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Introduzione: ius ad bellum, ius in bello.

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Introduzione: ius ad bellum, ius in

bello.

Il diritto internazionale tradizionale era ripartito in due branche distinte: diritto internazionale di pace e diritto internazionale bellico.

Il primo disciplinava le relazioni tra Stati in assenza di un conflitto armato, il secondo veniva applicato una volta che il conflitto armato avesse inizio e per tutta la durata delle ostilità.

Il diritto internazionale bellico disciplinava sia i rapporti tra contendenti sia tra questi e terzi Stati. (in questo caso si parlava di “diritto della neutralità”)1.

Il diritto di ricorrere alla forza armata (ius ad bellum) veniva considerato come parte del diritto internazionale di pace, mentre il diritto relativo alla disciplina delle ostilità tra belligeranti e delle relazioni tra questi e terzi Stati (ius

in bello) faceva parte delle trattazioni di diritto

internazionale bellico.

L’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, che ha bandito la guerra nelle relazioni internazionali, ha segnato l’inizio di un processo volto a diminuire l’importanza del diritto bellico nelle trattazioni dottrinali2.

1 Condorelli L., Le droit international humanitaire en tant qu’atelier d’expérimentation juridique, Festschrift D. Schindler, Basel, 1989, 194

ss.

Meron T. , Human Rights and Humanitarian Norms as Customary Law, Oxford, 1989

2 Venturini (Gabriella), Necessità e proporzionalità nell’uso della forza militare in diritto internazionale, Milano, 1988, 111-116

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Nelle trattazioni più recenti, infatti il diritto dei conflitti armati viene qualificato come diritto internazionale umanitario, comprendente sia il cd. “diritto dell’Aja” sia il cd. “diritto di Ginevra”.

Il primo relativo alla disciplina dell’uso della violenza bellica tra i belligeranti ed ai rapporti tra belligeranti e neutrali, trova la propria fonte principalmente nelle Convenzioni dell’Aja del 1899 e 19073.

Il secondo relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati e della popolazione civile si è sviluppato a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1864 ed ha trovato sistemazione nelle Convenzioni di Ginevra del 1906,1929 e 19494.

La dicotomia è stata superata grazie ai Protocolli del 1977, addizionali alle quattro Convenzioni di Ginevra e, come ha precisato la Corte internazionale di giustizia nel parere sulla liceità delle armi nucleari del 1996, le due branche si sono fuse in un unico sistema di diritto5.

La presente tesi analizza l’applicazione dell’uso della forza e delle sue cause di giustificazione, tra cui la legittima difesa, durante il cd. ”stato di guerra”.

Pone, inoltre particolare attenzione al passaggio da “stato di

guerra” ad una più generale definizione di “conflitto armato”,

preoccupandosi di fornire gli strumenti giuridici necessari per comprendere il diritto dei conflitti armati.

3 Scott (ed.) , The Hague Conventions and Declarations of 1899 and 1907, II ed., New York, 1915.

4 Schindler D. , The Different Types of Armed Conflict According to the Geneva Conventions and Protocols, RC, 1979-II, 117 ss.

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Appare, infatti chiaro come il diritto dei conflitti armati sia oggetto di un costante aggiornamento, dovuto ad una prassi imponente e ad un processo di codificazione continuo. Di questo se ne descrivono i fondamenti, le fonti, i principi e le garanzie, in modo da fornire una visione ampia ed esauriente, capace di sottolineare le sfide e le continue evoluzioni della materia.

Infine, l’ultima parte del lavoro è dedicata allo studio di un caso recente e controverso della prassi, le guerre civili irachena e siriana.

Ritengo che l’analisi di tali situazioni interessi non solo dal punto di vista squisitamente giuridico, incentrato sulla differenziazione tra guerra civile e conflitto internazionale, ma anche da quello politico e sociale.

E’ stata quindi ritenuta doverosa una riflessione attenta e puntuale delle difficoltà attuali che il diritto internazionale, cosi come le Potenze mondiali, incontrano nel rapportarsi con realtà politiche tese, dove lo scontro tra interessi economici e culturali è tuttora molto forte e spesso causa di incomprensioni, tensioni e difficoltà.

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Parte I) La disciplina dell’uso della

forza nelle relazioni internazionali.

Capitolo I) Gli Stati ed il ricorso alla

forza armata.

1. La disciplina della forza armata

prima dell’entrata in vigore della

Carta delle Nazioni Unite.

Anteriormente al Patto della Società delle Nazioni6, gli Stati godevano di un illimitato “ius ad bellum”, cioè di un illimitato diritto a ricorrere alla guerra.

Non era necessario possedere un titolo giuridico per dichiarare guerra, essa poteva essere dichiarata a tutela di semplici interessi ed era considerata mezzo per la

6 Il Patto della Società delle Nazioni nasce alla fine della prima guerra

mondiale, durante la Conferenza di Pace di Parigi del 1919 e viene adottato come integrazione del Trattato di Versailles (28 giugno 1919) Il trattato contiene i principi di sicurezza collettiva (difesa comune dei facenti parte alla Società delle nazioni contro un aggressore terzo), di risoluzione delle controversie internazionali, della riduzione degli armamenti.

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risoluzione di controversie internazionali, in particolare di quelle politiche.

Una prima manifestazione della tendenza a limitare il ricorso alla forza armata si rinviene nell’art. 1 delle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, relative alla soluzione pacifica delle controversie, con cui gli Stati contraenti convengono di impiegare tutti gli sforzi necessari per il regolamento pacifico delle controversie,

”allo scopo di prevenire nella misura possibile il ricorso alla forza armata nel rapporto tra gli Stati”.

Il Patto (cd. “Covenant”) della Società delle Nazioni era destinato a limitare l’ampia libertà degli Stati di ricorrere alla forza, in particolare l’art. 12 del Patto prevedeva che:

“Tutti i Membri della Società convengono che, se sorge tra di essi una controversia suscettibile di provocare una rottura, la sottoporranno, sia alla procedura di arbitrato o ad un regolamento giudiziario, sia all’esame del Consiglio. Essi convengono ancora che in nessun caso debbono ricorrere alla guerra prima dello di un termine di tre mesi dopo la decisione arbitrale o giudiziaria, o il rapporto del Consiglio”7.

Altra tappa fondamentale del processo volto a limitare ed a bandire il ricorso alla guerra si ha con la conclusione del Patto Kellogg-Briand del 27 agosto 1928 (o “Patto di Parigi” o “di rinuncia alla guerra”).

Esso consta di soli tre articoli e sancisce la rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale e ne condanna il ricorso come strumento per la soluzione delle controversie internazionali8.

7 Rutgers V.H , La mise en harmonie du Pacte de la S.d.N avec le Pacte de Paris, RC, 1931-IV, 1 ss.

8 Mandelstam A.N ,L’interprétation du Pacte Briand-Kellogg par les gouvernements et les parlements des Etats signataires, RGDIP, 1933,

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Queste, ex art. 2, devono essere risolte esclusivamente attraverso mezzi pacifici.

Non venivano però sufficientemente regolate le cd.

“measures short of war” (misure vicine alla guerra), poiché

solo la guerra veniva esplicitamente proibita, non l’intervento, né le rappresaglie armate9.

Importante fu anche l’Accordo di Londra (8 agosto 1945), istitutivo del Tribunale di Norimberga, che definì nell’art. 6 a) la guerra di aggressione un crimine contro la pace, sancendo la natura imperativa della norma che la interdice.

2. La Carta delle Nazioni Unite e le

disposizioni che hanno per oggetto

l’uso della forza armata.

La Carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 24 ottobre 1945, ha sviluppato il processo iniziato col Covenant ed ha definitivamente abolito la libertà di muover guerra. Nella Carta è importante notare che è riportato il termine “forza”, non guerra, per vietare il ricorso anche alle azioni militari che non possono essere tecnicamente definite come guerra.

Si distinguono due gruppi di disposizioni, una riferita all’uso della forza da parte degli Stati individualmente

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considerati, l’altra quelle relative al sistema di sicurezza collettiva che fa capo al Consiglio di sicurezza.

Al primo gruppo appartengono le disposizioni che stabiliscono un divieto generale di usare la forza nelle relazioni internazionali e le relative eccezioni. Il divieto si trova all’art. 2 par. 4, mentre le eccezioni hanno per oggetto la legittima difesa individuale e collettiva (art. 51) e le azioni contro Stati ex nemici (art. 107)10.

Il sistema di sicurezza collettiva è disciplinato dagli artt. 39 ss., al Capitolo VII della Carta. È incluso il ricorso alla forza esercitato direttamente dal Consiglio di sicurezza (art. 42), ma non sono mai state attuate le disposizioni necessarie per l’operatività delle azioni coercitive, è stata quindi la prassi a svolgere un ruolo di supplenza.

Occorre considerare anche alcune Dichiarazioni di principi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che hanno assunto notevole importanza, benché in sé stesse siano mere raccomandazioni.

Si ricorda la risoluzione n. 2625 (XXV) sulle relazioni amichevoli (1970); la n. 3314 (XXIX) sulla definizione di aggressione (1974) e la n. 42/22 del 18 novembre 1987 sul rafforzamento dell’efficacia del principio del non ricorso alla forza nelle relazioni internazionali.

10 Waldock C.H.M. Sir , “The Regulation of the Use of Force by Individual States in International Law”, RC, 1952-II, 455 ss.

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3. Il

contenuto

della

proibizione

stabilita dall’art. 2 par. 4 della Carta

delle Nazioni Unite.

Il divieto dell’uso della forza è un principio fondamentale, da qualificare ormai come norma imperativa del diritto internazionale, almeno nel suo nucleo essenziale relativo al divieto di aggressione.

La Corte internazionale di giustizia nel caso Nicaragua-Stati Uniti ha affermato che il principio del divieto dell’uso della forza, consacrato nell’art. 2 par. 4 della Carta, appartiene al diritto consuetudinario11.

L’art. 2 par. 4 recita : “I membri devono astenersi nelle

loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.”

Occorre in primo luogo accertare il significato del termine

“forza” , determinando se oggetto della proibizione sia

soltanto la minaccia e l’uso della forza armata oppure anche la coercizione economica.

L’art. 2 par. 4 proibisce solo la minaccia e l’uso della forza armata. Ciò è confermato anche dal fatto che durante la Conferenza di San Francisco, che portò all’adozione della Carta, il Brasile propose di qualificare il termine “forza” in modo che fosse inclusa anche la proibizione della coercizione economica, ma l’emendamento brasiliano fu respinto.

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L’art. 2 par. 4 vieta anche la semplice minaccia dell’uso della forza armata, ma tranne alcuni casi macroscopici12.

Oggetto della norma non è qualsiasi minaccia o uso della forza, ma solo quelli esercitati dagli Stati nelle loro relazioni internazionali, ad esempio le misure prese dal governo legittimo per reprimere un’insurrezione non costituiscono un esempio di forza impiegata nelle relazioni internazionali.

L’art. 2 par. 4 precisa come il divieto abbia per oggetto la forza usata sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite13.

I progressi compiuti dall’informatica ed il largo uso che le sue applicazioni hanno nei sistemi d’arma portano a chiedersi se l’impiego di mezzi informatici contro uno Stato possa essere considerato come una violazione dell’art. 2 par. 4 della Carta. Essi per ora esulano da tale trattazione, in quanto riguardano i metodi di combattimento, piuttosto che il ricorso alla forza armata. Tuttavia qualora il sistema informatico sia usato per pregiudicare il sistema economico finanziario di uno Stato, la condotta dello Stato attore ben potrebbe essere considerata lesiva del principio del non intervento14.

12 Ad esempio il 13 ottobre 1998 la Nato lanciò un ultimatum alla

Repubblica federale di Iugoslavia, affermando che avrebbe usato la forza, se non fossero cessati i maltrattamenti sulla popolazione albanese del Kosovo, a cui segui un ordine di attivazione: le forze aeree Nato avrebbero iniziato i bombardamenti entro 96 ore.

13 Elias T.O. ,Scope and Meaning of Art. 2(4) of the United Nations Charter, Contemporary Problems of International Law. Essays in

Honour of G. Schwarzenberger, London, 1988, 70 ss.

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4. Le eccezioni al divieto: a) legittima

difesa.

La legittima difesa è espressamente prevista dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite come eccezione alla proibizione dell’uso della forza nelle relazioni internazionali.

Si tratta di un’eccezione prevista dal diritto internazionale consuetudinario, disposta da una norma che si è formata con l’affermazione del principio del divieto dell’uso della forza.

Ai sensi dell’art. 51: “Nessuna disposizione del presente

Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.

Per “legittima difesa” si intende comunemente la reazione armata da parte di uno Stato ad un attacco armato di un altro Stato, anche se si discute se la legittima difesa possa

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ammettersi anche contro “attori non statali”, come i gruppi terroristici.

L’art. 51 ammette sia la legittima difesa individuale, che è quella alla quale ricorre lo stesso Stato che ha subito l’attacco, sia quella collettiva, che è invece quella alla quale ricorrono altri Stati in soccorso dello Stato attaccato.

La Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto nella sentenza del 1986 sulle Attività militari in Nicaragua, che l’art. 51 corrisponde al diritto internazionale generale. Un primo problema che si è posto nella prassi è se l’art. 51 ammetta la legittima difesa cd. “preventiva”, cioè la reazione armata alla mera minaccia o pericolo di attacco armato altrui. È celebre ed ancora oggi spesso richiamata la formulazione della legittima difesa espressa dal Segretario di Stato americano Webster in una nota del 1841 alla Gran Bretagna, relativa al caso Caroline15, in cui si dichiarava che le eccezioni al rispetto dell’inviolabilità del territorio di Stati indipendenti fossero circoscritte “ai

casi in cui la necessità della legittima difesa è urgente, irresistibile e non lascia la scelta dei mezzi ed il tempo per deliberare” (“instant, overwhelming and leaving no choice of means and no moment for deliberation”).

L’art. 51 però richiede testualmente che un attacco “avvenga” (“occurs”) , affinché possa esercitarsi il diritto di legittima difesa ,sembra quindi riferirsi ad un attacco armato già sferrato o quanto meno iniziato, benché non

15 Il caso Caroline concerne un incidente avvenuto nel 1837 quando in

una ribellione in Canada contro il dominio britannico, col sostegno di volontari americani, le forze britanniche entrarono in territorio statunitense e distrussero la nave Caroline, uccidendo due cittadini americani. La Gran Bretagna invocò la legittima difesa e l’auto-conservazione accusando gli Stati Uniti di non aver adottato misure idonee per impedire alla Caroline di portare aiuto ai ribelli.

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abbia ancora raggiunto l’obbiettivo (cd. “legittima difesa

intercettiva”16).

Una parte minoritaria della dottrina tuttavia fa appello ad un’altra parola del testo dell’art. 51, precisamente all’aggettivo “naturale” (“inherent”), il quale riconoscerebbe il diritto di legittima difesa preventiva vigente in epoca anteriore alla Carta 17 , talvolta richiamando la formula Webster, altre volte riferendosi ad attacchi anche remoti, cioè possibili, ma non certi.

In realtà gli Stati nel loro complesso hanno ripetutamente sostenuto che la legittima difesa preventiva è vietata, in particolare come reazione al pericolo di attacchi meramente ipotetici.

Più recentemente, soprattutto dopo la pubblicazione nel 2002 del documento del Presidente degli Stati Uniti G. W. Bush sulla “Strategia di sicurezza nazionale degli Stati

Uniti”, favorevole agli interventi militari preventivi quando

siano minacciati gli interessi essenziali degli Stati Uniti, nonché in occasione della guerra in Iraq del 2003, il dibattito si è riacceso, sovrapponendosi a quello sulla liceità degli interventi militari contro il terrorismo internazionale.

La soluzione oggi prevalente in dottrina è quella accolta nel rapporto “A more secure world” del 2004, preparato da un High-Level Panel istituito dal Segretario generale delle Nazioni Unite, ritenuto in linea con la formula Webster. Esso ritiene che la legittima difesa preventiva possa eccezionalmente essere ammessa quando l’attacco è già

16 Dinstein Y. , War, aggression and self-defence, 5th edition

,Cambridge University Press , December 2011

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iniziato o è in fieri, anche se non ha ancora colpito l’obbiettivo, o quando vi sono prove certe che l’attacco sia oggettivamente imminente (pre-emptive self-defence). Si esclude invece che uno Stato possa agire in legittima difesa anche in vista di attacchi possibili, ma al momento del tutto remoti ed ipotetici (preventive self-defence), i quali tendono a confondersi con l’aggressione che è certamente vietata.

Occorre dunque, affinché uno Stato possa unilateralmente agire in legittima difesa che si sia verificato o si stia verificando un “attacco armato”.

La nozione di attacco armato è complicata dall’identificazione dei beni che debbono essere oggetto di violenza, affinché si possa reagire in legittima difesa. Tra tali beni rientrano in primo luogo il territorio e gli altri beni che sono la manifestazione degli attributi della sovranità, quali i corpi di truppa lecitamente stanziati all’estero e navi od aeromobili militari.

L’art. 51 della Carta non specifica se l’attacco armato che dà diritto a reagire in legittima difesa debba provenire da uno Stato oppure possa provenire da un’entità non statale.

Il problema si è posto dopo l’attentato terroristico alle Torri gemelle (New York 2001) ed al Pentagono (Washington D.C. 2001), che per la sua magnitudine può essere considerato un attacco armato.

Gli Stati Uniti hanno reagito in legittima difesa contro l’Afghanistan (operazione Enduring Freedom), Stato che ospitava il movimento terroristico.

L’azione degli Stati Uniti è stata avallata dal Consiglio di sicurezza, con le risoluzioni 1368 e 1373 (2001), le quali,

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sia pure nel preambolo, fanno riferimento al diritto di legittima difesa individuale e collettiva.

Infine, anche se l’art. 51 non ne fa cenno, la reazione armata giustificata a titolo di legittima difesa è soggetta, nelle sue modalità di svolgimento, ai requisiti della necessità, dell’immediatezza e della proporzionalità.

Il requisito della necessità, che è da tenere distinto dallo stato di necessità quale giustificazione dell’illecito internazionale, richiede che il ricorso alla forza è ammesso soltanto se non esistono vie alternative pacifiche al raggiungimento del fine della legittima difesa, che è di respingere l’attacco.

Il requisito dell’immediatezza richiede che la forza possa essere impiegata soltanto mentre l’attacco è in corso, o comunque entro un tempo ragionevole, tenuto conto anche della distanza geografica del luogo di dislocazione delle forza militari operanti in legittima difesa.

Il requisito della proporzionalità richiede che la forza ammessa è soltanto quella necessaria al fine di respingere l’attacco e ristabilire lo status quo ante.

La legittima difesa è dunque possibile solo nella misura e per il tempo in cui risulta strettamente necessaria per respingere l’attacco o comunque finché la situazione creatasi con l’attacco non si sia consolidata nel tempo.18

Una condizione che invece l’art. 51 prevede espressamente è l’obbligo per gli Stati membri delle Nazioni Unite di portare a conoscenza del Consiglio di sicurezza le azioni di legittima difesa intraprese.

18 Christodoulidou T. , Chainoglou K. ,The Principle of Proportionality in International Law, Journal for International Law of Peace and Armed

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L’inadempienza però non sembra faccia venir meno la liceità dell’azione di legittima difesa, nonostante costituisca una violazione della Carta, finora comunque non sanzionata.

5. b) L’uso della forza autorizzata dal

consiglio di sicurezza delle Nazioni

Unite.

Il sistema di sicurezza collettiva, di cui al capitolo VII della Carta, fa perno sugli artt. 39 ss., che prevedono un’azione del Consiglio di sicurezza per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tra le misure che esso può intraprendere ex Capitolo VII è previsto anche il ricorso alla forza direttamente da parte del Consiglio (art. 42).

Questa categoria di azioni coercitive presuppone, però l’operatività di alcune disposizioni che non hanno mai trovato attuazione e per le quali la prassi ha svolto un ruolo di supplenza19.

Il Consiglio di sicurezza ha competenza esclusiva in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

Le sue delibere possono consistere in raccomandazioni, che non hanno natura giuridicamente vincolante, ed in decisioni, che invece sono obbligatorie.

19 Schachter S. , United Nations Law in the Gulf Conflict, AJIL, 1991,

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Il Consiglio può anche raccomandare o decidere l’adozione di misure coercitive non comportanti l’uso della forza armata. L’art. 41 in proposito detta un elenco non tassativo di misure, tra cui l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche e radiofoniche oppure la rottura delle relazioni diplomatiche. Possono inoltre adottarsi le cd. “misure provvisorie” ex art. 40, che consistono ad esempio nel cessate il fuoco allo scopo di prevenire l’aggravarsi della situazione.

I poteri di intervento del Capitolo VII spettano non solo in caso di conflitto internazionale, ma anche in caso di guerra civile, qualora quest’ultima metta in pericolo la pace, o in presenza di situazioni interne, come genocidio o altri crimini contro l’umanità20.

Si possono quindi ricostruire tre categorie di operazioni che comportano la dislocazione di truppe in territorio altrui: 1) l’intervento armato da parte del Consiglio di sicurezza ; 2) le operazioni di mantenimento della pace (peace-keeping) ; 3) l’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza.

Le operazioni appartenenti alla prima categoria non hanno mai trovato attuazione, quelle della seconda non hanno caratteri uniformi.

Spesso, infatti il peace-keeping, che consiste in un’operazione volta al mantenimento della pace quando le ostilità sono cessate, si confonde col peace–enforcement, che comporta invece l’uso della forza militare allo scopo di

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ristabilire la pace e la sicurezza nella regione in cui l’intervento ha luogo.

Per quanto riguarda l’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza, nonostante l’esercito delle Nazioni Unite non sia mai stato istituito e quindi in presenza di minaccia o violazione della pace il Consiglio non abbia mai potuto agire direttamente, quest’ultimo ha tuttavia seguito la prassi della cd. “autorizzazione”, autorizzando gli Stati a ricorrere alla forza armata.

Questa prassi ha avuto inizio nel 1950, quando nella prima fase della Guerra di Corea, il Consiglio di sicurezza, essendo assente il rappresentante dell’Unione Sovietica, riuscì ad adottare una delibera con cui raccomandava l’intervento a favore della Corea del Sud; successivamente autorizzò l’uso della bandiera delle Nazioni Unite da parte degli Stati che erano intervenuti e che operavano sotto comando unificato degli Stati Uniti. Tale delibera però non è stata inquadrata nell’art. 42 della Carta, che attribuisce al Consiglio il compito di intraprendere direttamente le azioni contemplate da questa disposizione, ma è da ritenere un esempio di legittima difesa collettiva.

Nonostante la fine della guerra fredda, gli artt. 43 ss. non sono stati attuati , ma la raggiunta unanimità in seno al Consiglio ha consentito, almeno per un decennio dopo la fine della guerra fredda, l’adozione di delibere con cui i membri delle Nazioni Unite erano autorizzati ad utilizzare la forza per conto dell’Organizzazione o su sua delega. Il fondamento di queste delibere autorizzative è da ricercare per alcuni in una consuetudine formatasi in seno alle Nazioni Unite, per altri invece nel combinato disposto

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degli artt. 42 e 48 par. 1 della Carta, secondo cui le azioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, decise dal Consiglio di sicurezza, sono intraprese da tutti i membri delle Nazioni Unite o da alcuni di essi, secondo quanto stabilito dal Consiglio21.

Talvolta si è trattato di operazioni sostitutive a quelle di

peace-keeping o a queste affiancate, come gli interventi in

Somalia (UNOSOM I).

Questa operazione fu autorizzata con la ris. 751-1992 ed aveva lo scopo di porre fine alla guerra civile e di ristabilire adeguate condizioni di vita.

Essa però si trovò nell’incapacità di operare, cosi fu costituita l’UNITAF ( Unified Task Force) con ris. 794-1992, con cui il Consiglio di sicurezza autorizzò il Segretario generale e gli stati membri interessati “ad

impiegare tutti i mezzi necessari per instaurare al più presto le condizioni di sicurezza necessarie per le operazioni di soccorso umanitario in Somalia”22.

Tra gli esempi più recenti si ha l’ISAF (“International

Security Assistance Force”), che è stata istituita con la ris.

1386 del 2001, per assistere l’autorità provvisoria afghana nella ricostruzione del tessuto istituzionale dell’Afghanistan, dopo la cacciata del regime dei Talebani. Recentemente inoltre il Consiglio di sicurezza ha fatto uso del concetto di “responsabilità di proteggere”

(“responsibility to protect” o “R2P” o “RtoP”) nell’autorizzare il ricorso alla forza armata da parte degli Stati.

21 Blokker N. , Is the Authorization Authorized?Powers and Practice of the UN Security Council to Authorize the Use of Force by “Coalitions of

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Nel febbraio del 2011 infatti il Consiglio aveva autorizzato gli Stati membri a prendere tutte le misure necessarie per proteggere i civili dalle violenti misure repressive attuate in Libia dal regime del colonnello Gheddafi, aprendo cosi la strada ad un intervento della NATO.

Ci si chiede se il Consiglio di sicurezza possa autorizzare ex post l’uso della forza e la risposta è affermativa, in quanto si attua una sanatoria di un atto che in sé sarebbe illecito. Si cita a tal proposito l’approvazione del Consiglio dell’operazione ECOWAS, condotta in Liberia nel 1990, senza che fosse autorizzata , ed in particolare la ris.1132 del 1997 con cui si sono legittimate le operazioni di interdizione navale dell’ECOWAS a danno della Sierra Leone.

Va invece respinta la tesi secondo cui il Consiglio possa autorizzare implicitamente gli Stati ad usare la forza, in quanto la situazione dovrebbe comunque ricadere in uno degli atti indicati dall’art. 39 della Carta (minaccia alla pace, rottura della pace o atto di aggressione).

6. c) Le misure contro Stati ex nemici.

Gli artt. 53 e 107 della Carta prevedono le cd. “misure

contro Stati ex nemici”.

È un’ulteriore eccezione al divieto dell’uso della forza armata di cui godono i membri delle Nazioni Unite , individualmente (art.107) oppure associati in un’organizzazione regionale (art. 53).

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Gli Stati contro cui può essere intrapresa un’azione coercitiva sono quelli che sono stati nemici durante la II Guerra mondiale dei firmatari della Carta delle Nazioni Unite, come l’Italia e la Germania.

Le due disposizioni sono volte a salvaguardare gli Stati firmatari contro un ritorno alla politica aggressiva delle Potenze dell’Asse23.

L’applicazione dell’art. 107 fu minacciata dall’Unione Sovietica nei confronti della Repubblica Federale Tedesca, quando questo Stato non era ancora membro delle Nazioni Unite.

È oggi opinione comune che il ricorso alle misure contro Stati ex nemici non sia possibile nei confronti degli Stati ex nemici che siano divenuti membri delle Nazioni Unite24. Si tratta di un’applicazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 2 par. 1 della Carta. Per questo le due disposizioni sono oggi cadute in desuetudine. Per procedere alla loro abrogazione è tuttavia necessario un formale processo di revisione della Carta non ancora attuato.

23 Rottola A. , Le misure contro gli Stati ex nemici previste dagli artt. 53 par.1 e 107 della Carta delle Nazioni Unite, RDI, 1970, 233 ss.

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7. d) Il consenso dell’avente diritto.

Esso opera come una causa di esclusione dell’illiceità, poiché, anche in diritto internazionale, si applica il principio volenti non fit iniuria.

Pertanto, se uno Stato entra in territorio altrui con il consenso del sovrano territoriale non viene commesso alcun illecito.

Il consenso può venire prestato oralmente oppure trovarsi in un accordo internazionale in forma scritta25.

Gli Stati invocano spesso il consenso dell’avente diritto per giustificare l’ingresso in territorio altrui, ma occorrono determinati requisiti, affinché esso possa operare.

In particolare il consenso deve provenire da un ente, la cui manifestazione di volontà sia imputabile allo Stato in cui l’intervento ha luogo. Il consenso deve cioè essere prestato da un governo effettivamente rappresentativo. La manifestazione di volontà del sovrano territoriale deve essere “valida”, non affetta da vizi della volontà (errore, dolo o violenza).

Infine l’azione dello Stato interveniente non deve violare norme che l’obbligano a tenere un determinato comportamento non solo nei confronti dello Stato territoriale, ma anche nei confronti di altri (o tutti) i membri della comunità internazionale, ed il consenso non deve

25 Cassese A. ,The Current Regulation of the Use of Force, Dordrecht,

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essere contrario ad una norma imperativa di diritto internazionale26.

È bene precisare che il consenso dell’avente diritto opera nei limiti entro cui è stato dato, parimenti un consenso dato posteriormente all’ingresso in territorio altrui non può essere considerato come una causa di esclusione del fatto illecito, ma semplicemente come una rinuncia a far valere le conseguenze dell’illecito, tranne quando si sia violata una norma imperativa, come il divieto di aggressione27.

8. e) L’intervento a protezione dei

cittadini all’estero.

Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite era considerato lecito l’uso della forza a protezione dei cittadini all’estero, quando questi versassero in pericolo di vita e lo Stato territoriale non fosse in grado o non volesse ad esempio per complicità con gruppi terroristici, disporre adeguate misure per la loro protezione28.

26 Abass A. , Consent Precluding State Responsibility: A Critical Analysis, ICLQ, 2004, 211 ss.

27 Hafner G. , Present Problems of the Use of Force in International Law: Sub-Group on Intervention by Invitation, Report submitted at the

Naples Session of the IDI (2009), Annuaire de l’IDI, vol. 73, 2009, 297 ss.

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È dubbio se tale diritto, che costituirebbe un’eccezione all’uso della forza distinta dalla legittima difesa, sia ancora possibile.

Gli Stati occidentali ammettono la liceità dell’uso della forza a protezione dei cittadini all’estero, ma i paesi del terzo mondo ne affermano la contrarietà al diritto internazionale.

La prassi attesta come l’intervento a protezione dei cittadini all’estero sia stata effettuata più volte dagli Stati occidentali.

Taluni autori affermano che l’intervento a tutela dei propri cittadini all’estero costituisca esercizio del diritto di legittima difesa, ma in realtà esso è un’autonoma eccezione al divieto generale dell’uso della forza29.

Per poter legittimamente intervenire occorre che si verifichino specifici presupposti, come l’esistenza di un serio pericolo di vita per i cittadini dello Stato interveniente e la mancanza di volontà o incapacità da parte dello Stato territoriale di salvarli.

Si ha un problema di liceità quando manca il consenso del sovrano territoriale all’intervento, altrimenti esso funziona come causa di esclusione del fatto illecito.

Ad esempio la Repubblica federale di Germania intervenne nel 1977 a Mogadiscio col consenso del governo somalo, per liberare passeggeri ed equipaggio di un aereo della Lufthansa dirottato dai terroristi.

29Cassese A. (ed.) , The Current Regulation of the Use of Force,

(24)

9. f) L’intervento di umanità ed il cd.

“dovere d’ingerenza umanitaria”.

Viene definito “intervento di umanità” l’uso della forza per proteggere i cittadini dello Stato territoriale da trattamenti inumani e degradanti.

Se attuato mediante l’uso della forza è da ritenere illecito e la sua illegittimità è stata ribadita dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 1986 nel caso Nicaragua-Stati Uniti.30

Esso a differenza di quello a protezione dei cittadini all’estero comporta una prolungata presenza nel territorio altrui ed un mutamento di regime nello Stato territoriale. È stata prospettata la tesi di un “dovere d’ingerenza

umanitaria”, inteso come una sorta di obbligo facente

capo alla comunità internazionale per far fronte alle situazioni di grave violazione dei diritti dell’uomo.

Talvolta si fa riferimento ad un “diritto di ingerenza”, facendo risaltare la facoltà di intervenire in territorio altrui. Questo cd. “dovere d’ingerenza umanitaria” non ha però nessuna base giuridica nell’ordinamento internazionale. La prassi internazionale è contraria alla liceità dell’intervento d’umanità, con la conseguenza che l’ingerenza umanitaria per essere giuridicamente ammissibile deve essere fondata sulle tradizionali cause

(25)

di esclusione del fatto illecito, oppure essere decisa o autorizzata dal Consiglio di sicurezza31.

La Commissione di Diritto Internazionale nel commento all’art. 25 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati ha escluso che lo stato di necessità possa essere invocato a giustificazione dell’intervento umanitario32.

Tuttavia questo intervento non costituisce aggressione se è effettivamente diretto a salvaguardare la popolazione dello Stato territoriale da trattamenti inumani ad opera del governo al potere o con la sua connivenza. Per questo motivo l’illiceità può essere sanata ex post, con una successiva risoluzione del Consiglio, come è avvenuto per l’intervento della Nato in Kosovo (ris. 1244-1999).

10 g) Il problema della rilevanza di altre

cause di esclusione del fatto illecito.

E’ da chiedersi se in relazione alla proibizione dell’uso della forza nelle relazioni internazionali possano essere invocate altre tradizionali cause di esclusione del fatto illecito che rendano legittimo il ricorso alla forza armata. L’entrata in vigore della Carta ha reso inammissibili le rappresaglie comportanti l’uso della forza armata e gli

31 Dupuy R.J (sous la direction de) , Le développement du rôle, cit., 169

ss.

32 Focarelli C. La dottrina della responsabilità di proteggere e l’intervento umanitario, RDI, 2008, 317 ss.

(26)

Stati consapevoli di tale implicito divieto preferiscono affermare che la loro azione è qualificabile come legittima difesa33.

La rappresaglia si ha quando lo Stato offeso reagisce contro un illecito già consumato, non qualificabile come attacco armato o comunque non più produttivo di ulteriori effetti lesivi, mentre la legittima difesa si ha quando uno Stato reagisce contro un attacco armato in atto. Ma non è sempre facile distinguere tra le due fattispecie.

Altra causa di esclusione dell’illecito spesso invocata prima dell’entrata in vigore della Carta è lo stato di

necessità, che consente di agire in territorio altrui per far

fronte ad un pericolo grave ed imminente per un interesse essenziale, nonostante che lo Stato i cui diritti vengono lesi sia innocente, non gli sia cioè imputabile alcun illecito internazionale.

È escluso che tale stato di necessità possa essere invocato per giustificare la violazione di una norma imperativa del diritto internazionale34.

Si potrà però invocare lo stato di necessità per prevenire una catastrofe naturale che metta in pericolo la popolazione delle regioni di confine e ci sia l’impossibilità di ottenere il consenso dello Stato territoriale.

Altre tradizionali cause che possono giustificare la violazione dell’altrui sovranità territoriale sono ad esempio la forza maggiore ed una situazione di distress.

Nella forza maggiore un evento esterno induce l’individuo-organo a violare una norma giuridica, la violazione qui è cosciente a differenza del caso fortuito, ma l’individuo-

33 Bowett D. W. , Reprisals Involving Recourse to Armed Force, AJIL,

(27)

organo non può comportarsi altrimenti, perché la situazione di forza maggiore è “irresistibile, imprevista ed

esterna”, cioè al di fuori della sua volontà.

Nella situazione di distress o di estremo pericolo l’individuo-organo è costretto a violare una norma giuridica allo scopo di salvare sé o altri a lui affidati da un pericolo grave.

In questo caso il bene da salvare è una vita umana e non un interesse essenziale dello Stato come nello stato di necessità35.

11 La legittima difesa collettiva.

L’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite attribuisce agli Stati il diritto alla legittima difesa individuale e collettiva. Ciò significa che uno Stato, benché non sia oggetto di un attacco armato può intervenire a favore di uno Stato che abbia subito un tale attacco.

È necessario però un precedente vincolo tra i due Stati interessati, come un trattato di alleanza difensiva, oppure un’esplicita richiesta di aiuto da parte dello Stato vittima dell’attacco36.

Stando a quanto ha puntualizzato la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) nel caso Nicaragua: “E’ lo Stato vittima

35 Focarelli C. Le contromisure nel diritto internazionale, Milano, 1994,

147 ss.

36 Lamberti Zanardi A. , La legittima difesa nel diritto internazionale, cit.

276 ss. ; Alexandrov Stanmir A. ,Self Defense Against the Use of Force

(28)

dell’attacco armato che deve affermare di essere stato vittima di un tale attacco. Nessuna norma consuetudinaria permette ad un altro Stato di esercitare il diritto di legittima difesa collettiva sulla base di un proprio accertamento dei fatti.

Nelle ipotesi in cui è invocata la legittima difesa collettiva, occorre attendersi che lo Stato a beneficio del quale tale diritto è utilizzato abbia dichiarato di essere vittima di un attacco armato”.

Ad oggi la legittima difesa collettiva è stata invocata in pochi casi, ad esempio gli Stati Uniti l’hanno invocata nel caso del Vietnam per giustificare la loro azione militare a sostegno del Vietnam del Sud.

Il diritto di legittima difesa collettiva è stato richiamato anche nella risoluzione del Consiglio di sicurezza adottata a seguito dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990 e della richiesta di aiuto effettuata dal governo kuwaitiano in esilio (ris. 661 del 1990).

12 Patti militari per l’organizzazione della

difesa collettiva.

Questi patti sono dovuti alla mancata attuazione del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite ed organizzano preventivamente la difesa collettiva, sono quindi perfettamente legittimi, purché conformi all’art. 51.

(29)

Uno dei primi patti stipulati in materia di legittima difesa collettiva in Europa è il Patto di Bruxelles del 1948, successivamente emendato col Protocollo di Parigi del 1954. L’art. V prevedeva un obbligo di assistenza automatico a favore della vittima dell’attacco armato. Il Trattato di Lisbona prevede una clausola sulla legittima difesa collettiva (art.42 par.7 del Trattato sull’Unione Europea) in virtu della quale “qualora uno Stato subisca

un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto ed assistenza con tutti i mezzi in loro possesso in conformità all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite”.

Anche nel Trattato istitutivo della Nato, all’art. 5, viene trattato questo tema, in particolare : “ le Parti convengono

che un attacco armato contro una o piu di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti e, di conseguenza, convengono che ,se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse , nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la Parte o le Parti cosi attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre Parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego della forza armata per ristabilire e mantenere la sicurezza nella zona dell’Atlantico settentrionale”37.

L’art. 5 non comporta un obbligo di assistenza automatico, poiché ciascuno Stato dovrà apportare l’assistenza che giudicherà “necessaria”.

37 Durante F. , Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), Enc. Dir. Vol. XXXI, 1981, 211 ss.

(30)

Esso è stato attivato per la prima volta dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti.

Il Trattato Nato definisce anche i beni che rientrano nel meccanismo di legittima difesa collettiva, ex art. 6 essi sono territorio di uno stato membro, forze armate, navi ed aeromobili di una delle Parti.

Si ricorda anche il Patto di Varsavia del 1955 tra i Paesi del blocco sovietico e sorto in contrapposizione alla Nato, non più in funzione dal 31 marzo 1991 e successivamente abrogato38.

Si hanno poi il Trattato interamericano di assistenza reciproca (o Trattato di Rio) del 1947 ed il successivo Protocollo di San Josè del 1975.

Patti per la difesa collettiva sono stati conclusi anche nel continente africano, tra cui il Patto di non-aggressione e di difesa comune dell’Unione Africana (2005) ed il Patto della Regione dei Grandi laghi su sicurezza, stabilità e sviluppo (2006)39.

(31)

Parte II) Il diritto dei

conflitti armati.

Capitolo I) Concetti generali.

1. Fondamenti

del

diritto

internazionale

dei

conflitti

armati.

Il diritto internazionale dei conflitti armati, o diritto internazionale umanitario, pone le norme e i principi che restringono la libertà degli Stati nel condurre le ostilità, allo scopo di contenere i mali derivanti dalla guerra, ma nei limiti imposti dalla necessità militare, disciplinando il comportamento dei belligeranti nelle loro relazioni reciproche e l’atteggiamento degli organi della violenza bellica nei confronti delle popolazioni civili.

Come espressamente statuito nella IV Convenzione dell’Aja del 1907, tuttora in vigore, il diritto dei conflitti armati nasce dall’esigenza di impedire che, in assenza di norme scritte (codification), l’uso della violenza bellica sia lasciato all’arbitrio dei comandanti militari. Nella definizione che ne ha dato la Corte Suprema americana “le leggi di guerra

(32)

sono quella parte del diritto delle Nazioni che prescrive, in funzione della condotta della guerra medesima, lo status, i diritti e i doveri degli Stati che si fronteggiano e degli individui che partecipano alle ostilità”.40

Il diritto internazionale dei conflitti armati è un ramo del diritto internazionale pubblico. Come tale riguarda in misura preponderante i rapporti tra gli Stati ed indirizza prioritariamente le proprie prescrizioni agli organi statali. Le persone protette dalle norme internazionali godono in linea di principio di una tutela riflessa, in quanto bisognevole dell’intermediazione dello Stato di cui l’individuo è cittadino o all’interno della cui giurisdizione si trova.

Il diritto internazionale cd. “di pace” cessa di operare tra i belligeranti, almeno in alcune sue importanti norme, come quella sul rispetto della sovranità ed inizia ad applicarsi il diritto internazionale dei conflitti armati, il cui scopo essenziale è appunto limitare per quanto possibile la violenza bellica nei confronti degli individui, regolando sia la condotta delle ostilità, sia la protezione delle vittime.

Fondamento del diritto internazionale dei conflitti armati è il divieto della gratuità, cioè degli atti che non sono strettamente necessari (e per questo appaiono “inumani”) a conseguire lo scopo delle operazioni belliche.

Sono proibiti quindi gli atti di violenza che risultano inutili o sproporzionati rispetto al fine che l’atto si propone.

Tutti i belligeranti hanno un eguale interesse al divieto degli atti di violenza gratuiti41.

Nella terminologia meno recente il “diritto internazionale di

guerra e di neutralità” disciplina la condotta delle ostilità tra i

(33)

belligeranti inter se e tra i belligeranti ed i terzi, mentre il

“diritto internazionale umanitario” in senso stretto regola il

trattamento delle vittime della guerra ( feriti, naufraghi, prigionieri di guerra, civili).

Il primo è perlopiù codificato nelle Convenzioni dell’Aja del 188942 e del 190743.

Il secondo trova la sua disciplina nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 e nei due Protocolli del 1977 addizionali alle convenzioni di Ginevra del 1949.

La tendenza più recente tuttavia, avallata dal parere della Corte Internazionale di Giustizia del 1996 sulle Armi nucleari44 è di considerare i due settori come unico sistema normativo e denominarlo “diritto internazionale umanitario”, sottolineando cosi che l’intero corpo delle norme operanti nei conflitti armati è essenzialmente finalizzato alla protezione di standard minimi di umanità.

Pare quindi imprescindibile collocare il diritto internazionale dei conflitti armati tra le norme dirette a proteggere la persona umana, siano militari o civili le persone protette, nella specifica situazione del conflitto armato, piuttosto che collocarlo tra le norme dirette a regolare la guerra in quanto tale, intesa cioè come fatto “naturale” o “fisiologico” delle relazioni internazionali.

Il fine delle norme del diritto internazionale umanitario, ed il

42 Le tre convenzioni e le tre dichiarazioni dell’Aja del 1899 sono in

vigore sul piano internazionale dal 4 settembre 1900, attualmente in media per una trentina di Stati, compresa l’Italia. Sono state rese esecutive nell’ordinamento italiano con r.d il 9 dicembre 1900 n. 504 e sono in vigore per l’Italia dal 4 settembre 1900.

43 Le tredici Convenzioni dell’Aja del 1907 sono in vigore sul piano

internazionale dal 26 gennaio 1910. L’Italia figura solo nella X Convenzione sull’adattamento dei principi della Convenzione di Ginevra del 1906 alla guerra marittima.

44Corte internazionale di giustizia, parere sulla liceità della minaccia e dell'uso delle armi nucleari, 8 luglio 1996

(34)

valore che esse perseguono, è di tutelare tutti gli individui che si trovano, seppur in diversa misura, coinvolti in un conflitto armato, sia di carattere internazionale che interno, ed a prescindere dal fatto che lo stesso abbia avuto inizio in modo lecito o illecito, laddove il divieto del ricorso alla forza armata è diretto a garantire la sicurezza globale del sistema internazionale.

2. Dalla teoria dello “stato di

guerra” a quella del conflitto

armato.

Fino all’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945), il dualismo tra diritto internazionale di pace e diritto internazionale di guerra era accettato.

Il primo era diritto “normalmente” applicabile, talmente elastico ed onnicomprensivo da regolare anche procedimenti violenti non bellici, quali la rappresaglia, il blocco pacifico e l’intervento, le cd. “misure vicine alla

guerra”.

Il secondo diveniva applicabile non appena uno Stato avesse esercitato il diritto di far guerra (“ius ad bellum”). Si veniva cosi ad instaurare lo “stato di guerra” e si applicavano le cd. norme dello “ius in bello”.

Questa situazione, chiara in teoria, non lo era affatto nella pratica, non essendo possibile stabilire con certezza se un

(35)

conflitto armato dovesse essere definito “guerra” e si fosse di conseguenza validamente instaurato lo “stato di guerra”. Secondo la maggior parte della dottrina lo stato di guerra era la conseguenza della manifestazione della volontà, cd.

“animus bellandi”, di un soggetto dell’ordinamento

internazionale, espressa mediante una dichiarazione formale di guerra in conformità alla III Dichiarazione dell’Aja del 1907 , oppure desumibile da fatti concludenti.

Si ricorda ad esempio la definizione del giurista e politico tedesco H.B Oppenheim (1819-80) fondata sulla “volontà

del belligerante di giungere alla completa sottomissione dell’avversario allo scopo di dettare le condizioni di pace che piu gli paiono opportune”45.

Questa concezione è stata criticata da altri, tra cui Y. Dinstein ,che ha precisato come talvolta le ostilità possano ricadere nella nozione di guerra, pur avendo un obbiettivo più limitato.

L’incertezza circa l’esistenza, nel caso concreto, dello stato di guerra si è aggravata dopo l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite.

Gli Stati evitano di qualificare come esercizio dello “ius ad

bellum” il ricorso alla forza armata data la sua proibizione,

stabilita dalla Carta, e visti i controlli e le autorizzazioni cui, nelle democrazie parlamentari, sono sottoposti gli esecutivi in ordine alla possibilità di “dichiarare guerra”.

Dopo l’entrata in vigore della Carta il termine “guerra”, come nozione giuridica, non viene cancellato, ma accanto ad esso compare la nozione di “conflitto armato” ed entrambi i fenomeni vengono assunti come condizione di applicabilità delle successive convenzioni, in particolare per evitare che

(36)

gli Stati, affermando di non essere in guerra, omettano di applicare il diritto umanitario.

Ci si chiede dunque se la nozione di conflitto armato possa sostituire ed adempiere le funzioni prima svolte dallo “stato

di guerra”.

Osservando la prassi di conflitti recenti si nota come determinati effetti, che un tempo erano riconducibili automaticamente alla guerra ed al conseguente instaurarsi di uno stato di guerra, oggi siano prodotti anche da altre cause, mentre altri effetti non siano più automaticamente riconducibili.

Vi sono stati casi in cui le misure dei conflitti armati sono state applicate in occasione di conflitti che non erano qualificati come guerra da nessuna delle parti in conflitto. Esse sono state genericamente giustificate mediante il ricorso alla legittima difesa.

Si applicano in questi casi la IV Convenzione di Ginevra del 1949 e le disposizioni pertinenti del I Protocollo addizionale, che hanno per oggetto la protezione della popolazione civile nei territori occupati.

Ugualmente si applica il diritto umanitario, cioè quel complesso di norme che ha per oggetto il trattamento della popolazione civile, dei naufraghi e dei prigionieri di guerra, e le disposizioni in materia di mezzi e metodi di combattimento contenute nel I Protocollo addizionale.

Non sempre invece si verifica che i diritti di belligeranza degli stati parte del conflitto nei confronti dei terzi discendano automaticamente dallo stato di guerra.

Anche se i contendenti si dichiarano reciprocamente in guerra, essi non potrebbero esercitare automaticamente il

(37)

diritto di visita nei confronti delle navi neutrali o bloccare le coste dell’avversario.

La prassi tende a collegare gli atti di belligeranza al diritto di legittima difesa, con la conseguenza che solo gli atti di belligeranza compatibili con l’esercizio di questo diritto sono ritenuti legittimi.

Ugualmente non c’è automatismo nel ritenere che i trattati tra due Stati siano travolti dallo stato di guerra, lo sono solo quelli il cui mantenimento in vigore è incompatibile con la situazione creatasi a causa dello stato reale delle ostilità. L’effetto estintivo può essere ricondotto non allo stato di guerra, ma all’applicazione in via analogica della clausola

rebus sic stantibus, nella sua configurazione di causa di

estinzione dei trattati.

Quindi nonostante il termine “conflitto armato” non abbia ancora sostituito quello di guerra, lo sviluppo verso la completa abolizione di quest’ultima nozione appare ormai marcata, essendo essa divenuta “ a relic of a past time”46.

Occorre però precisare che l’instaurazione di un conflitto armato non produce automaticamente tutte le conseguenze che un tempo erano riconducibili allo stato di guerra.

L’esistenza di un conflitto armato, infatti comporta l’applicazione automatica delle norme di diritto umanitario, ma la liceità di altre misure, ad esempio la lotta al contrabbando imbarcato su navi neutrali, dovrà essere valutata sotto un diverso titolo giuridico, consistente nella legittima difesa.

46 Schindler D., State of War, Belligerency, Armed Conflict, Editoriale

(38)

3. Definizione di conflitti armati:

a) Internazionali

Il diritto internazionale umanitario si applica in presenza di un conflitto armato internazionale o interno.

Si ha un conflitto internazionale “quando uno o più Stati

ricorrono alla forza armata contro un altro Stato”47.

Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa è conflitto armato internazionale “qualsiasi divergenza

(difference) che sorge tra due Stati e che conduce all’intervento di forze armate”.

Non è sempre agevole stabilire se si è in presenza di un conflitto armato internazionale, quando gli scontri tra gli Stati sono a bassa intensità, o di guerriglia o soltanto sporadici. Di solito si esclude che i singoli incidenti di frontiera diano luogo ad un conflitto armato, il che significa che il criterio dell’uso di forze armate adottato dal Comitato della Croce Rossa non è l’unico, rilevano anche gli effetti distruttivi.

L’utilizzo del criterio del mero uso delle forze armate oggi, dato l’impiego di contractors privati, di aerei senza pilota (drones) e di forze militari con compiti diversi dal combattimento si rivelerebbe problematico ed insufficiente. Un conflitto internazionale inizia con l’apertura di fatto delle ostilità, a prescindere se la guerra sia stata dichiarata o meno.

E’ altresì irrilevante la circostanza che i belligeranti non riconoscano uno “stato di guerra” ciascuno nei confronti

(39)

dell’altro, cosi come la circostanza che un belligerante non abbia riconosciuto formalmente il nemico come Stato o il suo governo48.

Per l’applicazione del diritto internazionale umanitario è sufficiente la sussistenza di un “conflitto armato” che si svolga tra le forze armate di due o più Stati, a prescindere se questi Stati si considerino o meno coinvolti in uno stato di guerra49.

Alla categoria dei conflitti internazionali non appartengono solamente i conflitti tra Stati, ma anche le guerre di liberazione nazionale o conflitti di autodeterminazione. Si tratta di conflitti in cui un popolo non ancora costituitosi in Stato indipendente, lotta contro il governo al potere per realizzare il diritto all’autodeterminazione.

L’assimilazione dei conflitti per l’autodeterminazione ai conflitti armati interstatali ed il loro conseguente inserimento tra i conflitti armati internazionali è fatto recente, dovuto ai processi di decolonizzazione violenta.

La qualificazione delle guerre di liberazione come conflitti interstatali ha avuto luogo in virtù del I Protocollo addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 194950.

48 Art 2 comma 1 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra “Oltre alle disposizioni che devono entrare in vigore già in tempo di pace, la presente Convenzione si applica in caso di guerra dichiarata o di qualsiasi altro conflitto armato che scoppiasse tra due o più delle Alte Parti contraenti, anche se lo stato di guerra non fosse riconosciuto da una di esse.”

49 Mancini M., “Stato di guerra e conflitto armato nel diritto internazionale”, Torino, 2009,p.

50 Art.1 Par. 4 del Protocollo addizionale del 1977 “Le situazioni indicate nel paragrafo precedente comprendono i conflitti armati nei quali i popoli lottano contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro i regimi razzisti, nell’esercizio del diritto dei popoli di disporre di sé stessi, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati in conformità della Carta delle Nazioni. “

(40)

Prima della sua entrata in vigore i conflitti per l’autodeterminazione erano disciplinati dal diritto relativo ai conflitti interni. La loro riqualificazione però vale solo per gli Stati parte del I Protocollo, non potendosi ammettere che l’art. 1 par. 4 sia diventato diritto consuetudinario.

Inoltre affinché le Convenzioni di Ginevra ed il I Protocollo trovino applicazione nei rapporti governo costituito movimento di liberazione nazionale occorre non solo che il primo abbia ratificato il Protocollo, ma anche che il secondo abbia notificato al depositario una dichiarazione in cui affermi che intende applicare le Convenzioni ed il I Protocollo (art 96 par.3 del I Protocollo).

Conviene osservare come tra i conflitti per l’autodeterminazione non siano compresi i conflitti promossi da minoranze etniche, in quanto queste non sono titolari del diritto di autodeterminazione ex art 1 par. 4 del I Protocollo addizionale del 1977.

Ugualmente non vengono assimilati a conflitti internazionali i fenomeni di mera secessione, tranne nel caso in cui il popolo , che coesiste insieme ad altri in uno Stato federale indipendente, si trovi nei confronti del governo al potere in una situazione di dominazione coloniale, razzista o di

“occupazione straniera”.

Occorre sottolineare come l’espressione “war on terror” o

“war on terrorism” è semplicemente un’espressione

politologica, in quanto per poter riconoscere un conflitto armato internazionale sono necessari due belligeranti51. Bisogna infine ricordare che coloro che prendono parte ai conflitti armati internazionali sono normalmente considerati legittimi combattenti, con la conseguenza che non possono

(41)

essere puniti per gli atti di belligeranza compiuti; in caso di cattura vengono considerati prigionieri di guerra.

4. b) Interni

Per “conflitto armato” si intendono oggi anche i conflitti interni.52

In passato le guerre civili ricadevano nel dominio riservato degli Stati e non erano regolate dal diritto internazionale, salvo i diritti e gli obblighi esistenti nei rapporti tra lo Stato nel cui territorio l’insurrezione aveva luogo e gli Stati terzi. Dopo la seconda guerra mondiale sono state introdotte norme internazionali che disciplinano anche i conflitti interni, definiti “non internazionali”.

Si tratta dell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e dell’art. 1 del II Protocollo addizionale del 1977.

L’art. 3 si limita a richiedere, per la sua applicazione, l’”esistenza di un conflitto armato”, senza specificare il livello del conflitto, mentre l’art. 1 del II Protocollo addizionale definisce esplicitamente la soglia del conflitto ed esclude la sua applicazione in caso di tensioni e disordini interni, come sommosse o atti isolati e sporadici di violenza. Per parlare di conflitto interno occorrono scontri all’interno di uno Stato tra il governo e gruppi ribelli dotati di un livello di organizzazione tale da poter condurre operazioni militari

52 T.Hadden, C. Harvey , The Law of Internal Crisis and Conflicts, in

(42)

prolungate nel tempo, ovvero in assenza di un governo stabile, tra due o più fazioni dotate di analogo livello di organizzazione.

L’art. 3 comune corrisponde al diritto internazionale consuetudinario53 e prevede una serie di obblighi di trattamento umanitario minimo a carico sia del governo legittimo che degli insorti.

L’art. 3 comune contiene anche un meccanismo diretto a far sì che le parti in un conflitto interno si accordino per favorire l’applicazione integrale delle Convenzioni di Ginevra alla situazione in atto. Auspica, infatti il secondo comma che le parti del conflitto interno si sforzino di porre in vigore mediante accordi speciali le altre disposizioni contenute nelle Convenzioni.

L’art. 3 comune, che ha soprattutto scopi umanitari, prevedendo al suo interno una serie di disposizioni dirette a proteggere in ogni circostanza i diritti fondamentali di coloro che, trovandosi coinvolti in un conflitto non internazionale, non partecipano in modo attivo alle ostilità, è sviluppato e completato dal II Protocollo addizionale dell’8 giugno 1977. Anche il II Protocollo ha scopo eminentemente umanitario. Nel preambolo si legge, infatti che gli strumenti di tutela dei diritti umani già forniscono alla persona umana una protezione di base, che però necessita di essere rafforzata in relazione alle situazioni di conflitto armato.

Il II Protocollo disciplina i conflitti che non rientrano nel novero dei conflitti internazionali, con ciò intendendosi i conflitti tra due o più Stati e, per gli Stati che hanno ratificato il I Protocollo del 1977, le guerre di liberazione nazionale e

(43)

quelle combattute contro l’occupazione straniera e i regimi razzisti.

Secondo la Camera d’appello del Tribunale per la ex-Jugoslavia, il II Protocollo è per gran parte dichiarativo di norme di diritto internazionale consuetudinario54.

Nel II Protocollo vengono regolamentati aspetti ulteriori rispetto alla semplice protezione umanitaria, inclusa la condotta delle ostilità. Lo strumento si applica altresì a particolari situazioni di conflitto, vale a dire durante i conflitti armati che si svolgono tra le forze armate dello Stato e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che esercitano su una parte del territorio un controllo tale da consentire loro di condurre operazioni militari prolungate e

pianificate (concerted), e che siano potenzialmente in grado

di implementare il Protocollo medesimo.

5. c) L’occupazione militare

L’occupazione militare (occupatio bellica) riguarda il territorio o la parte di territorio di uno Stato che si venga a trovare nel corso di un conflitto armato internazionale sotto l’autorità effettiva e stabile dell’esercito nemico, a prescindere dall’intento che l’ha motivata.

Essa si distingue dall’“occupazione” come titolo di acquisto della sovranità territoriale e dall’annessione.

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