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Alla prova dei fatti La Caritas nei Piani di Zona

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Academic year: 2022

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Area Cittadinanza Attiva

Alla prova dei fatti

La Caritas nei Piani di Zona

n. 47

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Indice

Introduzione

- L’importanza dei Piani di Zona per la vocazione di Caritas Ambrosiana 5

- Presentazione del testo 6

1. La ricerca del 2010

sulle Caritas nei Piani di Zona 9

1.1. Il percorso dei Piani di Zona 9

- Il tipo di coinvolgimento del Terzo settore 11 - Quali soggetti del Terzo Settore partecipano e come 11

- Il ruolo degli Uffici di Piano 12

1.2. Il terzo triennio dei Piani di Zona nella diocesi ambrosiana 14

- Percorso di analisi 14

- Il quadro generale 16

- Fattori di debolezza 20

- Elementi positivi 22

1.3. La tipologia delle forme di partecipazione 23

- Tipo 1. La partecipazione settoriale 23

- Tipo 2. La partecipazione soffocata 25

- Tipo 3: La partecipazione facilitata 26

- Tipo 4: La partecipazione minimale 29

1.4. Le esperienze a confronto 29

- Elementi di forza 30

- Elementi di criticità 31

1.5. Uno sguardo sui vissuti 32

- Esperienza 1 32

- Esperienza 2 34

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2. Gli scenari futuri:

prospettive e strumenti per partecipare 36

2.1. Le prospettive dopo l’applicazione

della legge regionale 3 del 2008 36

2.2. Spazi di azione per Caritas e il Terzo settore 42 2.3. Le capacità da sviluppare per partecipare 46 - Capacità di visione complessiva degli scenari 47

- Capacità programmatoria 48

- Capacità progettuale 48

- Capacità amministrativa 49

- Capacità di raccordo 50

- Capacità di valutazione 51

- Capacità di attivare le risorse potenziali 53

Appendice 54

Delibera della Giunta Regionale 7797 del 30 luglio 2008. Criteri per l’istituzione dei tavoli locali di consultazione dei soggetti del terzo settore nelle asl e degli ambiti territoriali di competenza dei piani di zona

Ottobre 2010

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Introduzione

di Sara Zandrini

L’importanza dei Piani di Zona per la vocazione di Caritas Ambrosiana

Questo testo nasce dall’esigenza di conoscere come le Caritas della diocesi milanese hanno in questo ultimo triennio partecipato ai processi di realizzazione dei Piani di Zona. Qualcuno ricorderà che già nel 2006 proponemmo una ricerca con il medesimo obiettivo dalla quale emerse un quadro fortemente segnato dalla varietà di situazioni territoriali, segnato a

“macchia di leopardo” da luoghi in cui la programmazione locale partecipata diede grandi risultati e luoghi in cui, secondo un graduale dimensionamento, si perse talvolta completamente.

Non risultano, ad oggi, molte occasioni di monitoraggio sull’andamento complessivo dei Piani di Zona, soprattutto rispetto agli spazi di programmazione locale realmente partecipata dalle realtà che sono espressione dei territori nonché sulle competenze che le Caritas locali sono riuscite ad esprimere e promuovere nei contesti istituzionalmente preposti.

Così, in chiusura del secondo triennio dei Piani di Zona e in fase di avvio del terzo ci siamo rivolti ancora una volta alle Caritas locali (decanali e/o cittadine) per disegnare un quadro aggiornato sulla nostra capacità di risposta all’opportunità offerta normativamente dai Piani.

Senza voler anticipare in questa breve introduzione i risultati dell’indagine, che viene ampiamente presentata nelle pagine seguenti, ci preme ricordare brevemente i perché della scelta di Caritas di continuare a credere nel Piano di Zona come uno degli strumenti più significativi per la programmazione delle risposte ai bisogni della gente.

Sotto questo profilo ci pare decisivo ricordare quel compito

“relazionale”, che ha sempre caratterizzato Caritas: relazioni di ascolto, relazioni di accompagnamento, relazioni di counselling, relazioni di promozione della dignità della persona. Ma contemporaneamente anche relazioni con le persone della comunità parrocchiale, nella profezia di quella dimensione che ne fa una “casa accanto alle case” (para oikìa, parrocchia) che fa sì che i territori non siano più anonimi bensì abitati dalla tenerezza di una reciprocità condivisa. E poi relazioni con gli altri soggetti sociali (del Terzo e del Quarto settore) per un’assunzione di comuni responsabilità verso le fragilità sempre più diffuse e talvolta nascoste o

‘clandestine’. Infine, centrali e mai ultime, relazioni con le istituzioni locali, perché si coltivino nuove agorà per il bene comune.

Già nello Statuto di Caritas Italiana, si era negli anni Settanta, si

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leggeva che compito prioritario delle Caritas è di promuovere “la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica”. La sfida di sempre dunque risiede nella capacità di riconoscere queste ‘forme consone ai bisogni ed ai tempi’, privilegiando quelle più efficaci e adeguate a garantire la tutela dei diritti delle persone. In questa ricerca non si può negare anche la fatica del garantire una competenza sempre più specifica e tecnica, la fatica del non riconoscere in tutti i soggetti delle suddette relazioni la stessa motivazione per il raggiungimento di obiettivi comuni.

Certamente l’impegno nella programmazione locale partecipata ci viene anche da sollecitazioni normative e da indirizzi nelle politiche sociali che ci fecero sperare in una riforma di sistema dell’assistenza e del welfare.

Facciamo riferimento alla Legge 328/00, che fu molto attesa anche da Caritas proprio per l’esigenza fortemente avvertita negli anni precedenti di una legge quadro sulle politiche sociali. I Piani di Zona nascono proprio con la L. 328 e sono stati accolti favorevolmente per le grandi opportunità che possono offrire ancora oggi in termini di sistemi locali di intervento, finalizzati al raggiungimento di obiettivi strategici condivisi, di priorità da individuare insieme, superando la logica della distanza dei soggetti che sono espressione delle comunità locali dai tavoli della programmazione istituzionale.

A livello regionale la L. R. 3/08 indica nei Piani di Zona ancora lo strumento principe, per le amministrazioni pubbliche competenti, per attivare forme di partecipazione del Terzo settore; quindi anche per le Caritas lombarde si rinnova l’invito a investire per esigere dalla Regione, dalle Asl e dai Comuni, secondo le rispettive competenze, l’attivazione reale di forme di coinvolgimento nelle diverse fasi della programmazione.

Inutile nascondersi che non sempre il dettato normativo è sufficiente per veder applicati correttamente ed efficacemente tutti gli strumenti a disposizione. I Piani di Zona non fanno eccezione, anzi, e la ricerca lo dimostra ampiamente evidenziandone anche criticità e motivazioni relativamente alle fatiche e ai molti stand-by di cui si è testimoni nei territori e attribuibili in modo significativo alle istituzioni.

Tuttavia, il compito delle Caritas è ancora oggi quello di presidiare e difendere questa opportunità avendo cura dei processi che la rendono possibile e dei contenuti che non possono mancarvi.

I Piani di Zona dovrebbero innescare dei processi di collaborazione tra le diverse realtà di un territorio che sono così chiamate a leggere, individuare, realizzare, verificare i bisogni di tutti. Si tratta di un processo che necessita dell’investimento e della convinzione nei risultati possibili da

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parte di tutti, in primis le istituzioni preposte. Per questa ragione, alla luce dell’esperienza di questi anni, siamo tutti consapevoli del grande impegno e anche della grande fatica e talvolta frustrazione che questo incarico comporta. Ma non ci si può sottrarre, non si può smettere di richiamare le istituzioni alla propria responsabilità, continuando a farcene carico a nostra volta per quanto ci compete. Si tratta allora di insistere per pretendere processi strutturati, organizzati, stabili e sottoposti a verifica.

Anche rispetto ai contenuti non si può abbassare la guardia perché proprio Caritas ha il compito di alzare continuamente il velo del silenzio o dell’indifferenza rispetto ai bisogni e diritti di chi è meno visibile e quindi meno tutelato. I centri d’ascolto ci rendono il grande privilegio di poter incontrare anche gli “invisibili” e nostro dovere è portare anche le loro istanze sotto lo sguardo di chi programma le risposte sui nostri territori. Si tratta allora di esser consapevoli che dalle nostre lenti di osservazione privilegiata passano gli elementi necessari per elaborare e suggerire alle istituzioni quei livelli essenziali di assistenza sociale (LIVEAS) che sono i diritti e le prestazioni ritenuti necessari a garantire il livello minimo di tutela per tutti e che devono trovar posto nei Piani di Zona e nella normativa regionale e nazionale.

Questo compito è molto gravoso, le triennalità precedenti lo hanno dimostrato. È gravoso per le condizioni non sempre ottimali in cui si lavora ma anche perché chiede a tutti noi l’acquisizione di competenze e abilità sempre più specifiche, per le quali rischiamo di non sentirci adeguatamente formati. Ebbene, quando siamo schiacciati da questo senso di inadeguatezza o di inutilità dobbiamo riportare i pensieri a ciò che ha mosso ciascuno di noi verso la Caritas e verso la “scelta preferenziale per i poveri”: “Per amore del mio popolo non tacerò” (Is 62,1), dice il profeta.

Come ricordava Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus (1991) “l’amore per l’uomo, per il povero, nel quale la Chiesa vede Cristo, si fa concreto nella promozione della giustizia”. Questa motivazione di fondo può spingere ancora le nostre parrocchie e le nostre Caritas a non abbandonarsi alla rassegnazione e a continuare a lavorare per tradurre il valore della solidarietà in azione politica, anche attraverso la presenza competente nei luoghi decisionali e programmatori, cominciando col chiedere che questi luoghi esistano ed abbiano la dignità che loro spetta.

In questa azione, come donne e uomini di Chiesa siamo chiamati a testimoniare anche la capacità di lavorare insieme, di tessere reti tra le diverse realtà dei territori, tra le diverse espressioni della Chiesa stessa. I Piani di Zona sono stati talvolta la cartina tornasole che evidenziava la fatica di costruire reti di collaborazione, e ancor più di rappresentanza, tra i soggetti del Terzo settore, anche tra quelli di matrice ecclesiale. Ebbene, proprio la costruzione di queste reti è di per sé un risultato importante, che

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precede il raggiungimento degli obiettivi degli stessi Piani di Zona.

Costruire fili e legami nella propria parrocchia, nella comunità ecclesiale e poi via via nel territorio in senso lato è testimonianza dell’amore di Dio che si esprime nella capacità di costruire Comunione nella e tra le comunità.

Come Caritas siamo fortemente chiamati a questo compito, non rinunciamoci!

Presentazione del testo

Nel presente testo saranno innanzitutto riportati i principali esiti dell’indagine promossa da Caritas Ambrosiana sui Piani di Zona nella loro terza triennalità. Questa indagine comprende: una ricognizione dei principali esiti della letteratura di ricerca sui Piani di Zona sul territorio lombardo; i risultati dell’analisi campionaria sui decanati; una tipologia dei casi; il resoconto dei focus group che hanno seguito l’indagine campionaria;

alcuni racconti dei vissuti personali dei responsabili delle Caritas sulla loro esperienza.

Nel secondo capitolo si presenteranno gli scenari futuri per la partecipazione nelle politiche sociali della nostra regione. Si darà quindi conto delle prospettive di applicazione della legge regionale 3/2008 e degli spazi di azione che si aprono per la Caritas e per il Terzo settore.

Chiuderà il capitolo una sintesi delle capacità che possono essere sviluppate per una migliore partecipazione ai Piani di Zona.

Nello svolgimento della ricerca l’Area Cittadinanza Attiva di Caritas Ambrosiana ha potuto contare sul contributo di molti responsabili decanali e di cooperative del sistema Caritas. A tutti loro va il nostro ringraziamento.

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1. La ricerca del 2010 sulle Caritas nei Piani di Zona

di Emanuele Polizzi

1.1. Il percorso dei Piani di Zona

Introdotti nel 2000 con la legge quadro nazionale 328, i Piani di Zona hanno percorso oramai due interi cicli triennali, 2001-2004 e 2005-2008 e un terzo, 2009-2012, attualmente in fase di applicazione. Essi hanno costituito una grande novità sia per le amministrazioni locali che per gli attori della società civile. Infatti, nell’assetto precedente alla loro introduzione le decisioni sui servizi sociali locali venivano assunte in totale discrezionalità da ciascun comune, con esiti di frammentazione e di opacità del processo decisionale, chiuso negli uffici di amministratori e funzionari pubblici spesso distanti dalle trasformazioni di bisogni e risposte esistenti sul campo e non di rado esposto a logiche di scambio particolaristiche con gli attori del territorio.

Lo strumento dei Piani di Zona invece, attribuendo la discussione a delle arene istituzionali pubbliche integrate e aperte alla società civile, ha permesso, almeno potenzialmente, di introdurre una nuova logica e conferire un pieno diritto a tutte le realtà che ogni giorno operano nel sociale di contribuire alla elaborazione delle politiche locali.

Una tale innovazione ha tuttavia scontato le comprensibili fatiche di tutti i cambiamenti di sistema. Il primo triennio perciò è stato comprensibilmente un periodo di rodaggio e sperimentazione, nel quale ben pochi Ambiti hanno visto affermarsi buone pratiche di partecipazione. Alcune amministrazioni locali tuttavia hanno giocato da subito in modo determinato questa scommessa, in concorso con gruppi particolarmente intraprendenti di organizzazioni del Terzo settore. Ne è un esempio l’Ambito del rhodense, che ha da subito visto nascere una forma di partecipazione sistematica e strutturata e un forum locale del Terzo settore inclusivo. Si è trattato in ogni caso di esperienze piuttosto isolate, mentre una parte cospicua degli altri Ambiti ha affidato il proprio lavoro di costruzione del Piano di Zona a consulenti esterni o ha redatto documenti meramente descrittivi e generici.

L’inizio del secondo triennio, nel 2006, ha così costituito il primo vero banco di prova per osservare se e come lo strumento del Piano di Zona avesse effettivamente visto lo svilupparsi di una forma di programmazione partecipata. In questo secondo triennio di Piani di Zona, cioè, si sono potute sperimentare sia le capacità delle amministrazioni di svolgere un ruolo di regia della governance locale dei distretti sociali, sia le capacità del Terzo settore, nelle sue diverse espressioni, di giocare la sua parte di advocacy, di

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collaborazione e di proposta nel processo programmatorio.

È su questa seconda tornata di Piani di Zona che l’Area Cittadinanza Attiva di Caritas Ambrosiana, avendo colto fin dall’approvazione della legge 328 la necessità di porre attenzione al processo di attuazione dei Piani di Zona, ha svolto nel 2006 un primo lavoro di analisi sul coinvolgimento delle Caritas territoriali nella costruzione dei Piani stessi.

Questa prima analisi ha fatto emergere un quadro fatto di luci ed ombre, con una grande differenziazione territoriale nel modo in cui i Piani di Zona avevano effettivamente aperto le porte ad una forma sistematica ed efficace di partecipazione della società civile. Sintetizziamo qui i principali elementi emersi allora.

In generale, nel 2006 le Caritas decanali cercavano di essere presenti più sui tavoli tematici che su quelli di sistema, che peraltro in molti casi non erano neanche attivati dalle amministrazioni dell’Ambito sociale. Talvolta, anche nei casi in cui il tavolo esisteva, la Caritas non sedeva al tavolo, mentre in tre casi partecipava al pari degli altri soggetti, con un ruolo attivo. I tavoli tematici maggiormente frequentati dalle Caritas erano quelli Anziani e Immigrazione, ma era piuttosto diffusa anche la presenza sui tavoli che si occupavano delle problematiche dei minori (infanzia, adolescenza, giovani) e della famiglia. Meno frequentati erano i tavoli che affrontavano il tema della disabilità, della salute mentale e della grave emarginazione (altre volte chiamati come “Nuove Povertà” o “Adulti in difficoltà” e “Dipendenze”). I punti di forza di tale partecipazione riguardavano per lo più il ruolo della Caritas, che riusciva ad essere equidistante dagli altri soggetti del Terzo settore e che, in virtù dell’attività quotidiana svolta, riusciva a garantire una lettura piuttosto precisa dei bisogni e della realtà. Gli elementi di debolezza generalmente riguardavano: a) il fatto che i tavoli spesso si limitassero ad una condivisione delle esperienze, ma non esprimessero capacità programmatoria, b) le difficoltà delle Caritas a vedersi riconosciute nel loro ruolo e quindi come interlocutrici importanti, c) la mancanza di risorse economiche, d) il fatto che le risposte elaborate spesso risultassero parziali, e) la mancanza di coordinamento e progettualità tra i vari enti partecipanti, f) la difficoltà dei volontari ad essere presenti e g) una generale mancanza di fiducia rispetto alla poca incisività del lavoro svolto.

Se l’indagine di Caritas Ambrosiana del 2006 fotografava la situazione all’inizio della triennalità, è utile vedere ora quanto emerge dalle ricerche che hanno indagato il funzionamento concreto dei Piani di Zona in Lombardia nel corso o al termine delle seconde triennalità1.

1 Si vedano in particolare le seguenti pubblicazioni:

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Dall’insieme di queste ricerche notiamo alcuni dati sul coinvolgimento del Terzo settore nei Piani di Zona lombardi. Vediamoli in maniera schematica.

Il tipo di coinvolgimento del Terzo settore:

o Nel 2006-2008, solo il 50% dei distretti ha avuto rappresentanza del Terzo Settore.

o Nel 94% dei casi il tavolo del Terzo Settore non coincide con il tavolo Terzo Settore dell’ASL.

o Nella grande maggioranza dei distretti (80%) sono presenti tavoli tematici con il Terzo Settore.

o Solo nel 17,5 % l’Accordo di Programma è firmato anche dal Terzo Settore.

o Il coinvolgimento risulta poco sistematico e discontinuo: nel 30% dei distretti si aggiornano i Piani di Zona nel corso del triennio, dunque nella migliore delle ipotesi il 70% dei distretti non convoca il Terzo settore tra l’elaborazione di un Piano di Zona e quello successivo.

o Il coinvolgimento del volontariato avviene soprattutto a livello consultivo nelle fasi di conoscenza e analisi dei bisogni (91,7), molto meno nelle fasi di individuazione delle priorità programmatorie (38,1%) e in quelle di co-progettazione degli interventi (28,6%).

Quali soggetti del Terzo settore partecipano e come

o Le tipologie di soggetti del Terzo settore che partecipano ai Piani

- Pesenti L., De Ambrogio U., 2009, Piani di Zona in Lombardia, Guerini e Associati, Milano. Si tratta della ricerca ufficiale che la Regione Lombardia ha svolto, tramite IRER e IRS sui Piani di Zona della Lombardia, a partire dal monitoraggio ufficiale svolto dalla Regione stessa.

- Mosca A., 2008, Il volontariato e il nuovo welfare, Franco Angeli, Milano. E’

la ricerca svolta dall’IRS per il coordinamento dei CSV lombardi sulla partecipazione del volontariato ai Piani di Zona.

- Gori C. (a cura di), 2005, Politiche sociali di centro-destra, Carocci, Roma.

Ricerca dell’IRS sul complesso delle politiche sociali lombarde, compresi i piani di Zona prima della legge 3/2008.

- Polizzi E., 2008, Costruire le politiche sociali con la società civile, in Programmazione e partecipazione nella provincia di Milano, 2008, in Autonomie locali e servizi sociali, n.3. Ricerca svolta sul secondo triennio dei Piani di Zona nella provincia di Milano.

- Centemeri L., Bifulco L. 2007, La partecipazione nei Piani sociali di zona:

geometrie variabili di governance locale, in Stato e Mercato, n.80 agosto, Il Mulino, Bologna. Ricerca del gruppo Sui Generis di tipo qualitativo su alcuni

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di Zona sono molto diverse. Quasi sempre le organizzazioni che partecipano al lavoro nei tavoli sono effettivamente presenti sul territorio del Piano di Zona (circa 90% per le varie tipologie).

o Le forme di rappresentanza esterna, ossia quelle nelle quali si dà ad un soggetto esterno alla propria organizzazione il mandato di rappresentare le proprie istanze sono ancora poco diffuse: solo nel 7,1% le organizzazioni che partecipano ai Piani di Zona lo fanno tramite rappresentanti esterni incaricati stabilmente. Nei restanti casi, si partecipa tramite un rappresentante appartenente alla propria organizzazione, incaricato stabilmente o di volta in volta.

o Il problema della rappresentanza riguarda più i soggetti piccoli e meno strutturati, come sono spesso quelli del volontariato, e meno le organizzazioni professionali.

o Il Forum del Terzo Settore non è molto riconosciuto sul territorio come soggetto di rappresentanza. Il Centro Servizi per il Volontariato viene spesso investito di questo compito, anche se istituzionalmente non lo potrebbe svolgere.

Il ruolo degli Uffici di Piano

o In generale emerge uno scarso investimento delle amministrazioni negli Uffici di Piano:

 Per il limitato budget, che gestisce solo le risorse dei fondi nazionali e regionali e non le risorse dei singoli comuni.

 Per le scarse risorse umane ad esso dedicato: poche ore dedicate a questa funzione e con personale poco preparato alla gestione di tavoli di governance.

o La lettura dei bisogni viene svolta in modi diversi:

 Più spesso essa avviene in maniera burocratica, con soli dati demografici e con scarso coinvolgimento dei soggetti più prossimi alla cittadinanza.

 Altre volte essa viene quasi totalmente affidata alle organizzazioni del Terzo settore, che non possono compiere un lavoro sistematico di rilevazione.

o In genere mancano tavoli di lavoro su bisogni trasversali della popolazione e vi è scarsa integrazione con temi non strettamente socio-assistenziali, come quelli del lavoro e della casa.

o Scarsa chiarezza di ruoli e di compiti all’interno dei tavoli tra soggetti pubblici e privati.

o Le convocazioni avvengono in maniera per lo più sregolata e non sistematica. Non si riesce a costruire gruppi di lavoro stabili e non si cumulano le conoscenze nel corso del tempo. Diventa quindi difficile

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svolgere attività di valutazione e di riflessione sul lavoro programmatorio e progettuale.

o Spesso vi è una scarsa distinzione nelle amministrazioni dei Piani tra momento gestionale e momento programmatorio, soprattutto dove vengono istituite delle aziende speciali che assumono sia la funzione gestionale che quella programmatoria.

o Molto rari i processi di valutazione in itinere del PdZ e pochi i momenti di riflessione e di confronto con altri territori e altre esperienze.

In sintesi, l’immagine che appare nella seconda triennalità dei Piani di Zona è quella di una attitudine delle amministrazioni e del Terzo settore ancora poco attenta alla complessità del lavoro di analisi e di programmazione necessario.

Anche dove erano iniziati dei percorsi di aggregazione e di rappresentanza, essi hanno stentato in molti casi a svilupparsi e ad apprendere capacità di incidere nella programmazione di zona. Le reti e i coordinamenti del Terzo settore sono stati spesso visti con diffidenza e le esperienze di scarsa utilità del lavoro nei tavoli sperimentate negli scorsi anni sembrano aver indotto diversi attori del Terzo settore a disinvestire dalla partecipazione. Si è pagato forse il velleitarismo che si era generato nella prima fase dei Piani di Zona, quando si pensava che la sola istituzione di questo strumento avrebbe permesso di cambiare il modo in cui si facevano le politiche sociali nei territori. Inoltre non sembra essere diminuita l’attitudine di alcune amministrazioni a privilegiare i rapporti informali (e spesso particolaristici) con il Terzo settore, lasciando al Piano di Zona una funzione di mera vetrina di decisioni già prese altrove.

Allo stesso tempo, tuttavia, si sono notati anche alcuni segnali di evoluzione interessante sotto il profilo regolativo. Soprattutto si è registrato il maggior ruolo che la legge 3/2008 e le sue delibere attuative, in particolare la n. 7797/2008, hanno dedicato alla partecipazione del Terzo settore. L’ultima importante fase di evoluzione dei Piani di Zona in Lombardia infatti è stata l’introduzione, nel 2008 della nuova legge regionale 3/2008, che ridisegna la cornice normativa dei servizi socio- sanitari in Lombardia. Se da una parte essa ha confermato gli elementi fondamentali del Piano di Zona, essa ha introdotto anche numerose e interessanti novità, sia per il lavoro delle amministrazioni, sia per le opportunità che apre per i soggetti del Terzo settore. Questi elementi sembrano aver spinto le amministrazioni ad attivare effettivamente luoghi di rappresentanza più sistematici ed organizzati, anche se non è ancora possibile valutare come stia procedendo l’effettiva messa in pratica di queste direttive.

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A tre anni di distanza dalla precedente indagine sulla partecipazione delle Caritas alla pianificazione zonale delle politiche sociali, siamo quindi ritornati a guardare in maniera sistematica il ruolo svolto dalle Caritas dei decanati ambrosiani e dalle cooperative del Consorzio Farsi Prossimo, per capire quali evoluzioni vi siano state nel modo in cui le diverse espressioni del sistema Caritas si attivano e vengono coinvolte nell’elaborazione dei Piani di Zona, nella loro implementazione, valutazione e monitoraggio, come fondamentali momenti della costruzione del welfare locale. Si tratta cioè di capire come e quanto sia maturata la capacità dei soggetti locali di contribuire, ognuno dal proprio ruolo, alla elaborazione del Piano di Zona, dopo il percorso di evoluzione a cui abbiamo assistito in questi anni.

1.2.Il terzo triennio dei Piani di Zona nella diocesi ambrosiana

Percorso di analisi

Il percorso di analisi che abbiamo svolto è iniziato con una ricognizione esplorativa della situazione concernente la partecipazione del Terzo settore proveniente dai documenti di Piano di Zona 2009-2012. Alla ricognizione è seguita una serie di focus group che sono stati svolti con responsabili decanali o di cooperative impegnati nei Piani di Zona.

Da tale ricognizione è emerso un quadro scarsamente definito riguardo alla effettiva partecipazione del Terzo settore e delle Caritas in particolare ai Piani di Zona. I documenti analizzati infatti riportano molto spesso solo dichiarazioni di massima sull’istituzione di tavoli di consultazione con il Terzo settore, senza una concreta definizione di ruoli, mandati, obiettivi e regole.

Anche per ovviare a questa scarsa definizione della partecipazione rilevabile dai documenti di Piano, è stata svolta la vera e propria analisi sull’effettività delle esperienze di costruzione dei Piani. Questa fase è consistita nella distribuzione ai responsabili decanali e di cooperative di ogni Ambito sociale (cioè l’unità territoriale e amministrativa su cui viene costruito il Piano di Zona) di un questionario riguardante i principali aspetti del loro coinvolgimento nel Piano di Zona.

Le domande vertevano sui seguenti punti:

o Caratteristiche generali dell’Ambito: dimensioni dei comuni, formula organizzativa (azienda, comuni associati, ecc), organizzazione di lavoro dell’Ufficio di Piano, ecc.

o Partecipazione formale alla elaborazione del Piano di Zona 2009- 2012 (quali tavoli, quale frequenza, con quali ruoli)

o Partecipazione effettiva (chi ha partecipato, con quale condivisione del resto della Caritas locale)

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o Relazione con le amministrazioni dell’Ambito (collaborativa, diffidente, promozionale, ecc)

o Relazione con il Terzo settore locale (inclusione, numero di altri partecipanti, che tipo di altri partecipanti)

o Forme di rappresentanza (istituzionalizzata o auto organizzata con il Terzo settore e con quale regolazione)

o Punti di debolezza percepiti o Punti di forza percepiti

o Differenze riscontrate con le triennalità passate di Piani di Zona.

Il processo di distribuzione e raccolta dei questionari ha coinvolto i responsabili decanali di tutti gli Ambiti sociali della diocesi, nonché i responsabili delle cooperative appartenenti al sistema Caritas che hanno attività negli Ambiti. Il percorso di analisi è stato complicato dal fatto che i 75 decanati della diocesi non coincidono con il territorio di un Ambito, se non in alcuni casi2. In occasione dell’ultima tornata di Piani di Zona sono inoltre avvenute nuove suddivisioni e nuovi accorpamenti che hanno ulteriormente complicato il quadro di analisi. La non coincidenza tra Ambiti sociali e decanati ha fatto sì che spesso i responsabili decanali non si riconoscessero in nessuno dei due, tre o a volte persino quattro Ambiti sociali del proprio decanato, con il risultato che in quell’Ambito la Caritas ha partecipato poco attivamente ai tavoli di tutti i Piani di Zona di quel territorio.

Gli esiti della distribuzione dei questionari ha visto la risposta di 20 Ambiti nei seguenti decanati (figura 1):

2All’interno del territorio della diocesi di Milano sono presenti 40 distretti, suddivisi nelle zone pastorali nel seguente modo: Milano: 1, Varese: 9, Lecco: 5, Rho: 8, Monza: 6, Melegnano: 8, Sesto San Giovanni: 3.

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Figura 1

Il quadro generale

L’analisi delle diverse dimensioni prese in considerazione nello schema analitico disegna un quadro differenziato delle modalità di coinvolgimento del Terzo settore nei Piani di Zona, con forme e gradi diversi sia nell’attività delle amministrazioni dell’Ambito, sia nella capacità di azione organizzata da parte del Terzo settore locale e della Caritas. Tuttavia, pur nella differenziazione delle diverse situazioni, è possibile delineare un quadro generale della partecipazione ai Piani di Zona. Vi sono cioè diversi elementi che appaiono come delle tendenze diffuse e sottese a tutti gli Ambiti presi in considerazione nell’indagine svolta.

Un primo elemento che emerge chiaramente nei casi indagati è la debolezza di impianti di regole su cui sono basati i momenti partecipativi.

Nella grande maggioranza degli Ambiti, cioè, ci si è trovati dinnanzi a Zona di Varese

Varese Sesto Calende

Gallarate Somma Lombardo

Azzate

Zona di Rho Busto Arsizio Bollate/Garbagnate

Legnano Rho

Zona di Melegnano Corsico Melzo

Peschiera Borromeo San Donato

Zona di Sesto San Giovanni Zona di Monza

Monza Vimercate Cernusco sul Naviglio

Seregno Zona di Lecco

Lecco Erba

Zona di Milano Milano

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forme di partecipazione carenti di vincoli e responsabilità precise dell’amministrazione di Piano nei confronti della cittadinanza organizzata che partecipava. La partecipazione è rimasta una variabile lasciata in balia della discrezionalità degli assessori di turno e dei loro tecnici. Dove questi sono stati convinti sostenitori di un approccio partecipativo alle politiche si è dato luogo a forme più effettive ed efficaci di partecipazione.

Dove invece questo orientamento da parte delle amministrazioni non c’è stato o è venuto meno in virtù del cambio di giunta, sono mancati ancoraggi normativi o regolamentari a cui le organizzazioni della società civile potessero fare riferimento per rivendicare un diritto a essere coinvolti nel processo di programmazione delle politiche sociali locali.

I Piani di Zona sono dunque rimasti un territorio di azione ambiguo, dove per gli attori della società civile non vi è certezza di quasi nulla. Non solo non è chiaro quali siano i diritti e i doveri dei diversi soggetti che partecipano, ma non è neanche chiaro chi sia davvero titolato a partecipare e chi no: se per esempio lo siano tutti gli attori che si occupano di servizi socio-assistenziali sul territorio o solo la parte più stabile e professionalmente qualificata di essi. Anche quando sia formalmente aperta a tutti la partecipazione, non sono quasi mai definite regole per fare in modo che gli attori possano avere una sostanziale opportunità di partecipare. Per fare un esempio, non si mette mai a tema la criticità del fatto di collocare le riunioni dei tavoli negli orari diurni, in cui solo le realtà associative professionali o con personale pensionato possono partecipare, lasciando fuori, o in grande difficoltà a partecipare, le realtà del mondo associativo prive di personale non disponibile in quegli orari. Non è definito inoltre quali siano le prerogative di chi partecipa: se di essere informate e dare un parere solamente o anche di fare proposte formali e istruire parti del lavoro o se addirittura avere possibilità di votare tramite dei rappresentanti, come capita in qualche Ambito.

Questa ambiguità e mancanza di regole della partecipazione, peraltro, può essere talvolta fatta propria anche da alcuni responsabili delle organizzazioni del Terzo settore, nella misura in cui permette loro di non assumere impegni specifici e onerosi per organizzazioni spesso già in affanno di tempi e di impegni.

Un secondo elemento che emerge dall’indagine svolta è relativo alla centralità che nel processo programmatorio mantengono le amministrazioni locali degli Ambiti. Proprio a causa della genericità delle regole che governano i tavoli dei Piani, a decidere di fatto le prerogative e le modalità della partecipazione sono le amministrazioni locali. Mancando infatti dei vincoli precisi su modi, tempi, responsabilità del processo partecipativo, le amministrazioni hanno una discrezionalità amplissima nel decidere se e quanto spazio dare ai tavoli, se e come istruirne i lavori,

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quante risorse e quali strumenti dedicarvi, quali e quante realtà possono parteciparvi e con quali obblighi e diritti. Questa totale discrezionalità ha portato molte amministrazioni a tenere un profilo molto basso della partecipazione, facendo in modo che i tavoli venissero convocati all’ultimo momento o a singhiozzo, senza la possibilità che vi fosse voce in capitolo sull’agenda dei lavori e portando spesso ai tavoli decisioni di fatto già prese o quanto meno già istruite. Dove gli amministratori e i loro tecnici hanno creduto maggiormente nel momento partecipativo sono state attivate delle prassi di consultazione più frequenti e più articolate. Solo raramente tuttavia l’articolazione della partecipazione ha assunto la forma di un regolamento partecipativo.

Questa discrezionalità è stata peraltro messa molto in discussione dalla Regione nella già citata delibera 7797/2008, non a caso fortemente voluta dal Tavolo regionale del Terzo Settore. Essa infatti obbliga gli Ambiti ad istituire tavoli del Terzo settore non solo tematici ma anche di sistema e a istruire i lavori dei tavoli dando adeguato preavviso ai partecipanti, nonché l’informazione necessaria per portarvi dei contributi ragionati. Tale delibera tuttavia appare in gran parte ancora disattesa.

Il potere discrezionale delle amministrazioni è normalmente incarnato nelle scelte degli assessori e dei loro tecnici e formalmente collocato nell’Ufficio di Piano presso il comune capofila. Dove il Piano di Zona è poi gestito da una struttura creata ad hoc a livello di Ambito, come un’azienda speciale, rimangono comunque le amministrazioni pubbliche dell’Ambito, controllando totalmente l’azienda, a decidere come gestire il processo. Anzi, la maggiore agilità amministrativa delle aziende sembra in alcuni casi chiudere ancora di più la possibilità alla cittadinanza di intervenire nel processo decisionale.

Un ulteriore elemento critico dei Piani di Zona analizzati è lo scarso coinvolgimento del Terzo settore sul tema del segretariato sociale e dell’integrazione socio-sanitaria nella quasi totalità dei Piani. Si tratta di temi che effettivamente solo con la legge 3/2008 avevano acquistato pieno riconoscimento normativo e quindi solo da poco essi sono stati posti all’ordine del giorno dalle linee guida predisposte della Regione Lombardia nei confronti degli Ambiti. Essi tuttavia erano stati già da tempo messi a tema tra le attività a cui la programmazione sociale di zona avrebbe dovuto dare una concretizzazione. È infatti già dalla legge 328 che si segnalava l’esigenza di giungere a forme di presa in carico comuni e coordinate a livello di Ambito, che accompagnino il cittadino nell’accesso e nell’utilizzo dei servizi e degli interventi sociali. Ciò prevede il ripensamento di tutti i servizi e del loro rapporto sia tra loro, sia (e soprattutto) con il cittadino e il suo contesto naturale di vita. Significa impostare la programmazione con un occhio trasversale ai servizi, spesso troppo

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sedimentati nella loro compartimentazione di bisogni e di risposte. È proprio su questo tipo di nuova impostazione delle politiche sociali dei territori che è mancata una costruzione comune con le realtà della società civile. È pur vero che non sono mancati dei tentativi di avviare forme di collaborazione tra servizi pubblici e sportelli del terzo settore per facilitare la nascita di veri segretariati sociali d’Ambito. Proprio la Caritas è anzi stata uno degli interlocutori privilegiati di alcuni comuni su questo tema. Allo stato attuale però il tipo di collaborazione attuato, è sembrato essere soprattutto di tipo informativo e in alcuni casi con proposte che prefiguravano una forma di esternalizzazione delle responsabilità di presa in carico degli utenti.

L’esito dei diversi elementi problematici indicati è il fatto che rispetto alle triennalità precedenti non sembrano esservi stati significativi miglioramenti nel modo in cui il Terzo settore è stato coinvolto nell’attività programmatoria. Nonostante l’esperienza trascorsa, cioè, non si è generato un sostanziale apprendimento nelle capacità degli attori di essere coinvolti e di farsi coinvolgere nei Piani. Anzi, il dato che sembra accomunare molti Ambiti è semmai una diminuzione della partecipazione effettiva, sia per via di una mancata riattivazione dei tavoli da parte di molte amministrazioni, sia per via di una perdita di interesse progressiva, da parte di molti attori, nel partecipare a delle attività di programmazione che appaiono poco produttive e molto dispendiose di energie e di tempo.

Come vedremo, questo dato di mancato progresso nel modo in cui i Piani di Zona hanno coinvolto la società civile non significa che non vi siano stati in alcuni casi dei miglioramenti puntuali, o, più spesso, il mantenimento di quanto era stato raggiunto fino alle triennalità precedenti. Anche nel caso dei Piani di Zona, infatti, resiste una tendenza alla continuità di alcune pratiche istituzionali anche a fronte di cambiamenti in seno alle giunte comunali dei vari Ambiti. Ciò che tuttavia va qui registrato è il venir meno della spinta propulsiva che si era generata con l’introduzione dei Piani. Una spinta propulsiva che, guardando ai dati della Lombardia intera, si era probabilmente già rallentata durante la seconda tornata di programmazione sociale, ma che con l’inizio della nuova triennalità sembra avere quasi certificato la perdita di dinamismo di questo nuovo strumento partecipativo.

Questo dato di fatica delle forme di partecipazione all’interno dei Piani di Zona sembra peraltro essere comune anche ad altre arene partecipative, come quelle dei tavoli del Terzo settore istituiti dalle ASL o il Tavolo di consultazione dei soggetti del Terzo settore, istituito presso l’assessorato alla Famiglia e alla Solidarietà sociale della Regione Lombardia. In entrambi i tipi di tavoli, le Caritas hanno avuto la possibilità di partecipare e sperimentare quali siano state le effettive modalità di coinvolgimento lì attivate. Per quanto riguarda i tavoli ASL, essi generalmente hanno avuto

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una maggiore strutturazione, adottato dei regolamenti e dei gruppi di lavoro. Raramente però dentro a queste sedi partecipative sono state discusse decisioni rilevanti o orientamenti di programmazione socio- sanitaria. Inoltre non mancano casi di ASL in cui questi tavoli sono stati convocati solo due o tre volte in due anni e che hanno totalmente trascurato di costituire anche minime forme di regolazione odi strutturazione in gruppi.

Il Tavolo regionale invece, ha vissuto fasi altalenanti: se in alcuni casi, come in occasione di alcune delibere attuative della legge 3 (per esempio la già citata delibera 7797/08), è stato effettivamente luogo di consultazione e collaborazione con i soggetti principali del terzo settore, in altri casi vi sono stati lunghi periodi di non convocazione del tavolo e talvolta le sollecitazioni emerse da parte dei soggetti del terzo settore, anche avanzate in forme unitarie, non sembrano essere state prese sufficientemente in considerazione. In questo modo sembra essere scarsamente sfruttato quel potenziale di innovazione promessi dall’attivazione di questi tavoli, e in generale dall’introduzione dei principi di sussidiarietà nella legge 3/2008 o nella stessa riforma costituzionale del titolo V.

Fattori di debolezza

Possiamo individuare diversi fattori all’origine di questa debolezza e fatica dei Piani di Zona nel progredire davvero nella capacità di coinvolgimento della società civile.

Per quanto riguarda i problemi imputabili ai comuni che gestiscono i Piani di Zona, possiamo individuare innanzitutto la scarsità delle risorse in gioco: le risorse dei Fondi per le politiche sociali sono diminuite in maniera sostanziale dall’attivazione dei Piani di Zona ad oggi. Solo negli ultimi due anni i fondi complessivamente a disposizione dei Piani di Zona sono diminuiti del 14%3 e il grosso delle risorse a disposizione dei comuni per la spesa sociale non è entrato nella pianificazione di Zona, ma è stato trattenuto dai singoli comuni.

Il minor investimento di molte amministrazioni può poi essere spiegato con altri due fattori: in alcuni casi, con le elezioni comunali avvenute negli ultimi due anni, molte nuove amministrazioni non sono state in grado di riavviare la complessa macchina della consultazione nei tavoli lasciata in

3 Più specificamente: il Fondo Nazionale delle Politiche Sociali è diminuito del 53% tra il 2009 e il 2010, il Fondo Regionale Sociale è rimasto invariato ma la Regione si è riservata oltre il 46% dello stesso per sue attività. Il Fondo per la non autosufficienza è stato raddoppiato, ma una parte del finanziamento (quella socio- sanitaria), pure ridotta continua a restare nelle competenze delle ASL. Inoltre, per due specifici obiettivi (Punto unico e PAI) è la stessa ASL a decidere le modalità di utilizzo e di finanziamento per gli Ambiti territoriali.

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eredità dalle amministrazioni precedenti. In altri casi sembra invece esservi stata un’esplicita scelta di lasciare meno spazio ai tavoli della programmazione partecipata per lasciarsi maggiori gradi di discrezionalità delle scelte.

In secondo luogo i comuni sono sembrati spesso restii a credere nella partecipazione e inclini ad attivarla solo formalmente, in quanto una partecipazione più effettiva richiederebbe una minore discrezionalità nelle scelte e un maggiore investimento di risorse nel processo di governance. La partecipazione richiede infatti molto tempo, competenza e pazienza. Anche la mancanza di un accompagnamento da parte della Regione nel premiare e diffondere le buone pratiche sembra aver indebolito la capacità dei comuni di credere nella necessità di investire nel processo partecipativo.

Per quanto riguarda i soggetti del Terzo settore invece, il minor investimento nei Piani sembra essere dovuto alla disillusione emersa dopo i molti fallimenti delle esperienze degli anni precedenti, percepite come poco fruttuose, e dunque non meritevoli di risorse da spendervi, sia per sé, che per l’intera comunità territoriale di cui si fa parte. Questa disillusione, d’altra parte, nasce anche dal fatto che l’introduzione dei Piani di Zona era stata caricata di grandi attese da parte di molte componenti del mondo del Terzo settore. Dopo il primo momento di entusiasmo e vasta partecipazione, però, ci si è scontrati con la mancanza di una relazione sistematica e continua tra partecipazione e cambiamento del sistema locale dei servizi e ciò ha quindi generato un crescente disinteresse per la partecipazione stessa.

Anche per quanto riguarda il mondo Caritas nello specifico, i problemi principali sembrano essere dati dalla carenza di competenze e di organizzazione. Da una parte cioè non sembra esservi stata la percezione dell’importanza di investire risorse nella formazione di persone competenti che possano giocare pienamente il ruolo di advocacy e di co- programmazione di cui pure la legge 328/2000, e successivamente la legge regionale 3/2008, li rende titolari. Dall’altra si nota come spesso sia stata la mancanza di forme di coordinamento, di comunicazione e di rappresentanza ad aver indebolito il ruolo che il Terzo settore poteva svolgere.

Da questo punto di vista si può sottolineare che dove vi sia stata la presenza congiunta di Caritas decanali e cooperative del Consorzio Farsi Prossimo, come a Monza e Lecco, si è registrata anche una maggiore vivacità della presenza complessiva di Caritas e di animazione del Terzo settore locale.

Pur in presenza di questi problemi diffusi, i casi di partecipazione più positiva e fruttuosa non mancano. Essi non sembrano dipendere tanto dall’esistenza di risorse economiche o dall’utilizzo di strumenti gestionali

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particolari (come per esempio l’attivazione di una azienda speciale). Essi, più probabilmente, sono invece legati alla consapevolezza, da parte del pubblico e del Terzo settore locale, dell’opportunità del Piano di Zona come occasione di innovazione e miglioramento del welfare locale, su cui quindi è opportuno investire risorse. Si tratta cioè di una differenza culturale che gli attori hanno rispetto alla pianificazione.

Anche in questi casi positivi tuttavia, l’impressione è che prevalga spesso l’elemento della insoddisfazione rispetto alle attese iniziali e che non si riesca a prendere invece piena consapevolezza dei propri punti di forza da valorizzare e dei punti di debolezza che invece richiedono un investimento di formazione e di conoscenza.

Il maggiore rischio che si inizia a intravedere riguardo alla crescente delusione che gli attori della Caritas hanno rispetto ai Piani di Zona è che si torni a investire nel rapporto diretto con gli amministratori dei singoli comuni su specifici progetti, invece che utilizzare gli strumenti istituzionali partecipativi a disposizione della società civile, come appunto i Piani di Zona.

Elementi positivi

I Piani di Zona però non sono rubricabili solo come strumenti fallimentari e “in decadenza”. Vi sono invece degli elementi positivi che in una valutazione complessiva vanno tenuti in conto e valorizzati. Essi attengono soprattutto al mantenimento, anche nel corso della terza tornata di programmazione, di una prassi di interlocuzione su alcuni temi specifici tra amministrazioni pubbliche e società civile. In questo canale di interlocuzione il Terzo settore può contribuire in maniera spesso rilevante, ai fini della definizione delle politiche sociali territoriali. Ciò sembra essere vero soprattutto nella segnalazione di bisogni emergenti e in quelli nei quali le strutture pubbliche hanno meno antenne sul territorio. Per esempio gli interventi nei confronti della popolazione con bisogni meno incasellabili nelle classiche categorie degli interventi (disabili, minori, anziani) e che spesso sono però in crescita nelle nostre città: persone a rischio di esclusione sociale per la perdita di lavoro, persone reduci o ancora interessate da problemi di dipendenza o di detenzione, immigrati privi di supporti familiari, ecc. Sovente le situazioni di queste persone sono state almeno rappresentate in tavoli chiamati “adulti in difficoltà” o “inclusione sociale”.

Se la dimensione più sistemica della partecipazione è rimasta debole, questa dimensione più concreta e specifica sembra aver mantenuto dunque una sua forza.

Il consolidamento di rapporti tra le organizzazioni del Terzo settore locali e l’esistenza stessa dei tavoli, seppur dotati di poche competenze e poche regole, ha favorito la conoscenza tra attori che spesso non si

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conoscevano. Ciò ha permesso spesso ai soggetti di Terzo settore dello stesso territorio di iniziare delle forme di collaborazione sulle proposte o su alcuni progetti comuni. Ma soprattutto ha consentito la nascita di un raccordo che rafforza la voce della società civile nella programmazione.

In alcuni casi, poi, è stata migliorata anche la strutturazione dei tavoli del Terzo settore, quindi la loro articolazione interna, la suddivisione dei ruoli e delle mansioni e l’abitudine ad attivare forme di rappresentanza presso le istituzioni pubbliche. Queste forme più avanzate di raccordo sono certamente state indebolite dalla scarsa capacità di molte amministrazioni di valorizzare e promuovere questa azione comune. Esse tuttavia hanno favorito la maturazione di una coscienza comune tra soggetti sociali del territorio e la loro capacità di attivarsi insieme per degli obiettivi comuni.

1.3. La tipologia delle forme di partecipazione

Delineato questo quadro generale, abbiamo provato a individuare le possibili modalità di gestione della partecipazione al Piano. Si sono cioè suddivisi gli Ambiti che mostravano caratteristiche simili nell’atteggiamento delle amministrazioni e dei relativi Uffici di Piano, ma anche in quello dei soggetti del Terzo settore e delle Caritas in particolare.

Sono stati così individuati quattro tipi di possibilità che sembrano ricorrere nei territori della diocesi di Milano, anche se con frequenze differenti tra i diversi tipi. La tipologia individuata serve a dare un’immagine sintetica delle possibilità di azione che si possono creare per la partecipazione del Terzo settore. Essa quindi stilizza inevitabilmente le caratteristiche più specifiche che ogni Ambito presenta.

Tipo 1. La partecipazione settoriale

Gli Ambiti di questo tipo sono stati caratterizzati dalla presenza di amministrazioni che hanno investito in generale poche risorse e poche attenzioni nella programmazione partecipata, e allo stesso tempo hanno visto un Terzo settore locale presente ma scarsamente coordinato. In questi luoghi non è stata attivata una sistematica attività di consultazione con i soggetti della società civile del territorio per arrivare a definire un Piano condiviso di servizi e interventi, bensì si è preferito un approccio che vedesse momenti partecipativi più limitati e saltuari. Il coinvolgimento della società civile cioè, non è stato del tutto assente, ma è avvenuto solo su alcuni tavoli tematici e in maniera non molto frequente. Sono invece mancati, di diritto o di fatto, dei luoghi di consultazione di tutta la pianificazione. Tali luoghi, che pure sarebbero prescritti dalle delibere attuative della legge regionale 3/2008, dovrebbero essere capaci di intercettare le esigenze più trasversali riguardanti sia il sistema locale dei servizi, sia il processo stesso di consultazione e le sue modalità. In mancanza di questi luoghi, il

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coinvolgimento della società civile su questi Ambiti è quindi apparso settoriale.

Nonostante tali carenze, gli Ambiti di questo tipo non sono stati del tutti inattivi sul versante partecipativo. Essi hanno cioè attivato il lavoro dei tavoli tematici, anche se con andamenti alterni a seconda dei tavoli. In alcuni tavoli il lavoro di analisi dei bisogni è apparso più approfondito che in altri, lasciando invece più scoperti altri tavoli che si occupavano di settori nei quali vi era una minore attenzione o preparazione da parte dei funzionari delle amministrazioni o dei soggetti del Terzo settore locali. Le Caritas locali hanno saputo essere presenti e intervenire con propri rappresentanti nei tavoli più attinenti al loro ambito di azione. Esse inoltre hanno instaurato tendenzialmente un rapporto collaborativo con altre realtà del Terzo settore, spesso con una relazione più stretta con le realtà di area cattolica.

In alcuni casi tale collaborazione si è espressa anche attraverso l’esistenza di un forum del Terzo settore locale. Ciò tuttavia non è stato sufficiente per raggiungere una sostanziale azione coordinata tra le diverse espressioni locali della società civile e soprattutto a far riconoscere tale azione dall’amministrazione del Piano.

Il lavoro dei tavoli tematici, in ogni caso, è stato attraversato da una contraddizione emersa sempre più chiaramente nel tempo. Da una parte infatti vi è stata la possibilità di discutere di alcuni bisogni e di individuarne i mutamenti. Dall’altra, vi è stata una scarsa finalizzazione del lavoro dei tavoli, cioè una ridotta capacità di prendere sul serio le indicazioni che vi emergono e costruire dei progetti e dei programmi conseguenti a questi indicazioni. Si tratta di una deriva che appare frequente nei tavoli di programmazione partecipata e costituisce un punto ricorrente anche nelle situazioni che appaiono più virtuose. I tavoli cioè tendono ad essere considerati dalle amministrazioni soprattutto un momento informativo e conoscitivo, utile per l’analisi dei bisogni del territorio e meno per la messa in discussione dei modelli di interventi esistenti o per la progettazione di nuovi modi di intervento. Questa dimensione solo tematica e “diagnostica”

dei tavoli di consultazione, già emersa dal monitoraggio della Regione sui Piani di Zona lombardi, sembra indebolire molto la propensione dei soggetti del Terzo settore a partecipare, dal momento che non lascia spazio alla possibilità di esprimere la carica di innovazione e di sperimentazione che pure il Terzo settore potrebbe esprimere. Inoltre essa, eliminando i momenti di consultazione sul sistema e non solo sugli specifici temi del bisogno, sembra aver privato il Terzo settore di una possibile spinta a trovare forme di raccordo e di rappresentanza.

Un ulteriore elemento problematico è la mancanza da parte delle amministrazioni dell’Ambito sociale di coinvolgimento del Terzo settore nella costruzione del segretariato sociale di Zona.

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L’esito complessivo della partecipazione in questi Ambiti, che sono 6 in tutto il campione, è dunque fatto di luci e ombre, ma a prevalere sembra essere una delusione di fondo, soprattutto rispetto all’entusiasmo iniziale e alla crescita del coinvolgimento avvenuta in occasione dell’inizio della seconda triennalità.

Tipo 2. La partecipazione soffocata

Il secondo tipo di Ambiti che abbiamo individuato ha delle caratteristiche parzialmente simili al primo tipo sotto il profilo delle modalità di coinvolgimento delle amministrazioni ma delle differenze sostanziali nell’atteggiamento e nei comportamenti degli attori del Terzo settore locali.

Anche in questi casi, infatti, ci troviamo dinnanzi a investimenti molto deboli da parte delle amministrazioni sul processo di programmazione partecipata. I tavoli del Terzo settore sono stati di fatto inesistenti e quindi è stato tagliato fuori un coinvolgimento sul sistema nel suo complesso e sulle scelte più trasversali e più cruciali delle amministrazioni in materia di servizi sociali. Anche da un punto di vista economico, le risorse dedicate alla programmazione sociale di zona sono state molto ridotte rispetto a ciò che potenzialmente le amministrazioni potrebbero decidere di fare, sia con riferimento ai prodotti della programmazione sia con riferimento al processo di programmazione stesso e alle sue diverse fasi.

I tavoli tematici invece sono stati anche in questo caso utilizzati maggiormente dalle amministrazioni e hanno visto una partecipazione reale del Terzo settore locale. Come nel tipo precedente, però, questi tavoli hanno assunto una funzione prevalentemente di discussione e analisi sui bisogni, senza entrare nel merito delle scelte programmatorie, sia come finalità che come metodi e strumenti utilizzati.

Una caratteristica ulteriore di queste amministrazioni è il fatto di aver cercato di dare al proprio esterno un’immagine di grande promozione del volontariato e del principio di sussidiarietà. Per questo motivo, sono state effettivamente trovate delle forme di sostegno per alcune organizzazioni del Terzo settore, in termini di affidamento di servizi pubblici e di supporto finanziario ad alcune iniziative di specifiche realtà associative. Allo stesso tempo tuttavia, a queste forme di sostegno, non ha corrisposto un altrettanto forte sostegno alla sussidiarietà di tipo partecipativo. Si segnala perciò da parte dell’amministrazione la ricerca di un rapporto quasi esclusivamente gestionale con il mondo cooperativo e del volontariato.

La caratteristica specifica di questo tipo di Ambiti è stato invece il fatto che il Terzo settore ha sviluppato particolarmente le proprie capacità di azione comune e di raccordo, tramite l’istituzione di forum e tavoli di coordinamento propri. Spesso è stata la presenza di leader del Terzo settore particolarmente capaci di costruire sinergie tra le realtà anche

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diverse del mondo associativo e cooperativo ad avviare queste esperienze di coordinamento. Esse hanno permesso di far crescere le interazioni e la conoscenza tra i diversi soggetti associativi e cooperativi del territorio, anche di estrazioni e finalità diverse. Soprattutto, queste forme di coordinamento hanno consentito di giungere all’interlocuzione con le amministrazioni con una voce comune e quindi con maggior forza. Sono state inoltre introdotte dal Terzo settore stesso regole di rappresentanza per la partecipazione.

La Caritas ha qui avuto un ruolo particolarmente attivo, o addirittura di leadership, tramite l’impegno di responsabili provenienti sia dal mondo parrocchiale, sia da quello cooperativo. Anche se tale impegno non è stato omogeneo in tutte le zone di questi Ambiti e la rete di soggetti non è stata sempre capillare ed estesa, la Caritas ha saputo quindi agire per unire sia i propri mondi di riferimento sia quelli dell’intero Terzo settore locale.

A differenza che nell’Ambito precedente, quindi, sia la Caritas che gli altri soggetti del Terzo settore locale hanno investito molto sull’opportunità costituita dai Piani di Zona e hanno impegnato le loro risorse di tempo e di competenze per svolgere al meglio il ruolo di coordinamento, di rappresentanza e in generale per dare effettività e incisività alla loro partecipazione.

A fronte di una tale capacità di partecipazione del Terzo settore, tuttavia, l’esito complessivo nei Piani di Zona di questi Ambiti sembra non essere stato molto diverso da quello degli Ambiti del precedente tipo. Al grande sforzo organizzativo e di conoscenza profuso dai soggetti del Terzo settore locale non ha corrisposto una maggior attivazione da parte delle amministrazioni locali sul Piano di Zona.

Di questa scarsa incisività finale della partecipazione del Terzo settore, in presenza di una scarsa ricettività delle amministrazioni locali, è ulteriore testimonianza la diffusa delusione presente anche in questi Ambiti, per la mancata corrispondenza dei Piani di Zona rispetto alle grandi attese che essi avevano suscitato e in parte alimentato nei primi anni della loro introduzione.

Gli Ambiti che hanno mostrato queste caratteristiche sono 3 in tutto il campione utilizzato nell’indagine.

Tipo 3: La partecipazione facilitata

La forma di partecipazione che si è instaurata in questi Ambiti differisce dai precedenti tipi per un elemento decisivo, ossia per l’investimento che le amministrazioni vi hanno dedicato e per l’attenzione che vi hanno rivolto.

Qui infatti sono stati istituiti, durante le prime due triennalità, alcune azioni e strumenti che hanno promosso una partecipazione più effettiva del Terzo settore al lavoro di programmazione delle politiche sociali locali. Uno strumento fondamentale che qui è stato realizzato è stato innanzitutto

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l’istituzione di un tavolo di consultazione con il Terzo settore che si occupasse di discutere l’assetto generale della programmazione e dello stesso processo partecipativo per costruirla. La stessa istituzione di questo tavolo ha permesso che venissero segnalate già al principio del processo programmatorio alcune importanti esigenze del Terzo settore per poter partecipare efficacemente: la possibilità di avere un tempo adeguato di preavviso prima delle riunioni dei tavoli per poter preparare prima una fase di consultazione interna ai soggetti del Terzo settore; una maggiore sistematicità alle riunioni, con cadenze più stabili e con forme di consultazione estese all’intero triennio e non solo alla fase della stesura del Piano di Zona triennale; delle forme di rappresentanza e di rendicontazione.

In questi Ambiti poi l’Ufficio di Piano è stato dotato di risorse e di personale adeguato alla realizzazione di un processo così complesso come quello di programmazione partecipata. Ciò ha significato per esempio dedicare ad esso persone competenti e con ore di lavoro espressamente finalizzate alla facilitazione del processo partecipativo. Tra le risorse più preziose che sono state investite qui vi è quella comunicativa, con l’attivazione di siti del Piano di Zona dove poter accedere a tutti i materiali utili al lavoro di programmazione e di mailing list per raggiungere e tenere aggiornati tutti gli attori interessati al processo.

Accanto a queste azioni di facilitazione della partecipazione a livello di sistema, si è dato luogo in questi Ambiti a un attivo coinvolgimento del Terzo settore nei tavoli tematici. Oltre che aver approfondito le tematiche specifiche di ogni area di bisogno, questi tavoli hanno potuto avere maggiori forme di collegamento reciproco, in parte per via dell’esistenza di momenti di discussione trasversali, come appunto il tavolo del Terzo settore dell’intero Ambito, in parte per il maggiore raccordo che si è qui creato tra i diversi attori del Terzo settore di questi territori.

Un dato particolarmente interessante che emerge in questi Ambiti è il fatto che le forme di coordinamento tra gli attori del Terzo settore siano nate ovunque, a prescindere dall’esistenza di precedenti esperienze di coordinamento del Terzo settore locale o dalla presenza di leader del Terzo settore capaci di costruire sinergie e di promuovere il raccordo tra le diverse espressioni territoriali della società civile. Il coordinamento è nato cioè anche, e in alcuni casi soprattutto, come esito dell’azione promozionale svolta dalle amministrazioni dell’Ambito. Uno dei meccanismi utilizzati a questo proposito è stata l’istituzione di forme di rappresentanza, che hanno incentivato i diversi soggetti associativi a trovare delle sedi di discussione e di scelta di linee comuni di azione. Un altro meccanismo è stato l’istituzione di luoghi e occasioni dove le diverse realtà del Terzo settore locale potessero interagire e discutere non solo sulle strategie di partecipazione

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ma sulle rispettive finalità e obiettivi.

La Caritas locale ha svolto in tutti i casi un ruolo importante tra le realtà del Terzo settore, sia per il suo radicamento nei quartieri, sia per la presenza, in taluni casi, di responsabili decanali o di cooperative particolarmente attivi e dotati di competenze sia tecniche che relazionali.

Pur in un Ambito di questo tipo, tuttavia, non sono mancati aspetti critici.

Un primo elemento di difficoltà è stata la carenza di risorse da dedicare ad un così rilevante impegno partecipativo. Una carenza di risorse sia da parte delle amministrazioni, sia da parte delle organizzazioni del Terzo settore. Per quanto riguarda le amministrazioni, infatti, esse hanno subito i tagli imposti negli ultimi anni per il comparto sociale sia dal governo centrale che dalla Regione. Talvolta, inoltre, alcune nuove giunte hanno preferito diminuire le risorse proprie da dedicare ai Piani, non ritenendolo un obiettivo strategico. Per quanto riguarda il Terzo settore, invece, le risorse che sono venute a mancare sono innanzitutto risorse di tempo e di personale. Lo sforzo richiesto per la partecipazione, soprattutto quando questa ha assunto un’articolazione e una sistematicità elevata come in questi casi, si è rilevato in alcuni casi troppo oneroso per organizzazioni già a corto di risorse per far fronte alle loro attività di base.

Anche in questi Ambiti, inoltre, si è avvertito a volte il rischio di finalizzare poco il lavoro dei tavoli tematici, lasciando che essi assolvessero a una funzione prevalentemente diagnostica e non progettuale o di innovazione. Anche dove vi è stato un coinvolgimento sul tema segretariato sociale da parte del Terzo settore locale, e delle Caritas in particolare, questo è stato molto limitato ad uno scambio informativo e ad una esternalizzazione delle responsabilità di presa in cura.

In definitiva, questi Ambiti hanno vissuto esperienze certamente più proficue sotto il profilo della partecipazione e hanno conosciuto buoni esiti di coinvolgimento e raccordo nel Terzo settore locale. Tuttavia, anche qui si è percepito chiaramente un affaticamento generale da parte dei soggetti della Caritas e del Terzo settore in generale, rispetto alle attese che si erano generate nei primi anni dell’esperienza dei Piani di Zona.

Ad aver sperimentato questo tipo di partecipazione sono stati 9 Ambiti del nostro campione, anche se in alcuni di essi si segnala una situazione di maggiore criticità con l’inizio della nuova triennalità.

Tipo 4: La partecipazione minimale

I pochi Ambiti che ricadono sotto questo tipo (solo 2 nel nostro campione) hanno conosciuto un’esperienza partecipativa estremamente debole e ridotta. Qui infatti si è assommata una scarsa, o a volte inesistente, volontà di investimento delle amministrazioni nella programmazione partecipata ad un’assai limitata capacità di coinvolgimento nell’attività partecipativa da parte delle Caritas locali e del resto del Terzo settore.

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Le amministrazioni non hanno quindi dedicato risorse agli Uffici di Piano e spesso non hanno neanche avviato l’attività partecipativa. Oltre a essere mancata l’istituzione di un tavolo del Terzo settore di sistema, è stata molto carente anche l’attività dei tavoli tematici. Il loro funzionamento sembra essere stato ridotto ai minimi termini, con una assai scarsa comunicazione ai soggetti del Terzo settore e un apporto della società civile sostanzialmente impedito fin dall’inizio.

La costruzione del Piano di Zona sembra cioè essere stata prodotta sostanzialmente dalle sole amministrazioni dell’Ambito, al massimo coadiuvate da qualche consulente esterno, senza effettive forme di partecipazione.

Le Caritas di questi territori, d’altra parte, non sembrano aver fatto tentativi reali di coinvolgimento né di raccordo con il Terzo settore locale. La stessa esistenza dello strumento dei Piani di Zona e delle prerogative che la società civile può svolgervi è sembrata poco consapevole da parte dei responsabili locali.

Nella carenza di consapevolezza dell’opportunità costituita dalla programmazione partecipata, anche la mancanza di azioni di facilitazione da parte dell’amministrazione non sembra essere stata pienamente percepita da parte delle Caritas locali. Data la mancanza di aspettative sui Piani di Zona quindi anche l’effetto di disillusione riscontrato in altri Ambiti sembra assai limitato.

1.4. Le esperienze a confronto

I questionari utilizzati per la ricerca hanno fatto emergere un’immagine composita del territorio ambrosiano. Gli Ambiti sociali, come si è visto, hanno risposto in modi differenti alla sfida della partecipazione e così anche le Caritas decanali e parrocchiali si sono attrezzate molto diversamente per questo importante momento di costruzione comune del welfare locale. Per mettere alla prova e allo stesso tempo approfondire i risultati emersi dalla prima parte della ricerca, abbiamo organizzato dei focus group con alcuni dei responsabili decanali e di cooperativa che hanno più intensamente svolto l’attività di partecipazione al Piano, o ai Piani, del loro territorio di appartenenza e di azione. Si è scelto, in particolare, di invitare al focus group quei decanati che nella tipologia emersa dall’analisi dei questionari hanno manifestato nel corso di questi anni le esperienze di partecipazione più fruttuose, pur accanto alle fatiche sopra accennate e alle criticità più recenti.

I focus group sono stati pensati come momento conoscitivo e di confronto sulle esperienze di partecipazione delle Caritas ai Piani di Zona, a partire dagli esiti dei questionari distribuiti ai decanati della diocesi. Essi sono stati dunque parte integrante della ricerca sul coinvolgimento delle

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Caritas nella programmazione sociale partecipata, condotta in questi mesi dall’Area Cittadinanza Attiva di Caritas Ambrosiana.

Gli incontri hanno affrontato diversi temi: le caratteristiche e i problemi vissuti nella propria esperienza partecipativa, sia nel rapporto con l’Ambito e l’Ufficio di Piano, sia nel rapporto con le Caritas e con il Terzo settore locale e sovra locale; quali siano le possibili risorse attualmente esistenti che possono essere valorizzate e sviluppate per la formazione futura; quali siano gli elementi che hanno facilitato e fatto crescere la capacità di partecipazione e quali tipi di figure, e relative competenze, investire per l’attività futura.

L’esito dei focus group è sintetizzabile nell’evidenziazione dei seguenti elementi di forza e di criticità dell’esperienza vissuta sui Piani.

Elementi di forza

Un primo elemento di forza individuato riguarda il fatto che, soprattutto nelle prime due triennalità 2002-2005 e 2006-2009, si siano avviati in diversi Ambiti rapporti di collaborazione proficui e molto partecipati tra amministrazioni e Terzo settore. Questa collaborazione positiva si è riscontrata innanzitutto su diversi tavoli tematici, soprattutto quelli relativi a grave emarginazione, anziani e disabili, ma in alcuni casi anche sui tavoli di sistema. È stata rilevata come importante la presenza degli assessori alle riunioni dei tavoli, così da favorire un contatto con il livello politico, cioè con il luogo in cui vengono prese le decisioni rilevanti.

Si è poi messo in luce come siano nati in diversi casi dei Forum o dei tavoli di rappresentanza del Terzo settore che hanno permesso di facilitare la partecipazione e l’efficacia delle istanze portate ai tavoli. Un importante ruolo, da questo punto di vista, lo ha avuto la presenza di cooperative sociali ben collegate con il resto del Terzo settore locale. Ciò ha infatti reso possibile una presenza costante e competente ai tavoli anche nelle occasioni in cui il volontariato ha più difficoltà a essere presente, come quando essi vengono organizzati in orario lavorativo.

Talvolta, poi, è stata proprio la Caritas, magari insieme ad altre realtà ecclesiali come le Acli, a favorire il raccordo con il Terzo settore locale e la nascita di forum permanenti. Inoltre, dove vi è stato un investimento della Caritas decanale su delle figure che assumessero una funzione di raccordo e rappresentanza, ciò ha aiutato molto l’efficacia della partecipazione. È stata importante, ai fini della promozione del coinvolgimento, la presenza di alcune personalità particolarmente preparate e capaci di relazionarsi sia con il Terzo settore locale, sia con le istituzioni locali. Appare quindi fondamentale che i “delegati” riescano a far circolare le questioni e le istanze presso tutte le realtà Caritas del territorio.

All’interno del mondo Caritas, infine, la sinergia tra Caritas decanali e

Riferimenti

Documenti correlati

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