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92 Capitolo 3. L’obbligo di astensione e l’istanza di collegialità

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Capitolo 3.

L’obbligo di astensione e l’istanza di collegialità

SOMMARIO:1.Riserva di collegialità? – 2. L’«organo collegiale». – 3. Presupposti di applicazione dell’obbligo di astensione: il piano soggettivo. – 4. Presupposti oggettivi: funzioni gestorie e funzioni di rappresentanza. – 5. L’ipotesi dell’amministratore delegato non interessato. – 6. L’ambito di applicazione dell’obbligo di comunicazione: le operazioni di competenza dell’organo collegiale delegato. – 6. 1. Soggetti attivi della disclosure. – 6. 2. Soggetti passivi. – 7. Le operazioni di competenza dell’amministratore delegato: l’obbligo di comunicazione. – 8. Segue. L’obbligo di astensione. – 9. Autonomia degli obblighi di cui all’art. 2391 c.c. – 10. Funzioni di (mera) rappresentanza.

1. Come si è ricordato, oggi l’art. 2391, 1° comma c.c. – dopo aver

gravato l’amministratore interessato dell’obbligo di disclosure – dispone che «se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale»1.

Un tal meccanismo – si è parimenti rilevato2 – si risolve nella disapplicazione del riparto verticale di funzioni che fosse realizzato in seno all’organo amministrativo con il ricorso all’istituto delle deleghe gestorie. Si è al riguardo parlato in dottrina di «meccanismo sostitutivo volto al recupero della competenza in ambito collegiale»3; si è parlato, insomma, di «collegialità residuale»4, una collegialità, cioè, destinata a scattare pur quando non fosse ab origine prevista5.

1 Ante riforma, la sussistenza dell’obbligo di astensione a carico dell’amministratore

delegato (nonché dell’amministratore unico) era negata dalla prevalente dottrina. Per un’opinione in senso contrario, facente leva su un’interpretazione del lemma «deliberazione» in senso atecnico, v. però L.ENRIQUES (nt. 2, cap. 1), 226 ss.

2 V. supra, cap. 2.

3 Così L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 777.

4 V. B.LIBONATI (nt. 37, cap. 1), citato da G.M.ZAMPERETTI (nt. 17, cap. 1), 1086,

nt. 4 (e v. altresì ivi, 1086, nel testo, ove si afferma che «l’attenuazione del metodo collegiale che la delega comporta viene elisa di fronte alla particolare situazione di cui all’art. 2391 c.c., che provoca una nuova espansione della collegialità nella sua tipica funzione di ponderazione e di realizzazione di decisioni imprenditoriali efficienti»: sulla funzione della collegialità v. immediatamente infra nel testo).

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Diffusa è poi la tendenza a far leva, onde giustificare la previsione normativa di un simile meccanismo, sulle funzioni proprie della collegialità6: e dunque, in primis, sulla funzione di assicurare la miglior ponderazione delle decisioni gestorie – la quale, pur se suscettibile di essere sacrificata a fronte di altre preminenti esigenze (quali quelle di snellezza e rapidità della gestione), tornerebbe a rivelarsi irrinunciabile «di fronte alla particolare situazione di cui all’art. 2391 c.c.»7 – ; ma altresì (e in maniera, sembrerebbe, ancor più convincente) sulla funzione di composizione, anzi di «ponderata

composizione», dei conflitti e contrasti valutativi che dovessero sorgere

in ordine agli interessi da privilegiare nella conduzione dell’impresa8. Senza rinnegare la (astratta) riconducibilità di siffatte funzioni all’istanza di collegialità, sembrano però potersi avanzare alcuni rilievi critici circa l’estensione della medesima. Segnatamente, sembra potersi revocare in dubbio la postulata riserva di collegialità delle operazioni nelle quali “interferiscano”9 interessi facenti capo agli amministratori10. E ciò, si badi, non già solo – come è ovvio – avendo riguardo all’ipotesi di amministrazione monocratica11; ma altresì – il

6 Sulle funzioni assolte dalla collegialità nell’ambito dell’organo amministrativo v. ad

esempio M.STELLA RICHTER jr, La collegialità del consiglio di amministrazione tra

ponderazione dell’interesse sociale e composizione degli interessi sociali, in Amministrazione e amministratori di società per azioni, a cura di B. Libonati, Roma,

1995, 277 ss.; S.CORSO, La possibile composizione degli interessi del consiglio di

amministrazione di s.p.a., discussion paper presentato per il convegno L’impresa e il diritto commerciale: innovazione, creazione di valore, salvaguardia del valore nella crisi, Roma 21-22 febbraio 2014, disponibile sul sito www.orizzontideldirittocommerciale.it.

7 V. il già citato passo di G.M.ZAMPERETTI (nt. 17, cap. 1), 1086.

8 Così G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 28 (corsivo nel testo), e v. altresì ivi, nt. 17, ove si

richiama per l’idea di un’accentuazione della funzione compositoria, nell’ambito del sistema riformato, V.PINTO, Funzione amministrativa e diritti degli azionisti, Torino, 2008; nonché S.CORSO (nt. 6).

9 V. supra, cap. 1.

10 Di riserva di collegialità parla espressamente (invero qualificandola come

«tendenziale», ma sul punto v. la nota successiva) G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 27; v. altresì G.M.ZAMPERETTI (nt. 17, cap. 1), 1086.

11 Viceversa, esclusivamente a quest’ipotesi parrebbe riferirsi Guizzi nel connotare

con l’attributo «tendenziale» la riserva in parola, come può evincersi dalla circostanza che l’A. parla di scelta «necessariamente [da adottarsi] con una decisione collegiale», allorquando l’amministrazione sia articolata su base pluripersonale [G. GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 27 s., (corsivo mio)].

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che è tutt’altro che scontato – ove si consideri il caso di amministrazione organizzata su basi pluripersonali.

2. Prima però di affrontare la questione, occorre chiarire cosa debba

intendersi con la locuzione «organo collegiale», che figura nella disposizione normativa. Al riguardo, sembra potersi accedere alla tesi per cui destinatario dell’investitura cui allude la norma non debba essere sempre e necessariamente il consiglio di amministrazione (come invece affermano molti tra i primi commentatori12), ma possa bensì essere il comitato esecutivo13 (o altro comitato interno al consiglio14), alla condizione che sia espressamente delegato a procedere in tal senso15.

La soluzione risulta preferibile sul piano pratico, avendo il vantaggio di ridimensionare gli appesantimenti che per converso conseguirebbero alla generalizzata convocazione del consiglio in simili ipotesi16 (ciò spiega perché siffatta soluzione sia stata additata come una delle vie praticabili per risolvere, o almeno sdrammatizzare, il «dilemma»17 dell’applicazione dell’art. 2391 c.c. in un contesto di gruppo18).

Ne discenderebbe che, ove anche si ammettesse l’esistenza di una riserva collegiale, questa non potrebbe comunque atteggiarsi quale

12 Lo rilevano L.ENRIQUES A. POMELLI (nt. 51, cap. 1), 767. V. ad esempio S.

AMBROSINI (nt. 8, cap. 2), 65; F.BONELLI (nt. 17, cap. 1), 151; G.GUIZZI (nt. 7, cap. 1), 662 s.

13 In questo senso L.ENRIQUES A.POMELLI (nt. 51, cap. 1), 767; D.CANDELLERO

(nt. 11, cap. 1), 752; U.PATRONI GRIFFI (nt. 107, cap. 1), 464; L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 777; M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 473.

14 Così M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 473.

15 In questi termini L.ENRIQUES A.POMELLI (nt. 51, cap. 1), 767; L.SAMBUCCI (nt.

11, cap. 1), 777. Nel senso che sarebbe sufficiente che l’operazione rientrasse tra quelle rimesse alla competenza delegata del comitato D.CANDELLERO (nt. 11, cap. 1), 752, e, parrebbe, U.PATRONI GRIFFI (nt. 107, cap. 1), 464.

16 Cfr. L.ENRIQUES A.POMELLI (nt. 51, cap.1), 767. Sui cennati appesantimenti v.

supra, cap. 2.

17 Per mutuare l’espressione di F. D’ALESSANDRO, Il dilemma del conflitto d’interessi

nei gruppi di società, in AA. VV., I gruppi di società, Atti del convegno internazionale di studi di Venezia, 16-17-18 novembre 1995, II, Milano, 1996, 1085 ss.

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incondizionata riserva in favore del plenum dell’organo

amministrativo.

3. Ora, per accostarci alla soluzione del problema che ci occupa,

occorre fare chiarezza in ordine ai presupposti dell’obbligo di astensione: in particolare esaminando chi vi sia tenuto ed in quali circostanze.

Sul piano soggettivo anzitutto, giusta il riferimento all’amministratore

delegato, potrebbe sollevarsi il dubbio di un’applicazione (analogica)

dell’obbligo in parola – con conseguente investitura del consiglio – all’organo delegato collegiale (fondamentalmente, il comitato esecutivo), per l’ipotesi in cui anche uno solo dei suoi membri sia interessato all’operazione che il primo debba deliberare19.

Ma un simile dubbio non sembra potersi accogliere, per la ragione che la norma chiaramente prospetta, per l’ipotesi adombrata, la conservazione della competenza decisoria in capo al comitato esecutivo, limitandosi a prevedere, oltre agli obblighi comunicativi (e, forse, motivazionali20), l’impugnabilità delle relative delibere alle condizioni e nei limiti di cui al 3° comma (nonché le connesse responsabilità ai sensi del 4° comma)21.

In tal modo peraltro non fa che uscirne rafforzata l’idea che alla base della sterilizzazione delle competenze delegate vi sia l’esigenza di ricostruire un contesto di collegialità, in ragione delle funzioni a questo

19 In effetti, in dottrina non si è mancato di ventilare un simile dubbio: lo rileva G.

GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 36 s., nt. 31, che rimanda, per sintetici riferimenti sul punto, a P.P.FERRARO, Gli «interessi degli amministratori» negli organi delegati di s.p.a., in AA.VV., La dialettica degli interessi, 396.

20 Sul punto v. infra in questo capitolo.

21 Cfr. G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 36 s., nt. 31, nonché 28 s., nt. 17, ove peraltro si

contempla un’eccezione alla regola generale dell’assenza di un obbligo di astensione a carico del comitato esecutivo: il riferimento è all’ipotesi in cui ad avere un interesse nell’operazione sia (la totalità o comunque) la maggioranza dei membri del comitato. Ma la prospettazione non convince: fondamentalmente perché non può ritenersi tuttora sussistente (come per converso sostiene l’A.) un obbligo di astensione (dal voto) per il singolo amministratore. Anche nell’ipotesi ora ventilata, dunque, deve riconoscersi la competenza del comitato.

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intimamente associate22: un’idea di cui però qui – giova ripeterlo – non si contesta la validità, ma solo l’incondizionata operatività.

Sempre sul piano soggettivo deve poi rilevarsi, pur solo incidentalmente, che a seguito dell’intervento normativo del 2004 non parrebbe residuare spazio alcuno per ritenere operante l’obbligo di astensione in capo all’amministratore unico.

4. Riconosciuto, dunque, che a doversi astenere sia il solo

amministratore (organo monocratico) delegato, può procedersi all’enucleazione dei presupposti oggettivi che facciano scattare l’anzidetto obbligo.

In primo luogo, deve darsi conto del diffuso convincimento per cui l’obbligo in parola sussisterebbe con riguardo alle sole competenze gestorie23 affidate all’amministratore delegato24. Ne risulterebbero pertanto escluse le ipotesi in cui questi si limiti, nell’esercizio di un potere di (mera) rappresentanza, a dare rilevanza esterna ad una decisione (rispetto alla quale vanti bensì un interesse, ma) che sia stata assunta dal plenum del consiglio (o di altro organo delegato)25.

E in effetti l’idea di una circoscrizione dell’ambito operativo della disciplina prefigurata dall’art. 2391 c.c. alla sola attività deliberativa dell’organo amministrativo sembra persuasiva.

Eppure, non si nascondono i profili di problematicità insiti nell’anzidetta ricostruzione, in ispecie laddove pretende di ravvisare il

discrimen tra attività deliberativa e attività rappresentativa (ai fini della

determinazione del campo applicativo dell’obbligo in esame) nella

22 Cfr. ancora ivi, 28 s., nt. 17.

23 Qui l’espressione è intesa come destinata a contrapporsi, non già alle attività di

carattere organizzativo (come per converso supra, cap. 2), bensì – come si dirà immediatamente – a quelle di rappresentanza.

24 Così M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 467; L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 777; v.

ancheL.ENRIQUES – A.POMELLI (nt. 51, cap. 1), 766 s. Contra, isolatamente, S. PACCHI (nt. 21, cap. 1), 687 s.

25 V. M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 467. L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 777, si

riferisce più genericamente ad operazioni «decise dall’organo collegiale». Invero potrebbe farsi riferimento anche alle operazioni decise da altro organo delegato monocratico, che sia privo del potere di rappresentanza.

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sussistenza o meno di un potere discrezionale in capo all’amministratore26: nella sussistenza o meno, dunque, di quel margine di discrezionalità che – lo si è ricordato27 – costituirebbe il presupposto irrinunciabile per la configurabilità di un conflitto di interessi.

Ora, il fatto è che neppure nell’esercizio di una funzione di (mera) rappresentanza possono dirsi assenti profili di discrezionalità.

Anzitutto, ben possono riconoscersi all’amministratore che sia investito di una tal funzione (e a prescindere dalla circostanza che egli sia al contempo destinatario di una delega gestoria) margini di manovra (pur certo contenuti28), per procedere al compimento dell’operazione29: giacché generalmente sfuggirebbe in sede deliberativa la compiuta prefigurazione dell’operazione medesima in tutti i suoi dettagli.

Ma ove anche si ammettesse di poter ridurre l’amministratore-rappresentante al rango di mero nuncius, chiamato semplicemente a manifestare all’esterno una decisione da altri assunta e da altri compiutamente predeterminata30, non gli si potrebbe comunque negare il potere (discrezionale) di valutare se effettivamente procedere in tal senso o meno. Lungi infatti dal potersi configurare l’esecuzione della delibera alla stregua di un obbligo cui l’amministratore sarebbe immancabilmente tenuto, dovrebbe per converso riconoscersi che egli possa rifiutarsi di darvi attuazione, ove possano derivarne danni alla

26 V. gli autori citati nella nota 25. 27 V. supra, cap. 2.

28 Posto che, diversamente, si sconfinerebbe nell’esercizio di un potere (gestorio)

delegato.

29 Questo inteso come trasposizione nella realtà esterna del deliberatum, dunque

come conformazione della prima al secondo (v. supra, cap. 2)

30 La possibilità di ammettere il carattere meramente nunciatorio della rappresentanza

societaria è stata ampiamente criticata in dottrina: e peraltro la critica sembra appuntarsi, più che sul piano, qui in rilievo, del contenuto dell’atto (di cui non si escluderebbe la possibilità di un’integrale predeterminazione in sede deliberativa), su quello della formazione della volontà decisoria (la quale sarebbe da ricondurre all’azione del rappresentante, che in tal modo non potrebbe assimilarsi appunto ad un mero nuncio): cfr. sul punto L. DELLA TOMMASINA, Dissociazione fra gestione e rappresentanza nella società per azioni e diritti dei terzi, in Riv. soc., 2015.

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società31. Si tratterebbe anzi di un potere-dovere, che discenderebbe dalla previsione di cui all’art. 2392, 2° comma c.c., e la cui inosservanza dunque esporrebbe l’amministratore a responsabilità nei riguardi della società32.

Insomma, sotto il profilo in parola (quello appunto della sussistenza di un margine di discrezionalità in capo all’amministratore) non potrebbe ravvisarsi alcuna significativa differenza tra attività deliberativa ed attività rappresentativa, capace di giustificare la pretesa diversità di regime in merito all’operatività dell’obbligo di astensione.

Per addivenire ad un simile esito, dovrebbe allora percorrersi una diversa via. Ma occorre qui fermarsi, lasciando che dal prosieguo emergano indici che possano guidarci in quest’indagine – del resto, solo trasversale al nodo problematico che preme risolvere.

Ad ogni modo, ammesso che rispetto alle funzioni gestorie è pacifica l’applicabilità dell’obbligo in esame, non parrebbe sollevare particolari problemi l’affermazione per cui lo stesso scatterebbe «a fronte di ogni ipotesi di delega, sia essa quella c.d. interna, cioè disposta direttamente dal consiglio […]33, sia essa quella c.d. autorizzata dai soci o contemplata dallo statuto»34.

5. Ora, deve prendersi atto del fatto che la norma si riferisce

all’amministratore delegato rispetto al quale si realizzi la circostanza contemplata nel primo periodo del 1° comma: l’essere, cioè, portatore per conto proprio o di terzi di un interesse (poi rilevante, secondo quanto ampiamente analizzato) in una determinata operazione della società. Quid juris per l’ipotesi di delegato non interessato, ove un

31 V. L.ENRIQUES (nt. 2, cap. 1), 386 ss.; L.DELLA TOMMASINA (nt.31). 32 V. ancora L.ENRIQUES (nt. 2, cap. 1), 389 ss.

33 La qual tipologia di delega sarebbe oggi ammessa, potendo rinvenire una base

normativa nella previsione di cui al novellato art. 2392, 1° comma c.c. Contra però VASSALLI, Commentario romano, II. 2, 28 ss.

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altro amministratore sia portatore di un interesse nell’operazione di

competenza del primo?

L’ipotesi, a mio avviso singolarmente, è pressoché ignorata dalla dottrina. Per inquadrarla giuridicamente, e segnatamente sotto il profilo dell’operatività dell’obbligo di astensione, occorre peraltro allargare il campo di indagine, rivolgendoci ancora una volta all’obbligo di comunicazione e alla sua portata applicativa.

6. È ormai pacifico che l’obbligo di disclosure scatti a prescindere

dal fatto che l’operazione debba essere deliberata dal consiglio di amministrazione. L’idea, già coltivata nel vigore della precedente disciplina35, trova puntuali riscontri normativi a seguito della riforma del 2003-2004, che contempla espressamente le ipotesi dell’amministratore delegato36 e dell’amministratore unico (interessati). Invero, se sol ci si volge ad approfondire una simile idea, per individuare le operazioni, diverse da quelle rientranti tra le competenze deliberative del c.d.a., che sarebbero parimenti soggette all’obbligo informativo, all’anzidetta univocità di vedute si sostituiscono prospettive tutt’altro che coincidenti.

Un punto fermo sembra essere costituito dall’applicabilità dell’obbligo nel caso di operazioni di competenza del comitato esecutivo37.

A sostegno di una simile conclusione38 sono stati addotti39, oltreché indici di ordine letterale, argomenti di carattere sistematico, volti a mostrare come la diversa opinione (che pretenderebbe di sottrarre alle

35 V. L.ENRIQUES (nt. 2, cap. 1), 214 ss., il quale riferisce anzi che in tal senso

doveva dirsi orientata la dottrina unanime. Per parte sua, l’A. suffraga l’anzidetta idea con plurimi argomenti, di ordine letterale, finalistico, storico.

36 Rispetto al quale l’intervento dell’organo collegiale (peraltro non necessariamente

del plenum del consiglio) è solo successivo.

37 V. U.PATRONI GRIFFI (nt. 107, cap. 1), 463; M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 460

ss.; L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 767.

38 A rigore non imposta dalla lettera del 3° comma; sul punto v. anche infra, in

questo capitolo.

39 V. M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 460 s. (ivi, 461 per il virgolettato). Ma v. pur

sempre gli argomenti prospettati da L.ENRIQUES (nt. 2, cap. 1), 214, e riportati nella nota 36.

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prescritte cautele (in primis) informative le materie delegate al comitato esecutivo) «consentirebbe di eludere facilmente la nuova disciplina, semplicemente delegando [al comitato] le attribuzioni dell’organo di gestione».

Una tal conclusione risulta, poi, pienamente estensibile alle operazioni di competenza di altri comitati eventualmente istituiti all’interno del consiglio di amministrazione40.

6. 1. A rivelarsi controversa, nelle anzidette circostanze, è peraltro

l’individuazione dei soggetti attivi e passivi della comunicazione. Con riguardo ai primi, si è sostenuto che, ove la competenza decisoria spetti ad un comitato, l’obbligo informativo non graverebbe sugli amministratori che (pur interessati all’operazione) non ne siano membri41. Una tal opinione è stata suffragata da un duplice ordine di rilievi: si è osservato, per un verso, che l’amministratore interessato, nella misura in cui non faccia parte dell’organo chiamato a decidere, non sia in grado di «influenzare direttamente la decisione»; per altro verso, che egli, «pur vigilando sull’attività del comitato e adempiendo al proprio potere-dovere di agire in modo informato (art. 2381, ult. comma), [possa] non essere a conoscenza dell’assunzione di quella particolare delibera da parte dell’organo delegato»42.

I due rilievi non convincono.

Non convince il primo, posto che, se deve in effetti escludersi la capacità del non membro di influenzare direttamente la decisione, non può negarsi che egli possa comunque esplicare nei riguardi dei componenti il comitato (in virtù dei rapporti che immancabilmente ed

40 Rispetto ai quali varrebbero gli argomenti poc’anzi riportati: v. M.VENTORUZZO

(nt. 9, cap. 1), 460 ss. Cfr. altresì L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 767 s. Quanto poi al richiamo (che si rinviene nel 3° comma dell’art. 2391 c.c.) al solo comitato esecutivo, lo stesso non sarebbe preclusivo di un’estensione della disciplina a comitati diversi: v. ancora M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 460, nt. 90.

41 In tal senso M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 462; L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1),

767. Contra U.PATRONI GRIFFI (nt. 107, cap. 1), 463; G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 36 s., nt. 31.

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istituzionalmente intrattenga con questi) un’influenza indiretta: e si è visto43 come questa possa rivelarsi parimenti pericolosa per la corretta gestione societaria; e come ad una simile pericolosità non sia stato affatto insensibile il legislatore della riforma – il quale anzi ne avrebbe tratto motivo per non riproporre l’obbligo di astensione (dal voto)4445. Ma non convince neppure il secondo, che pretende di costruire una regola generale (quella dell’inoperatività dell’obbligo di comunicazione), facendo leva su una circostanza (quella della mancata conoscenza da parte dell’amministratore della delibera rispetto alla quale vanti un interesse) invero meramente eventuale. Appare per converso ben più opportuno ammettere, in generale e in astratto, l’operatività dell’obbligo informativo, salvo poi escluderla nel caso

concreto, ove si realizzi la circostanza paventata. E se una simile

circostanza potrebbe pur farsi oggetto di una presunzione relativa (con conseguente inversione dell’onere probatorio), sarebbe di contro eccessivo ed irragionevole porla a fondamento di una presunzione assoluta: ciò che in ultima analisi farebbe il richiamato rilievo.

A ciò si aggiunga che la funzione della comunicazione sarebbe da ricercare – così si è ritenuto di poter ammettere46 – , non già solo nell’«“autocensura” dell’amministratore interessato», ma altresì nella «messa in guardia degli amministratori disinteressati» (e del collegio sindacale). Nel caso ora contemplato, pertanto, «verrebbe effettivamente meno il fine di autocensura, […] ma resterebbe valido l’obiettivo di assicurare che gli altri amministratori e il collegio

43 V. supra, cap. 1.

44 Semprechè non si acceda alla tesi minoritaria che vuole un tale obbligo tuttora

esistente.

45 Insomma, potrebbero prospettarsi con riguardo all’ipotesi in esame le

considerazioni (appunto facenti leva sulla nozione di influenza indiretta) che inducono a ritenere operante l’obbligo informativo pur in caso di assenza dell’amministratore interessato dalla riunione del consiglio. Non può che stupire allora il fatto che a simili considerazioni pienamente aderisca l’A. di cui qui si riporta il pensiero (v. M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 447 s., nt. 61): il quale finirebbe per riservare un trattamento ingiustificatamente diverso a due ipotesi sotto il profilo in parola assimilabili.

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sindacale siano messi in guardia di fronte a situazioni potenzialmente sospette»47.

Ma allora la pretesa circoscrizione dell’obbligo di disclosure ai soli amministratori che facciano parte dell’organo collegiale (delegato) investito della competenza decisoria non sembra potersi accogliere.

6. 2. Quanto poi ai destinatari della comunicazione (provenga essa

da un membro o da un non membro del comitato chiamato a decidere), v’è ragione di credere che gli stessi siano da individuare (oltreché nel collegio sindacale) in tutti gli amministratori, e non già solo in quelli componenti il comitato48.

Onde suffragare una simile soluzione estensiva, si è in dottrina fatto appello, per un verso49, al carattere di strumentalità della comunicazione rispetto agli obblighi di controllo sull’operato dei delegati; i quali obblighi tuttora (pur a fronte dell’espunzione del riferimento al dovere di vigilanza dall’art. 2392 c.c.) gravano sui deleganti (non delegati) – dunque sui non membri del comitato.

Per altro verso50, ci si è riferiti al carattere parimenti strumentale della comunicazione rispetto al («consapevole esercizio» del) potere (-dovere) di impugnazione delle delibere del comitato; un potere-dovere anch’esso da riconoscere in capo ai non membri (non potendosi costoro annoverare tra coloro i quali abbiano «consentito con il proprio voto alla deliberazione»: questi soli tra gli amministratori privi, ai sensi

47 Così L.ENRIQUES (nt. 2, cap. 1), 215, con riguardo all’ipotesi (assimilabile a quella

in esame, come poc’anzi illustrato) dell’assenza dell’amministratore.

48 Così G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 36 s. , nt. 31; M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 465

(il quale pure – lo si è ampiamente visto – aderisce alla soluzione restrittiva con riguardo ai soggetti attivi della disclosure). Cfr. altresì (con riferimento alla disciplina previgente) L.ENRIQUES (nt. 2, cap. 1), 221, testo e nt. 28, ove ulteriori riferimenti bibliografici.

49 V.M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 465. 50 Ibidem.

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dell’art. 2391, 3° comma c.c., della legittimazione all’impugnazione)51 52.

Alla luce di siffatti rilievi emerge l’inadeguatezza di quello che prima

facie parrebbe un valido argomento a sostegno della soluzione

restrittiva53: l’argomento54 facente leva sulla «strumentalità della comunicazione all’assunzione di una decisione ponderata».

Si badi: non vuol qui certo negarsi – si finirebbe per condannare al macero quanto si è venuti sostenendo sul ruolo della trasparenza nella disciplina sul conflitto di interessi – il nesso, appunto di strumentalità, dell’informazione rispetto al momento decisorio: e segnatamente, rispetto ad una decisione che non sia indebitamente condizionata dalla considerazione di interessi altri, non riconducibili a quello della società.

Si vuol qui mostrare, per converso, che sarebbe riduttivo circoscrivere quella decisione, cui la comunicazione risulta funzionalmente preordinata, alla sola scelta gestoria relativa all’an e al quomodo dell’operazione oggetto dell’interesse interferente. Giacché alla suddetta scelta gestoria si affiancherebbero altre decisioni, «ponderate», che la disclosure varrebbe parimenti a sollecitare: genericamente, le decisioni in merito all’esercizio dei poteri-doveri che l’ordinamento appresta per garantire la correttezza di quella scelta gestoria (e dunque, suo tramite, la correttezza della conduzione della gestione societaria)55.

Ne sarebbe prova la circostanza che la comunicazione sia da rivolgere anche al collegio sindacale: se pur deve escludersi che i sindaci,

51 Ivi, 465, testo e nt. 101, nonché 480 s., nt. 137, ove anche argomenti sistematici. 52 Non sono mancate repliche (a mio avviso peraltro non convincenti) ai due

argomenti appena esposti: v. L.SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 768.

53 Soluzione, questa, espressamente accolta in altri ordinamenti, quale quello belga

(art. 524-ter del code des société): lo ricorda G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 36 s., nt. 31.

54 Di cui si dà conto ibidem. 55 Cfr. ibidem; nonché ivi, 23 s.

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nell’assistere alle riunioni del comitato (come a quelle del consiglio)56, si riducano a «semplici osservatori», potendosene per converso riconoscere il ruolo di «parte attiva del relativo dibattito»57, non ci si potrebbe affatto spingere sino al punto di attribuire agli stessi la veste di decidenti, quanto meno nell’accezione restrittiva di soggetti cui è demandata l’assunzione della scelta gestoria.

Risulta pertanto non sostenibile la pretesa di ricollegare la comunicazione ai soli decidenti stricto sensu, e di escluderne così, nel caso in cui il potere decisorio spetti ad un comitato, gli amministratori che di questo non siano membri.

7. Con queste premesse può venirsi a considerare il caso delle

operazioni che rientrino nelle competenze decisorie dell’amministratore (organo monocratico) delegato.

Sotto il profilo dell’obbligo di comunicazione, non pare esservi valido motivo per differenziare una simile ipotesi da quelle finora considerate. E ciò, si badi, non già solo, com’è ovvio, ove si abbia riguardo al caso dell’amministratore delegato interessato (soccorrendo qui il dato testuale). Ma altresì ove si consideri il caso dell’amministratore delegato non interessato, in presenza di un interesse facente capo ad altro amministratore (privo di deleghe gestorie, ovvero anch’egli delegato, ove si sia optato per un regime di amministrazione disgiuntiva).

Anche in una simile situazione, infatti, ben può paventarsi il rischio di un’influenza (pur solo indiretta, ciò che tuttavia risulta in questa sede irrilevante) sul decidente; anche in una simile situazione si apprezzano le esigenze (pur non di autocensura, ma quantomeno) di messa in

56 Assistenza oggi obbligatoria, anche con riguardo alle riunioni del comitato

(esecutivo), giusta la nuova formulazione dell’art. 2405 c.c.

57 V. G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 23 s., testo e nt. 9, ove si ricorda come, nel vigore

della precedente disciplina, la configurazione dei sindaci alla stregua di semplici osservatori, come tali non abilitati a interloquire, se non dietro espressa richiesta degli amministratori, fosse stata sostenuta da L.BUTTARO, Sulla presenza dei sindaci

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guardia: in primis dell’amministratore delegato chiamato a decidere; ma altresì degli altri amministratori e del collegio sindacale, ai quali spetta pur sempre l’assunzione di una decisione, lato sensu intesa. Non v’è ragione allora per non ritenere che la comunicazione sia parimenti dovuta dall’amministratore (non decidente) interessato; e che sia dovuta nei riguardi di tutti gli altri amministratori, oltreché del collegio sindacale58.

8. È solo accedendo ad un simile esito interpretativo che può

affacciarsi il problema, da cui si è partiti, dell’operatività dell’obbligo di astensione nelle anzidette circostanze. Giacché, ove per converso si reputasse non dovuta (da parte dell’interessato) quella comunicazione, in nessun modo potrebbe farsi gravare sul delegato la suddetta astensione.

Non tanto per la ragione che questi, in difetto di disclosure, non avrebbe contezza dell’interesse interferente (non potrebbe infatti escludersi la possibilità di una conoscenza aliunde); quanto piuttosto per la ragione che, ritenute insussistenti le esigenze che dovrebbero far scattare l’obbligo di comunicazione, verrebbe meno la possibilità di dare un fondamento all’obbligo di astensione, che da consimili esigenze (in primis quella di prevenzione di un’influenza, pur indiretta, della decisione; di prevenzione dunque di un abuso) risulta in ultima analisi ispirato.

Ma si è visto che quelle esigenze nel caso di specie non possano affatto dirsi assenti.

E purtuttavia non potrebbe, per il solo fatto della doverosità della comunicazione, ritenersi operante l’obbligo di astensione.

58 L’opinione è bensì diffusa e purtuttavia non pacifica [a dispetto di quanto

sembrano ritenere L. ENRIQUES – A. POMELLI (nt. 51, cap. 1), 765 s.]. In senso contrario infatti L. SAMBUCCI (nt. 11, cap. 1), 767; nonché (implicitamente, ma inequivocabilmente) M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1), 462.

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Invero, come si è osservato in dottrina59 «la lettera dell’art. 2391, comma 1°, non depone certo in tal senso». Né ad una simile conclusione conduce il comma 3°; «da questo non può ricavarsi infatti la regola per cui una deliberazione del consiglio o del comitato esecutivo debba necessariamente esservi: se vi è stata, essa sarà impugnabile secondo le regole ivi espresse, ma nulla di più se ne può dedurre».

Qualche incertezza potrebbe bensì derivare dalla rilevata affinità di

ratio tra comunicazione ed astensione: ma a fugare ogni dubbio

soccorrerebbero i rilievi sopra sviluppati in ordine alla strumentalità dell’informazione alla decisione, lato sensu intesa.

Una volta, infatti, che si ammetta che la comunicazione sia funzionale (anche) all’esercizio da parte degli altri amministratori e del collegio sindacale dei poteri-doveri agli stessi riconosciuti dall’ordinamento per garantire la corretta assunzione60 della decisione (qui intesa in senso stretto), parrebbe ragionevole ricomprendere tra siffatti poteri-doveri quello di «esperire ogni passo utile affinché il consiglio (o il comitato esecutivo) avochino a sé la deliberazione sull’operazione interessata»61.

Parrebbe ragionevole cioè ritenere che la «decisione ponderata», che rappresenta lo sbocco finalistico della comunicazione (e che immancabilmente sarebbe da declinare al plurale), si atteggi (anche) quale decisione sull’allocazione della competenza decisoria62.

Per una tal via, si giunge a riconoscere che il riparto verticale di funzioni realizzato con l’attribuzione di deleghe (individuali), lungi dall’essere automaticamente sterilizzato, sia – in presenza di un

59 V. L.ENRIQUES A.POMELLI (nt. 51, cap. 1), 770.

60 A rigore, siffatti poteri-doveri possono altresì operare successivamente

all’assunzione della decisione (si pensi, emblematicamente a quello di impugnazione).

61 L.ENRIQUES A.POMELLI (nt. 51), 770. 62 Cfr. L.ENRIQUES (nt. 2, cap, 1), 221.

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interesse non facente capo al delegato – (solo) fatto oggetto di ponderazione.

È una via che non incrina affatto il dovere di agire in modo informato; ma che, nel confermarne la centralità, ne sottolinea peraltro la non riducibilità ad un dovere di agire, sempre e comunque, collegialmente. È una via, allora, che vale a tracciare una significativa erosione della riserva di collegialità: anche in seno ad un’amministrazione pluripersonale.

9. Ben si comprende come la proposta ricostruzione non faccia che

esaltare l’autonomia dei vari obblighi procedurali contemplati dall’art. 2391 c.c.: i quali, bensì accomunati dalla medesima tensione finalistica, troverebbero distinti presupposti di operatività.

Così è per gli obblighi di comunicazione ed astensione (del delegato)63. Ma così è altresì, e conseguentemente, per gli obblighi di comunicazione e motivazione. A ben vedere, infatti, nelle ipotesi a lungo esaminate, ove si ritenga che la comunicazione sia bensì doverosa, ma che il delegato non interessato non perda per ciò solo la propria competenza decisoria, non residua spazio per reputare operante (pur solo analogicamente) l’obbligo di motivazione: il quale, come ampiamente rilevato in dottrina64, postula la scissione tra il momento deliberativo ed il momento attuativo, che nel caso di specie – trattandosi di ipotesi di esercizio individuale del potere gestorio – mancherebbe65.

63 E non già solo per l’ovvia ragione che non sempre si dà la presenza di un

amministratore delegato che dovrebbe in ipotesi astenersi.

64 V. G.GUIZZI (nt. 11, cap. 1), 33 ss., P.FERRO LUZZI (nt. 1, cap. 1), 668.

65 La conclusione potrebbe giovarsi dell’argomento a fortiori, ove si accedesse alla

tesi (invero minoritaria in dottrina) per cui l’obbligo di motivazione neppure graverebbe sul comitato esecutivo. Al riguardo mi limito a segnalare che, a dispetto di quanto per lo più ritenuto a sostegno della tesi maggioritaria, la lettera dell’ art. 2391 c.c. non impone affatto l’operatività dell’obbligo anche nei riguardi del comitato: il 3° comma infatti contempla distintamente le ipotesi di «inosservanza a quanto disposto nei due precedenti commi» (in cui figura l’obbligo di motivazione in capo al solo consiglio) e quelle di deliberazioni del consiglio e del comitato (qui per la prima volta nominate) adottate col voto determinante dell’amministratore

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In tal modo, verrebbe a spezzarsi il nesso di corrispondenza biunivoca generalmente ritenuto sussistente in dottrina tra comunicazione e motivazione6667.

10. Alla luce delle anzidette considerazioni può da ultimo

riprendersi il discorso avviato sulla (non) operatività dell’obbligo di astensione ove vengano in rilievo funzioni di (mera) rappresentanza dell’amministratore.

Al proposito da quelle considerazioni sembra potersi trarre il suggerimento di procedere, nell’accostarsi al problema, ad una separata analisi dei vari momenti in cui si articola la disciplina sul conflitto di interessi.

Quanto all’obbligo di comunicazione, nel caso in cui l’amministratore sia chiamato a dare esecuzione ad una deliberazione già da altri adottata, deve ritenersi che – in linea di principio almeno – la

disclosure dell’interesse interferente che allo stesso faccia capo sia già

stata posta in essere in vista dell’assunzione dell’anzidetta delibera. Quanto poi all’obbligo di motivazione e all’impugnabilità di cui rispettivamente ai commi 2° e 3° dell’art. 2391 c.c., si tratta di profili attinenti alla deliberazione: dunque sicuramente destinati a venire in rilievo con riguardo alla delibera della cui esecuzione si tratta, ma in questa sede non operanti; meglio, operanti solo nella misura in cui si ritenga doverosa l’astensione, e con essa l’esplicazione di un (nuovo) momento deliberativo.

Ora, l’accento deve ricadere proprio sull’inscindibilità tra l’obbligo di astensione e l’obbligo di investitura dell’organo collegiale. Se

interessato. A sostegno della soluzione restrittiva v. i rilievi formulati da L. ENRIQUES –A.POMELLI (nt. 51, cap. 1), 769.

66 V. ex multis D.CANDELLERO (nt. 11, cap. 1), 749; S.PACCHI (nt. 21, cap. 1), 685. 67 Non escludo che l’autonomia dei vari obblighi di cui all’art. 2391 c.c. possa

apprezzarsi altresì sul piano del regime; in ispecie con riguardo al profilo della derogabilità statutaria. Ne potrebbe forse derivare (ove si ammettesse siffatta derogabilità, se non per l’obbligo di comunicazione [v. M.VENTORUZZO (nt. 9, cap. 1)], quanto meno per quello di astensione) un’ulteriore via per far fronte al «dilemma» dell’applicazione della disposizione in esame ai gruppi di società.

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l’astensione così come concepita dal legislatore, lungi dal potersi in sé esaurire, si rivela per contro funzionale a sollecitare l’intervento collegiale, sembra ragionevole ritenere che, ove un simile intervento già si sia avuto, non vi sia necessità di reiterarlo.

Ben quell’organo, destinatario dell’investitura, avrebbe potuto, in

quanto compiutamente informato dell’esistenza (e dei tratti distintivi) dell’interesse68, rimettere il potere di rappresentanza (nel caso di specie) ad un soggetto diverso dall’amministratore portatore del suddetto interesse.

Forse anzi si potrebbe parlare di un potere-dovere facente capo a quell’organo di procedere in tal direzione, pienamente rientrante nel novero di quei poteri-doveri di cui la comunicazione vale a stimolare il (ponderato) esercizio.

Anche qui, una simile soluzione si lascerebbe apprezzare per i tratti di flessibilità nella stessa insiti. Una flessibilità perseguita senza rinunciare ad una responsabilizzazione dei soggetti cui è demandata la gestione societaria: dei deliberanti, chiamati a ponderare se mantenere (o meno) in capo all’amministratore, pur interessato, il potere rappresentativo; di quest’ultimo, chiamato pur sempre a valutare, sotto la propria responsabilità (2392, 2° c.), se esercitare (o meno) quel potere di cui non fosse, in ipotesi, privato.

Insomma, e per concludere, davvero sembra potersi leggere la norma che sancisce l’obbligo di astensione del delegato interessato dal

68 È evidente che il presupposto su cui si regge la soluzione che qui si va illustrando

sia da ricercare nell’avvenuto espletamento della disclosure. Non è, peraltro, difficile immaginare situazioni in cui un simile presupposto (fisiologicamente) non si realizzi: si pensi ai casi di nomina (ed investitura del potere di rappresentanza) dell’amministratore interessato successiva alla deliberazione; o di sopravvenuta emersione dell’interesse; o ancora di oggettiva non riconoscibilità (preventiva) dell’interesse. In queste ipotesi marginali, non v’è ragione per non ritenere doverosa la comunicazione. Nonché l’astensione e la connessa investitura dell’organo collegiale, di cui vi sarebbe bensì stato l’intervento, ma senza che allo stesso potesse attribuirsi quella funzione di ponderazione di cui si dà conto nel testo.

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compimento dell’operazione come destinata ad operare solo «fino a

quando la riserva collegiale69 non sia stata motivatamente sciolta»70.

69 Ovviamente fatti salvi i rilievi ampiamente sviluppati circa l’estensione di una

simile riserva.

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