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L’outsourcing del titolo esecutivo (e dei provvedimenti giudiziali in genere): si parva licet componere magnis - Judicium

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Academic year: 2022

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1 GIUSEPPE DELLA PIETRA

L’outsourcing del titolo esecutivo (e dei provvedimenti giudiziali in genere): si parva licet componere magnis*

1.Il criticato arresto delle Sezioni Unite. – 2. Un caso emblematico. – 3. La sorte del fascicolo d’ufficio e delle produzioni di parte. – 4. Inconciliabilità dell’eterointegrazione del titolo esecutivo con la dispersione dei fascicoli: certa per quelli di parte, non impossibile per quelli d’ufficio. – 5. Limiti alla motivazione per relationem dei provvedimenti giudiziali.

1.- Fra le perle che la Cassazione ha largito in questi anni spicca quella in punto di determinazione del comando dettato dal titolo esecutivo.

Hanno ritenuto le Sezioni Unite che “il giudice dell’opposizione all’esecuzione, qualora il titolo esecutivo risulti generico e indeterminato non contenendo gli elementi sufficienti a rendere liquido il credito con un calcolo puramente matematico (e, più in generale, qualora vi siano incertezze nella sua formulazione), può fare riferimento a elementi esterni ed extratestuali, non desumibili dal titolo, ma risultanti dagli atti delle parti, dai documenti da esse prodotti, dalle relazioni degli ausiliari del giudice, se ne siano stati introdotti nel processo in cui la sentenza (o altro titolo esecutivo) che ha definito quel giudizio è stata pronunziata”1.

E così, nello spazio di un mattino, decenni di dibattito sull’autosufficienza del titolo esecutivo, sulla netta cesura tra cognizione e esecuzione, sul compito meramente attuativo degli organi esecutivi sono stati cancellati per far posto a un sistema in cui la dialettica fra le parti può proseguire – sia pure a bocce ferme, e cioè a materiale di causa acquisito – anche oltre il giudicato, con il creditore che quasi propone nel precetto una lettura integrativa del titolo e il debitore che, se non l’accoglie, promuove un’opposizione di merito di fatto riplasmata sul modello dell’art. 645 c.p.c.

Delineato lo schema, non hanno frapposto tempo le sezioni semplici a raccogliere lo spunto offerto dalle Sezioni Unite2 e, se possibile, perfino a rilanciarlo.

* Questo scritto è destinato alla raccolta di Studi in onore di Romano Vaccarella

1 Cass., sez. un., 2-7-2012, nn. 11066 e 11067: la prima in REF, 2012, 355 ss., e in GDir, 2012, 33/34, 52, la seconda in FI, 2012, I, 3019, e in CorG, 2012, 1166. Si leggano anche l’ordinanza 14-12-2011, n.

26943, REF, 2011, 719 ss. (ivi anche la corrispondente relazione del Massimario), che, con la gemella n.

26944 di pari data, aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite (insieme con quella della rilevabilità officiosa del difetto di titolo esecutivo), e i rilievi già critici di MAJORANO, Questioni controverse in tema di poteri di rilevazione officiosa del giudice dell’opposizione all’esecuzione e di interpretazione del titolo esecutivo, ivi, 2012, 159 ss., e di CAPPONI, Incerto diritto nell’incerto titolo, ibidem, 173 s.

2 Se ne rinvengono applicazioni in Cass., 16-4-2013, n. 9161 e in Cass., 27-8-2013, n. 19587, e richiami in Cass., 13-11-2013, n. 25532 e in Cass., 14-6-2013, n. 14932.

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2 Benché nel quadro di una pronuncia volta marcare il perimetro nel quale deve contenersi l’attività d’integrazione, la III sezione ha vieppiù esteso il beneficio accordato al creditore, prevedendo che l’attività di completamento, oltre che con atti del processo, possa aver luogo anche “… in via ancora più eccezionale, con atti ad esso estrinseci, purché idoneamente richiamati o presupposti nei primi …”3.

Non intendo qui rinnovare le critiche (tutte serrate, molte anche aspre) che l’inopinato arresto ha perlopiù riscosso dalla dottrina4. Non avrei né migliori ragioni, né più acconce parole per ripetere censure che mi hanno confortato nel sentimento di perplessità che la sentenza della Cassazione aveva suscitato non solo in me già in prima lettura.

Se alle dotte disquisizioni è lecito accostare un piccolo argomento, vorrei qui aggiungere un motivo che rende non solo sconveniente, ma perfino impraticabile l’eterointegrazione caldeggiata dalla Corte. Un argomento flebile e puramente pratico (di bassa cucina, direbbe qualche studioso), ma che suona non meno decisivo per invitare le Sezioni Unite a riflettere sulla novità patrocinata e – se possibile – a tornare sui propri passi. Non senza profittare dell’occasione per lanciare un allarme al legislatore che, nell’ansia di ridurre al minimo l’impegno dei giudici nella redazione delle sentenze, rischia di cadere in un errore non diverso da quello in cui è incorsa la Cassazione.

2.- Chi più del Maestro che qui intendo onorare ha saputo coniugare la speculazione scientifica di raffinata trama con il patrocinio forense (e non solo) al più elevato livello?

Non gli dispiacerà perciò (o almeno spero) se il discorso prenderà spunto da una recente vicenda professionale: singolare quanto si vuole, ma sintomatica della deriva cui può condurre l’imponderata apertura delle Sezioni Unite.

In sede di rinvio dalla Cassazione la corte d’appello condanna il convenuto ad arretrare il proprio fabbricato fino a raggiungere la distanza di sei metri dal confine del fondo avversario, in modo da sanare la violazione appurata dal consulente d’ufficio oltre trent’anni prima.

L’attore domanda le modalità al giudice dell’esecuzione che, sull’opposizione del convenuto, reputa indispensabile acquisire l’antica relazione. Alla sollecitazione del g.e. la cancelleria risponde che “tentato l’adempimento, risultano essere inaccessibili i

3 Cass., 17-1-2013, n. 1027, REF, 2013, 137, con nota (critica non di questa pronunzia, ma della sentenza delle Sezioni Unite) di VACCARELLA, Eterointegrazione del titolo esecutivo e ragionevole durata del processo.

4 Si leggano i commenti di CAPPONI, Autonomia, astrattezza, certezza del titolo esecutivo: requisiti in via di dissolvenza?, CorG, 2012, 1169 ss.; di SASSANI, ZUCCONI GALLI FONSECA, E. FABIANI, DELLE DONNE ePILLONI, sotto il comune titolo Le Sezioni Unite riscrivono i requisiti (interni ed esterni) del titolo esecutivo: opinioni a confronto intorno a Cass., S.U., n. 11067/2012, REF, 2013, 78 ss. Le uniche voci favorevoli sono quelle di BELLÈ, ivi, 126 ss., di GENTILE, L’esecuzione forzata del titolo giudiziale non numerario, FI, 2012, I, 3024 ss., e di CATTANI, Non sempre la forma è sostanza: le Sezioni Unite si pronunciano sulla legittimità della integrazione del titolo esecutivo giudiziale mediante le risultanze processuali, RIDL, 2013, 148 ss. Il contributo di E. Fabiani, in versione più asciutta sia nel testo che nelle note, si legge anche in FI, 2013, I, 1282 ss., sotto il titolo C’era una volta il titolo esecutivo; quello di Capponi in Commentario del Codice di procedura civile, diretto da COMOGLIO CONSOLO SASSANI VACCARELLA, VI, Torino, 2013, sub art. 474, 29 ss.

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3 locali in cui è custodito il relativo fascicolo”. Il giudice, forse sconcertato, ma evidentemente deciso a non rimangiarsi la premessa sulla quale aveva ordinato l’esibizione, accoglie l’opposizione, dichiarando non eseguibile l’obbligo di cui al titolo azionato. La Cassazione, evocando testualmente l’arresto delle Sezioni Unite, conferma la bontà del ragionamento del giudice5.

E così, grazie all’impraticabilità dell’archivio giudiziario (formula impensabile per l’ufficio di una grande città, che da informazioni bonariamente assunte pare alludere a un persistente allagamento che avrebbe distrutto la gran parte dei fascicoli) il prodotto finale del processo è di fatto inutilizzabile, vanificando lo sforzo di chi (di padre in figlio, per necessità di cose) aveva coltivato la causa per quasi quarant’anni.

Avranno pensato, i giudici delle Sezioni Unite, a eventualità di questo genere quando hanno caldeggiato l’eterointegrazione del titolo esecutivo?

Si dirà che simili vicende sono eccezionali, e che la Cassazione deve esprimere princìpi volti a regolare la normalità, senza poter scontare eventi patologici che devono trovare rimedio in altre sedi e in altre forme.

Qui, però, si vuole mostrare l’opposto: e cioè che l’ipotesi per cui gli atti del processo non sono più disponibili al tempo in cui si deve eseguire il comando giudiziale è fattispecie tutt’altro che singolare, e ciò pur senza ricorrere a eventi straordinari come quello evocato, in cui un archivio cittadino si trasforma in una palude inaccessibile al punto da non poter attingere al suo contenuto.

3.- L’autosufficienza del titolo ai fini dell’esecuzione – per il cui fondamento si rinvia alla dottrina che ha già acutamente criticato la svolta delle Sezioni Unite – trova riscontro in talune regole, che non è detto riposino su criteri di mera organizzazione.

In virtù dell’art. 35, disp. att., c.p.c., “il cancelliere deve riunire annualmente in volumi separati gli originali delle sentenze, dei decreti d'ingiunzione e dei processi verbali di conciliazione, nonché le copie dei verbali contenenti le sentenze pronunciate a norma dell'art. 281-sexies”. Gli artt. 15 ss., d.m. 264/2000, si preoccupano di garantire l’esistenza di un archivio digitale dei provvedimenti che si affianca a quello tradizionale. In sostanza, fra volume cartaceo ineliminabile e archivio informatizzato perpetuo, dei provvedimenti giudiziali è assicurata la diuturna conservazione e la costante reperibilità.

Per i fascicoli di causa il sistema non mostra pari preoccupazione. Qui la norma- cardine è l’art. 2961, 1° co., c.c.: “i cancellieri, gli arbitri, gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori legali sono esonerati dal rendere conto degli incartamenti relativi alle liti dopo tre anni da che queste sono state decise o sono altrimenti terminate”.

Il dato sembra nitido: trascorso un triennio dalla definizione del giudizio, la cancelleria non è più tenuta a conservare i fascicoli di causa, per cui delle due l’una: o li ha trasmessi al giudice superiore (se vi è stata impugnazione), o può anche non impegnarsi nella loro custodia, della quale più non risponde. Né la natura presuntiva di questo tipo di prescrizione vale a circoscrivere l’esonero in favore degli operatori giudiziari.

Si dirà che soccorre in tal punto la normativa in tema di archiviazione dei documenti delle amministrazioni statali, che contempla la conservazione degli

5 Sia pure ad abundantiam, a corredo di una pronunzia d’inammissibilità: Cass., 13-12-2012, n. 22916.

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4 incartamenti per quarant’anni presso gli archivi giudiziari, e poi presso l’Archivio di Stato6. Ma, anche a non considerare che non sempre vi è immediata consecuzione fra lo scadere del triennio e l’avvio dei documenti all’archivio di deposito, e che con il passaggio di consegne e il trascorrere del tempo inevitabilmente l’impegno nella custodia scolorisce (come mostra la vicenda che sopra ho narrato, e che riguarda un numero indeterminato di fascicoli7), l’aspetto rilevante è soprattutto altro.

Pur supponendo che la conservazione degli incartamenti goda di lunghissima durata e d’impeccabile esecuzione, è certo che la custodia concerne il fascicolo d’ufficio, non i fascicoli di parte. E ciò anzitutto perché ciascun difensore può ritirare, al termine di ogni grado, il proprio fascicolo e giammai restituirlo, perfino se il processo dovesse proseguire con le impugnazioni. E se pure è verosimile che il fascicolo ricomparirà nei successivi gradi, è certo che scomparirà definitivamente all’esito dell’ultima pronuncia. Icasticamente può dirsi che il giudicato ha fra i suoi effetti indiretti anche la progressiva dissolvenza dei fascicoli di parte, che prenderanno la strada non delle cancellerie o degli archivi, ma degli studi dei difensori.

Né a miglior sorte sono destinati i fascicoli non ritirati dagli avvocati. Il web pullula di avvisi delle cancellerie che, trascorsi i tre anni dell’art. 2961 c.c., invitano i difensori a ritirare i propri fascicoli entro una certa data, pena la distruzione. Qualcuno, più elegantemente, avverte che per gli incartamenti lasciati in giacenza si ricorrerà alla procedura degli scarti d’archivio, ma la sostanza è sempre quella: la devoluzione alle organizzazioni di volontariato o alla Croce Rossa, e di qui comunque al macero.

4.- Dopo essersi misurati con le alate ragioni dell’accorta dottrina, si soffermino i giudici delle Sezioni Unite anche sul più pedestre dubbio che si va tentando di suscitare in queste righe.

Pensano davvero che il sistema sia imperniato sull’integrazione del titolo mediante atti e documenti presenti nel fascicolo d’ufficio o prodotti dalle parti? Sono davvero certi che, ove l’esecuzione sia promossa a distanza di anni, quegli incartamenti saranno ancora reperibili presso gli archivi? E se non si dovessero rinvenire (com’è più probabile per gli atti di parte, ma non inverosimile, perlomeno in certe sedi, per quelli d’ufficio), i processi esecutivi dovranno chiudersi con la pronunzia di ineseguibilità attinta nell’esecuzione che sopra si è narrata? E questo esito cos’ha da dividere con la durata ragionevole e l’istanza costituzionale di processo giusto?

Taluno opporrà che soccorre pur qui l’indirizzo della Cassazione che impone alla parte, ove voglia avvalersi in fase d’impugnazione di documenti presenti nel fascicolo avversario ritirato e non più depositato, di procurarsi per tempo la copia del documento chiedendone il rilascio al cancelliere8 o, qualora non sia stata così accorta, di chiederne l’esibizione ai sensi dell’art. 210 c.p.c.9

6 Art. 41, 1° co., d.lgs. 22-1-2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio).

7 E che non si profila neppure così eccezionale, se il Quotidiano di Bari del 19.9.2012 riferisce che quello del tribunale barese è “… un archivio ormai saturo e insicuro, da chiudere, con le sue tubature che ogni tanto sversano liquami che finiscono puntualmente su fascicoli e incartamenti”. L’articolo è leggibile all’indirizzo http://quotidianodibari.it/articoli/primo-piano/archivio-generale-del-tribunale-una-vera- bomba-car/#.Uujea6Nd5Ms.

8 Cass., sez. un., 8-2-2013, n. 3033, FI, 2013, I, 819, e GI, 2013, 2593.

9 Cass., 22-1-2013, n. 1462.

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5 Senonché, quantomeno per i documenti del fascicolo di parte, l’ordine di esibizione è fuorigioco: trascorso il triennio, parte e difensore avranno vita facile a opporre di aver mandato al macero l’incartamento. Quanto alle copie, l’adempimento si profila di ardua praticabilità. Non potendo la parte conoscere a priori quali dei documenti avversari gli potranno tornare utili per integrare il futuro titolo esecutivo, dovrebbe a rigore farsi rilasciare copia di tutta la documentazione avversaria, con aggravio non solo di costi per il richiedente, ma anche e soprattutto di lavoro per le esauste cancellerie, che vedrebbero elevate a potenza le richieste di copia.

Vero è, allora, che il cuore del discorso non sta nelle empiriche soluzioni additate dalla Cassazione.

Anche dall’angolo visuale della conservazione degli incarti processuali il sistema appare ispirato ai principi della radicale autosufficienza del titolo esecutivo e della sua naturale separatezza rispetto agli atti e ai documenti su cui è pur basata l’emanazione del provvedimento. La tendenziale perpetuità della custodia delle decisioni finali e l’acclarata temporaneità della conservazione dei sottostanti fascicoli (di parte, ma non di rado anche d’ufficio10) rendono evidente, a mio avviso, che l’autonomia del titolo esecutivo era ben chiara anche a chi disciplinò l’archiviazione.

Nell’assegnare un diverso regime a sentenze e fascicoli, l’autore di quelle regole non tenne solo conto della diversa voluminosità, ma anche dell’opposto ruolo che nel tempo, ai fini dell’esecuzione, avrebbero giocato le une e gli altri. O, se si vuole, prese spunto proprio dal differente ingombro per stabilirne tempi e modi diversi di conservazione;

nel far ciò, non poté non postulare l’autosufficienza del titolo esecutivo negata oggi dalle Sezioni Unite.

Non sarà mai detto abbastanza. L’argomento che fa leva sulla provvisoria disponibilità dei fascicoli non si sovrappone a tutti quelli, ben più corposi, che la dottrina ha sviluppato contro la pronunzia delle Sezioni Unite. Non parendomi, però, addotto da nessuno, giunge qui di rincalzo, a suggellare in chiave teorica che i codificatori non possono aver pensato all’eterointegrazione del titolo e, contemporaneamente, alla dispersione nel tempo di atti e documenti di causa; sul piano pratico, che il nuovo indirizzo può creare inique discriminazioni fra esecuzioni promosse nell’immediatezza del provvedimento e esecuzioni che, iniziate a distanza di qualche anno, potrebbero non trovare nelle cancellerie e negli archivi elementi necessari all’operazione di completamento patrocinata dalla Cassazione. Il che mi pare un’altra, se pur ultima, ottima ragione perché i giudici supremi tornino sui propri passi.

5.- Credo, però, che il vincolo che lega autosufficienza del titolo giudiziale, conservazione delle sentenze e progressiva dispersione dei fascicoli (quelli di parte, in special modo) si spinga anche oltre il pur ampio perimetro del processo esecutivo.

La diversa cura riservata alle decisioni del giudice, da un lato, e al resto dell’incartamento, dall’altro, depone, a mio avviso, per il divieto di eterointegrazione dei provvedimenti giudiziali in genere11.

10 Ai casi sopra narrati si aggiunga quello risolto da Cass., 8-2-2013, n. 3055, in cui il giudice d’appello aveva disposto la ricostruzione del fascicolo d’ufficio andato perso perché mandato al macero nelle more del giudizio.

11 Spunto in tal senso è già in CAPPONI, Incerto diritto nell’incerto titolo, cit., in partic. 174.

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6 Vanno perciò salutate con estremo sfavore disposizioni come l’art. 16, 5° co., seconda parte, d.lgs. n. 5/2003, che nell’abrogato rito societario prevedeva che “la sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi”. O il ritocco (poi espunto in sede di conversione) che il d.l. n. 69/2013 aveva apportato all’art. 118, disp. att., c.p.c.: “La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche con esclusivo riferimento a precedenti conformi ovvero mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o di altri atti di causa…”.

Passi per la succinta esposizione dei fatti di causa (concisa, ma ineliminabile, per le stesse ragioni viste sopra); sia concesso l’esclusivo riferimento a precedenti conformi (benché la sentenza ridotta a nudo repertorio non può che suonare povera di motivazione); si ammetta anche il richiamo agli scritti difensivi (che a rigore sono acclusi in copia al fascicolo d’ufficio, della cui malcerta conservazione ho peraltro già detto); sono però dell’idea che, ferme le regole sull’archiviazione, il rinvio ad altri atti di causa riesca vietato al legislatore, particolarmente se la locuzione dovesse intendersi - come presumo - estesa anche ai documenti.

Da questo versante la sospirata liberazione dei giudici dal fardello della motivazione dovrebbe passare giocoforza da un incremento d’impegno (e di correlativa responsabilità) di avvocati, cancellieri e capi d’archivio. Occorrerebbe anzitutto vietare alla parte di ritirare la propria produzione, o quantomeno imporle di ridepositarla intatta in ogni grado. I cancellieri dovrebbero poi custodire non solo i fascicoli d’ufficio, ma anche quelli di parte, e al termine del triennio trasmettere l’incartamento agli archivi giudiziari, che ne dovrebbero curare l’integrità e la disponibilità con rigore ben diverso da quello tenuto dall’ufficio coinvolto nella vicenda che sopra si è narrata.

All’esito di questa operazione ne riuscirebbe non solo emendato l’odierno regime di archiviazione, non tanto alterato l’impianto del processo (che al momento concede alla parte di ritirare e non restituire la propria produzione, e fors’anche singoli documenti già esibiti), quanto enormemente aggravato il carico di lavoro di archivi e cancellerie, costretti a conservare con tutt’altra cura rispetto all’attuale fascicoli ben più voluminosi di quelli, già ingombranti, rimessi alla loro custodia.

Certo, il fascicolo telematico risolverà ogni cosa, ma nel frattempo? E, anche quando sarà a regime, per il pregresso?

E’ il caso di concludere che il costo di una simile rivoluzione sarebbe di gran lunga maggiore dell’ipotetico beneficio che ai giudici deriverebbe in punto di motivazione. Un argomento in più per non ischeletrire oltremodo le decisioni giudiziali:

tanta carta in meno negli archivi, e qualche parola in più nelle sentenze, agli uni non guasta, alle altre senza dubbio giova.

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