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Medico e responsabilità: attese e prospettive di un mercato in evoluzione critica

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Academic year: 2022

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Medico e responsabilità:

attese e prospettive di un mercato in evoluzione critica

Dr. Lino Schepis*

Quanto sta avvenendo nel settore della responsabilità professionale del personale sanitario rientra in un più generale fenomeno di revisione sociale del concetto di responsabilità legata all’esercizio di una professione o di un mestiere.

Si può dire, anzi, che questa rivisitazione riguardi l’intero ambito della responsabilità civile verso terzi.

Basti pensare a come viene valutata oggi, ed anche impostata sul piano normativo, la responsabilità per danni provocati da difetti di produzione di beni, la responsabilità di pubblici funzionari, (non esclusi persino i magistrati), la responsabilità civile ravvisabile addirittura all’interno di relazioni familiari.

Il fenomeno non va interpretato negativamente, essendo essenzialmente espressione di un progresso sociale e culturale della collettività. Occorre tuttavia prenderne atto, valutarlo correttamente, misurarne le conseguenze per le inevitabili ricadute sulla collettività stessa, anche in tema di maggiori oneri finanziari.

La responsabilità del medico, secondo la visione prospettica dell’assicuratore, rappresenta la punta dell’ “iceberg” del complessivo problema delle responsabilità professionali in genere.

Da qualche tempo viene data grande evidenza dai media alla negativa evoluzione tecnica di comparto: si è segnalato che nel 1995 il mercato assicurativo ha assunto premi per 180 miliardi (meno del 7% del fatturato RCD), ed ha registrato esborsi, per costi sostenuti o posti a riserva, pari a 360 miliardi circa (il 14% dei costi complessivi).

In termini di rapporto sinistri a premi, parametro essenziale di valutazione di un prodotto assicurativo da parte dell’impresa, siamo quindi al 200%.

Anche un non addetto ai lavori è in grado di percepire immediatamente che un’attività di impresa gravata da oltre il 100% di perdite (in effetti occorre tenere conto anche dei costi di assunzione e gestione dei rischi, tecnicamente definiti “caricamenti”) non possa assolutamente essere seguitata, neppure agendo vigorosamente sulla leva tariffaria, comunque soggetta a limiti.

Non sono noti ancora i dati ufficiali di mercato del 1996, ma alcune anticipazioni aziendali fanno ritenere che la situazione di comparto sia rimasta invariata, se non ulteriormente peggiorata.

A che cosa si deve questa evoluzione così negativa?

I fattori sono molteplici:

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In primo luogo, ad una crescente sensibilizzazione della collettività, e della stessa magistratura, verso la tutela dei diritti dei cittadini, mediante il progressivo allargamento delle aree di responsabilità dei sanitari.

Il che appare comprensibile e per molti aspetti legittimo, considerato il fatto che vengono in discussione due tra i diritti fondamentali della persona, il diritto alla vita e quello all’integrità psico-fisica.

Iniziative come la costituzione di un ente quale il “tribunale del malato” esprimono efficacemente questa crescente attesa di tutela dei diritti dei cittadini nei confronti della struttura sanitaria del Paese.

La stessa modalità con la quale è stato affrontato negli anni ’80 l’allora nascente problema del contagio in ambito ospedaliero da AIDS credo risulti emblematica dell’atteggiamento di protezione dei cittadini anche in situazioni di colpa dubbie od addirittura assenti.

Il fenomeno ha inevitabilmente generato un aumento di casistica, tecnicamente di

“frequenza sinistri”, e di situazioni conflittuali, ovvero di contenzioso.

E’ singolare rilevare come oggi nessuna delle categorie dei sanitari, anche quelle tradizionalmente ritenute “tranquille”, sfugga al rischio di vedere implicata una responsabilità professionale. In un recente articolo di stampa, pubblicato nel corso dell’estate a firma di un medico legale il prof. Crinò di Messina, è stata richiamata l’attenzione sul crescente rischio professionale dei medici-legali, ma anche di altri sanitari coinvolti nella delicata fase dell’accertamento e dimostrazione dell’effettivo accadimento dell’evento lesivo (in particolare dei medici di pronto soccorso e dei medici di famiglia).

Oltre ai noti riflessi di natura penalistica (reati di concorso in truffa e falso ideologico, assunti di recente agli onori della cronaca, su piazze come Genova, Milano, Roma), l’articolo richiama l’attenzione sulla possibilità che certificazioni od attestazioni compiacenti, o non sufficientemente meditate e critiche, ingenerino nell’infortunato aspettative risarcitorie che, se frustrate in un giudizio civile, potrebbero per tale titolo indurre lo stesso a richiedere i danni al sanitario.

In qualche misura l’aumento della frequenza può essere, paradossalmente, ricondotto anche agli stessi progressi compiuti negli ultimi anni della scienza medica, all’uso di nuove tecniche, soprattutto alla legittima ricerca di benessere, di maggiore durata e qualità della vita (si pensi al crescente ricorso ai chirurghi estetici, anche da parte di soggetti di sesso maschile, agli specialisti in ortodonzia...).

La ricerca di maggiore tutela dei cittadini ha comportato inoltre, negli anni, una maggiore severità nella valutazione della condotta dei sanitari da parte della magistratura.

Fino agli anni ’70 la giurisprudenza era orientata ad individuare la responsabilità del medico solo al di là degli estremi limiti del dolo e della colpa grave; negli anni più recenti, si è assistito ad un progressivo abbassamento dei limiti di responsabilità del sanitario, la cui condotta viene valutata con criteri più rigorosi, anche in termini di colpa media o lieve, nei casi in cui il livello di conoscenze tecnico-scientifiche, e lo standard professionali di riferimento raggiunti rendono sempre più frequente il richiamo ad un’obbligazione “di risultato” piuttosto che alla tradizionale obbligazione “di mezzi”.

Senza indugiare troppo su considerazioni tecnico-giuridiche, che altri Relatori hanno sviluppato in modo più che approfondito e competente, vorrei dire che le attuali esperienze

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inducono a far ritenere superata ed inadeguata la classica bipartizione tra responsabilità contrattuale (del medico prescelto) e responsabilità extra-contrattuale (del medico di struttura).

E’ fuor di dubbio che, in analogo caso (ad esempio, in presenza di un’appendicectomia più o meno urgente, di un taglio cesareo, o simili) la valutazione dell’operato del sanitario non può essere diversa, non può comportare inversioni probatorie o diversità di termini prescrizionali.

Come ha di recente riaffermato la Corte dei Conti in sede giurisdizionale con sentenza resa il 22 gennaio 1997, il medico, ospedaliero e non (nella specie si trattava proprio di medico dipendente) è responsabile in quanto abbia violato la “lex artis”, cioè non abbia adempiuto all’obbligo giuridico di evitare il danno ad essa connesso, connotando la propria condotta con imprudenza, imperizia, negligenza, inosservanza di leggi (o di norme deontologiche o di regole di comune scienza).

Del tutto indifferente risulta quindi, in tali situazioni, il ruolo di medico dipendente, ovvero di medico contrattualmente prescelto.

E’ peraltro possibile che a tale responsabilità, solo per comodità sistemica definibile come extra-contrattuale, si accompagni un’ulteriore specifica responsabilità contrattuale per risultati promessi e non raggiunti.

In altre parole, se nel corso di un trattamento o di un intervento chirurgico venga procurato al paziente un danno alla persona, tale danno sarà valutato in entrambe le situazioni allo stesso modo e con gli stessi criteri. Se, oltre od indipendentemente da ciò, tale trattamento od intervento non fornisca i risultati sperati e promessi, si determinerà una situazione di inadempienza contrattuale, in aggiunta (e non in alternativa) ad un’eventuale responsabilità extra-contrattuale.

E’ evidente che anche questa diversa visione, peraltro del tutto condivisibile sul piano logico e giuridico della colpa del medico, aggrava i rischi per l’assicuratore.

• Un altro fattore indubbiamente responsabile della crescita del costo dei sinistri è l’evoluzione della disciplina del danno alla persona.

Si tende a dare semplicisticamente la colpa di tutto al danno biologico, reo di avere allargato le figure di danno risarcibile oltre il limite del ragionevole.

Personalmente ritengo che l’introduzione nel nostro ordinamento della figura del danno biologico - che, giova ricordarlo, non è stato “inventato” dalla giurisprudenza genovese e da quella della Corte Costituzionale, ma solo “identificato” e posto in doverosa evidenza, razionalizzando ciò che già apparteneva da decenni alle conoscenze ed alla prassi liquidativa degli operatori assicurativi (già nei primi anni’50 il Gerin ne delineava i connotati) - debba essere vista in chiave essenzialmente positiva, come un qualificante progresso della cultura giuridica e sociale del nostro Paese.

Vero è che le nuove tematiche hanno favorito tutta una serie di (lodevoli) approfondimenti, ed alcune (meno lodevoli) esasperazioni di ipergarantismo, quali ad esempio il danno biologico da morte, il danno psichico, ed altro (non esclusa l’individuazione di un danno biologico e morale per morte del cane, del gatto o del canarino).

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Nella prospettiva della Corte Costituzionale ritengo vi fosse l’esigenza di riordinare l’effervescente materia del danno alla persona, creando una netta distinzione tra danni conseguenza (patrimoniali e morali) e danni evento (immateriali) e ricomprendendo tra questi ultimi, nella definizione del danno alla salute, tutto ciò che non avesse caratteristiche tali da farlo rientrare nell’ambito dei danni conseguenza (vale a dire riduzione della capacità lavorativa generica, danni estetici senza riflessi patrimoniali, danni alla vita di relazione, danni psicologici o psichici, danni indiretti o da rimbalzo...).

Non si può dire che dottrina e giurisprudenza abbiano recepito e condiviso in toto, a ragione od a torto, tale indirizzo.

Come è vero che, da un lato, la necessità di monetizzare gli indennizzi, dall’altro il venire meno di un “comodo”, quanto illegittimo, parametro di riferimento legislativo (la fictio del triplo della pensione sociale) per effetto della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, hanno portato ad una forsennata “corsa alle tabelle”, che a volte sembra più una competizione tra gli ideatori delle stesse che non la realizzazione di un’esigenza di giustizia.

In realtà, emerge continuamente, tanto da divenire conflitto quasi istituzionale, da un lato l’esigenza di alcune categorie - avvocati, giudici - di dare il massimo risalto, anche economico, alle varie figure del danno alla persona, dall’altro la preoccupazione di altri soggetti - le imprese di assicurazione - di calibrare le liquidazioni in modo equo ma, soprattutto, adeguato alle risorse disponibili.

Recentemente si è avuta notizia di un giudice di merito che ha liquidato il danno, pur gravissimo, sofferto da un bambino, a seguito di un errato intervento chirurgico, in circa cinque miliardi di lire.

Il problema non è se il danno di un macro leso (e dei suoi familiari) possa realmente valere un simile importo; al di là delle componenti “spese di cura e di assistenza” e “lucro cessante”, legate a precisi riferimenti monetari e quindi definibili con criterio quasi matematico, è fuor di dubbio che la determinazione dei danni “morale” e “biologico” (del leso e dei congiunti) sia giudizio del tutto convenzionale, soggettivo, a rischio di arbitrarietà.

Io distinguo doverosamente e continuamente,che le imprese assicurative non hanno valenza etica o giuridica, bensì strettamente economico/finanziaria: il dubbio verte sul fatto se il nostro Paese si possa permettere siffatte liquidazioni.

Il problema delle macro lesioni è del tutto tipico dell’ambito della responsabilità del medico, dove la frequenza, ancorché crescente, rimane comunque bassa (in rapporto ad altri comparti), ma si registrano punte di assoluto rilievo (pensiamo alle complicazioni neo natali, agli incidenti anestesiologici...).

Tanto per esemplificare, per una compagnia di peso medio/alto nel mercato, che detenga anche una quota ragguardevole del fatturato globale dei rischi di responsabilità sanitaria (ad esempio un 5%, cioè 9 miliardi), un solo sinistro di tale portata basta per rendere insostenibile la gestione tecnica del ramo. Con quali mezzi si potranno pagare gli altri sinistri? Quale premio dovrà essere richiesto l’anno successivo agli assicurati? Quali professionisti potranno permettersi di mantenere la copertura assicurativa a costi strettamente “tecnici”, cioè adeguati al fabbisogno dei sinistri?

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La questione non può ridursi ad una mera acritica, e per certi versi irresponsabile, disputa sulla determinazione del “valore uomo”, ma attiene propriamente alla capacità per la collettività di sostenere tale spesa.

Tra l’altro, non va sottaciuto il fatto che, trattandosi di rischi non soggetti ad obbligo di legge, potrebbe essere lo stesso imprenditore assicurativo a togliere dal mercato tale prodotto. Con conseguenze facilmente immaginabili, e con grave pregiudizio per i diretti destinatari delle garanzie stesse, vale a dire i cittadini utenti del servizio sanitario, essendo evidente che nessun professionista sarebbe in grado di fare fronte col proprio patrimonio a tali esposizioni, capaci di mettere in crisi anche una struttura sanitaria pubblica o privata.

Un altro fattore determinante deriva dalla modalità di distribuzione delle garanzie tra gli operatori.

E’ noto che in Italia fruiscono di coperture per responsabilità verso terzi la totalità delle strutture pubbliche e private, la quasi totalità dei professionisti a maggiore rischio (chirurghi, anestesisti, chirurghi estetici ed ostetrici), mentre solo il 30-35% delle restanti figure professionali si è dotato di una polizza di responsabilità. Il che costituisce un serio pericolo, sia che si tratti di professionisti privati, sia che si tratti di medici operanti in strutture pubbliche o assimilate, attesa la non infrequente limitatezza dei massimali previsti dalle polizze delle strutture sanitarie, ed il rischio, sempre latente, di azioni di rivalsa verso il personale dipendente.

Ciò impedisce la realizzazione di un’adeguata - quanto necessaria - mutualità, ed il contenimento del prezzo delle polizze entro limiti sopportabili.

Di norma tale prezzo varia oggi tra le 150/200.000 lire per un medico generico dipendente, ed i 3.5/4 milioni per le categorie professionali più esposte (con punte che a volte possono salire ai 6/7 milioni).

Ciò nonostante, il rischio professionale permane ancora fortemente anti-selettivo, ed accade che ritocchi tariffari anche significativi ed onerosi per gli utenti finiscano coll’essere accettati per lo più da soggetti ad elevata rischiosità, per i quali l’accadimento del sinistro appare più che probabile.

Le esperienze di altri paesi, come la Francia o gli Stati Uniti, dove il prezzo di una polizza di responsabilità per un medico può arrivare rispettivamente a 30 e 150 milioni per anno, hanno dimostrato che la semplice leva della tariffa non è sufficiente per rimettere in equilibrio il comparto.

Altro elemento causa di squilibrio è la struttura tipica dei sinistri di responsabilità professionale medica.

Tali sinistri sono definiti dai tecnici come “long tail”, per il lungo intervallo di tempo spesso intercorrente tra l’accadimento, la denuncia e la liquidazione. Ciò non è, di regola, imputabile a cattiva gestione da parte degli uffici di liquidazione: quasi sempre, come sappiamo, il sinistro nasce come attivo, cioè viene denunciato, a volte con molto ritardo, con convinta negazione di responsabilità da parte dell’assicurato. Solo dopo anni, ed attraverso un contenzioso legale (spesso animato da “favor” nei confronti del soggetto leso)

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emergono imprevisti elementi di colpa, e si leva la preoccupante pressione del professionista per una liquidazione stragiudiziale del caso.

Tale fatto, associato alla costante incertezza sui criteri giurisprudenziali di liquidazione dei danni immateriali, rende tra l’altro poco affidabile l’originaria appostazione della riserva di esercizio, ed obbliga i tecnici a progressive rivalutazioni (ulteriore fattore destabilizzante per una corretta politica tariffaria).

Non è fuori luogo citare tra le cause di squilibrio l’attuale politica di contenimento dei costi del servizio sanitario (meno personale, meno esami specialistici, meno sicurezza nelle strutture), e la perdurante assenza di una seria politica di prevenzione.

Esistono rimedi a tale situazione? La risposta non è semplice.

Da più parti viene indicato proprio in una più articolata e responsabile politica di prevenzione il principale rimedio. Prevenzione intesa come maggiore sicurezza nei reparti, maggiore cultura nel personale medico e non, maggiore consapevolezza rispetto ai comportamenti generatori di responsabilità professionale, maggiore dialogo tra sanitari e pazienti (si pensi alla vasta problematica dell’informazione e del consenso). Ugualmente, prevenzione e lungimiranza nella politica del contenimento dei costi, che non può andare a scapito della qualità del servizio sanitario, o addirittura, abbassare il limite di sicurezza negli standard di erogazione del servizio.

Una soluzione del problema potrebbe, secondo alcuni, venire dall’istituzione per legge di un obbligo di assicurazione per tutti gli operatori sanitari, individualmente intesi.

Il beneficio sarebbe immediato, garantendo tale iniziativa l’allargamento della base di mutualità.

Può sembrare paradossale, ma una voce dissenziente proviene proprio dall’area assicurativa. Si teme, credo fondatamente, che la generalizzazione di un obbligo di copertura assicurativa potrebbe ulteriormente oggettivizzare la valutazione delle responsabilità professionali, più di quanto già oggi non avvenga, creando una sorta di copertura “no fault”.

Tra l’altro, qualora l’intervento del legislatore determinasse riflessi o condizionamenti su elementi tecnici quali la tariffa ed i massimali (come già è accaduto in ambito RCA) ciò creerebbe ulteriore squilibrio nel rapporto sinistri a premi.

Certo è che un sistema normativo come il nostro, per il quale (per effetto del DPR nr.

761/1979) è facoltativo e non obbligatorio per le strutture sanitarie pubbliche assicurare se stesse ed il proprio personale, appare per lo meno da rivedere.

Sicuramente necessaria la ridefinizione, mediante individuazione di regole certe, del tema responsabilità, nel quale appare ancora quanto mai labile il limite della colpa presunta, la corretta ed univoca applicazione di inversioni probatorie, la configurazione di colpa grave e colpa ordinaria, l’incertezza tra regime contrattuale ed extracontrattuale.

L’esperienza della casistica di ogni giorno dimostra che buona parte dei medici non ha idee chiare su quali comportamenti possano generare addebiti di responsabilità a loro carico.

Ugualmente indispensabile una normalizzazione della materia del calcolo del danno alla persona, che ne assicuri prevedibilità, ma anche durata nel tempo.

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Vi è chi auspica, anzi sollecita fortemente, l’intervento del legislatore in tale ambito, che origini dal comparto RCA e venga esteso a tutta la materia della responsabilità aquiliana. E’

probabile che tale aspettativa sia legittima, anche se permane il dubbio che i parametri di valutazione eventualmente offerti dal legislatore risultino essere pur sempre solo un riferimento indicativo, inidoneo a garantire quella giustizia distributiva che oggi così clamorosamente manca in molti nostri Tribunali.

Esistono, per contro, alcuni strumenti tecnici utilizzabili già nell’attualità: quello del

“cliente globale”, quello, analogo, del cosiddetto “cross selling”.

In apparenza risulta illogico e contraddittorio il fatto che le imprese assicuratrici mantengano atteggiamenti di prudente scetticismo verso i rischi di responsabilità individuali, mentre partecipano di buon grado, e con spirito competitivo, agli appalti per la copertura assicurativa delle strutture sanitarie.

Non è così.

Nell’assicurare un ospedale, od una struttura anche più complessa, si offre copertura a persone e situazioni assai diversificate: dal medico generico al chirurgo, dal funzionario amministrativo all’anestesista, dai rischi di responsabilità a forme di assicurazione diretta, come l’incendio, i guasti agli impianti, gli infortuni...

Polizze così articolate, contando su uno spettro di mutualità assai ampio, riescono a ripartire i rischi entro costi più accettabili.

E’ possibile fare altrettanto con singoli clienti, offrendo agli stessi un “pacchetto” di garanzie più ampio, tale da consentire opportune ritarature e compensazioni.

Non vi è dubbio, poi, che per un “cliente globale” aumenta di molto la forza contrattuale, e si riduce il rischio di un recesso unilaterale dell’assicuratore per sinistrosità.

Ritengo che il progressivo abbandono di prodotti eccessivamente tipizzati, e l’orientamento verso forme di copertura multi rischi, possano rappresentare un ragionevole accorgimento tecnico al quale ricorrere per porre rimedio, ancorché contingente, alla precarietà dell’attuale situazione, nella quale, mi sento di dover ribadire, è inconcepibile immaginare una latitanza dello stato e del mondo economico verso i rischi connessi all’esercizio della professione medica senza adeguate garanzie finanziarie verso la pluralità dei cittadini.

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