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L'azione di rivalsa da parte dell’INAIL Avv. Pasquale Varone

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L'azione di rivalsa da parte dell’INAIL

Avv. Pasquale Varone*

Premessa

La trattazione dell'azione di rivalsa degli enti gestori dell'assicurazione sociale coinvolge tutta la problematica del danno alla persona, sulla quale si sono ampiamente soffermate sia la

dottrina che la giurisprudenza, anche della Corte Costituzionale, con una produzione vastissima che evidenzia come quello del danno alla persona e della sua valutazione sia uno degli argomenti più dibattuti nel campo della responsabilità civile.

L'analisi che in questa sede si compie è rivolta, oltre che a ricostruire, sia pure sinteticamente, gli istituti della rivalsa degli enti gestori di assicurazioni sociali obbligatorie (ed in particolare dell'INAIL), a definire l'influsso che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha avuto sull'azione di rivalsa svolta dagli enti suddetti.

L'evoluzione giurisprudenziale è così rapida che oggi, come elemento rilevante al fine di delimitare i contenuti e le modalità di attuazione di detta azione, non può prescindersi dal considerare, accanto alla Corte Costituzionale, anche la giurisprudenza della Corte di

Cassazione formatasi, può dirsi in questi ultimi giorni (ci si riferisce in particolare alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 3288 del 13.2/14.4.1997).

L'azione di rivalsa ed il danno alla persona

L’azione di rivalsa la quale configura una successione a titolo particolare dell'assicuratore che abbia fornito le sue prestazioni all'assicurato, nei diritti di quest'ultimo verso il terzo responsabile incontra un limite oggettivo per quanto riguarda l'an debeatur. Infatti l'assicuratore in sede di rivalsa può richiedere soltanto il danno che avrebbe potuto esigere il danneggiato, vale a dire il danno civilistico depurato, nel caso di concorso della responsabilità del danneggiato con quella del danneggiante, della quota di responsabilità del danneggiato.

Ciò con la precisazione che il credito dell'Istituto assicuratore non è soggetto, in caso di concorso di colpa dell’infortunato con il datore di lavoro ad una riduzione proporzionale al grado del

concorso, ma trova come unico limite, nel quantum, nel complessivo ammontare del risarcimento che sarebbe dovuto dal responsabile dell’infortunio secondo le regole generali del ristoro dei danni

da fatto illecito (Cass. n. 7669 del 20.8.1996, Sez. Lav.).

L'esistenza di tale limite all'azione di rivalsa dell'assicuratore, esso privato o pubblico, porta ad analizzare preliminarmente cosa si intenda per danno alla persona.

Il primo rilievo che si impone è quello che le norme del codice Civile non dettano disposizioni particolari per il danno alla persona. Le disposizioni che si applicano a tale tipo di danno sono medesime che valgono per qualsiasi altro danno. Pertanto anche il danno alla persona, ai sensi del codice civile deve essere liquidato sulla base della perdita che il danneggiato ha subito e del mancato guadagno, con la possibilità di ricorrere all'equità allorché non sia possibile pervenire ad una esatta quantificazione del danno.

In sostanza, sul piano strettamente normativo, non si ritengono disposizioni specifiche che consentano di identificare con esattezza quale sia l'oggetto della tutela in caso di danno alla persona e quale sia il criterio per liquidare tale danno.

In tale assenza di precise disposizioni di legge si è inizialmente affermato l'indirizzo, sia in dottrina che in giurisprudenza, di prendere in considerazione i riflessi di carattere patrimoniale prodotti dall'evento lesivo e non già l'evento lesivo in sé stesso.

* Avv. generale INAIL, Roma

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Un diverso ed anzi opposto orientamento (che vediamo recepito nella sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 14.7.1986) è stato introdotto da quella dottrina, vicina alle ricostruzioni operate in sede medico-legale e dalla giurisprudenza (a partire da quella del Tribunale di Genova) e che ravvisano nel danno alla persona un danno biologico inteso quale (danno "evento" o danno base e non come danno "conseguenza".

Nella concezione tradizionale al danno, inteso come conseguenza della lesione o della perdita della vita sul piano patrimoniale (art. 2043 c.c), valutata in base alla capacità lavorativa, si affianca il danno non patrimoniale (alias: morale) il quale tende ad ovviare non già alle conseguenze patrimoniali bensì alle sofferenze sopportate dal soggetto leso (art. 2059 c.c.).

La giurisprudenza poi, fin dagli anni '30 accanto alle figure del danno patrimoniale e del danno morale aveva introdotto il cosiddetto danno alla vita di relazione, vale a dire quel danno che consiste nelle lesioni dell'integrità fisica che si riflettono non già sulla capacità di produrre reddito bensì su altri aspetti dell'esistenza umana.

Tale danno alla vita di relazione che venne considerato suscettibile di tutela in quanto generava effetti pregiudizievoli che possono essere valutati dal punto di vista patrimoniale (Corte d'Appello di Milano, 24.11.1931) preludeva al danno alla salute (considerato criterio alternativo a quello tradizionale per il ristoro del danno alla persona) che è stato enucleato inizialmente dalla giurisprudenza del Tribunale di Genova, la quale ha avuto il pregio di porre in discussione il principio secondo il quale l'unico criterio per quantificare il danno alla persona doveva considerarsi il reddito.

Nell'ambito del danno alla salute (danno biologico non è più sostenibile che il danno alla capacità di produrre reddito sia il parametro per valutare il danno alla persona in quanto si ritiene che esso riguardi i vari aspetti della vita in cui l'uomo si manifesta e non solo la sua capacità lavorativa.

Al danno alla salute venne riconosciuta rilevanza ai sensi dell'art. 32 della Costituzione al quale venne data una interpretazione diversa da quella tradizionale puramente pubblicistica e l'introduzione del cosiddetto danno biologico, quale danno alla salute, impose la necessità di una rideterminazione concettuale del danno civile posto che il reddito non era più uno strumento idoneo per la ponderazione di lesioni fisio-psichiche. E parte della dottrina procedette a tale rideterminazione attraverso il rilievo che il danno va considerato patrimoniale in base ad una valutazione sociale tipica dell'attitudine della lesione a generare una riduzione dei valori e dei vantaggi economici di cui il soggetto leso potrebbe fruire.

Ma la figura del danno alla salute elaborata dalla giurisprudenza e dalla dottrina non avrebbe avuto l'ampia diffusione che oggi ha raggiunto, con i suoi riflessi anche sull'azione di rivalsa di cui sono titolari gli enti gestori dell'assicurazione sociale obbligatoria se non fossero stati posti in essere molteplici interventi giurisprudenziali della Corte Costituzionale.

Di tali interventi sarà tracciato, in prosieguo, sia pure per sommi capi, l'evolversi.

Attuali limiti all'azione di rivalsa dell'INAIL

Le considerazioni fin qui svolte evidenziano come l'azione di rivalsa dell'ente gestore dell’assicurazione obbligatoria, nel mentre sussiste solo nel limite del danno civilistico che il soggetto danneggiato (ed indennizzato dall'ente) avrebbe potuto esigere, ora viene a subire un limite ulteriore.

Intatti il soggetto infortunato in quanto abbia subito una lesione alla salute (danno biologico) è titolare di un diritto proprio, riconosciuto, dall'art. 32 della Costituzione al ristoro di tale danno, e ciò a prescindere da quanto ad esso erogato dall'INAIL (che indennizza la perdita di capacità lavorativa) e senza che il suo diritto sia subordinato all'essere il danno risarcibile, complessivamente considerato, superiore all'ammontare della indennità corrisposta dall'INAIL (è questo infatti l'effetto della sentenza n. 485/91 della Corte Costituzionale che ha dichiarato la parziale incostituibilità dell'art. 10 del T.U. 1965 n. 1124).

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Tutto ciò è l'effetto della giurisprudenza dapprima di merito (Tribunale di Genova) e poi della Corte Costituzionale che ha evidenziato come il danno biologico non attenga alla perdita di capacità lavorativa ma alla lesione di altri beni (es.: perdita o riduzione della facoltà di svolgere attività culturali, sportive, ecc.).

Quindi allo stato, l'azione di rivalsa dell'ente assicuratore non può più esercitarsi fino a consentire la surroga dell'ente stesso nel diritto dell'assicurato ad essere indennizzato per la lesione alla propria integrità nei riflessi che essa ha in tutte le sfere di relazione del soggetto leso (danno biologico).

I due distinti profili dell'azione di rivalsa dell’INAIL

Occorre ora procedere alla esatta individuazione delle azioni di rivalsa degli enti previdenziali ed in particolare dell'INAIL.

Agli enti previdenziali spetta il diritto di rivalsa nei confronti del soggetto (terzo) responsabile dell'evento lesivo.

Accanto all'azione di surroga dell'assicuratore nella specie ente previdenziale si pone un'altra rivalsa, dai connotati peculiari, esprimibile dall'INAIL nei riguardi del datore di lavoro del soggetto indennizzato da detto istituto allorché l'infortunio sia conseguenza di un reato procedibile d'ufficio commesso dallo stesso datore di lavoro o da un dipendente del cui operato egli, in base ad una norma di legge, debba rispondere.

Tale rivalsa dell'INAIL non è quindi diretta verso un terzo, come surroga, bensì verso una parte del rapporto assicurativo (il datore di lavoro) che nella normalità dei casi , vale a dire in assenza di un suo comportamento che integri una fattispecie di reato procedibile d'ufficio, è esonerato da responsabilità.

Per questi suoi connotati, tale azione non può considerarsi come surroga. Infatti essa non determina una successione a titolo particolare nel diritto di un altro soggetto, come si verifica nel caso di surroga dell'assicuratore su un diritto di obbligazione originario e non derivato dell'ente, il quale avendo effettuato un'erogazione per conto di un altro soggetto può esigere da quest'ultimo quanto erogato (Losco, pag. 328). Detta azione va sotto il nomen iuris di azione di "regresso" e trova il suo fondamento negli articoli 10 e 11 del D.P.R. 30.6.1965 n. 1124.

In entrambe le fattispecie sia di surroga che di regresso dell'INAIL il danneggiato ha diritto al risarcimento del danno effettivo ma non ha titolo per ricevere un doppio indennizzo, a carico cioè dell’assicurazione e del responsabile dell'infortunio, per lo stesso evento.

Ciò in base al principio "indennitario" in forza del quale la prestazione assicurativa non può trasformarsi in un lucro per l'interessato.

L'azione di surroga degli enti erogatori di prestazioni sociali obbligatorie

L'azione di surroga dell'ente erogatore di prestazioni obbligatorie, nei confronti dei terzi, estranei al rapporto assicurativo retta, come premesso, dall'art. 1916 c.c. può esercitarsi solo per gli stessi importi quantitativi della indennità che l'ente ha erogato e nei limiti, esclusivamente, dell'obbligazione per danno civilistico del responsabile dell'infortunio.

Il danno civilistico, posto che l'ente che agisce in surrogazione non può avere diritto ad un risarcimento superiore a quello che avrebbe potuto esigere il danneggiato, deve essere valutato con le detrazioni che comporta l'eventuale concorso di colpa del danneggiato, come in precedenza accennato.

L'azione va proposta innanzi al giudice ordinario (e non a quello del lavoro) ed il terzo responsabile può opporre solo le eccezioni relative al rapporto tra il danneggiante ed il danneggiato.

Il terzo non può opporre eccezioni fondate sul rapporto assicurativo (rapporto interno). Ha tuttavia la possibilità di provare l'inesistenza del rapporto e di eccepirla.

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L'azione si prescrive nel termine previsto per l'obbligazione originaria che essendo da fatto illecito sarà soggetta, a seconda dei casi, alla prescrizione biennale o quinquennale.

I casi di responsabilità civile del datore di lavoro si sono ampliati per effetto della sentenza della Corte Costituzionale 9.3.1967 n. 22 la quale ha dichiarato incostituzionale l'art. 4, III comma, del Regio decreto 17.8.1935 n. 1765 nella parte in cui limitava la responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio sul lavoro, derivante dal reato, alla ipotesi in cui fosse stato commesso dagli incaricati della direzione o sorveglianza e non anche dagli altri dipendenti del cui fatto il datore di lavoro stesso debba rispondere secondo il codice civile.

Detti soggetti responsabili o corresponsabili dell’infortunio a causa della condotta da essi tenuta in attuazione dei loro compiti di preposizione, o di meri addetti all'attività lavorativa sono, peraltro, estranei al rapporto assicurativo.

Da tale circostanza è scaturito un notevole divario giurisprudenziale.

Infatti accanto alla giurisprudenza (Cass., Sez. Lav., n. 8467 del 18.10.1994; Cass., sez. lav., 5077 del 7.9.1988; Cass., Sez. III, n. 2463 del 7.4.1983; Cass., Sez. Lav., n. 1077 del 4.2.1987) la quale configurava l'azione dell'Istituto avverso detti soggetti estranei al rapporto assicurativo come azione di "regresso" ex artt. 10 ed 11 D.P.R. 1-965 n. 1124 in quanto essi rappresentano pur sempre organi o strumenti a mezzo dei quali il datore di lavoro ha violato le norme antinfortunistiche, si è formato un diverso orientamento che configurava quella dell'INAIL contro il responsabile dei lavori come azione di "surroga", per la quale non è competente il Pretore in funzione di giudice del lavoro bensì, il giudice civile identificato a seconda del valore della causa (Cass., Sez- lav., n. 7532 del 13.8.1996; Cass., n. 12340 del 14.12-1993).

Tale contrasto è stato ora superato dalla sentenza n. 3288 del 16.4.1997 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che muovendo dalla considerazione che l'art. 11 comma I del T.U. 1965 n.

1124 nel prevedere il diritto di regresso dell'INAIL verso le "persone civilmente responsabili", richiama l'art. 10 il cui terzo comma contempla sia il datore di lavoro che coloro che egli ha incaricato della direzione o sorveglianza (previsione che ai sensi della sentenza n. 22/1967 della Corte Costituzionale si deve intendere riferita a tutti i dipendenti) è pervenuta a ritenere che è la legge stessa ad individuare detti dipendenti come soggetti passivi dell'azione di "regresso" (e non di surroga) dell'INAIL.

Circa i rapporti tra azione di surroga e ristoro del danno biologico, è da rilevare che la circostanza che la giurisprudenza della Corte Costituzionale avesse qualificato il diritto alla salute bene costituzionalmente garantito non inciderebbe secondo una autorevole dottrina (Gennaro Giannini, "Surroga INAIL e danno biologico", in Diritto e pratica nell'assicurazione, anno 1990 fasc. 4, parte I, pag. 581) sulla natura del risarcimento del danno da lesione della salute che è pur sempre un credito pecuniario, in quanto tale suscettibile di trasferimento ad altri e quindi assoggettabile anche all'azione di surroga dell'INAIL.

Ma quale è l'ambito del risarcimento sul quale l'INAIL può agire in surroga? Esso comprende anche la parte del risarcimento dovuta per indennizzare il danno biologico?

La stessa autorevole dottrina fornisce a tale quesito una risposta positiva. Ciò in quanto la perdita di capacità lavorativa generica che l'INAIL indennizza sarebbe un aspetto del danno biologico, riguardando quest'ultimo l'uomo in tutte le sue manifestazioni.

Quindi, poiché l'INAIL indennizza in base a tale tesi un danno biologico sussistente una identità di titoli fra quanto erogato e quanto richiesto dall'Istituto in sede di azione di surroga.

A tale tesi si ispira la copiosa giurisprudenza, specie di merito, che riconosce all'INAIL una parte del quantum del ristoro dovuto per il danno biologico nel caso in cui lo stesso abbia origini professionali.

La surroga dell'ente previdenziale, ai sensi della legislazione speciale, in tema di assicurazione obbligatoria di veicoli a motore e natanti

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Ai sensi dell'art. 28 della legge n. 990 del 1969 (che integra il disposto dell'art. 1916 c.c.

nell'ipotesi di danni, all'assistito da un ente previdenziale, derivanti dalla circolazione di veicoli a motore e natanti) gli enti gestori di assicurazioni sociali obbligatorie possono agire in via surrogatoria non nei riguardi del terzo responsabile bensì direttamente nei confronti dell'assicuratore.

Pertanto, mentre la surroga dell'assicuratore ex art. 1916 c.c. può esercitarsi, verso il responsabile del danno e non verso il suo assicuratore nella specie il legislatore ha introdotto il principio opposto (pur verificandosi sempre in materia qualificabile come successione nel credito).

Anche con riferimento a tale specifica azione di surroga, disciplinata dalla legge sull'assicurazione

obbligatoria di autoveicoli e natanti, è risultato determinante, onde deferirne i limiti, l'intervento della Corte Costituzionale.

Infatti il legislatore con l'art. 28 della legge n. 990 del 1969 aveva considerata prioritaria l'esigenza di reintegrare gli enti previdenziali dei costi dagli stessi subiti, pervenendo a dare la precedenza in caso di insufficienza del massimale a soddisfare totalmente le esigenze dell'assistito che non fosse stato totalmente indennizzato dagli enti stessi per il danno subito al soddisfacimento della rivalsa degli enti previdenziali.

Peraltro la Corte Costituzionale con la sentenza n. 319 del 6.6.1989 ponendosi in una linea di continuità con la sentenza n. 88 del 1979 la quale aveva affermato che il bene afferente alla salute è tutelato come diritto fondamentale non è ipotizzabile alcun limite alla sua risarcibilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. ha evidenziato come l'integrità della salute sia un fondamentale diritto dell'individuo tutelato dal precitato art. 32 Cost.

Sulla base di tali premesse, la Corte Costituzionale, con la sentenza sopra citata, è pervenuta a dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 28, commi 2, 3 e 4 della legge 1960 n. 990 nella parte in cui non esclude che gli enti gestori di assicurazioni sociali possano esercitare l'azione surrogatoria con pregiudizio del diritto dell'assistito al risarcimento del danno alla persona che non sia stato altrimenti risarcito.

Concludendo sul punto dei danni derivanti da circolazione di veicoli a motore e di natanti, è da rilevare che enti previdenziali sono titolari di due distinte azioni surrogatorie:

• un'azione ai sensi dell'art. 1916 c.c. nei confronti del responsabile (e non suo assicuratore) che è soggetta al solo limite dell’ammontare dovuto al danneggiato;

• un'azione, ai sensi dell'art. 28 della legge 1969 n. 990 e con le limitazioni introdotte per effetto della sentenza n. 319/1989 della Corte Costituzionale a tutela dei diritti del danneggiato nei confronti del solo assicuratore del responsabile, per il rimborso delle prestazioni erogate dagli enti i quali potranno agire solo nei limiti del risarcimento dovuto al danneggiato e del massimale assicurativo.

Per effetto della sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, il giudice prima di prendere in considerazione le domande di surroga proposta dall'ente previdenziale contro l'assicuratore del terzo responsabile dell'infortunio da circolazione di autoveicoli o natanti dovrà dare la precedenza alla domanda dell'assicurato verso l'assicuratore di essere risarcito dei danni alla persona che non siano stati altrimenti risarciti (Cass. 7587/1991).

L'azione di regresso dell'INAIL

Come si è in precedenza accennato l'azione prevista in favore dell'INAIL, dagli articoli 10 ed 11 del T.U. 1965 n. 1124 si differenzia dalla surroga e viene qualificata di regresso in quanto con essa l'INAIL, chiede il rimborso degli indennizzi erogati all'infortunato allorché, sia accertata con sentenza penale la responsabilità del datore di lavoro o di un soggetto del cui operato egli debba

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civilmente rispondere facendo valere in giudizio non già un diritto altrui bensì un diritto proprio che nasce direttamente dal rapporto assicurativo (Cass., Sez. III sent 2003 del 7.4.1979).

Tale azione è esperibile in caso di condanna penale del datore di lavoro o di un suo dipendente incaricato della direzione o della sorveglianza dei lavori nonché per effetto della sentenza n.

22/1967 della Corte Costituzionale di qualsiasi altro suo dipendente del cui operato debba rispondere civilmente.

Nella realtà potrà quindi verificarsi che un’azione penale al datore di lavoro che sia stato assolto in tale sede penale, per non aver commesso il fatto, dalla imputazione di aver direttamente partecipato al reato da cui è derivato l'infortunio (e che quindi non debba rispondere a titolo di responsabilità diretta) possa essere chiamato a rispondere per il reato da cui sia derivato l'infortunio commesso invece dal suo dipendente (responsabilità indiretta).

Pertanto il giudicato penale che abbia mandato assolto il solo datore di lavoro non preclude l’accertamento in sede civile dei presupposti della responsabilità indiretta (ex art. 2049) che consistono nella relazione di occasionalità necessaria tra l’attività lavorativa dell’autore del reato e la commissione del fatto illecito nonché nella sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra l’imprenditore e l’autore del reato (Cass., Sez. III, n. 260 del 19.1.1977).

L’azione promossa dall’INAIL in sede di regresso dà luogo ad una controversia in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, regolata dagli articoli 442 e seguenti del codice di procedura civile per cui competente è il giudice del lavoro. Questi sarà, ai sensi dell’art. 444 c.p.c., comma terzo, il giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente (Cass., Sez. Lav. n. 550 del 21.1.1987) e trattandosi di controversia previdenziale non si applica alla stessa, ai sensi dell’art. 3 della legge 7.10.1969 n. 742, la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale.

Rapporti tra giudizio penale per il fatto da cui è derivato l’infortunio e l’azione di regresso dell’INAIL

Con la sentenza n. 102 del 19.6.1981 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimi gli articoli 10 e 11 del D.P.R. 30.6.1965 n. 1124 nella parte in cui precludono in sede civile l’esercizio del regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro allorché il procedimento penale (promosso contro di lui od un suo dipendente), per il fatto dal quale l’infortunio è derivato si sia concluso con sentenza di assoluzione, sebbene l’istituto non sia stato posto in grado di partecipare a detto procedimento penale.

La stessa sentenza ha dichiarato illegittimo il comma 5 del precitato articolo 10 nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL l’accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il giudizio penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia un provvedimento di archiviazione.

La medesima sentenza ha poi, coerentemente con le sopra riportate declatorie ritenuto illegittimi gli articoli 11 e 10 sopra citati nella parte in cui dispongono che l’accertamento dei fatti materiali (compiuto in un giudizio penale a carico del dipendente) sia vincolante nel giudizio civile a carico del datore di lavoro il quale sia restato estraneo al giudizio penale per non essere stato posto in condizioni di intervenirvi.

Parimenti è stato ritenuto illegittimo l’art. 10 per la parte in cui non consente che il giudice civile, adito in sede di regresso dell’Istituto, possa compiere l’accertamento del fatto reato nei casi in cui la sentenza penale di condanna non faccia stato nel giudizio promosso dall’INAIL.

Anche per quanto riguarda i rapporti tra il giudizio penale per il fatto da cui è derivato l’infortunio e l’azione di regresso dell’INAIL la giurisprudenza costituzionale ha quindi dato un contributo determinante.

La giurisprudenza della Cassazione (Sez. Lav. n. 2740 del 18.3.1987) ha compiuto ulteriori puntualizzazioni precisando che il principio enunciato dalla sentenza n. 102/1981 della Corte Costituzionale (non vincolarità degli accertamenti dei fatti materiali oggetto del giudizio penale, nei

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confronti del datore di lavoro, convenuto in sede civile, che sia restato estraneo al giudizio penale perché non posto in grado di intervenirvi) non preclude al giudice civile adito dall’INAIL in sede di regresso di utilizzare, sottoponendoli ad un autonomo vaglio critico, gli elementi probatori raccolti nel processo penale. Ciò al fine di trarne conseguenze nei confronti del datore di lavoro restato estraneo al processo penale (e con la possibilità di ritenere superfluo lo svolgimento di ulteriore attività istruttoria).

In sostanza per effetto di detta sentenza della Corte Costituzionale si sono ampliate le fattispecie nelle quali è possibile per l’INAIL agire in regresso, in quanto tale azione è possibile innanzi al giudice ordinario (il quale può accertare che il fatto che ha provocato l’infortunio costituisce reato, ai fini della condanna del datore di lavoro in sede di regresso dell’INAIL) non solo nelle ipotesi di estinzione dell’azione penale per morte dell’imputato o per amnistia o per prescrizione del reato (ipotesi quest’ultima introdotta dalla sentenza n. 22 del 9.3.1967 della Corte Costituzionale), bensì anche in tutti i casi sia intervenuta una sentenza di proscioglimento ma l’INAIL sia restata estranea al giudizio penale perché non posta in grado di intervenirvi.

Termini di prescrizione e decadenza dell’azione di regresso dell’INAIL

L’azione di regresso dell’INAIL si prescrive nel termine di tre anni dal giorno nel quale la sentenza penale è divenuta irrevocabile (art. 112, ultimo comma del T.U. 1965 n. 1124).

Il medesimo articolo 112, ultimo comma stabilisce che il giudizio civile di cui l’art. 11 non può istituirsi dopo trascorsi tre anni dalla sentenza penale che ha dichiarato di non doversi procedere per morte dell’imputato o per amnistia (ora, anche per prescrizione).

La parte prevalente della giurisprudenza (ampiamente citata nella sentenza delle Sezioni Unite n.

3288/1997) riteneva che il termine triennale previsto nell’azione di regresso doveva considerarsi termine di prescrizione, suscettibile pertanto di interruzione da parte dell’INAIL; una giurisprudenza più sporadica qualificava tale termine come di prescrizione.

E’ di pochi giorni or sono la sentenza n. 3288 del 13.2 - 16.4.1997 delle Sezioni Unite della Cassazione che ha ritenuto di superare tale contrasto ravvisando nelle due parti in cui si articola il V comma dell’art. 112 T.U. 1965 n. 1124, due distinte prescrizioni riferite a due fattispecie diverse.

L’una è quella in cui in sede penale sia mancato un accertamento del fatto reato, per essere intervenuta una sentenza penale istruttoria di non doversi procedere (per amnistia; per morte del reo; per intervenuta prescrizione).

In tale fattispecie il termine triennale previsto dalla prima parte di detto comma V deve ritenersi secondo detta sentenza di decadenza e decorre dal momento del passaggio in giudicato della sentenza.

L’altra fattispecie è quella che sia intervenuta una sentenza penale di condanna del datore di lavoro o di un suo dipendente per il fatto che ha dato luogo all’infortunio, passata in giudicato. In tale ipotesi, disciplinata dalla seconda parte del comma V, il termine triennale deve considerarsi di prescrizione.

La sentenza in questione merita la massima attenzione perché reca una sintesi completa delle varie e tra loro contrastanti pronunce della stessa Suprema Corte ed è frutto di una accurata analisi dell’azione di regresso dell’INAIL nei suoi caratteri essenziali quali sono stati delineati anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Se un rilievo può essere mosso alla sentenza delle Sezioni Unite in esame, pur dandosi atto del pregevole sforzo ricostruttivo compiuto, è quello che l’azione di regresso dell’INAIL, nella sua unitarietà e tipicità dovrebbe essere assoggettata, ad un termine di prescrizione che dovrebbe essere lo stesso, quale che sia stato l’esito del giudizio penale rivolto ad accertare se il fatto da cui è derivato l’infortunio configuri o meno un reato ascrivibile al datore di lavoro od a un suo dipendente.

Infatti tale azione (come ritenuto da Cass. 8/4/1989 n. 1707 e da numerose altre sentenze da essa richiamate) sorge con il pagamento da parte dell’INAIL delle indennità all’infortunato e può essere

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esercitata anche nel corso del procedimento penale di accertamento del fatto natura (da prescrizione a decadenza) in relazione al contenuto della sentenza, inoppugnabile, intervenuta nel giudizio penale.

Altro profilo che desta perplessità quello di ancorare il decorso del termine di decadenza dell’azione di regresso dell’INAIL al dies a quo del passaggio in giudicato della sentenza istruttoria di non dover precedere (per morte; amnistia; prescrizione del reato) sentenza di cui l’INAIL può non avere conoscenza alcuna perché non ha partecipato al giudizio.

L’esistenza di siffatto termine di decadenza appare tra l’altro scarsamente conciliabile con la precitata giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha escluso che l’INAIL possa (al pari del datore di lavoro) essere pregiudicata nei suoi diritti da accertamenti compiuti in giudizi penali ai quali non ha preso atto per non essere stato posto in condizione di partecipavi.

Né sembra persuasiva l’argomentazione, che leggesi nella parte motiva della sentenza secondo cui la interpretazione da essa fornita dall’art. 112 V comma del T.U. 1965 n. 1124 eviterebbe una irrazionale disparità di trattamento tra l’INAIL e l’infortunato la cui azione è sottoposta dallo stesso articolo 112 comma V, prima parte, ad un termine di decadenza.

Infatti non si scorge come possa esservi disparità di trattamento in presenza di due azioni diverse, l’una, quella dell’infortunato, rivolta a far valere la responsabilità civile del datore di lavoro, l’altra, quella dell’INAIL, è rivolta non già a far valere una responsabilità civile del datore di lavoro ma ad esercitare un diritto (di regresso) che non trova necessariamente in detta responsabilità il suo fondamento.

Peraltro malgrado tali rilievi deve riconoscersi alla suddetta sentenza delle Sezioni Unite il pregio di aver cercato di superare un divario giurisprudenziale fonte di gravi incertezze per quanto riguarda l’operato degli enti pubblici in sede di regresso, rinvenendo una ratio della norma che è in armonia con le esigenze che vanno sempre più affermandosi nell’ordinamento, anche a seguito della legge n. 241/1990 di un rapporto più chiaro e più rapidamente definibile tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni.

Tale ratio è stata infatti ricevuta nel “consentire un rapido accertamento delle responsabilità nei rapporti tra Istituto assicurato e datore di lavoro e nell’interesse di quest’ultimo, senza consentire indefinitamente della possibilità di prove”.

La ratio legis della I parte del comma V dell’art. 112 T.U. 1965 n. 1124 come sopra riavvisata dalle Sezioni Unite;

• la qualificazione di regresso e non surroga data dall’azione svolta dall’INAIL contro i lavoratori, diversi dall’infortunato, responsabili dell’illecito compiuto in esecuzione del lavoro cui erano proposti o addetti (oltre che contro il datore di lavoro) con la conseguente qualificazione della relativa controversia come previdenziale e quindi rientrante nella competenza per materia del giudice di lavoro, qualificazione che evita una defatigante scissione del giudizio promosso dall’INAIL contro il datore di lavoro da quello promosso contro i suoi dipendenti (quest’ultimo se considerato azione di surroga doveva passare dal giudice del lavoro a quello ordinario);

• la puntualizzazione che i termini sia di decadenza che di prescrizione decorrono comunque non dalla data della pronuncia della sentenza penale (come riteneva un certo indirizzo giurisprudenziale) bensì dal suo passaggio in giudicato con il superamento del contrasto giurisprudenziale sul punto;

• la puntualizzazione che l’azione di regresso è azione speciale prevista nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria “con finalità generali di prevenzione che presiedono alla disciplina non sottraendo i diretti responsabili del danno all’integrità o alla salute del lavoratore all’azione di rivalsa dell’Istituto che, almeno per certi aspetti ha efficacia monitoria persino maggiore dell’eventuale azione spiegata dall’interessato o dai suoi aventi causa ed anzi costituendo una ulteriore remora alla osservanza delle norme poste a prevenzione degli infortuni”;

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• la precisazione che l’INAIL “non ha bisogno di azione in regresso se vi è stata la sentenza che ha accertato la responsabilità del datore o dei preposti perché questa sentenza costituisce l’INAIL in credito verso la persona civilmente responsabile”;

• l’influsso che ha sulla valutazione della natura giuridica del termine di cui all’articolo 112 del T.U. 1965 n. 1124, la mutata disciplina della pregiudiziale penale, sono, queste sopra sintetizzate, tutte puntuali affermazioni che si trovano ampiamente esplicitate nella parte motiva della sentenza in questione delle Sezioni Unite della Cassazione.

Esse rivelano uno sforzo di “riassetto” della materia del regresso pregevole e di cui si avverta la necessità.

Ne è risultata più compiutamente delineata nei suoi contenuti e nelle sue finalità tale speciale azione riconosciuta all’ente erogatore di prestazioni obbligatorie, anche se certamente, dall’individuazione del temine triennale come di decadenza nel caso di sentenza penale istruttoria (e non dibattimentale di condanna, da cui inizia a decorrere un termine parimenti triennale ma di prescrizione) deriva un particolare onere di diligenza a carico dell’ente stesso che dovrà seguire, non senza difficoltà, l’esito di giudizi penali ai quali è estraneo onde non incorrere in decadenze.

Ma si tratta, per gli enti, di un onore in qualche modo compensato dalla chiarezza che le Sezioni Unite hanno con tale sentenza operato in materia di regresso e che agevolerà, superandosi i numerosi contrasti giurisprudenziali, l’esperimento di tale azione (rischio di decadenza a parte).

Ciò anche se si ha l’impressione che la sentenza stessa, atteso l’intenso travaglio dottrinale e giurisprudenziale che caratterizza tale materia, ove si scontrano interessi tra di loro confliggenti, alimenterà un vasto dibattito proprio sul punto della adeguatezza della motivazione della scissione del temine triennale, per l’azione di regresso, a seconda del contenuto della sentenza penale, termine di decadenza e di prescrizione.

Infatti se è venuta meno per effetto dell’art. 654 c.p.p. la pregiudiziale penale nel suo contenuto tipico, una certa “priorità” del giudizio penale, come suscettibile di influire sulla qualificazione del termine per l’azione di regresso, certamente (e forse inconsapevolmente) è riemersa per effetto dalla sentenza de quo delle Sezioni Unite.

Azione di regresso e danno biologico: effetti della giurisprudenza della Corte Costituzionale ed evoluzione della stessa

L’esame finora compiuto dell’azione di regresso porta ora a prendere in considerazione un particolare profilo, dibattutissimo, che è quello degli effetti che la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di danno biologico ha sulla stessa. A tal fine appare necessaria una sia pure breve esposizione del contenuto e della evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale.

1. Sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 26.7.1979 Appartiene al ricovero delle sentenze interpretative di rigetto.

Era stata prospettata alla Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. in quanto non comprende la risarcibilità del danno alla salute autonomamente considerato rispetto sia alle conseguenze economiche del fatto lesivo sia al danno morale.

La Corte ha ritenuto che l’ambito di applicazione dell’art. 2059 c.c. ricomprende ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica, compreso quello alla salute (e, nella specie, ricorrevano i presupposti per applicare tale norma perché era intervenuta una sentenza penale di condanna), sicché cade il presupposto su cui era fondata l’ordinanza di rimissione che non sarebbe possibile accordare alcun risarcimento per i danni non patrimoniali diversi dalle sofferenze fisiche e morali.

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E’ implicito in tale sentenza, come rilievo in dottrina da Guido Alpa (in una nota a sentenza apparsa su Giurisprudenza Italiana 1980 parte I Sez. I Pag. 9) il concetto che l’art. 2043 c.c. sarebbe da considerarsi incostituzionale qualora non consentisse la tutela del danno biologico.

Si tratta di una sentenza importante in quanto anticipa le successive pronunce della stessa Corte che ammettono la risarcibilità del danno biologico ai sensi del 2043 c.c.. L’evoluzione giurisprudenziale nel punto può ritenersi allo stato concluso con la sentenza n. 372 del 27 ottobre 1994 (sul cosiddetto danno biologico da morte) nella quale si afferma che in via di principio per tutelare il danno da lesione del diritto alla salute può trovare applicazione per analogia iuris, 2043 c.c..

2. La sentenza n. 184 del 14 luglio 1986

Il Tribunale di Genova aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale (in riferimento agli articoli 3 e 32 Cost.) dell’art. 2059 c.c. nella parte in cui prevede che il danno biologico sia risarcibile solo in conseguenza di un reato.

La Corte ha dichiarato con la sentenza n. 184 non fondata la questione di legittimità affermando che in base al diritto “vivente” l’art. 2059 che riguarda esclusivamente i danni morali subiettivi e non esclude che altre norme consentano il risarcimento del danno biologico; ha inoltre ritenuto che in base al diritto vivente è l’art. 2043, letto in relazione all’art. 32 Cost. a disciplinare il ristoro del danno biologico.

La Corte ha rivelato come l’art. 2059, recante soltanto una riserva di legge, faccia riferimento con l’espressione “danno non patrimoniale” al solo danno morale subiettivo che costituisce un

“danno conseguenza” mentre il danno biologico costituisce l’evento del fatto lesivo della salute;

esso è un tipo di danno che si identifica con un tipo di evento (e la Corte considera la locuzione

“danno alla salute” come equivalente a quella “danno biologico”).

Secondo la Corte, pur essendo il danno biologico nettamente distinto dal danno morale subiettivo tuttavia può trovare applicazione l’art. 2059 c.c. ove dalla lesione alla salute derivi una ulteriore conseguenza, (vale a dire il danno morale subiettivo) ed il fatto lesivo concretizzi un reato.

La Corte riavvisa nella ingiustizia insita nel fatto menomativo dell’integrità psicofisica il fondamento giuridico del risarcimento del danno biologico, ed ove condividendone le conclusioni, la dottrina e la giurisprudenza che hanno allargato la nozione di danno ex art. 2043 c.c. fino a comprendere tutte le menomazioni, ivi compreso il danno biologico, direttamente valutabili in denaro.

E qui compiutamente delineato il quadro normativo ove si colloca il ristoro del danno biologico:

al di fuori dell’art. 2059 c.c. (che presuppone il reato ed un danno “conseguenza”) e nell’ambito dell’art. 2043 c.c..

L’effettivo contenuto di tale quadro normativo verrà ulteriormente puntualizzato, come si vedrà in prosieguo, dalla sentenza della stessa Corte Costituzionale n. 372/1994, di cui si tratterà in seguito.

3. Sentenza della Corte Costituzionale n. 319 del 6.6.1989

Con tale sentenza, già citata in precedenza nel presente scritto, accogliendo una gestione sollevata dal Tribunale di Roma, circa l’illegittimità dell’art. 28, commi 2, 3 e 4 della legge 24 dicembre 1969 n. 990, nella parte in cui prevede in deroga al principio della par condicio creditoum una prelazione o prededuzione in favore dell’ente gestore dell’assicurazione sociale sulla indennità dovuta dall’assicuratore della responsabilità civile (a sfavore dell’assistito che non sia stato integralmente indennizzato dall’assicurazione sociale in relazione al danno subito), ha dichiarato l’illegittimità della norma suddetta nella parte in cui non esclude che gli enti gestori delle assicurazioni sociali possano esercitare l’azione surrogatoria con pregiudizio del diritto dell’assistito al risarcimento dei danni alla persona non altrimenti risarcibili.

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L’effetto di tale pronuncia è stato quello di evitare che, dandosi la precedenza al ristoro dell’ente gestore di previdenza obbligatoria il danneggiato assistito dall’ente potesse restare insoddisfatto a causa di una insufficienza del massimale.

La sentenza si inserisce in una linea di continuità di valutazioni della Corte stessa nel ritenere che “nel nostro ordinamento la integrità personale è configurata come fondamentale diritto dell’individuo con la prescrizione del dovere della Repubblica di tutelarlo (art. 32 della Costituzione) nonché con il riconoscimento di una surroga da parte dell’istituto di previdenza dotata dei connotati della prelazione.

E’ in sostanza ancora logica del diritto primario alla salute che ha ispirato la Corte Costituzionale in questa sentenza che riduce, in un vasto numero di casi, le possibilità dell’Ente previdenziale nelle fattispecie d’infortuni dovuti a responsabilità del terzo per circolazione di autoveicoli e natanti di conseguire in via di surroga verso l’assicuratore l’intero ammontare di quanto da esso Istituto erogato al danneggiato.

4. La sentenza n. 87/1991 della Corte Costituzionale

Con tale sentenza la Corte Costituzionale ha rigettato la questione di costituzionalità, sollevata dal Pretore di Torino, degli articoli 2, 3 e 74 del D.P.R. 30.6.1969 n. 1124 in quanto in contrasto con gli articoli della Costituzione 3, 32 I comma, 35 I comma e 38 II comma nella parte in cui non prevedono il risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore nello svolgimento ed a causa delle sue dimensioni.

La Corte, pur avendo accolto una eccezione dell'Avvocatura dello Stato di inammissibilità della questione perché si risolveva nel richiedere un intervento ampliativo che doveva ritenersi riservato al legislatore, ha compiuto alcune importanti affermazioni.

Infatti, dopo aver rilevato che il danno biologico in se considerato deve ritenersi risarcibile da parte del datore di lavoro secondo le regole che governano la responsabilità civile di quest'ultimo, ha segnalato come le stesse ragioni che avevano indotto a ritenere insoddisfacente la tutela ordinaria e ad introdurre la tutela sociale obbligatoria contro il rischio per il lavoratore di infortuni e malattie professionali capaci di incidere sulla attitudine al lavoro, inducendo a ritenere necessario che anche il rischio delle menomazioni dell'integrità psicofisica del lavoratore prodottosi nello svolgimento ed a causa delle sue mansioni, debba fruire di una garanzia differenziata e più intensa onde pervenire a quella effettiva ed automatica riparazione del danno che la disciplina comune non è in grado di apprestare.

Si tratta di affermazioni di rilievo che hanno tra l'altro stimolato iniziative dell'INAIL rivolte a sollecitare l'introduzione ex lege di una copertura assicurativa obbligatoria del rischio di danno biologico di origine professionale.

Tali iniziative hanno portato, con la collaborazione di gruppi di esperti, alla redazione di una prima proposta di soluzione di problema, in data 13 gennaio 1994 ed una più recente proposta in data 15 dicembre 1996; i contenuti di tali due proposte saranno illustrati in prosieguo.

5. Sentenza n. 356 del 18.7.1991

Il Pretore di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, commi I e II del D.P.R. 30.6.1965 n. 1124, sotto il profilo che tale norma consentendo all’infortunato (si trattava di una fattispecie in cui il comportamento del datore di lavoro non costituiva reato ma illecito civile per violazione dell'art. 2087 c.c.) la possibilità di ottenere solo le prestazioni previdenziali collegate al danno patrimoniale e non anche il risarcimento del danno a carico del datore di lavoro, comprensivo del danno alla salute previsto dall'art. 32 Cost.

La Corte con la sentenza in esame ha ritenuto non fondata tale questione ma ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1916 del Codice Civile nella parte in cui consente

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all'assicuratore di avvalersi, in sede di surroga verso il terzo responsabile, anche delle somme dovute da questi all'assicurato a titolo di risarcimento del danno biologico.

La Corte, enunciando un dato di estremo rilievo, onde comprendere la successiva evoluzione giurisprudenziale, premette che il nostro sistema previdenziale-assicurativo in materia di infortuni sul lavoro è fondato su equilibri di interessi, di diritti, di prestazioni nel cui ambito l'integrale eliminazione dell'istituto dell'esonero, peraltro era circoscritto ad ipotesi assai limitate, comporterebbe la necessità in quanto inciderebbe su tutto il sistema, dell’intervento del legislatore.

Tale affermazione, che va posta in correlazione con quanto sostenuto dal Pretore di Torino con l’ordinanza di remissione nella quale si sosteneva l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 T. U. per il fatto che esso esclude la responsabilità civile del datore di lavoro se manca quella penale, può indurre a ritenere che l'esonero stesso sia stato avvertito dal Pretore come un ingiustificato privilegio, ma abbia solo ritenuto di non poter decidere al riguardo, dovendo decidere il legislatore.

Ciò induce a riflettere sulla stranezza di quanto nella realtà odierna si verifica: i giudici di merito avvertono che l'esonero di responsabilità del datore di lavoro, salvo il caso di reato, e quindi la limitatezza dell’ambito del regresso costituiscono un privilegio del datore di stesso non più conciliabile con l'esigenza di una piena tutela civilistica del lavoratore infortunato. Per contro esistono forti spinte del mondo datoriale verso l'abrogazione totale del regresso.

Non è agevole comprendere come tali diverse istanze possano coesistere.

Sembrerebbe da un intervento abolitivo del regresso, auspicato da una parte della giurisprudenza di merito come dimostra l'ordinanza di remissione del Pretore di Milano onde ampliare la sfera di tutela dell'infortunato, posto che le disposizioni che lo regolano consentono di far valere la responsabilità del datore di lavoro, diversa dal danno biologico, solo in caso di sentenza penale (abolizione che la Corte Costituzionale con l'osservazione che l'esonero è ormai ridotto ad ipotesi limitate, sembrerebbe ritenere superflua perché l'esonero non ha più l’originaria latitudine e quindi altera meno gli equilibri di interessi tra datore di lavoro ed infortunato) sia invocata da parte del mondo datoriale come un evento liberatorio di un loro profilo di responsabilità.

Alla base di tali posizioni antitetiche sta forse una mancata ponderazione da parte del mondo imprenditoriale dell'effetto di tale abolizione del regresso, che sarebbe quello di ricollocarli in una posizione pienamente codicistica di responsabilità verso l'infortunato che potrebbe risultare ben più pesante di quella in cui le norme sul regresso si collocano.

Tornando alla sentenza in questione è da rivelare come la stessa, richiamando la precedente sentenza n. 87/1979, abbia ribattuto l'esigenza che il danno alla salute collegato allo svolgimento di attività lavorativa, goda di una garanzia differenziata e più intensa di quella offerta dalle regole sulla responsabilità civile, confermando l’invito del legislatore a riformare il sistema assicurativo onde dare integrale garanzia assicurativa al danno biologico derivante da infortunio sul lavoro o da malattia professionale.

La sentenza stessa giustificava l'esonero di responsabilità del datore di lavoro "come uno degli aspetti del complesso rapporto tra oggetto dell'assicurazione, erogazione dei contributi, prestazioni assicurative".

L'esonero, secondo la Corte è una "garanzia" per il datore di lavoro che eroga i contributi in quanto "egli non è tenuto al risarcimento del danno, salvo in caso di colpa, l'azione di regresso dell'ente e, in caso di reato, l'azione di risarcimento del danno differenziale da parte dell'infortunato".

La sentenza ha poi puntualizzato che l'imputazione ex lege delle prestazioni assicurative e specifiche componenti di danno (nella fattispecie dell'INAIL: la perdita di capacità lavorativa) non consente l'imputazione delle somme erogate, ai fini della surroga a ragioni risarcitorie diverse (danno biologico) assistite tra l'altro da garanzia costituzionale. Sulla scorta di tali considerazioni la Corte ha dichiarato la parziale illegittimità dell'art. 1916 c.c. nella parte in cui consente all'INAIL di avvalersi, in sede di surroga, delle somme dovute dal terzo al danneggiato per coprirlo del danno biologico “che non formi oggetto della copertura assicurativa".

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Tale ultima affermazione, nella sua lettura, lascia lo spazio per ritenere che secondo la stessa Corte in realtà le somme che il danneggiante deve al danneggiato a titolo di risarcimento del danno biologico sarebbero attribuibili all’INAIL, sia pure in ipotesi parzialmente, allorché le stesse corrispondano ad aspetti (o percentuali) di danno biologico che si ritenessero indennizzate dall’Istituto per essere il quantum dell’indennizzo erogato superiore a quanto spetterebbe (con criteri civilistici), per la riduzione della capacità lavorativa subita dall’infortunato.

Tale quid plurus potrebbe considerarsi erogato dall’INAIL a titolo di danno biologico e quindi il relativo importo potrebbe essere riattribuito all’ente in sede di surroga (ed anche di regresso).

Ed è quello che in concreto fanno numerosi Tribunali.

6. La sentenza n. 485/1991 della Corte Costituzionale

Questa sentenza ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 10 commi VI VII comma del T. U. 1965 n.

1124 laddove consente al lavoratore di ottenere il ristoro del danno biologico dal datore di lavoro solo nella misura in cui il danno risarcibile complessivamente considerato superi l’ammontare delle indennità erogate dall’INAIL. Ha inoltre dichiarato illegittimo l’art. 11, I e II comma stesso T. U.

laddove consente all’INAIL, in sede di regresso, di avvalersi anche delle somme dovute all’infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa.

La sentenza stessa richiama i “parametri” concettuali della sentenza n. 356/1991 ed applica gli stessi non già all’art. 1916 c.c. bensì all’art. 10 (II e VII comma) ed all’art. 11 del D.P.R. 1965 n.

1124, vale a dire all’azione di regresso.

Essa enuncia un concetto di danno biologico molto esteso, che afferma di mutuare dalla precedente sentenza n. 356/1991, e che si riferisce a tutte le attività, situazioni e rapporti in cui la persona manifesta sé stessa nella sua vita.

In tale nozione di danno biologico enunciato dalla Corte Costituzionale nella sentenza in questione rientrano gli effetti pregiudizievoli per il soggetto leso anche rispetto a quelle situazioni in cui viene coinvolta la sfera produttiva, ma tale concetto è enunciato dalla Corte Costituzionale in senso negativo: (il che, probabilmente non ne ha reso agevole la percezione) vale a dire con l’affermazione che il danno biologico non comprende solo tali situazioni nelle quali è coinvolta la sfera produttiva (cioè nelle quali è lesa la capacità lavorativa) ma si estende a quelle che riguardano la sfera spirituale culturale, affettiva, sociale, sportiva ed ogni altro “ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità”.

Il problema che si è posto per l’INAIL per effetto di tale sentenza, ai fini della rivalsa, non è tanto quello di individuare il danno biologico ma quel particolare profilo di danno biologico che non fa riferimento alla sfera produttiva. Ciò in quanto l’azione di rivalsa dell’INAIL potrebbe ritenersi non esercitabile (sebbene un’autorevole dottrina citata in precedenza (Giannini) sia stata a suo tempo di contrario avviso, in quella sfera della responsabilità civile del datore di lavoro o del terzo responsabile che corrisponde al danno biologico subito dal lavoratore infortunato, non ricollegabile alla perdita di capacità lavorativa che l’INAIL indennizza.

La sentenza in questione è povera di contenuti giuridici innovativi perché ha lo scopo dichiarato di applicare le elaborazioni precedenti in materia di danno biologico della stessa Corte Costituzionale: in un punto però è particolarmente interessante, laddove cioè esanima gli effetti di una copertura assicurativa che si limiti ad indennizzare la perdita o riduzione di alcune soltanto delle capacità del soggetto (nel caso dell’assicurazione INAIL: la capacità lavorativa) intese come un quid che può far parte del danno biologico ma non lo esaurisce in quanto altri profili di detto danno non risultano coperti dall’assicurazione (nella specie dall’INAIL). Ciò indurrebbe a ritenere come ritenuto da una diffusa giurisprudenza di merito che l’INAIL indennizzando la capacità lavorativa risarcisce anche un particolare aspetto o una componente di danno biologico.

Il problema giuridico che si è posto per effetto di questa sentenza, per l’INAIL, è stato in sostanza un problema di individuazione delle sfere di incidenza della lesione: occorre cioè stabilire

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fino a quale punto nel caso di infortunio che di volta in volta si prospetta è ravvisabile una perdita o riduzione dell’attitudine al lavoro (ed è questo il limite di operatività dell’art. 10, II e VII comma e dell’art. 11 del T. U. 1965 n. 1124) e fino a quel punto emerga un danno diverso da tale perdita o riduzione e che incida non già sulla sfera economica bensì sulla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva ecc..

Come tutti i problemi del genere esso presupponeva per la sua soluzione, nei singoli casi, il ricorso ai periti medico-legali nel giudizio conseguente all’azione di rivalsa dell’INAIL.

Ciò sta ad evidenziare come la giurisprudenza della Corte Costituzionale non abbia inciso sui criteri INAIL di indennizzo: ha individuato soltanto una sfera soggettiva dell’infortunato attinente al bene “salute” la cui tutela è lasciata alla sua iniziativa (almeno fino a quando non saranno introdotte norme che garantiscano una tutela da parte di un ente assicuratore pubblico, come è stato auspicato dalla stessa Corte Costituzionale e come l’INAIL ha suggerito attraverso le relazioni di Commissioni giuridiche a tal fine istituite).

L’esistenza di tale sfera soggettiva impone all’INAIL una specifica linea di condotta solo per la fase successiva al riconoscimento della rendita (infatti per la fase nella quale si valuta la sussistenza dei presupposti per liquidare la rendita INAIL non assume alcuna specifica rilevanza la problematica relativa alla individuazione del danno biologico).

Incide cioè sull’estensione dell’azione di surroga (sentenza della Corte Costituzionale n.

356/1991) nei riguardi del terzo responsabile, nel senso che tale azione non può assorbire il diritto dell’infortunato al risarcimento del danno biologico per la parte in cui lo stesso non sia coperto dalla prestazione assicurativa (indirizzo questo seguito dalla Corte Costituzionale, diverso da quello seguito della dottrina, sopra richiamata: Giannini, citato in precedenza).

Incide altresì il diritto di regresso dell’INAIL contro la persona responsabile del reato che ha provocato l’infortunio, nel senso che nel recuperare le somme pagate a titolo di indennità e di spese accessorie l’INAIL deve astenersi dal rivalersi su quelle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica (si noti per inciso che in questa sentenza n. 485/1991 la Corte fa riferimento sempre alla capacità lavorativa e non a quella specifica).

Conseguentemente esclude che il quantum delle indennità erogate dall’INAIL possa costituire un limite (come invece lo era in precedenza in forza della corrente interpretazione giurisprudenziale dell’art. 10, II e VII comma del T. U. 1965 n. 1124) al risarcimento in favore del lavoratore del danno biologico, non collegato alla perdita della capacità lavorativa, che l’infortunato può pretendere dalle persone civilmente responsabili.

L’intera problematica dei limiti dell’azione di rivalsa dell’INAIL, finora delineata e sollevata dalla sentenza della Corte Costituzionale in esame, si pone in una fase la quale costituisce come premesso un posterius rispetto all’attribuzione della rendita collegata alla perdita o riduzione della capacità lavorativa. Tale attribuzione infatti avviene in una distinta ed anteriore fase nella quale il problema del danno biologico (sia pure inteso nella sua accezione più lata, vale a dire comprensivo anche del danno alla capacità lavorativa) non emerge e non condiziona l’operato dell’INAIL.

Sotto questo profilo è corretto affermare che la problematica del danno biologico non ha inciso sulla attività primaria dell’INAIL che consiste nell’erogare le rendite e non ne modifica né le modalità di azione né i criteri medico-legali suscettibili di applicazione ai fini di erogare le rendite stesse.

L’emergere di detta problematica, attraverso la giurisprudenza della Corte Costituzionale influisce invece enormemente, come, premesso nella fase successiva e per così dire, conseguenziale all’attribuzione della rendita (fase in cui l’INAIL agisce in sede di rivalsa, o con l’azione di surroga o con l’azione di regresso).

7. Sentenza n. 372 del 27 ottobre 1994

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Tale sentenza è stata resa a seguito di una ordinanza di remissione del Tribunale di Firenze che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. ed in subordine dell’art.

2059 c.c. nella parte in cui non consentono il risarcimento del danno per violazione del diritto alla vita.

Le questioni di legittimità costituzionale così sollevate sono state respinte con l’impugnata sentenza che, nella parte motiva, reca affermazioni di grande rilievo.

Innanzitutto la Corte ha puntualizzato come la sua sentenza 184/1986 fosse stata non certamente intesa dal Tribunale di Firenze. Infatti, a fronte della tesi del Tribunale che la risarcibilità iure hereditario del danno biologico a causa di morte debba essere valutata alla stregua dei principi sul danno biologico enunciati dalla sentenza n. 184, la Corte Costituzionale ha precisato che l’identificazione del danno con il fatto illecito lesivo della salute sta a significare che la prova della lesione è ancora prova che il danno esiste. Ma ciò non significa che la prova sia sufficiente per il risarcimento del danno. Per il risarcimento, infatti, occorre la prova che la lesione abbia una perdita di tipo “analogo” a quello indicato dall’art. 1223 c.c., cioè una diminuzione o privazione di un valore personale, peraltro non patrimoniale, al quale il risarcimento deve essere equitativamente commisurato.

Quindi la Corte Costituzionale considera un “errore” il rapportare il danno risarcibile alla lesione in stessa indipendentemente dalle conseguenze pregiudizievoli.

A ben vedere con queste affermazioni la Corte Costituzionale chiarisce un equivoco che era sorto con l’enunciazione, della sentenza 184/1986, del principio che il danno biologico è danno

“evento” e non danno “conseguenza”, equivoco che poteva portare a ritenere che il danno potesse essere risarcito in caso di danno biologico senza aver provato che si fosse realizzata una perdita “di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223”.

Con tali puntualizzazioni la Corte Costituzionale ha riportato la problematica del risarcimento del danno biologico nei precisi confini delimitati dal codice civile, evitando di convalidare il concetto che vi fosse, in sede di responsabilità civile, un risarcimento senza la dimostrazione che la lesione abbia prodotto una perdita analoga a quella prevista dall’art. 1223 c.c. (che prevede sia le perdite che il mancato guadagno come componente del danno).

Il danno può essere liquidato solo se vi sono perdite; questo limite alla risarcibilità sussiste anche per la tutela risarcitoria del diritto alla salute. L’unica peculiarità è che tale tutela risarcitoria nel caso del danno biologico, per precetto della Costituzione, deve essere ammessa “indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la privazione di valori della persona inerenti al bene protetto”.

Quindi l’ostacolo a riconoscere ai congiunti, quali eredi, un diritto al risarcimento non deriva dal carattere patrimoniale dei danni risarcibili ex art. 2043 c.c. bensì dai limiti strutturali della responsabilità civile che attengono:

a) all’oggetto del risarcimento che può consistere solo in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione soggettiva;

b) alla liquidazione del danno: che può riferirsi solo a perdite.

E’ la presenza di tali limiti che impedisce di riconoscere un diritto di risarcimento, in caso di morte dell’infortunato, in qualità di eredi e quindi non può accogliersi, secondo la Corte, la prospettata eccezione di illegittimità dell’art. 2043 c.c..

La sentenza in esame richiama poi un indirizzo dottrinale accolto dalla giurisprudenza della Cassazione secondo la quale dalla ratio dell’art. 2043 posta in correlazione con l’esigenza della effettività della tutela dei diritti fondamentali emerge un principio di risarcibilità dei danni (più esteso di quello tradotto in originario nella regola del codice civile) che comprende non solo i danni patrimoniali ma anche quelli non patrimoniali provati dalla lesione di un diritto personale costituzionalmente protetto quale è il diritto alla salute.

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Quest’ultimo, in conformità di un indirizzo sia della dottrina che della giurisprudenza della Cassazione, può trarre tutela attraverso l’applicazione, per “analogia iuris” dell’art. 2043 c.c..

Secondo la sentenza in questione il vero ostacolo ad ammettere in caso di morte il risarcimento del danno biologico in base al modello dell’art. 2043 c.c. come sopra interpretato (interpretazione che probabilmente sviluppa uno spunto già insito come in precedenza accennato, nella sentenza della stessa Corte n. 184 del 1986) è quello che non è possibile, per mancanza della concreta prevedibilità dell’evento, una valutazione autonoma della colpa. Pertanto viene a mancare, riducendosi a pura finzione, il criterio soggettivo di imputazione del danno indicato da detta noma del codice civile.

Mancando tale imputazione in base ad un criterio soggettivo si darebbe luogo ad una responsabilità oggettiva, per pura causalità. Inoltre l’assolutezza del diritto alla salute non consentirebbe di porre limiti alla sfera dei soggetti legittimati a richiedere il risarcimento.

L’esclusione del danno biologico dall’ambito di tutela dell’art. 2043 c.c. consegue al difetto di uno dei requisiti della fattispecie determinata dal codice. Essa quindi, secondo la Corte Costituzionale, non è adducibile come motivo di contrasto dell’art. 2043 c.c. con la garanzia costituzionale della salute.

La sentenza in questione nell’individuare per analogia iuris nell’art. 2043 c.c. (secondo la giurisprudenza della Cassazione sopra richiamate) nonché nell’art. 1223 c.c. la fonte della responsabilità per lesioni dell’integrità fisio psichica chiarisce come il danno alla salute non abbia natura patrimoniale ed induce ad applicare l’art. 1223 c.c., solitamente utilizzato in caso di diminuzione di carattere patrimoniale, anche ad ipotesi di danni non patrimoniali.

Il dibattito sull’esonero da responsabilità civile del datore di lavoro suscitato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale

A parte le iniziative dell’INAIL che tali affermazioni della Corte Costituzionale hanno suscitato, il richiamo all’obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno biologico di origine professionale in base alle regole che disciplinano la responsabilità civile, contenuto nella sentenza della Corte n.

87/1991, richiama alla mente il dibattito che si è svolto a seguito di una precedente sentenza della Corte Costituzionale, quella (n. 22 del 9.3.1967 con la quale si è estesa la responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio sul lavoro derivante da reato all’ipotesi in cui il reato stesso sia stato commesso da qualsiasi suo dipendente (e non solo da quelli incaricati dalla direzione o sorveglianza del lavoro) del cui fatto il datore di lavoro debba rispondere.

Anche nella sentenza n. 87/1991 si richiamano infatti le regole che governano la responsabilità civile del datore di lavoro. Lo stesso richiamo era contenuto nella precitata sentenza n. 22 del 9 marzo 1967, dove si individuavano tali regole con l’affermazione secondo cui “non può essere dubbio che (in virtù del principio secondo cui i particolari oneri inerenti all’esercizio di determinate attività sono da addossare al soggetto che dall’esercizio di tali attività riceva particolari vantaggi) debba gravare sul datore di lavoro la responsabilità del risarcimento dei danni subiti dal lavoratore in occasione del lavoro prestato alle dipendenze di lui nel caso che i danni stessi provengano (oltre che, come ovvio, dall’imperfetto adempimento dell’obbligo di predisporre ogni specie di misura idonea a pervenire gli infortuni) dal caso fortuito o dalla forza maggiore”.

“E poiché gli eventi ora menzionati sembrano costituire i fatti determinanti gli infortuni sul lavoro più rilevanti sia sotto l’aspetto numerico che sotto quello qualitativo, potrebbe sorgere un qualunque dubbio sul punto se l’esonero della responsabilità civile del datore di lavoro quale sancita in via generale dal I comma dell’art. 4 del R.D. 17/8/1935 n. 1765 non determini nei suoi riguardi una posizione di maggior favore rispetto a quella in cui viene a trovarsi il lavoratore, costretto a subire in ogni caso una decurtazione dell’ammontare del risarcimento che gli sarebbe dovuto”.

Sebbene la Corte Costituzionale in detta sentenza n. 22 del 9 marzo 1969 abbia disatteso la censura che la norma di esonero del datore di lavoro da responsabilità (salva l’ipotesi di reato) violi il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3, I e II comma Cost.), ciò è avvenuto in quanto la

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Corte ha ritenuto che per accertare la violazione di tale principio sarebbe necessaria una analisi delle componenti causali del rischio assicurativo, e della loro incidenza sugli infortuni, indagine che la Corte ha ritenuto esulante dai suoi poteri.

In base a tale pronuncia può ritenersi che il principio di esonero del datore di lavoro da responsabilità sia fatto salvo ma con la prospettazione da parte della Corte Costituzionale di un dubbio di fondo e cioè che se l’analisi delle componenti causative del rischio dovesse evidenziare che lo stesso è prevalentemente dovuto a omissione di cautele od a violazione di norme di prevenzione da parte del datore di lavoro, l’esonero sarebbe del tutto ingiustificato.

In dottrina la suddetta sentenza n. 22 destò come premesso un ampio dibattito nel quale si analizzarono i fondamenti e la giustificazione del datore di lavoro.

Vi fu chi, come il De Cupis Adriano (in Il Foro Italiano, 1967, parte I, pag. 684) contestando l’esattezza del principio, presupposto della Corte Costituzionale secondo cui particolare oneri connessi all’esercizio di determinate attività debbono essere accollati a chi (il datore di lavoro, nella specie) riceve dalla stessa particolari vantaggi, rilevò come la Corte Costituzionale pur muovendo da tale inesattezza aveva fatto salvo il principio della limitazione della responsabilità civile del datore di lavoro. Ciò pur prevedendo, detto Autore, che “spetterà forse ai posteri assistere alla sostituzione di tale congegno con altro, da taluni auspicato e basato sulla concezione del contributo assicurativo come parte del salario (con conseguente impossibilità di esonero dell’imprenditore della responsabilità civile per colpa)”.

Intervenendo con il consueto acume nel dibattito così insorto, Mattia Persiani (in Dir. Lav., 1957, part. II pagg. 396 e seguenti) rilevava come la Corte Costituzionale in tale sentenza n. 22 abbia negato che le prestazioni erogate per il caso di infortunio abbiano ancora natura di risarcimento dei danni, in quanto sono erogate nell’interesse pubblico e tendono a realizzare per quanto possibile la liberazione del lavoratore dal bisogno, e muoveva una sostanziale critica alla soluzione seguita dalla Corte di far salvo l’esonero di responsabilità del datore di lavoro, in quanto da dette premesse doveva pervenirsi ad una conclusione diversa.

Ciò in quanto “la circostanza che in caso d’infortunio il lavoratore abbia diritto alle prestazioni previdenziali non giustifica che gli sia negato il diritto ad ottenere il risarcimento del danno da chi ne è responsabile”.

Negargli questo diritto, sia pure nel limite in cui il danno è maggiore del bisogno, significa porre in essere una disparità di trattamento rispetto agli altri cittadini. Invero la deroga al diritto comune introdotta settanta anni fa a sfavore dei datori di lavoro imponendo il pagamento del premio dell’assicurazione che copriva anche gli infortuni non dovuti a loro colpa è ormai venuta meno a seguito della radicale evoluzione subita da quelle assicurazioni. E’ rimasta, invece, la deroga posta a sfavore dei lavoratori infortunati. Eppure tale deroga, se in relazione alle ideologie dominanti all’epoca in cui fu introdotta trovava la sua giustificazione nel rischio professionale, attualmente non trova altra giustificazione che non quella di una tradizione storica, come si è visto definitivamente superata dai tempi.

Si trattava dunque di eliminare tale disparità di trattamento, contrastante con l’art. 3 della Costituzione, ritornando al diritto comune. Il lavoratore infortunato, anche se beneficiario della tutela previdenziale avrebbe dovuto aver diritto, nei confronti del datore di lavoro, all’integrale risarcimento dei danni per l’infortunio di cui fosse rimasto vittima per colpa o dolo di quest’ultimo e degli altri suoi dipendenti, così come avviene per i lavoratori ai quali non si estende la tutela previdenziale contro gli infortuni sul lavoro. D’altra parte il diritto alle prestazioni previdenziali e quello al risarcimento del danno se non si elidono a vicenda nemmeno si cumulano “in quanto non si fa luogo al risarcimento allorché il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore delle prestazioni previdenziali ed il risarcimento del danno l’art. 10, VI e VII comma T.U. 1965 n.

1124 deve essere comunque limitato alla parte che ecceda le prestazioni previdenziali medesime”.

Sono queste del Persiani osservazioni acute che mantengono, malgrado il decorso del tempo, una loro indubbia validità.

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