettere quando abbiamo a che fare con radicali aritmetici. A parte questo fugace utilizzo il valore assoluto non viene più usato nel libro.

Il Maraschini (Maraschini ed altri, 1998, 1998bis) è un libro destinato al biennio del liceo scientifico sperimentale. Nel primo volume (Maraschini ed altri, 1998) a pag.7 viene definito il valore assoluto dopo avere introdotto i numeri relativi:

“Si dice valore assoluto di un numero relativo a il numero considerato senza il suo segno”

Tuttavia sempre a pag.7 in neretto in colonna accanto a tale definizione viene data la 3) definizione.

Sempre nella stessa colonna si evidenzia implicitamente in azzurro il significato geometrico del valore assoluto ( 2) definizione ):

“Due numeri opposti, come per esempio –2 e +2, entrambi con valore assoluto 2, sono disposti sulla retta in modo simmetrico rispetto alla posizione occupata dallo zero e rappresentano, entrambi, segmenti di uguale lunghezza (2 unità)”

(29)

A pag.8 dello stesso libro è presente un paragrafo che precisa diffusamente il fatto che “le lettere non rappresentano necessariamente numeri positivi”. Le operazioni fra numeri relativi vengono ritenute in tale libro bagaglio culturale degli alunni per cui non sono definite. A pag. 281 dopo avere parlato delle disequazioni di primo grado viene data la 3) definizione e in seguito sono proposti esercizi sulle equazioni e disequazioni con il valore assoluto.

Il concetto di valore assoluto viene riutilizzato nel secondo volume (Maraschini ed altri, 1998bis) quando parla di estrarre la radice quadrata di espressioni letterali che compaiono sotto segno di

“radicale quadratico”.

La definizione 1) presenta l’indubbio vantaggio di essere subito recepita dallo studente, tanto è vero che è la più utilizzata nei libri. Infatti dopo avere definito i numeri “con segno”, il valore assoluto inteso come “numero senza segno” è vissuto dagli studenti come una semplificazione per cui è un concetto subito compreso. Purtroppo tale definizione non è né la più rigorosa (quando non viene specificato altrimenti: che tipo di numero è un numero senza segno?), né la più interessante ai fini del proseguimento degli studi. Non è la più rigorosa perché se l’insegnante non lo specifica bene quando dà all’alunno tale definizione, questi resta convinto che il

“numero senza segno” sia un nuovo genere di numero, né positivo, né negativo. Non è la definizione più interessante perché rende il concetto di valore assoluto completamente inservibile per il proseguimento degli studi. A tale proposito ricordo uno studente al 5° anno I.T.I., che quando in una spiegazione di analisi ho parlato della definizione 3) per presentare il concetto di valore assoluto, egli, non comprendendola subito, mi ha subito espresso il suo disappunto perché un concetto così semplice (secondo lui!) io lo avevo reso così complicato. Forse semplificare troppo certi concetti è dannoso per la mente dello studente, sia perché non viene abituato alla logica matematica, sia perché vengono banalizzati concetti che non lo sono affatto, snaturando il significato di ciò che si insegna.

La 2) definizione

“Si dice valore assoluto del numero relativo a e si indica con a la distanza del punto che rappresenta il numero a dall’origine”

(Maraschini ed altri, 1998; Castelnuovo, 1973).

Abbiamo già visto che nel Maraschini (Maraschini ed altri, 1998), sia pure in secondo piano rispetto alle 1) e 3) definizioni si fa cenno a pag.7 al significato geometrico del valore assoluto.

(30)

L’altro libro che invece associa in maniera più pregnante tale concetto con quello di distanza è il Castelnuovo (Castelnuovo, 1973). E’ un libro di algebra per la scuola media, molto bello e interessante. Esso dà una grande importanza al linguaggio delle immagini: cerca sempre di esprimere i concetti dell’algebra utilizzando la geometria. Immagino che la Castelnuovo abbia svolto una accurata indagine epistemologica e storica sugli argomenti che espone nel suo libro, infatti a pag. 149 per parlare della somma e differenza dei numeri relativi utilizza i concetti di

“entrate” e “uscite” analogamente a quanto fatto storicamente da Bombelli e come lui per rendere più “digeribile” l’ampliamento dei numeri naturali agli interi relativi antepone a qualunque discorso algebrico la visualizzazione dei numeri interi relativi sulla retta reale. Non introduce il concetto di valore assoluto per definire le operazioni fra numeri relativi.

Questo le risparmia inutili e astruse definizioni da imparare a memoria. Della somma algebrica dà pure una visualizzazione interessante a pag.153:

“E’ per esempio una somma algebrica l’espressione:

1 11 2 7 3

5− − + − +

+

+5 si leggerà: “partire da 0 e spostarsi di 5 verso destra”;

-3 si leggerà:”spostarsi, a partire da +5, di 3 verso sinistra”; si arriva così a +2” e così via.

Molto bello è pure il modo in cui cerca di visualizzare la regola dei segni sul piano cartesiano.

Tuttavia in tale descrizione si fa scappare la parola “valore assoluto” senza averla definita prima:

“Volendo rappresentare geometricamente il prodotto di due numeri relativi dovremo pensare a un rettangolo le cuin dimensioni siano appunto espresse da questi numeri. Saremo quindi portati a disegnare un piano cartesiano; lavoreremo sui quattro quadranti in cui gli assi coordinati dividono il piano. Prendiamo adesso un rettangolo di cartone, per esempio di dimensioni 2 e 3. Supponiamo che le facce di questo cartone siano di colore diverso: l’una rossa e l’altra nera; il cartone si può presentare dunque o dalla parte rossa o dalla parte nera. Ora noi conveniamo di chiamare positiva l’area della faccia rossa e negativa l’area della faccia nera che è l’opposta.

Se le dimensioni del rettangolo sono 2 e 3, la sua area sarà, in valore assoluto, uguale a 6; da un punto di vista “relativo” noi diremo che l’area è +6 se si presenta dalla faccia rossa, mentre è – 6 se si presenta dalla faccia nera.”

Segue infine una visualizzazione grafica in cui caratterizza i vari quadranti del piano cartesiano con i colori rosso e nero delle facce del rettangolo ribaltandolo quest’ultimo ogni volta che cambia il segno di uno dei fattori.

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