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Epidemiologia dell’invecchiamento C 3

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Epidemiologia dell’invecchiamento

Stefania Maggi, Chiara Marzari, Gaetano Crepaldi

Aspetti demografici

Da secoli ormai la popolazione anziana mondiale sta aumentando, ma un fatto nuovo si è inserito recentemente nell’andamento demografico: la rapidità di tale crescita. A metà del 2000 la popolazione mondiale di ultrasessantacinquenni era intorno ai 420 milioni ed era aumentata, rispetto a un anno prima, di circa 9,5 milioni, ossia di circa 795.000 anziani al mese. Quello che spesso non viene considerato, però, è che il 77% di questo aumento (615.000 soggetti al mese), avviene nei Paesi in via di sviluppo. Nel 1990 erano 26 i Paesi del mondo che avevano almeno due milioni di anziani; nel 2000 erano 31 e si prevede che nel 2030 saranno più di 60 [1].

La speranza di vita ha subito un aumento molto marcato nell’ultimo secolo a causa di diversi fattori, quali il miglioramento delle condizioni sociali e sanitarie della popo- lazione e il progresso della medicina preventiva e curativa, nonché della sanità pubbli- ca. Paesi come l’Italia, il Giappone e Singapore hanno raggiunto una speranza di vita alla nascita di 80 anni; la Svizzera, la Svezia, l’Islanda, l’Australia e il Canada di 79 anni; tutti gli altri Paesi industrializzati variano tra 76 e 78 anni. Bisogna sottolineare, però, che men- tre a livello mondiale la speranza di vita è aumentata durante tutto questo secolo, le differenze tra una regione e l’altra restano marcate. Per esempio, i Paesi del sud Saha- ra hanno una speranza di vita inferiore ai 50 anni, ossia di oltre 20 anni inferiore rispet- to ai Paesi industrializzati. Inoltre, 3 su 4 morti nei Paesi meno sviluppati sono, anco- ra oggi, in persone al di sotto dei 50 anni [1].

Per quanto riguarda la mortalità, le cause di morte sono radicalmente cambiate nel corso di questo secolo, in Italia come in quasi tutto il resto del mondo. Nella prima metà del diciannovesimo secolo la mortalità generale era molto più elevata, soprat- tutto per malattie infettive e parassitarie che colpivano per lo più i bambini, mentre le donne giovani spesso morivano per condizioni legate al parto. Solo un piccolo seg- mento della popolazione viveva abbastanza a lungo da trovarsi a dover affrontare i problemi e le malattie che accompagnano la vecchiaia. La struttura per età della popo- lazione aveva la forma di una piramide, con una larga base costituita dal grande nume- ro di bambini. Al vertice, c’erano le poche persone che vivevano oltre l’età riprodutti- va. L’età media della popolazione era bassa. Poi, man mano, la piramide è venuta assu- mendo una forma diversa, in quanto un numero proporzionalmente maggiore di indi- vidui sopravvive fino a età più avanzate. Verso la metà di questo secolo, la piramide assumerà una conformazione rovesciata [2].

Le due principali cause di morte nella popolazione anziana italiana sono le malattie

cardiovascolari (CV) e i tumori maligni che, nel 2001, nella popolazione ultrasessanta-

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cinquenne avevano rispettivamente tassi di circa 200/10.000 e 118/10.000 (Tabella 1).

Per quanto riguarda i tumori maligni la prevalenza è stimata intorno al 3% e nel 2001 i decessi sono stati circa il 28,5% della mortalità nella popolazione generale.

Tabella 1. Numero di decessi e tassi di mortalità (10.000) per causa nella popolazione italiana 65+

Maschi Femmine Totale

ND TM ND TM ND TM

Malattie sistema circolatorio 90.900

218,12

124.482

154,62

215.382

201,9

Malattie ischemiche cuore 31.626

75,29

33.027

42,28

64.653

60,54

Disturbi circolatori encefalo 24.077

58,39

37.487

46,55

61.564

57,76

Tutti i tumori 71.236

167,3

54.265

79,02

125.501 117,84

Tumori apparato digerente 23.584

55,44

21.481

31,03

45.065

42,31

Tumori apparato respiratorio 21.092

48,73

5.130

7,82

26.222

24,63

Malattie apparato respiratorio 18.451

44,82

13.262

16,37

31.713

29,76

Diabete 5.854

14,01

10.291

14,01

16.145

15,14

Fonte: Dati ISTAT, anno 2001. ND, numero decessi; TM, tasso di mortalità

La valutazione dell’andamento della mortalità per cause specifiche nella popolazio- ne generale ha dimostrato un declino, soprattutto a partire dagli anni ’80, per le malat- tie CV, passando dal 48% delle morti nel 1980 al 41% nel 2001 [3].

L’andamento della mortalità per patologia ischemica cardiaca nell’ultimo secolo è stato

pressoché simile in tutti i Paesi industrializzati, con tassi specifici per età in aumento

fino agli anni Sessanta/Settanta, poi in continuo e rilevante declino. Questo andamen-

to è in larga parte responsabile dell’allungamento della vita media nella popolazione gene-

rale. Nel Nord America la mortalità per patologia coronarica, tra gli anni Sessanta e gli

anni Ottanta, è diminuita di circa il 50%, mentre la mortalità per ictus ha avuto un

declino di oltre il 60% tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Nello stesso periodo, nel

resto del mondo industrializzato la mortalità CV è diminuita di circa il 10-20%, men-

tre si è registrato un aumento del 20-40% in Grecia, in Yugoslavia e in alcuni Paesi del-

l’Est europeo. Questo andamento è presumibilmente da imputarsi a importanti modi-

ficazioni dello stile di vita nei suddetti Paesi. Anche in certe regioni in via di sviluppo,

quali l’America Latina, che si stanno “occidentalizzando” e quindi stanno acquisendo

i fattori di rischio classici delle nostre società, la patologia CV è diventata la principa-

le causa di morte. A Singapore, dove la speranza di vita è passata da 40 anni nel 1948 a

70 anni alla fine degli anni Settanta, le morti per patologia CV sono passate dal 5% al

32% di tutte le morti. Negli USA, al contrario, dagli anni Sessanta in poi la mortalità si

è ridotta drasticamente, soprattutto nella fase acuta dell’infarto miocardico, in cui è

passata dal 30 al 15%. I fattori responsabili di questa riduzione sono, presumibilmen-

te, l’introduzione e la rapida disseminazione di unità di terapia intensiva coronarica, il

miglioramento delle conoscenze di elettrofisiologia e quindi un miglior monitoraggio

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emodinamico, la defibrillazione, l’introduzione della terapia trombolitica e delle altre tecniche di rivascolarizzazione. Nella prima metà del secolo, non solo la mortalità per infarto acuto era molto elevata, ma chi sopravviveva era ad alto rischio di reinfarto e di morte precoce dopo la dimissione. Dopo il 1970, venne dimostrata l’efficacia di alcuni farmaci, quali i betabloccanti, nel prevenire eventi ricorrenti in pazienti infartuati, e più recentemente degli ACE inibitori, in caso di disfunzione ventricolare sinistra dopo infarto acuto. Indubbiamente, anche il miglioramento degli strumenti diagnostici - quali l’angiografia e l’ecocardiografia - e delle tecniche di cardiochirurgia ha contribuito sia all’allungamento della vita che a un innalzamento della sua qualità nei pazienti cardio- patici. Così come la comprensione del ruolo dell’aggregazione piastrinica nell’evento coronarico e il riconoscimento dell’effetto protettivo dell’aspirina hanno comportato non solo un decremento della mortalità e dell’incidenza di eventi secondari in caso di infarto acuto e di ictus, ma anche una riduzione dell’incidenza in soggetti sani [4].

In Italia, circa la metà delle morti totali sono attribuibili a malattie CV e, in particolare, oltre il 30% alla cardiopatia ischemica. Circa l’87% di questi decessi avviene nella popo- lazione di età pari o superiore ai 65 anni. Nonostante negli ultimi 10 anni ci sia stato un declino importante, nei Paesi industrializzati, delle morti per malattie del sistema cir- colatorio, in Italia esse continuano a rappresentare circa il 41% delle morti totali. Anche in questo caso, comunque, dalla fine degli anni Settanta a oggi si è verificato un lento e graduale declino della mortalità.

L’aumento del numero di anziani e della durata della loro vita farà aumentare l’in- cidenza di malattie tipiche della vecchiaia o ci sarà una tendenza a vivere “vecchiaie di successo” senza gravi malattie disabilitanti?

Secondo la teoria di Fries [5], uno stile di vita migliore e i progressi della scienza medica comporteranno una compressione della morbilità e della disabilità in un perio- do più ristretto, verso la fine della vita. Secondo altri studiosi, invece, ulteriori riduzio- ni della mortalità estenderebbero il periodo durante il quale possono manifestarsi le malattie invalidanti legate all’invecchiamento. Grazie a stili di vita più sani e a miglio- ri terapie mediche, infatti, le persone sopravvivono più a lungo anche se colpite da malattie CV, ictus o cancro. Tuttavia, a causa dell’estendersi della sopravvivenza possono soffrire più a lungo delle malattie non mortali, ma altamente invalidanti, associate alla vecchiaia.

L’Italia è già oggi il Paese più vecchio del mondo, con una percentuale di ultrases-

santacinquenni attualmente intorno al 20%, ma che è destinata a salire nei prossimi 20

anni fino a circa un quarto di tutta la popolazione. Basta questo dato demografico per

sottolineare come occorrano politiche dettate da strategie lungimiranti per formulare

degli interventi adeguati ai tempi. Se si vuole privilegiare la permanenza degli anziani

nel proprio domicilio, come si sta facendo nella maggior parte dei Paesi industrializzati,

allora andranno tutelati, contemporaneamente ai diritti e alla dignità degli anziani, i

diritti dei familiari. Numerose famiglie vivono la cura di persone non autosufficienti come

un vero e proprio problema: economico, fisico, sociale ed emotivo; molte persone vivo-

no in modo conflittuale le richieste che vengono loro dal lavoro e dalla cura di un paren-

te anziano. Da qui la necessità di riorganizzare i tipi di servizi offerti dalla società, cioè

di crearne di alternativi all’ospedalizzazione e all’istituzionalizzazione in genere, per

promuovere in misura sempre più appropriata l’erogazione di assistenza domiciliare,

sia sociale che sanitaria. La riorganizzazione delle modalità di erogazione dei servizi nasce

quindi da un’esigenza di efficacia che è sempre più sentita e diffusa.

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Aspetti epidemiologici

In conseguenza ai cambiamenti biologici, funzionali e all’esposizione ai fattori di rischio durante tutto l’arco della vita, nell’anziano aumenta marcatamente la frequenza di alcu- ne patologie e condizioni croniche e degenerative.

In Italia non esiste un sistema nazionale che permetta la valutazione dei tassi di pre- valenza e di incidenza delle malattie e delle disabilità nella popolazione, ma sono dis- ponibili i dati di alcuni studi su campioni rappresentativi della popolazione.

Lo studio ILSA (Italian Longitudinal Study on Aging), per esempio, dimostra che un’alta percentuale di anziani è affetta da patologie croniche disabilitanti; in particolare circa il 7% da scompenso cardiaco, il 60% da osteoartrosi, il 20% da broncopneumopatia cronica, il 6,5% da ictus [6].

Lo studio ILSA ha anche prodotto le prime stime di incidenza delle malattie croni- che nella popolazione anziana. In base a tali dati, si stima che ogni anno in Italia ci siano circa 114.000 nuovi casi di scompenso cardiaco, oltre 100.000 nuovi casi di ictus, circa 80.000 nuovi casi di diabete. Questo per elencare alcune tra le più comuni malat- tie disabilitanti dell’anziano, che comportano, usualmente, sequelae a medio e lungo termine tali da richiedere forme di assistenza continuativa.

Il rapido e marcato invecchiamento della popolazione, che ha caratterizzato il nostro Paese nelle ultime decadi, ha determinato un aumento di tutte le malattie età-associate.

Allo stesso tempo, la diminuzione dei tassi di mortalità ha incrementato la speranza di vita alla nascita, con l’inevitabile conseguenza di avere un numero sempre maggiore di persone a rischio di patologie croniche e di disabilità a esse correlata. La disabilità fisi- ca, intesa come difficoltà nelle comuni attività quotidiane (lavarsi, vestirsi, mangiare, ecc.), aumenta con l’età ed è dovuta principalmente alla comorbidità; colpisce infatti circa il 25% dei maschi e il 34% delle femmine ultrasessantacinquenni, mentre nel gruppo degli ultraottantenni circa il 6% dei maschi e l’8% delle donne risultano totalmente non autosufficienti. Nel follow-up di circa 5 anni della popolazione dell’ILSA, si è evidenziato che circa il 78% di coloro i quali all’inizio dello studio erano totalmente autosufficien- ti si manteneva tale, mentre circa il 22% presentava qualche forma di perdita della capa- cità funzionale. Al tempo stesso è interessante notare che tra coloro i quali all’inizio erano totalmente non autosufficienti l’88% restava tale, mentre circa l’8% passava a livelli di disabilità lieve o di totale autosufficienza. È fondamentale, quindi, studiare quali sono i fattori che determinano la transizione da uno stato funzionale all’altro non solo nel senso della perdita, ma anche del recupero dell’autosufficienza. Questo è uno degli obiettivi principali dello studio europeo CLESA (Comparison of Longitudinal European Studies on Aging), in corso in Italia, Spagna, Olanda, Svezia, Finlandia e Israe- le, e coordinato dal Centro per lo studio dell’invecchiamento del CNR [7].

Una condizione legata all’invecchiamento è l’osteoporosi, caratterizzata da una ridu- zione della massa ossea e da un deterioramento della struttura dell’osso tali da com- portare una maggior fragilità, e quindi un aumentato rischio di frattura.

L’osteoporosi riconosce tre cause principali: 1) l’età (e nella donna la menopausa);

2) il mancato raggiungimento del picco ottimale di massa ossea durante la crescita; 3) la perdita di massa ossea conseguente a patologie specifiche [8].

Dati dello studio ESOPO (Epidemiological Study On the Prevalence of Osteoporosis),

condotto su circa 15.000 soggetti, rivelano che circa il 23% delle donne di età supe-

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riore ai 40 anni e il 14% degli uomini di età superiore ai 60 anni sono affetti da osteo- porosi. Inoltre circa il 42% delle donne e il 34% degli uomini in queste fasce di età sono affetti da osteopenia, quindi a rischio di sviluppare osteoporosi e le sue compli- canze. In base a questi dati, si stima che attualmente in Italia oltre 3,5 milioni di donne e circa 1 milione di uomini siano colpiti dall’osteoporosi, mentre oltre 6,5 milioni di donne e circa 2 milioni di uomini dall’osteopenia [9]. Ben diversi i dati prodotti dal- l’Indagine Multiscopo sulle Famiglie dell’ISTAT, basata su un’intervista, dai quali risul- ta che solo il 4,7% della popolazione totale - o il 17,5% della popolazione ultrasessan- tacinquenne - si dichiara affetta da osteoporosi [10]. Questa marcata discrepanza è spiegata, in gran parte, dalla caratteristica, intrinseca all’osteoporosi, di “malattia silen- te”, spesso diagnosticata solo in caso di complicanza fratturativa. Nel caso di dati basa- ti sulle diagnosi riferite dalla popolazione esaminata, la sottostima, è quindi inevita- bile. Le donne sono circa 4 volte più a rischio degli uomini di sviluppare tale patolo- gia. Questo comporta, ovviamente, anche una diversa incidenza delle complicanze fratturative: una donna su due e un uomo su otto sopra i 50 anni avranno una frattu- ra da fragilità nella restante vita. In particolare, tale rischio è nella donna di 17,5, 15,6 e 16% rispettivamente per il femore prossimale, la colonna vertebrale e l’avambrac- cio distale - le tre sedi più frequenti di fratture osteoporotiche - mentre nel maschio è rispettivamente di 6, 5 e 2,5%. I tassi di incidenza della frattura del femore aumenta- no esponenzialmente dai 65 anni in poi, raddoppiandosi all’incirca ogni cinque anni di età e raggiungendo tassi di oltre 400/10.000 nelle donne ultraottantacinquenni.

Secondo i dati disponibili nel sito web del Ministero della Salute, in Italia nel 2002 le fratture prossimali del femore risultavano circa 70.000, quelle vertebrali circa 20.000, mentre quelle del polso e di altre sedi ammontavano a 19.000. Questo avrebbe com- portato una spesa sanitaria già superiore agli 850 milioni di Euro per i costi dei soli dia- gnosis related group (DRG) di intervento chirurgico e degenza ospedaliera. A tali costi diretti vanno aggiunti tutti i costi indiretti per le giornate lavorative perse (dei pazien- ti e dei familiari), la dipendenza funzionale e la necessità di assistenza domiciliare, la riduzione della qualità di vita, ecc. [11]. Le conseguenze legate alle fratture del femo- re sono pesantissime sia in termini di morbilità che di impatto socio-economico. La mor- talità è del 15-25% e la disabilità motoria colpisce più della metà dei pazienti nell’an- no successivo all’evento. Inoltre, in circa il 20% dei casi la possibilità di camminare indipendentemente è persa del tutto, e solo il 30-40% riprende piena autonomia nelle attività quotidiane.

Dal momento che le fratture del femore sono uno dei gruppi diagnostici che con- suma più risorse economiche ospedaliere, in alcuni Paesi, primo fra tutti la Svezia, è stato creato un registro delle fratture del femore basato sulle diagnosi ospedaliere e sui dati di mortalità. Attraverso il monitoraggio dell’utilizzo delle strutture sociali e sani- tarie nei primi 4-6 mesi dopo la frattura, il registro ha portato a una stretta collabo- razione tra ospedali e strutture territoriali, permettendo quindi la dimissione più pre- coce dai reparti per acuti. Collaborazioni internazionali sono in corso con la Finlan- dia, l’Olanda, l’Inghilterra, la Scozia, la Spagna, l’Ungheria e la Grecia nell’ambito della Concerted Action SHAFE: Standardization of Hip Fracture Audit in Europe [12].

L’Italia sta avviato negli ultimi anni un progetto multicentrico, coordinato dal CNR, per entrare a far parte di questa rete internazionale [13].

Preoccupante il quadro dell’aumento del numero di fratture che ci si aspetta nei

prossimi anni: secondo le proiezioni, passeremo in Europa dai 414.000 casi di oggi a

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circa 972.000 nel 2050. L’impatto di questa patologia, anche dal punto di vista dei costi assistenziali, è pertanto immenso [14].

Per l’arterosclerosi, invece, la conseguenza più importante in termini di frequenza è l’occlusione coronarica, che porta all’infarto miocardico. Secondo i dati ILSA, in Italia ogni anno si registrano circa 76.000 nuovi casi di infarto nella popolazione anziana.

Come si è scritto in precedenza, in Italia le morti per malattie CV continuano a rap- presentare oltre il 40% del totale dei decessi, registrando un decremento inferiore a quello rilevato negli altri Paesi industrializzati a partire dagli anni Settanta ma tuttavia presente. In che proporzione questo sia dovuto alla riduzione dei fattori di rischio e al miglioramento delle terapie negli eventi acuti non è stato finora quantificato. Dal regi- stro del progetto Monica (MONItoring CArdiovascular diseases) [15], che fornisce i dati di epidemiologia CV della popolazione generale italiana, si estrapola che una larga per- centuale di casi (circa il 49% degli uomini e il 37% delle donne) muore a casa. Una larga proporzione dei decessi che avvengono fuori dall’ospedale riguarda soggetti colpiti da eventi secondari, cioè già affetti da un episodio precedente.

Da questi dati risulta evidente che la patologia CV è tuttora un rilevante problema sanitario e che nonostante il miglioramento della terapia e la più frequente e rapida ospedalizzazione la letalità è ancora troppo elevata.

Diverse condizioni neurologiche, in particolare la demenza, comportano un peso considerevole in termini di disabilità, perdita di produttività e costi sanitari diretti e indiretti. Anche per queste patologie lo studio ILSA ha fornito i dati di prevalenza e di incidenza, permettendo di quantificare numericamente i casi attualmente presenti in Ita- lia, che sono all’incirca 800.000, con una stima di circa 97.000 nuovi casi ogni anno. Di questi, circa il 40-50% sono casi di Alzheimer, 25% di demenze vascolari e il resto di forme miste o di altra origine. La prevalenza di demenza aumenta con l’età, triplican- dosi all’incirca ogni 5 anni, e i tassi passano dall’1,2 % nel gruppo di 65-69 anni al 21,1%

nei soggetti di 80-84 anni [6]. Tenuto conto del progressivo invecchiamento della popo- lazione e della durata della malattia - generalmente intorno ai 10 anni - si configura nei prossimi anni un impegno assistenziale in preoccupante espansione. I costi diretti e indiretti legati a questa patologia sono infatti immensi, e coinvolgono il settore sani- tario, il settore sociale e la famiglia [16].

Conclusioni

Il principale obiettivo della ricerca epidemiologica geriatrica è quello di fornire le cono-

scenze per ridurre la disabilità e aumentare l’indipendenza fisica e sociale in età anzia-

na al fine di garantire il benessere e la produttività del singolo individuo anche negli ulti-

mi anni di vita. Dalla ricerca medica e biologica abbiamo imparato come identificare

molte delle anormalità fisiche e psicologiche della vecchiaia e come bloccare, in molti

casi, la loro progressione. Dalla ricerca sui servizi, abbiamo capito quali sono i requisiti

per un’adeguata assistenza negli ospedali, nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA),

a domicilio. Adeguata in termini clinici così come in quelli etici e nel rispetto della

dignità dei pazienti. Sappiamo anche, sfortunatamente, che non sempre l’assistenza

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viene fornita a questi livelli di eccellenza. Dalla ricerca socio-comportamentale abbia- mo appreso l’impatto che i rapporti familiari e sociali, l’esperienza di lavoro e di pen- sionamento hanno sulla qualità di vita e sullo stato di benessere generale della perso- na anziana.

Ognuna di queste branche di ricerca ci ha mostrato, comunque, enormi differenze nello stato di salute degli individui anziani; proprio questa grande variabilità ci fa pen- sare che la ricerca futura debba portarci alla possibilità di intervenire in maniera effi- cace per ridurre il numero di anziani malati, disabili, emarginati.

La prima considerazione è che ci sono potenzialità reali e certe per avanzamenti scientifici importanti nel prossimo futuro. La ricerca biomedica ha da tempo evidenziato che l’invecchiamento è il maggior fattore di rischio per molte malattie croniche. Al tempo stesso, la comprensione di complessi aspetti genetici di alcune malattie ci con- sente di identificare soggetti a rischio di Alzheimer, cancro, ipertensione, osteoporosi.

Ciò offre la possibilità, attraverso interventi di diagnosi precoce e in qualche caso anche di prevenzione, di influenzare il processo della malattia e di migliorarne il trattamen- to in un certo numero di casi. Dal canto suo, la biologia cellulare ha compiuto enormi progressi nella comprensione della regolazione della divisione cellulare. Queste nuove conoscenze possono aiutare a capire perché molte cellule e tessuti tendano all’atrofia durante il normale invecchiamento e perché altri comincino a proliferare in maniera inap- propriata, portando talvolta all’insorgenza di neoplasie. Questa linea di ricerca può indurre a una miglior comprensione di altri disordini comunemente legati all’invec- chiamento, quali aterosclerosi, osteoartrosi e iperplasia prostatica. Similmente, il ruolo del danno ossidativo nell’alterazione strutturale e funzionale e la possibilità di ridurlo attraverso interventi dietetici, di stile di vita e interventi biologici rappresentano un’al- tra area importante di ricerca futura.

Anche se spesso mettiamo in evidenza il lato peggiore dell’invecchiamento, con dis- abilità e malattia, è peraltro vero che la trasformazione della struttura per età della popolazione produrrà anche un gran numero di anziani in buona salute. La ricerca medica continua a condurre la battaglia contro la malattia e la morte. Oggi sappiamo che l’invecchiamento è caratterizzato dalla presenza sia di tendenze involutive, che inducono una diminuzione quantitativa dell’efficacia dei sistemi periferici, sia di ten- denze di segno opposto, che contrastano la diminuzione ottimizzando le risorse fun- zionali dei sistemi centrali. Tali teorie, ormai convalidate scientificamente, contrastano quindi con gli approcci basati sull’idea della vecchiaia come malattia cronica, stigma- tizzata in modo ineluttabile dalla presenza della morte, rivalutando al tempo stesso il ruolo e la funzione sociale di questo specifico periodo della vita [17].

Possiamo sostenere che non esiste una vecchiaia uguale per tutti, ma un numero sem-

pre maggiore di persone che in età avanzata riflettono caratteristiche genetiche, peculia-

ri per ogni singolo individuo, e caratteristiche legate allo stile di vita e all’ambiente in cui

vivono.I bambini di oggi saranno gli anziani di domani.Non sappiamo con certezza se saran-

no più sani degli anziani che li avranno preceduti, ma per raggiungere tale obiettivo è cer-

tamente necessario pianificare il futuro sia a livello individuale, con una vita “sana” per il

raggiungimento di una vecchiaia di successo, sia a livello sociale, garantendo adeguate

cure, assistenza e dignità a ogni cittadino di qualsiasi età ed estrazione sociale.

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