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Da “normativa autosufficiente” a “titolo aperto”. Il titolo esecutivo tra corsi, ricorsi e nomofilachia. - Judicium

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B

RUNO

S

ASSANI

Cass., S.U. 2 luglio 2012, n. 11067-Pres. Rel. Vittoria-

La sentenza, fatta valere quale titolo esecutivo, non si esaurisce nel documento giudiziario, in cui è consacrato l'obbligo, essendone consentita l'interpretazione extratestuale, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui è stata emessa. Ne consegue che il giudice dell'opposizione all'esecuzione non può dichiarare d'ufficio la illiquidità del credito, portato dalla sentenza fatta valere come titolo esecutivo, senza invitare le parti a discutere la questione e ad integrare le rispettive difese, anche sul piano probatorio.

Da “normativa autosufficiente” a “titolo aperto”. Il titolo esecutivo tra corsi, ricorsi e nomofilachia.

Ha ragione Bruno Capponi1 nel ribadire i dati fondamentali che caratterizzano l’istituto del titolo esecutivo quali punti d’arrivo di un lunghissimo dibattito nella letteratura specialistica e di una lunga esperienza giurisprudenziale. Ed ha ragione nell’elencare gli errori, le sviste e i guasti a venire del principio di diritto che viene fuori da questa sentenza delle Sezioni Unite. Sentenza bifronte, a mio parere. Positivamente importante per un aspetto, ma sorta di contrappasso, sotto altro profilo, per chi ha la colpa di aver contribuito a liberare quel “genio della lampada” che va sotto il nome (peraltro improprio) di nomofilachia e che – impossibile a ricacciare indietro – sta minando la coerenza e la praticabilità dell’ordinamento processuale nella distratta indifferenza di buona parte della nostra dottrina2 (tra parentesi, tutto è cominciato con l’ardimentosa – eversiva – abrogazione dell’art. 37 c.p.c. da parte della Corte Suprema che ha segnato la conversione ad U della Corte Suprema. Ma di ciò in altra sede).

Fatta questa anticipazione, mi limiterò qui a svolgere alcune considerazioni sul caso di specie, scendendo dall’empireo e cercando di ragionare sull’accaduto

1 Autonomia, astrattezza, certezza del titolo esecutivo: requisiti in via di dissolvenza?, in Corr. Giur. n. 10/2012, 1169 ss.

2 Con poche – benché autorevoli – eccezioni: v., per es., la Nota di commento a Cass. Sez.

Unite, 09/10/2008, n. 24883 da parte di R. VACCARELLA, in Giur. it. 2009, 2, 406 e i saggi contenuti nel volume di G. VERDE, Il giudice e la legge, Napoli, 2012 (in particolare Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata).

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e – data la funzione di questo tipo di sentenza – sull’accadendo per ragionare insieme al lettore sì da metterlo in condizione di contraddirmi senza ambiguità.

Cosa era accaduto? Al fatto è dedicato il breve cappello iniziale e – sia detto per incidens – da una Corte che vuol fare nomofilachia ci si aspetterebbe la bontà di dedicare ai fatti un po’ più di spazio, per evitare il sospetto che essi siano solo lo spunto per la disquisizione in diritto volta alla formulazione del principio ma non enucleato dal caso, sicché invece del sacrosanto ex facto oritur jus le volte successive ci si trovi a dover dire ex jure oritur factum.

Se ho ben capito, contro un’esecuzione retta da un titolo esecutivo contenente elementi di ambiguità, era stata proposta opposizione (non per contestare l’utilizzabilità della condanna come titolo esecutivo) ma per far accertare l’intervenuto pagamento della somma capitale e l’eccedenza della somma precettata per interessi. L’opponente non se l’era presa con il titolo esecutivo in sé, ma aveva attaccato quella sorta di titolo improprio che Francesco Luiso chiamerebbe “titolo in senso sostanziale” (titolo di legittimazione all’effettiva soddisfazione); l’opposizione poggiava infatti su due causae petendi: la sussistenza di un fatto estintivo del “diritto a precedere ad esecuzione forzata” (art. 615) e l’arbitrarietà della determinazione, unilateralmente operata dal creditore, delle somme ulteriori precettate. Il giudice dell’opposizione non ha ritenuto di dover affrontare e decidere questi due punti (cioè di decidere della materia del contendere sottopostagli), rilevando invece d’ufficio e decidendo una questione pregiudiziale riguardante la capacità della sentenza di fungere da titolo esecutivo (c.d. “titolo in senso formale”, titolo di legittimazione alla cooperazione degli organi dell’esecuzione nella terminologia del Luiso). Nella specie il titolo esecutivo utilizzato consisteva in una condanna a pagare una somma non precisata numericamente, né precisabile ab intrinseco con meri calcoli, onde, secondo una (abbastanza) condivisa opinione il tribunale ha dichiarato l’inidoneità del titolo impiegato assumendo che “nella pronunzia giudiziale fatta valere come titolo esecutivo mancano non solo l’esatta determinazione dell'oggetto del credito e così dell’ammontare della somma di denaro dovuta, ma anche gli elementi di fatto utili a determinarlo” (parole delle Sezioni Unite).

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Le Sezioni Unite cassano questa pronuncia con rinvio ad altro giudice che viene invitato a verificare l’integrabilità del titolo (evidentemente riconosciuto carente dei requisiti della certezza e della liquidità) per renderlo conforme all’art. 474 c.p.c. “attraverso l'apporto probatorio proveniente dalla parte istante”. Di qui il principio di diritto secondo cui “il giudice dell'opposizione all’esecuzione non può dichiarare d’ufficio la illiquidità del credito, portato dalla sentenza fatta valere come titolo esecutivo, senza invitare le parti a discutere la questione e a integrare le difese, anche sul piano probatorio”.

Quest’aspetto del non poter decidere senza aver prima indotto le parti al contraddittorio è sacrosanto, ed è confortante vedere che la Corte Suprema rende finalmente vita a quello che troppi giudici considerano una prescrizione scritta sulla sabbia: ogni questione risolta dal giudice di propria iniziativa e rilevante per la decisione, va preceduta dalla illustrazione alle parti e dall’invito a contraddire su di essa (la parità delle armi, spesso retoricamente invocata, è anche questo). Ma l’obbligo di provocare il contraddittorio riguarda la nuda questione della idoneità del titolo posto a base dell’esecuzione a sorreggere l’azione esecutiva (cioè a porsi come suo titolo), mentre non può essere confusa con la questione dell’integrabilità ab extrinseco del titolo risultante carente di qualche elemento. Questo aspetto riguarda l’oggetto della questione, ed ha natura diversa dal problema del trattamento processuale della questione stessa; i due problemi sono distinti e solo incidentalmente vengono a cumularsi, ponendo l’ulteriore problema del potere del giudice di procedere all’integrazione anche ove non sollecitato.

Ora ammettiamo pure quel che si dice correntemente, che cioè la questione della sussistenza del titolo (formale) sia rilevabile d’ufficio: 3 questo darebbe

3 Personalmente ne dubiterei (ma so di parlare fuori dal coro) dal momento che l’opposizione è un’impugnazione il cui oggetto va sempre concretamente determinato:

se il suo oggetto non è il titolo c.d. “formale” ma quello c.d. “sostanziale”, questo vuol dire che alle parti sta bene che si proceda su quel titolo formale e che esse disputano dell’esistenza dell’obbligo di pagare, onde non si vede come il giudice possa uscire dall’ambito di quanto gli è devoluto, cioè dall’ambito della controversia. Ho l’impressione che si confonda il potere del giudice dell’esecuzione di valutare la bontà del titolo con il dovere del giudice della cognizione di decidere della controversia effettiva tra le parti quando la materia del contendere si sia volutamente concentrata sugli obblighi sostanziali.

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luogo al dovere del giudice di sottoporre la questione al contraddittorio in mancanza di sollecitazione delle parti, ma lascia comunque impregiudicata l’altra questione dell’integrabilità del titolo carente di elementi riguardanti certezza, esigibilità e liquidità del credito. Gli elementi di integrazione possono essere cercati aliunde (eterointegrazione)?

La domanda vuole una precisazione: se, come pare indubitabile, il titolo esecutivo non è (di norma) il dispositivo, ma è la sentenza, l’integrazione fatta attraverso l’estrazione dal testo della sentenza degli elementi necessari non configura eterointegrazione, ma autointegrazione. Nulla quaestio allora sulla sua praticabilità (così già Salvatore Satta, cioè il custode più implacabile del concetto di titolo quale normativa autosufficiente). Diverso è il caso in cui, per aversi integrazione, occorre far riferimento a materiale esterno alla sentenza/titolo, cioè agli atti del processo. E qui è la stessa idea di eterointegrazione ad entrare in conflitto logico con il concetto di “titolo”: un titolo che non funziona da sé ma che necessita di un giudizio integrativo, è solo il presupposto (uno dei presupposti) di quel che sarà poi il titolo effettivo dell’effetto giuridico e dunque… non è titolo di niente e dà luogo ad una contradictio in terminis. Dove c’è obiettivamente bisogno di un giudizio, dove il testo documentale “A” non è in grado di mettere a fuoco il diritto perché alla determinazione di questo si può giungere solo soppesando elementi estrinseci al testo stesso sì da dar vita al nuovo testo “B”, gli effetti giuridici del titolo saranno prodotti da “B” e il titolo sarà dunque “B”. Il che – se la logica non mi inganna – equivale a dire che prima di “B” non c’era titolo, non rappresentando

“A” se non un presupposto di “B”.

Qualcuno potrà legittimamente obiettare che non è una tragedia: se ne può discutere, ma solo dopo che si sia convenuto che, così ragionando, abbiamo distrutto il concetto di titolo autosufficiente, cioè astratto dalla “causa del titolo”

a favore di una nozione sfumata di titolo come fattispecie a formazione progressiva che di astratto non ha quasi più nulla. Il che significa che la c.d.

nomofilachia ha iniziato a ritroso il cammino della processualistica che si era

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illusa di aver trovato nel concetto di titolo astratto un punto d’arrivo.4 Illuminante è il passo della sentenza in cui si trova scritto che “non è sulla base del documento titolo esecutivo che inizia l'esecuzione forzata, ma sulla base di questo e del precetto (art. 479 c.p.c., comma 1), il quale a sua volta deve contenere la specificazione che della prestazione della parte obbligata vi è fatta dalla parte istante (art. 480 c.p.c., comma 1, e art. 605 c.p.c., comma 1), al fine di consentirne lo spontaneo adempimento (art, 494 cod. proc. civ.), nel termine dilatorio a tale scopo previsto dalla legge”.

Problemi di “inizio” a parte (su questo v. la critica di Bruno Capponi5), la specificazione contenuta nel precetto (nell’espropriazione) non ha nulla a che vedere con la determinazione del diritto propria del titolo: il precetto ha la funzione di attualizzare il credito6 – e solo in questo senso lo specifica – ma (sempre restando all’espropriazione) sul presupposto di una identificazione originaria del credito e nell’impossibilità di supplire alla mancata identificazione. Curiosamente invece dalle Sezioni Unite viene legittimata un’idea di “titolo aperto”, aperto all’integrazione proveniente dal passato (materiale di causa) e all’integrazione proveniente da un successivo ed unilaterale atto di volontà del creditore (precetto). In armonia con tutto ciò si presenta la successiva spiegazione per cui, “sull’inizio delle operazioni esecutive può essere attivato il sindacato del giudice”, che dovrebbe rassicurare il lettore perché i difetti intrinseci del titolo sfumerebbero di fronte a tale potere (così quando la prestazione richiesta “non si presenti formulata con la specificità necessaria a mostrarne la derivazione dal titolo esecutivo”). Con queste parole si tende a sdrammatizzare il problema, senza rendersi conto di dar così via libera ad un sistema in cui la soglia di procedibilità dell’esecuzione – cioè la soglia di soggezione del debitore – viene indebitamente abbassata perché la soggezione

4 Avevo indagato questo aspetto studiando il fenomeno del giudizio d’ottemperanza (v. B.

SASSANI, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto. Ottemperanza amministrativa e tutela esecutiva civile, Milano 1997; il mito dell’astrazione era stato scrutato, in precedenza, dal penetrante saggio di apertura del volume di R. VACCARELLA, L’esecuzione forzata dal punto di vista del titolo esecutivo, in Titolo, precetto, opposizioni, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale civile diretta da A. Proto Pisani, II ed., Torino 1993).

5 Autonomia, astrattezza, cit., 1172 e passim.

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non è più garantita dalla certezza e dai limiti del potere corrispondente al diritto altrui, ma è semplicemente controbilanciata dall’accertabilità (!!) della ragione del creditore. Il culmine di questo incedere si trova nella affermazione che “la precisa individuazione dell’obbligo dichiarato dal giudice non è un requisito formale del provvedimento giudiziario”. Provo a tradurre: il confine tra la piena disponibilità e il congelamento del mio patrimonio è incerto, poiché la pignorabilità non è più l’altra faccia dell’esistenza di un altrui titolo di intrusione nella mia sfera (certezza contro certezza = potere/soggezione), ma finisce per dipendere da “ciò che il giudice di merito deve essere stato messo in grado di accertare ed è dimostrabile abbia accertato”. Il che sarebbe possibile “quando si integri ciò che nel provvedimento è dichiarato, con ciò che gli è stato chiesto e vi appare discusso”.

Secondo la sentenza questo sarebbe un vantaggio per tutti: “il sicuro vantaggio di costringere le parti del rapporto controverso al parlare chiaro”. Il creditore procedente sarebbe avvantaggiato dall’essere obbligato ad indicare

“con precisione nel precetto la prestazione richiesta ed i suoi perché”; il sicuro vantaggio del debitore sarebbe quello di poter contestare “con altrettanta precisione ciò che non ritenga dovuto, perché negato o non accertato”.

Personali limitazioni mi impediscono di vedere quale sia e dove sia il vantaggio del debitore; l’unica cosa certa è che la Corte ha riscritto l’ordinamento: al precetto conferisce funzioni proprie del titolo, mentre al debitore (pignorato) attribuisce “l’indubbio vantaggio” di gravarlo dell’onere di ... rimettere in termine il creditore a provare (anche in via ricostruttivo-indiziaria) un diritto non evidente.

C’era una volta la actio judicati 7 ; venne poi il titolo esecutivo, cioè – fuor di formula – l’esclusione di indagine sulla causa del titolo stesso, con le parallele impugnazioni, di forma o di merito, autonome, estrinseche e tuttavia idonee ad incidere sull’esito finale del procedimento giustificato dal titolo. Oggi le Sezioni Unite ci indirizzano verso una sorta di actio judicati a parti invertite, dove al concetto di titolo quale normativa autosufficiente succede lo sbiadito

7 C’è ancora, beninteso, per l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare.

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concetto di “titolo aperto”, un titolo in senso debole con la più modesta funzione di produrre tale inversione.

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